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Dibattiti yemeniti…


Metto a disposizione il mio blog per proseguire questo dibattito che mi ha molto interessato e anche divertito. Ieri ho letto questo articolo su Carmilla, a firma di un caro amico nonchè “collega” arabista e vecchio amico di scuola. Ne avrei di cose da dire (qualcuna anche da “ridire) sul suo reportage estremamente divertente e personale, sul suo lungo soggiorno yemenita…
Ma la risposta dell’ambasciatore italiano in Yemen, del tutto inaspettata, mi far venir voglia di lasciar stare, di non dire la mia per ora…
Di aspettare gli sviluppi, le risposte, l’eventuale dibattito..che è benvenuto anche su queste pagine.
Il nemico che avanza

di Giuseppe Pensabene Perez

Giuseppe Pensabene Perez è un giovane universitario romano che ha studiato arabo nello Yemen. Seguirà un più ampio reportage.]

8 aprile 2008 – Arriva questo messaggio sul mio telefonino:
“Alla luce dei recenti eventi occorsi nel Paese si invitano i destinatari della presente comunicazione a prestare massima cautela nella frequentazione di luoghi pubblici nella città di Sana’a e nei trasferimenti nel predetto centro urbano e nel resto del territorio. Con riguardo a questi ultimi si prega di comunicare preventivamente all’Ambasciata gli itinerari previsti. L’Ambasciata rimane a disposizione per ulteriori informazioni.”
“Ma perché ambasciata si scrive maiuscola?” Questo fu il primo pensiero che mi passò per la testa leggendo questo messaggio. (perché si intende l’ambasciata italiana e quindi diventa nome proprio, deficiente)

Foto di Valentina Perniciaro _cipolle in moto_

Foto di Valentina Perniciaro _cipolle in moto_

Gli eventi occorsi nel predetto centro urbano erano stati un colpo di mortaio diretto contro l’ambasciata americana che aveva centrato la scuola accanto uccidendo una guardia giurata e alcuni studenti e una bomba contro un “compound” in via Hadda, dove abitavano alcuni americani impiegati presso ditte petrolifere senza fare vittime.

Il messaggio, mandato a tutti gli italiani presenti in Yemen registrati presso l’ambasciata, risultava comico per lo stile da rapporto dei carabinieri con cui era stato redatto, ma anche lievemente preoccupante per il contenuto. Lievemente. Sembrava che questi fantomatici terroristi yemeniti ce l’avessero proprio con gli americani o al massimo con i britannici. L’unica cosa che mi poteva dare un poco di ansia era la mia faccia, facilmente passabile per anglosassone. Biondo con gli occhi chiari ero poco assimilabile alla popolazione araba. Per fortuna spesso venivo valutato come russo e pare che con i russi non avessero nessun problema. Fui tentato di appendere fuori casa un enorme cartello con scritto “Italia” con un disegno di un bel piatto di spaghetti al pomodoro, per evitare che gli amici terroristi si confondessero. Ad ogni modo a casa avevamo già appeso la brava bandiera della Palestina nonché quella di Hamas, comprate a una fiera degli studenti islamici. Se proprio mi dovevano ammazzare, allo scoprire, vedendo le bandiere, che ero un fratello, si sarebbero pentiti e magari mi avrebbero reso martire. Non mi dispiaceva affatto l’idea di diventare Shahìd e, circondato da verginelle nude, vedere dall’alto della gennah (il paradiso islamico) la mia faccia su quei poster caratteristici, magari accanto alle due famosissime bambine che pregano con la moschea della Mecca come sfondo.
Quando poi in Italia la gloriosa casa delle libertà vinse le elezioni e si paventava la possibilità che il buon Calderoli tornasse ministro, cominciai a preoccuparmi un pochino anche io. L’università di Sana’a era tappezzata di manifesti che invitavano a boicottare i prodotti danesi. La vicenda delle vignette che ritraevano il profeta era ancora attuale e profondamente sentita. Sapere che in Italia si apprestava a ricoprire una delle principale cariche istituzionali una persona (?) che era stata capace di causare undici morti in Libia, proprio per essersi messa una maglietta con quelle vignette, con il puro scopo di creare disordini, non mi rassicurava affatto.
Una decina di giorni dopo, mentre nel nostro paese il presidente era in procinto di annunciare il nuovo governo, esplose un altro colpo di mortaio diretto, pare, contro l’ambasciata italiana. L’attentato era avvenuto alle sei di mattina e aveva centrato il parcheggio dell’ufficio delle dogane situato a circa 300 metri dalla nostra sede diplomatica. l’opinione preponderante presso gli yemeniti sosteneva che il colpo fosse diretto proprio contro tale parcheggio, per questioni personali e che niente avesse a che vedere con l’ambasciata. Gli yemeniti amano risolvere le loro discrepanze di opinioni in modo spettacolare ed esplosivo. Qualche mese prima fuori dall’università un signore aveva lanciato una granata contro il negozio del marito di sua figlia per affari familiari che evidentemente le parole non erano bastate a risolvere. Erano morte tre persone. Mi spiegarono che il mortaio è molto sensibile e basta sbagliare a puntarlo di pochi centimetri che il colpo esplode a centinaia di metri lontano dall’obiettivo. Personalmente avevo deciso di credere alla versione yemenita anche se in effetti il precedente dell’errore di mira contro l’ambasciata americana faceva pensare a un gruppo di combattenti magari inesperto che ancora doveva prendere confidenza con l’uso del mortaio. Facevano, quasi, tenerezza.
Il binomio attentato, forse, contro gli italiani e la probabile designazione del ministro della lega nord mi inquietava leggermente.
Per fortuna a Sana’a Calderoli e la vicenda della maglietta erano sconosciuti. Provai a raccontarla ad alcuni amici i quali ne rimasero alquanto sbigottiti. Alla fine gli diedero il ministero della facilitazione o qualcosa del genere senza che vi fosse troppo scalpore, il buon Saif al Islam Gheddafi non protestò.
La questione era che, fondamentalmente, se mi uccidevano per vendicare l’offesa del nostro ministro e i morti in Libia, a mio avviso, non avevano neanche tutti i torti. Certo, se proprio dovevano ammazzare un italiano avrei preferito se la prendessero con uno di quelli che lavoravano in ambasciata (quasi tutti di destra), o con qualche affarista petroliere invece che con lo studente di arabo da sempre schierato dalla loro parte. Comunque era il caso di staccare la foto degli spaghetti sulla porta di casa e sostituirle, magari, con una bandiera spagnola, di quelle con il toro da corrida disegnato. Spagnolo andava bene. Avevano già pagato il conto del servilismo di Aznar verso gli americani con l’attentato di Madrid e Zapatero sembrava non innervosire più di tanto i combattenti islamici.

Foto di Valentina Perniciaro -bimbi, capitelli e archi nabatei_

Foto di Valentina Perniciaro -bimbi, capitelli e archi nabatei-

Noi studenti italiani in Yemen fummo convocati dal nostro previdente ambasciatore che ci mise in guardia dai pericolosi terroristi, gentilmente invitandoci a non frequentare certi ristoranti particolarmente occidentalizzati, a non uscire da Sana’a e a far ritorno in Italia non appena conclusi i nostri studi invece di prolungare la permanenza nel paese a scopi turistici. Che palleSti cazzi dei ristoranti che tanto non c’andavo comunque ma che du cojoni non poter uscire da Sana’a. Lo Yemen è un paese splendido pieno di posti da visitare di tutti i tipi: montagne, deserto, mare, antichità, monumenti islamici, limitarmi alla capitale era frustrante e contrastava con i miei progetti avventurieri. Decisi di prendere con le molle le parole del diplomatico, anche se poi, purtroppo, ci pensò la malaria, costringendomi al letto dieci giorni senza poter frequentare le lezioni, a far svaporare le mie velleità esploratrici.
Il risultato di queste raccomandazioni fu che cominciai a guardare con un minimo di sospetto i barbuti (gli uomini che portano la barba lunga sono solitamente integerrimi musulmani) che incontravo o che gli sconosciuti che, casualmente, mi guardavano senza rispondere al mio sorriso o al mio salamalècum, mi innervosivano.
Attentato all’ambasciata, Calderoli ministro e convocazione dell’ambasciatore coincisero con l’assenza del mio coinquilino Aldo che era tornato una settimana in Italia. Mi costa ammetterlo ma, a volte, quando stavo a casa la sera avevo un po’ paura, soprattutto dopo aver fumato mezzo spinello. A casa mia di sera si sentivano continuamente rumori di tutti i tipi: gatti che si azzuffavano, miagolii di gatti in amore, bambini che piangevano, padri che urlavano, drogati di qat che ridevano, oggetti che cadevano. Io, solo sul mio divano, rincoglionito dall’hashish, mi spaventavo e mi autoconvincevo che i terroristi stavano sotto casa intenti a scassinare la porta, decisi di venire a punire il porco infedele italiano colonizzatore. Tenevo la giambiyya (il pugnale tipico yemenita) sempre a portata di mano.
Durante questa settimana di solitudine, una sera, mi passarono a trovare il sindaco e Muad il farmacista, nettamente ubriachi. Confidai loro le mie paure e spiegai la vicenda di Calderoli nuovamente ministro. Il sindaco, spergiurandomi che Sana’a era sicurissima, che non sarebbe successo niente, perorando l’opinione che il colpo di mortaio era diretto certamente contro l’ufficio delle dogane e non contro l’ambasciata, decise, per tranquillizzarmi, di prestarmi la sua pistola finché non sarebbe tornato Aldo. La pistola era una Norinco, belga, argentata, bellissima. Per me avere a che fare con le armi era una cosa nuova ed eccitante. Per loro era assolutamente normale. Yemen: venti milioni di abitanti, sessanta milioni di armi da fuoco.
Per darmela la passò a Muad che stava seduto accanto a me. Costui la carica e se la punta sulla parte laterale del polpaccio, dicendo al sindaco che, per dimostrargli quanto l’amava, si sarebbe sparato in quella parte della gamba dove c’è solo pelle. Il sindaco scoppia a ridere rispondendogli “prego, dai, sparati”. Li guardo allibiti convinto che avrebbe davvero premuto il grilletto. Loro avevano bevuto, io avevo fumato: esisteva un sostanziale problema di comunicazione reciproca e di comprensione dell’altrui umorismo.
Dopo poco se ne andarono lasciandomi la pistola. Mi sentii molto più sereno e tranquillo. Durante quella settimana dormii tutte le notti con l’arma accanto al letto, solo guardarla mi dava sollievo. Mi ritrovavo quasi a sperare che qualche terrorista mi facesse visita per potergli sparare. Sognavo a occhi aperti e mi vedevo stringere la mano al presidente yemenita mentre mi veniva assegnata una medaglia al valore per aver sgominato una cellula di Al-Qaeda da solo, io e la mia fedele Norinco.
Ogni volta che bussavano alla porta andavo a vedere chi era con la pistola in mano. Passavo le serata caricandola e scaricandola, desiderando di poter sparare a qualcuno che se lo meritasse davvero, magari proprio a Calderoli. Mi venivano in mente strani pensieri: “Non puoi sprecare questo dono celeste, il Signore Onnipotente ti ha voluto fornire la possibilità di essere braccio armato della sua poderosa vendetta, esci per strada e giustizia il malvagio e il turpe”. C’erano un paio di negozianti ladri e blasfemi nonché qualche italiano dell’ambasciata particolarmente stronzo che in effetti una certa vendettuccia divina se la meritavano ampiamente.
Tornò Aldo e, con mio sommo dispiacere, il sindaco si riprese la pistola.

Foto di Valentina Perniciaro _bimbi siriani_

Foto di Valentina Perniciaro _bimbi siriani_

Passarono un’altra decina di giorni relativamente calmi, cioè senza bombe o minacce. Noi continuavamo sereni vivendo da studenti di arabo e masticatori di qat del finesettimana. La sera spesso bevevamo whisky gibutino in giro per la città vecchia sulla macchina del sindaco. Anche sforzandoci non avevamo mai incontrato ostilità nei nostri confronti solo perché occidentali, anzi. Addirittura, una volta che, verso le quattro del mattino, tornando completamente ubriaco dal club russo, ruppi a calci un povero alberello di una delle pochissime aiuole di Sana’a e fui portato in commissariato, ricevetti dai poliziotti un trattamento gentile ed educato solo a causa della mia nazionalità. Se fosse stato uno yemenita a fare quel che avevo fatto io, avrebbe dovuto passare la notte in carcere e pagare una multa altissima per danneggiamento di patrimonio pubblico.
È anche vero che in quell’occasione sfoderai un arabo perfetto, dovuto sicuramente all’alcol, e seppi trattare con i poliziotti in modo esemplare. Li apostrofai con “ya Ikhwani” (o fratelli miei) chiedendo perdono e indulgenza verso un peccatore che, stravolto dal vino versatogli da Iblìs (il diavolo) in persona, aveva sbagliato ed era pronto a pagare. Mi offrii spontaneamente di dormire in prigione o di pagare la multa dichiarandomi pentito e desolato. Me ne andai dal commissariato mentre il muezzin richiamava alla preghiera dell’alba, salutandomi con i poliziotti con calorose strette di mano e la consueta frase di commiato yemenita “ay khadamàt” (qualsiasi cosa, qualsiasi servizio). (porco occidentale, ubriacone schifoso, sei fiero di te adesso eh?? Ebbro di munkar ti lasci andare alla devastazione di questa città magica, solo il tuo essere straniero occidentale ti ha evitato si pagare le conseguenze delle tue azioni criminali, colonizzatrici, poi pensi pure che è grazie a come hai “saputo trattare con i poliziotti”… presuntuoso.)

Fummo riconvocati dall’ambasciata, questa volta non solo gli studenti, ma tutta la comunità italiana presente a San’a. La nostra (un brivido, nell’usare la prima persona plurale riferendomi agli italiani) sede diplomatica si trovava nel popolare quartiere di Safiya, non lontano da Tahrir dove abitavamo. Eravamo circa una quarantina di persone: studenti, gente che lavorava presso le organizzazioni umanitarie, affaristi e operatori turistici. Dopo un lunga attesa durante la quale non ci fu neanche offerto un caffè ci fecero entrare nella stanza dell’ufficio dell’ambasciatore, dove campeggiava trionfalmente una foto incorniciata del nostro presidente della repubblica. Giorgio Napolitano. Già la prima volta l’avevo notata e un po’ interdetto avevo pensato a una assunzione da parte italiani degli stili di ossequio al potere tipicamente mediorientale. Quella volta, però, la faccia seria di quel vecchietto rugoso, accanto alla bandiere italiana ed europea, davanti a tutte quelle persone mi sembrò grottesca.
In mezzo alla stanza c’erano tre personaggi benvestiti e sconosciuti e il buon ambasciatore, noi fummo ammassati sulla parete di fondo, prospicienti al presidente della repubblica, in piedi. Prese la parola uno di quei personaggi presentandosi come capo dell’unità di crisi italiana. Un sermone micidiale. In piedi, soffrendo, cambiando continuamente posizione, ascoltai questo cretino impettito che ci spiegava come agiva l’unità di crisi italiana in generale senza mai accennare alla situazione dello Yemen. Parlò circa un’ora. Poi prese la parola l’ambasciatore affermando che la situazione era di attenzione ma assolutamente non di allarme, e nemmeno preallarme. (e allora che cazzo ce fai venì qua a senti’ sto cojone, a famme venì’r’mardeschiena). A ognuno di noiitaliani fu poi consegnato un invito per partecipare alla festa della Repubblica del 2 giugno nell’hotel Sheraton.

Il finesettimana dopo andammo a cena dall’unico ragazzo simpatico che lavorava presso l’ambasciata italiana. Abitava con la moglie gentile e simpatica in una bella villa vicina a via Zubeiri. Erano una coppia piacevole e ospitale, con la naturalezza di cui solo le persone del sud sono capaci.
Le cene da loro erano sempre una gioia per la compagnia, per il buon cibo e per la possibilità di bere vino e superalcolici veri invece di quelle schifezze straziafegato di Gibuti che bevevamo con gli yemeniti.

Foto di Valentina Perniciaro _bici e jalabiyya_

Foto di Valentina Perniciaro _bici e jalabiyya_

Quella sera, mentre bevevamo allegramente un digestivo, dopo aver mangiato un ottima pasta col sugo alla salsiccia, il nostro ospite ci raccontò che, su internet, era apparso un nuovo comunicato della cellula di Al Qaeda yemenita in cui dichiaravano di voler espellere tutti gli infedeli dalla santa penisola arabica. Ci avvertì inoltre che presto sarebbe giunto un nuovo sms allerta dell’ambasciata.
A me ‘sti comunicati parevano tutti delle gran cazzate. Vedevo la questione in percentuale: Yemen- pochissimi stranieri occidentali -> qualche esaltato ignorante che pretendeva la loro morte o la loro espulsione; Italia- moltissimi stranieri, fra cui musulmani ->tantissimi stronzi ignoranti che si auguravano la loro morte o pretendevano la loro espulsione. Saggissimo detto dice che la madre dei cretini è sempre incinta, in Italia come in Yemen o in Nepal. Forse, giusto negli Stati Uniti, per qualche condizione atmosferica particolare, rimane incinta più spesso.
La mattina dopo, diciotto Maggio, sul mio telefonino appare puntuale il preannunciato messaggio:
La reiterata minaccia terroristica genericamente rivolta agli occidentali presenti nello Yemen impone l’adozione di ulteriori misure cautelari. Si raccomanda di evitare la frequentazione di alberghi internazionali ed altri luoghi conosciuti per la presenza di occidentali (ripetizione); limitare allo stretto necessario i movimenti sul territorio variando orari e percorsi; segnalare tempestivamente all’Ambasciata elementi che possano indurre a rivelare specifici pericoli.
Evitare la frequentazione di alberghi internazionali? E il festeggiamento del 2 giugno allo Sheraton? Che tipi questi diplomatici. Massima cautela? raggruppare tutti gli occidentali ricconi e i diplomatici presenti a Sana’a nell’albergo simbolo della globalizzazione del lusso è massima cautela? Per quanto riguardava i movimenti sul territorio, andando a lezione tutti i giorni alla stessa ora, variare i miei orari e percorsi risultava alquanto difficile.
Le uniche ulteriori misure cautelari che adottai furono comprarmi un coltellino a serramanico che portai sempre appresso appeso alla cintura e guardare in strada prima di aprire completamente la porta di casa. Nonostante quasi sperassi di trovare qualcuno pronto a mitragliarmi col kalashnikov, tutte le volte che sbirciai dall’uscio, prima di spalancare la porta non vidi mai altro che i soliti bambini o le vicine di casa super velatissime. Un po’ di timore, sti stronzi , (non i terroristi, quelli dell’ambasciata) erano riuscito a farmelo sentire, tanto che quando giravo per Sana’a mi guardavo sempre le spalle per assicurarmi di non essere seguito da qualche balordo o quando passavo in mezzo a tanti yemeniti la mia manina andava involontariamente a lambire il fodero del coltellino. (che poi cazzo ce fai co sto temperino cinese contro un kalashnikov o contro la lama di una jambiyya??).
Avrei voluto poter segnalare tempestivamente all’Ambasciata qualche elemento rivelatore di specifici pericoli, soprattutto perché l’avverbio tempestivamente mi piaceva e desideravo praticarlo. Purtroppo, anche impuntandomi, non riuscii a raccattare niente, neanche un pestone sul piede dato per sbaglio. Nell’isolato dove abitavamo ci conoscevano tutti ed erano tutti gentilissimi sia i vicini sia i negozietti sotto casa: la bagàla (il bazar tipico sananita che vende tutto), la màghsala( la lavanderia), il khayyat ( il sarto), il ragazzetto che gestiva l’internet point. Vero anche che con ognuno di questi intrattenevamo rapporti commerciali stabili e quindi era ovvio che fossero cortesi e simpatici, comunque sentivamo nei nostri confronti un benvolere diffuso e sincero. Arabi e italiani del centro sud si assomigliano per la facilità di instaurare rapporti superficiali basati sulla frequentazione quotidiana (e in questo caso non mi vergogno affatto della mia nazionalità).
Per me era del tutto naturale, un piacere, quando uscivo di casa, fermarmi a scambiare due battute con il sarto o sedermi un pochino con i fratelli della lavanderia a commentare le qualità di qat o i video sconci delle ragazze irachene. Avevamo persino una specie di portiere sempre presente che, oltre a un perenne odore di urina sotto la porta, ci garantiva anche un certo controllo costante: Abdelbàsit. Questi era un ragazzo un po’ fuori di testa, sulla trentina, che dormiva sotto casa nostra, per strada. Ci avevano raccontato che era nato nel quartiere e lavorava presso il sarto ma circa cinque anni prima era semi impazzito e aveva deciso di vivere senza un tetto.
Pare che a farlo impazzire fosse stato l’abuso di qat, non dormiva mai, lavorava fino a notte inoltrata, masticava o e beveva tè. Improvvisamente aveva dato di matto. Noi lo aiutavamo comprandogli sigarette e regalandogli qat o portandogli un piatto di pasta quando cucinavamo. Non ultimo, la nostra amicizia col sindaco di Sana’a vecchia, comprovata dalla frequente presenza della sua macchina nella via, ci conferiva una speciale aura di protezione: “gli stranieri sono amici del sindaco…”
Dopo una settimana da quel messaggio, come se non bastasse Al Qaeda, fu annunciato il nuovo terribile pericolo yemenita della stagione: “gli Huthiyyn alle porte di Sana’a”.
Era noto già da tempo che nella parte settentrionale dello Yemen nella regione di Saada c’era la guerra: Il governo contro le tribù ribelli sciite ithnatashari (duodecimale) capeggiate dai fratelli Huthiyyin, finanziati dall’Iran. Della guerra non arrivano molte notizie ma a volte spuntava sui giornali l’annuncio di sanguinari attentati fuori le moschee di quella zona.
Avevamo invitato a cena la coppia simpatica dell’ambasciata, quando scesi ad aprire la porta trovai lei che indossava il velo. Strano. Dopo che furono saliti ci spiegarono che quella del velo era una misura precauzionale dettata dalle circostanze particolarmente preoccupanti.

Foto di Valentina Perniciaro _Sham, la più bella_

Foto di Valentina Perniciaro _Sham, la più bella_

Luti (al Huthi nella pronuncia italianizzata del nostro amico diplomatico) era arrivato vicino a Sana’a e si combatteva a venti kilometri dall’aeroporto, la notte si sentivano le bombe. Ci dissero anche che era pronto un piano di evacuazione se fosse stato colpito l’aeroporto. Queste notizie non ci tolsero assolutamente la fame e mangiammo felici gli spaghetti con i gamberi preparati da Andrea, bevendo il vino bianco portato dagli ospiti.
Il giorno dopo mi informai meglio presso il sindaco e altri amici yemeniti. I Banu Khsceish, una ricca tribù che possedeva piantagioni di qat e di vite (producevano il vino!), stanziata sulle montagne vicino all’aeroporto di Sana’a, era insorta assieme agli Huthiyyin. Il presidente aveva mandato l’aviazione per distruggerli e pareva che stesse vincendo. Il mio professore di arabo usando il maf’ùl mùtlaq (accusativo ritornante) mi aveva detto che finalmente al raiss darabahum darban shadidan (li aveva colpiti con colpo violento), dopo anni di misure troppo leggere nei loro confronti. Indignato del fatto che avessero osato spingersi fino a Sana’a aveva incaricato il figlio, generale della quwwa khassa (forza speciale) di annientarli. Il monte Aswad (nero) dove si erano nascosti i ribelli era diventato il monte Abyad (bianco) per la potenza con cui erano stati affrontati. Quella sera feci una delle mie consuete passeggiate notturne per il centro di Sana’a al qadima (antica) incantato come sempre dalla magia di quella splendida città.
Camminarci di notte era bellissimo. C’era un silenzio irreale interrotto a sprazzi da urla di neonati o musiche a tutto volume provenienti dalle finestre. Durante quelle passeggiate cercavo di perdermi per i vicoli scoprendo nuovi angoli meravigliosi. Un labirinto di stradine incastrate una dentro l’altra che si infilavano in mezzo a le bellissime case, storte e armoniosamente disordinate. Incontrare gruppetti di masticatori notturni o passeggiatori come noi dispensando sorrisi e masalkheir (buona sera).
Quella notte nel silenzio della città vecchia sentii finalmente anch’io le bombe di cui tutti parlavano.
Ero tranquillissimo. Confidavo pienamente nella piena vittoria del Raiss. L’idea che l’aeroporto poteva essere bombardato non mi spaventava… mica era l’unico aeroporto dello Yemen. Al massimo ci avrebbero riportato in Italia con un aereo militare o alle brutte saremmo rimasti bloccati a Sana’a, cosa che non mi dispiaceva affatto (già pregustavi fama e gloria: stoico italiano sotto le bombe scrive portentoso libro sullo Yemen, egocentrico!). La città era piena di polizia e militari, taftishat (perquisizioni) continue di macchine e passanti. Il sindaco durante i nostri consueti alcolici giri notturni in macchina (l’alcol in Yemen è proibito) definì me e Aldo il miglior taslih (lasciapassare) possibile per evitare i controlli che avrebbero potuto far scoprire le bottiglie di whisky rovinandogli la reputazione. Con noi stranieri a bordo nessun soldato si sarebbe mai permesso di perquisire l’auto.
Ovviamente, dopo poco, arrivò la terza convocazione del nostro paterno ambasciatore, proprio pochi giorni prima della festa della nostra gloriosa repubblica.
Eravamo solamente i pochi studenti di arabo presenti in Yemen, in tutto sette. Questa volta l’ambasciatore fu categorico e, studi finiti o meno, ci invitò a tornarcene immediatamente in Italia. L’aereo più prossimo sarebbe partito martedì, il giorno dopo dell’imminente festeggiamento del 2 giugno. La motivazione che addusse fu la concomitanza della persistente minaccia terroristica genericamente rivolta contro gli occidentali con il momento di instabilità del potere del presidente dovuto all’insurrezione sciiti.
Timidamente provai ad argomentare che, non avendo mai ricevuto alcuna dimostrazione di inimicizia nei nostri confronti dall’inizio della nostra permanenza, il suo invito a lasciare di corsa il paese ci lasciava un po’ interdetti. Premettendo che lui, oltre che diplomatico, era anche scrittore e che perciò amava esprimersi attraverso metafore, mi rispose descrivendo la situazione con queste parole: “Immaginatevi un castello medievale nel mezzo di una vallata circondata da monti. Nella valle lavorano sereni nei campi i contadini, ignari dell’esercito del nemico che avanza dietro le montagne. I vassalli del castello, dall’alto delle torrette di avvistamento, scorgono il nemico e dunque avvertono i contadini dell’incombente pericolo”.
Rimasi piuttosto allibito. Sicuramente involontario e dovuto più alle velleità artistiche del nostro ambasciatore, che a un effettivo parere personale, il paragone che aveva adoperato era emblematico: rappresentava perfettamente il sentire comune di buona parte dell’occidente nei confronti dei popoli musulmani: il nemico che avanza.
Era chiaro che il nemico inteso erano al Qaeda e i terroristi ma, stante che, in Italia e nel resto del mondo “civilizzato”, l’identificazione religione islamica – terrorismo era consolidata presso buona parte della gente e diffusa e patrocinata dalla stessa classe dirigente (i vassalli del castello che mettono in guardia i contadini?), la metafora usata dall’ambasciatore mi agghiacciò. Coloro i quali avevano fatto esplodere le

Foto di Valentina Perniciaro _U.N. nel Golan_

Foto di Valentina Perniciaro _U.N. nel Golan_

stazioni di Londra e Madrid sono, per me, nemici quanto i governi che con fantasiose giustificazioni diffondono morte e devastazione attraverso avide guerre sanguinarie. E l’ambasciatore italiano in Yemen, in quel momento, non rappresentava altro che uno di quei governi, qualunque fossero state le sue convinzioni politiche. (Non fare il politically correct che lo sai benissimo che a te Bin Laden, se esiste davvero, ti piace, che quando sono esplose le torri gemelle hai esultato nel cuore, felice che finalmente qualcuno era riuscito a portare il terrore nel cuore della nazione che da anni impunita lo disseminava per il mondo).
Concluso il discorso, l’ambasciatore ci congedò informandoci su quando avessimo intenzione di partire. (Ma perché noi studenti dobbiamo andarcene di corsa per non rischiare, mentregli affaristi e i petrolieri possono rimanere e correre il rischio? Siamo meno importanti? Meno necessari? Sicuramente). Andandomene lo informai dell’intenzione dei miei genitori di venirmi a trovare a Sana’a. Mi rispose che assolutamente non dovevano partire ma anzi avrebbero fatto meglio a organizzare le vacanze a Rimini. A Rimini, mio padre a Rimini…
Nonostante fosse ovvio che né io né Aldo né Andrea – che era arrivato da poco, partito dall’Italia malgrado fosse ben conscio della situazione – avremmo assolutamente anticipato la data del rientro, per quanto riguardava i miei un pochino di paura me l’avevano messa. Ero ben libero io di non voler valutare il rischio per me stesso, di non dar peso a quelle parole, ma far venire mia madre e mio padre in un luogo dove, a quanto pareva, c’era gente che li voleva ammazzare solo perché italiani era un altro discorso. Per quanto volessi vedere la situazione in modo critico e razionale un po’ di timore ce l’avevo, ce l’avevamo tutti, era inevitabile.
D’altra parte mi straziava l’idea che non mi sarebbero più venuti a trovare. Da quando ero arrivato sognavo di portare mia madre, amante delle interiora, a mangiare il kebda (fegato) nei ristorantini popolari. Volevo condividere l’esperienza del mondo arabo con lei che non c’era mai stata e sapevo se ne sarebbe innamorata. Già pregustavo accese discussioni sulla condizione della donna in Yemen e negli altri paesi musulmani, che mia madre, da vecchia femminista, avrebbe ferocemente criticato.
Desideravo portare mio padre in quegli hammam luridi ma bellissimi, accompagnarlo per la città vecchia, fargli conoscere i miei amici yemeniti dimostrandogli, finalmente, che davvero ero in grado di parlare arabo. Da una parte ero tentato di fregarmene e dirgli di comprare il biglietto d’aereo, come rischiavo io potevano rischiare loro, dall’altra però non mi sentivo di prendermi la responsabilità di un’eventuale disgrazia. Per se stesso i rischi si prendono a cuor leggero, quando però si tratta di persone amate ci si pensa sempre due volte.
Non sapevo bene come dirglielo, se spiegavo la situazione riferendole le parole dell’ambasciatore mia madre sarebbe impazzita di ansia se non fossi tornato subito. Se dicevo di non venire e basta mi avrebbero bombardato di domande o forse si sarebbero offesi pensando che non li volevo in mezzo alle mie cose, alla mia vita yemenita. A Rimini…
In effetti la situazione a Sana’a non era assolutamente tranquilla, ma a intimorire non erano i “qaedisti” bensì gli efferati sciiti Huthiyyin che, girava voce, si erano infiltrati in città, decisi a indebolire il potere del presidente, di cui la capitale era la roccaforte, eseguendo azioni disparate incluso colpire i turisti o gli occidentali in generale. E infatti ogni incrocio o strada importante erano controllati da posti di blocco militari che perquisivano macchine e passanti, e la polizia in borghese, i servizi segreti, pattugliavano in incognito tutti i quartieri. Il sindaco, una sera, dopo che avevamo bevuto il velenoso Teacher, si accomiatò da noi più presto del solito motivando che doveva lavorare. Il lavoro consisteva nel girare per la città vecchia per verificare, controllando i registri, se negli alberghi e nelle locandaat (locande) vi fossero Huthiyyin.
Gli yemeniti, nonostante quando venisse introdotto il discorso affermavano immancabilmente la loro piena fiducia nel presidente, erano indubbiamente un po’ innervositi dalla situazione. I ribelli Huthiyyin sono sciiti duodecimani e pare siano finanziati dall’Iran. La maggior parte degli abitanti dello Yemen è invece sunnita o zaidita che è la corrente “mu’tàdila” (moderata) dello sciismo molto e molto poco differisce dal sunnismo.
Il mio professore di arabo (della famiglia degli hashemiti, discendenti del profeta), quando affrontammo la questione mi spiegò che, al pari di Israele che voleva ingrandire il suo stato dal Nilo all’Eufrate, gli sciiti, in questo momento storico forti più che mai, programmavano di dominare tutto il medioriente, dall’Iran al costa mediterranea libanese. Presenti in Iran, Iraq, Bahrein, Arabia Saudita e Libano, una loro eventuale vittoria nello Yemen avrebbe spianato la strada al temibile progetto.
Sinceramente mi sembrava un po’ esagerato, ma era indubbia una situazione nel mondo arabo in cui la contrapposizione fra shia’ e sunna si era inasprita. Gran parte della colpa l’avevano sempre gli americani con la loro astuta politica irachena del divide et impera, aizzando gli sciiti, perseguitati da Saddam, contro i sunniti.
Una conferma di un reale sentimento di timore diffuso ce la diede il nostro buon amico Mohammed, tassista e occasionale spacciatore. Una di quelle sere venne a casa nostra completamente ubriaco e fumato per portarci l’hashish. Era tanto che non lo vedevamo e gli chiedemmo sue notizie, anche perché avevamo sentito dire che si era arruolato. Ci raccontò che era rientrato nell’esercito come autista e che proprio in quei giorni aveva avuto l’incarico di portare le armi ai soldati che combatteva gli Huthiyyin a Bani Khseisc, vicino all’aeroporto. Nonostante fossero di numero largamente inferiore, i ribelli avevano ucciso quarantacinque soldati governativi, centrandoli perfettamente in testa dall’alto delle montagne. Ce lo disse unendo indice e pollice della mano destra, formando un cerchietto a mo’ di mirino sulla fronte e strabuzzando gli occhi per enfatizzare la loro pericolosità.
Spiegò che fra i ribelli c’erano qanaas iraniani, infallibili cecchini addestratissimi in grado di colpire il bersaglio da qualsiasi distanza. (Conoscevo la parola qanaas – cecchino- grazie al famoso filmato di internet “Qanaas Baghdad”, che mostrava una serie di soldati americani colpiti in testa da proiettili con un sottofondo di musiche entusiaste e inni alla resistenza). Aggiunse poi che a Sana’a erano morti 25 soldati uccisi da una bomba lanciata precisamente dentro il finestrino aperto dell’automezzo in cui viaggiavano. Di questo non si era saputo niente.
Secondo la sua versione la battaglia era praticamente finita e i pochi insorti rimasti vivi si erano nascosti nelle montagne senza viveri né munizioni. Dopo questo racconto prese a lamentarsi della vita grama che si faceva nell’esercito, dove non poteva né bere né masticare (qualche canna di nascosto se la riusciva a fare, ci confidò fiero) e neanche scegliere cosa mangiare ai pasti Per questo motivo stava passando i giorni della sua licenza a Sana’a, dove beveva e fumava tutto il giorno, approfittando della momentanea libertà. Quella sera aveva gli occhi rossissimi e barcollava.
I giornali avevano annunciato trionfalmente la morte in quella battaglia di uno dei quattro fratelli Huthiyyin, capi della fazione sciita, dei quali rimaneva vivo soltanto uno, arroccato nel territorio di Sadaa

Altre notizie dirette sugli Huthiyyin ci giunsero dal poeta amico del sindaco e nostro compare di masticata, Taha Yemeni. Oltre a comporre qaside (componimento poetico arabo) durante l’assunzione del qat era anche militare e acceso patriota. Ricordo che, già durante accese discussioni a bocca piena, Taha aveva più volte inveito contro l’Iran, per lui nemico degli arabi al pari di Israele e l’America. Una volta parlando di Saddam avevo affermato che la guerra di otto anni contro Komeini era stata un inutile tragedia facendolo infervorare. lui mi aveva con passione spiegato la questione del territorio dell’Ahwaz, da sempre arabo ma colonizzato dai persiani. Il giorno appresso mi aveva portato un articolo di giornale sull’argomento in cui erano descritte le condizione degli arabi iraniani che lì risiedevano: l’ottanta per cento degli uomini erano rinchiusi nelle carceri della rivoluzione islamica. Durante i giorni della guerra contro gli sciiti, Taha era improvvisamente scomparso dalle masticate pomeridiane nel mafrash del sindaco. Quando domandammo dove fosse andato ci informarono che era tornato nell’esercito ed era stato mandato a Sadaa, sede degli sciiti insorti, per cercare di far rinsavire al Huthi, declamandogli poesie. Non credemmo a questa versione ritenendo che ci stessero prendendo in giro. Magari era fuori Sana’a per altri motivi che non ci volevano spiegare. Pochi giorni prima del mio ritorno in Italia, un pomeriggio, il poeta ricomparve. Era venuto pieno di foto che lo ritraevano vestito da militare in piedi, con le mani alzate, come se stesse gesticolando, davanti a un esercito schierato . Che fosse andato da al Huthi per convincerlo ad arrendersi era effettivamente uno scherzo ma il suo viaggio a Sadaa era reale. Militare, poeta e senza soldi aveva deciso di arruolarsi nuovamente per aiutare la patria e il suo portafoglio. L’avevano mandato a Sadaa dove la sua mansione principale era incoraggiare i soldati prima della battaglia con la sua arte poetica. Poesia per la guerra. Sembravano i tempi della jahiliyya. Non me lo sarei mai immaginato. Un poeta combattente con il compito di infiammare i cuori dei soldati evocava un esercito di beduini sui cammelli, armati di sciabole ricurve mentre poco si accordava con una schiera di ascari con tute mimetiche, baschi rossi in testa e kalashnikov a tracolla. Amai ancora di più lo Yemen e gli yemeniti. Cinture ricamate con la fodera per il pugnale e il porta telefonino, poesia e armi da fuoco.
Oltre a spronare gli animi dei giovani soldati il nostro poeta aveva anche combattuto. Ci raccontò che gli Huthiyyin prendevano hubub (pasticche) di droga per combattere per vere più coraggio. Diceva che erano pazzi, che solo un pazzo esaltato dalla droga poteva avere il coraggio di affrontare da solo un carro armato tirando bombe a mano. Chissà se è vero. E soprattutto chissà dove si trovano un poco di queste pasticche da guerra sciite che non mi dispiacerebbe affatto provare. Dopo che finì il racconto ammiccò verso di me: “te l’avevo detto che l’Iran era mush tamàm (non buono).”.
Noialtri continuammo a passeggiare per la città vecchia anche di notte, la leggera ansia, che comunque erano riusciti a infonderci , non ci poteva fermare dal godere di quel posto meraviglioso.
Arrivò il giorno della festa del 2 giugno allo Sheraton. Avevamo conseguito di far avere un invito al Sindaco che, avido di alcolici di buona qualità, aveva insistito per venire. Sebbene avesse appena sostenuto un operazione di ernia ed era ricoverato, decise di presenziare alla festa comunque, uscendo dall’ospedale per poi farvi ritorno a fine serata.
Avevo tentennato a lungo sulla mia presenza alla festa. Per me non c’era niente da festeggiare il due giugno. Che significava spendere un enormità di denaro affittando un super albergo per esaltare quel paese del cazzo che è l’italia, l’Italia fascista e razzista di Berlusconi, l’Italia codarda e ipocrita del partito democratico. Le persone poi che avrebbero partecipato mi davano abbastanza fastidio, anzi mi facevano schifo: ricconi imbellettati, casta di diplomatici privilegiati, viscidi yemeniti leccaculo del potere, affaristi e militari di alto grado. I giorni prima dicevo per scherzo che se ci fossi andato sarebbe stato solo per farmi esplodere o per mettere il veleno nei piatti degli invitati. L’ unica ragione che facilmente mise a tacere i miei tormenti politici e mi spingeva ad andarci era la gola. Il cibo e Il vino. La possibilità di mangiare cose lussuose (era lo Sheraton!) e di bere a volontà e magari pure di vedere qualche bella femmina senza velo vinse su tutti i miei tentennamenti.

Foto di Valentina Perniciaro _carni appese_

Foto di Valentina Perniciaro _carni appese_

I controlli all’entrata mi sembrarono piuttosto vaghi, non fummo assolutamente perquisiti, se avessi voluto davvero mi sarei potuto facilmente imbottire di esplosivo per punire i malvagi e colpevoli festeggiatori della repubblica italiana (e sarebbe stato meglio visto quello che hai combinato).
Una volta dentro, la mia coscienza politica decise di ubriacarmi scientificamente per punirmi di averla azzittita e messa in un angolo. Dopo aver finito di mangiare, (e il cibo non era assolutamente lussuoso come me l’ero immaginato) mi bevvi tutto quello che c’era: dopo il vino e lo champagne passai al whisky (Johnny Walker, altro che Teacher gibutino a cui ero abituato), una volta che fu finito mi volsi alla wodka e quando anche essa terminò, con estremo disgusto del barista kazako, ormai mio amico, mi feci versare un gin con campari che sancì la mia definitiva dipartita dal mondo cosciente. Quel che successe dopo è molto imbarazzante da raccontare. Ne conservo un ricordo molto vago ricostruito in parte dai racconti dei presenti.
Quella battuta pronunciata dall’ambasciatore, durante il precedente incontro, sui miei genitori e le vacanze a Rimini mi aveva alquanto infastidito. Il fastidio, evidentemente, fu riportato a galla dall’alcol e, quando ormai nella festa rimaneva poca gente, decisi di andare a spiegare al diplomatico consigliere turistico che la sua uscita su Rimini non era stata gradita, assolutamente fuori luogo e anzi offensiva nei confronti della mia famiglia intellettuale. Quel cretino non sa assolutamente chiccazzo è mio padre e che certo non passa le sue vacanze sulla riviera romagnola in mezzo a pallidi svedesi ciccioni.
Avevo passato la vita a vergognarmi del fatto che mio padre fosse professore universitario, non lo volevo mai dire e sviavo sempre il discorso temendo di venir pregiudicato in base alla sua professione. All’università poi, avendo scelto una facoltà vicina a quella dove insegnava, vivevo la sua posizione come un estremo peso, sempre temendo di passare per privilegiato o raccomandato. Forse è anche per questo che mi impegnai in tutti i modi a ritardare la mia laurea triennale, per dimostrare che non ero un secchione ma anzi un vero giovane matto e sballone..
Quella volta invece, la somma dei fattori: vino, un poco di nostalgia, un lungo soggiorno in un paese arabo dove vantarsi del proprio padre e della propria famiglia è considerato un obbligo e quell’odiosa battuta dell’ambasciatore mi aveva reso piuttosto orgoglioso e determinato a dimostrare a sti cretini incravattati chiccazzo era mio padre: celebre professore e archeologo di fama internazionale. E che se lui voleva venire in Yemen non sarebbero certo state quattro minacce di quattro stronzi e le loro stupide paranoie a fermarlo, lui, che aveva visitato tutti paesi arabi, che era stato in Algeria, quando era pericoloso, in giro nel deserto per rovine e cave di marmo.
Mi avvicinai all’ambasciatore e presi posto su una sedia vicina aspettando il momento propizio per parlargli. Questi conversava con altri signori su Carlo Quinto e Francesco Primo raccontando un aneddoto che conoscevo anch’io. Borbottai qualcosa nei loro riguardi, intenzionato a partecipare anch’io a quel dibattito storico che, da figlio di archeologo professore, potevo sostenere brillantemente. Ricevetti un rapido sguardo interdetto per poi non essere più calcolato.
Dovevo ben essere una figura poco consona all’occasione, con la mia faccia piuttosto alterata dall’ebbrezza e camicia e pantaloni assolutamente non stirati. Il mio amico Andrea capendo la situazione provò ad allontanarmi per evitare brutte figure. Da qui comincia il delirio e la mia follia violenta, io non ricordo ma me ne vergogno. A quanto pare, ho sfogato la mia ira per il contesto in cui mi trovavo contrario ai miei principi politici, per la frase dell’ambasciatore su Rimini e per il dispiacere del viaggio mancato dei miei genitori contro il povero Andrea che aveva soltanto tentato di aiutarmi. (Ira? chiamalo pure dissidio interno perché, per quanto contrario ai tuoi principi, bere calici di champagne offerti su vassoi e spegnere sigarette in portaceneri che ti seguivano portati da servili camerieri, ti piaceva, tanto e te ne saresti dovuto sentire in colpa).
Mi sono alzato e platealmente ho sputato per terra sul tappeto dello Sheraton per poi andarmene offeso. Al mio amico che mi inseguiva ho sferrato un pugno traditore e sono salito sul primo taxi per tornare a casa. Quando poi Andrea è arrivato anche lui l’ho minacciato costringendolo ad andare a dormire fuori blaterando che quella era una casa per uomini veri e non per servi dei signori ambasciatori. Ero completamento fuori di testa, non mi rendevo conto delle mie azioni. (Non ti basta? Persisti nell’errore? Quand’è che finalmente ti convincerai a ossequiare la Vera Religione che tanto ti glori di difendere? Il diavolo ti bisbiglia sconcezze nell’orecchio. Abbandona queste azioni devianti e maligne che ti sviliscono e umiliano!) Per fortuna il giorno dopo rinsavii e chiesi perdono.
Il mio soggiorno infedele e colonizzatore nella penisola arabica proseguì per circa un altro mese, durante il quale non successe più nulla. Nessun messaggio terroristico al telefonino, nessuna detonazione di bombe, niente.
Ho passato quattro mesi in Yemen, nessun occidentale cristiano è morto, neanche per un incidente stradale. Nello stesso periodo di tempo in Italia sono morte almeno venti persone sul lavoro, una quarantina sono affogate tentando di raggiungere il nostro paese, è stato rieletto un presidente del consiglio corrotto e ladro e a Roma un sindaco fascista.

  1. 1 ottobre 2008 alle 18:07

    L’ambasciatore d’Italia nello Yemen replica all’articolo di Giuseppe Pensabene
    di Mario Boffo

    [Mario Boffo è un ambasciatore un po’ speciale. E’ autore di un romanzo,”Femmina strega”, che Carmilla ha molto lodato. Attualmente in servizio nello Yemen, ha reagito all’articolo di Giuseppe Pensabene Lopez pubblicato ieri. Pubblichiamo volentieri la sua replica. Carmilla è pronta a ospitare ulteriori interventi sul tema.] (V.E.)

    La prima cosa che mi è venuta in mente, leggendo l’articolo di Giuseppe Pensabene Perez dal titolo “Il nemico che avanza”, pubblicato da “Carmilla on line” questo 30 settembre è stata: ma perché tutti quegli insulti e quelle acide critiche non le ha espresse in mia presenza, visto che, come egli stesso afferma, ha avuto con me varie occasioni di incontro? Che cosa temeva? Tutt’al più gli avrei detto che è un maleducato, che gli insulti non sono un argomento, che denotano, in chi li proferisce, pochezza spirituale, mancanza di idee, rabbia mal repressa, instabilità emotiva. Mah… forse ha preferito lanciare quegli insulti a me, all’Ambasciata e al resto del personale da lontano, dopo qualche tempo, servendosi di una rivista di cui forse non mi suppone lettore, visto che esplicitamente o implicitamente mi dà del fascista, del berlusconiano, del razzista, dello xenofobo…

    Invece, essendo un assiduo lettore di “Carmilla”… zac! l’ho beccato subito con le mani (o meglio) con gli insulti nel sacco!!! Gli è andata male… Mi resta un dubbio: nell’articolo che ha scritto dà a tutti i membri dell’Ambasciata del fascista, nazista, eccetera, lasciando intendere che lui non è tutto questo. Lodevole cosa (ovviamente anche nessuna delle persone cui lui fa riferimento è fascista o xenofoba), ma a che serve essere in modo così edificante antifascista e democratico se poi ci si concede la libertà di indirizzare ad altri ingiuriose parolacce, augurandosi quasi che vengano ammazzati in un attentato? La civiltà non dovrebbe avere aggettivi. Il signor Pensabene, inoltre, presenta la sua vicenda come un drammatico caso umano e personale. Ma di che si sta parlando? Nello Yemen in questo periodo ci sono dei rischi. Come fanno tutte le Ambasciate verso i propri connazionali lo abbiamo detto a lui come ad altri e gli abbiamo suggerito di fare attenzione e possibilmente di lasciare il Paese appena compiuto il periodo di studi. Se altri, come i funzionari delle aziende petrolifere, che lui cita, o noi diplomatici siamo qui è per obbligo contrattuale o per dovere istituzionale. Non è certo perché abbiamo voluto concederci il dubbio privilegio di restare a far da bersaglio a eventuali terroristi! Del resto anche lui poteva tranquillamente disattendere i nostri suggerimenti: nessuno ha infatti mai avuto né il potere né l’intenzione di vietare alcunché. Potrei chiudere qui, anche perché non voglio personalizzare. Ma l’articolo del Pensabene, acriticamente pubblicato dalla rivista nonostante il tono chiaramente nervoso e l’abbondante turpiloquio, getta sull’Ambasciata e sul suo operato una luce distorta e profondamente infondata. Quindi credo sia utile qualche chiarimento, facendo riferimento ai principali punti dell’articolo del giovane studente.

    La cosa più paradossale è che il giovane Pensabene si è tanto indignato non per essere stato vessato, offeso o represso da qualcuno, ma solo perché l’Ambasciata, in obbedienza al proprio dovere istituzionale che prevede anche, soprattutto in certi Paesi, la tutela dei cittadini italiani, si è occupata della sua sicurezza. Ma sì, tanto si sa come la pensano molti italiani: sputa su tutto quello che puzza di Istituzioni, Governo, Pubblica Amministrazione… forse non sai perché sputi, ma tanto è certo che hai ragione! Vorrei raccontare un caso davvero singolare che mi è capitato qualche mese fa e che è in molti punti collegato al caso Pensabene. Una bambina yemenita di otto anni era stata sposata a forza dalla famiglia a un uomo di trent’anni, che, nonostante l’età infantile, la costringeva a rapporti sessuali. La cosa è emersa sui giornali italiani e… apriti cielo! Come Ambasciatore nello Yemen, ho ricevuto un centinaio di messaggi contenenti critiche acidissime e insulti anche peggiori di quelli del Pensabene, quasi il colpevole fossi io (e il povero collega yemenita a Roma, che veniva pure coinvolto). Mi si accusava (e si accusavano in genere gli Ambasciatori e i diplomatici) di ignavia, di pensare solo ai propri banchetti e agli affari personali, mentre succedono di queste turpitudini. In sostanza mi si accusava di fregarmene dei diritti umani. Anche in quel caso ho risposto a tutti, spiegando che del caso ci stavamo già occupando a livello di cooperazione europea sul posto, quando la piccola è stata liberata (ora è tornata a scuola grazie anche a donatori italiani con cui l’Ambasciata l’ha messa in contatto). Ho spiegato che i diplomatici si occupano eccome, in certi paesi, di diritti umani, che con gli altri Ambasciatori europei abbiamo salvato almeno tre persone dalla pena capitale, che soprattutto i diplomatici italiani hanno strenuamente negoziato nelle varie sedi la vittoriosa campagna per la moratoria della pena di morte. Moltissimi mi hanno riscritto scusandosi, ma sa – dicevano – non sapevamo, non ci fidiamo più dei nostri “rappresentanti”, dei nostri “deputati”. Per non farla tanto lunga, il caso rappresenta un test della tendenza di molti italiani (e ve ne è traccia anche nell’articolo di Pensabene) a mettere tutto sullo stesso piano: la malapolitica e le Istituzioni, la corruzione morale di certa classe diligente e la funzione pubblica, l’inefficienza del sistema e il lavoro di chi tutto sommato cerca di superarla, i “deputati” e i funzionari. Tutti politicanti, tutti corrotti, tutti fascisti, tutti razzisti… Non tutti si rendono conto che il Paese si tiene grazie alle Istituzioni, e che queste rappresentano e servono la generalità della comunità nazionale, al di là di questo o quel governo, di questo o quel settore della società. Quando un’Ambasciata interviene, interviene a sostegno delle imprese italiane, a sostegno degli interessi dell’Italia, a tutela dei cittadini. Ogni volta che si vince una commessa, forse si risparmia il licenziamento a qualche operaio, ogni volta che si avvisa un connazionale su temi di sicurezza, forse si scongiurano guai peggiori. I sei turisti spagnoli saltati su un’autobomba a Marib, le tre turiste belghe uccise a fucilate a Seyun, i cinque italiani sequestrati nel 2006, che solo per miracolo non furono coinvolti in un conflitto a fuoco fra rapitori e forze dell’ordine, forse non avrebbero passato tutto questo se avessero dato retta agli avvisi ai viaggiatori che tutti i Paesi diffondono sui siti informatici. Questi avvisi, e quelli che più in dettaglio si danno individualmente, sono fondati su valutazioni ponderate e sull’esperienza diretta dei luoghi.

    Il Pensabene ritiene di confutare la necessità di mettere in guardia la gente con l’argomento che gli yemeniti lo hanno trattato bene, che non si è sentito mai minacciato, che anche i poliziotti lo hanno rispettato. A quest’argomento ricorrono anche molti italiani che continuano a viaggiare per regioni sconsigliate: sono andato e non mi successo niente… Naturalmente, quando non succede niente siamo tutti felici, ma il fatto che non sia successo niente non vuol dire che non si sia rischiato, e il fatto che in una situazione vi siano rischi non vuol dire che questi debbano colpire tutti e ciascuno ventiquattr’ore al giorno! Ma va anche precisato che, nei miei tre anni di servizio nello Yemen, almeno un centinaio di persone, fra turisti e operatori economici e professionali, sono stati uccisi, feriti o sequestrati. Ce n’è d’avanzo per suggerire comportamenti prudenti. Detto questo, potrei naturalmente sottoscrivere tutte le affermazioni del Pensabene sull’urbanità degli yemeniti. Anzi, non esito a dire che il popolo yemenita è fra i più affabili, cortesi, allegri, rispettosi, ospitali e cordiali fra quelli che mi sia capitato di incontrare, e che tutte le autorità, poliziesche o meno, trattano con gli stranieri con rispetto e senso di amicizia. Al Pensabene però sfugge forse il fatto che non era contro gli yemeniti in generale che lo si avvisava, ma contro le cellule terroriste che purtroppo si annidano nel Paese, di cui lui naturalmente non si è mai accorto, perché costoro non si presentano col biglietto da visita e quando invece si presentano sei già morto, ma di cui le Ambasciate e i servizi di sicurezza sanno e sapevano. Era quello il senso della metafora che tanto ha colpito il nostro studente. Ora si sa che le metafore non tutti le capiscono. E’ per questo che, dopo averle proposte, le spiego, come feci nell’occasione citata dal giovane studente. Il senso era che l’uomo sulla torre dispone di molte più informazioni di chi sta ai piedi della torre. Questi non avverte il pericolo perché vede meno cose. Purtroppo alcuni non capiscono le metafore nemmeno quando gliele spieghi… Circa il viaggio dei genitori, inoltre, gli dissi che lo Yemen merita certo visite approfondite, ma che in quel periodo era rischioso. Conveniva allora rinviare la visita e magari visitare altri luoghi, come per esempio… feci qualche esempio di cui ora non ricordo, e forse citai anche Rimini, come luogo tipicamente tranquillo da anteporre a luoghi più turbolenti come lo Yemen. Non mi spiego perché il Pensabene consideri offensivo andare a Rimini. Se c’è qualche riminese che legge, risponda lui. Molte tensioni caratterizzano lo Yemen di questi mesi. Tutti i Governi, tramite le Ambasciate, forniscono ai connazionali informazioni e suggerimenti. Alcuni hanno proceduto a evacuare tutte le famiglie con bambini, ad allontanare il personale non necessario, a chiudere scuole. Noi non abbiamo adottato alcuna misura ufficiale, per non aumentare la tensione e perché la comunità italiana qui non è molto numerosa. Comunque il Pensabene è l’unico a essersi offeso del fatto che intendevamo proteggerlo. Altri si sono addirittura lamentati che li avvisavamo poco (in realtà era un signore che non era venuto ai briefing), oppure hanno essi stessi segnalato casi di intimidazione ricevuti.

    Ancora per gettare ridicolo sull’Ambasciata, l’autore dell’articolo si chiede ironicamente come mai abbiamo organizzato la Festa Nazionale in un grande albergo quando in generale questi erano sconsigliati. Il Pensabene non si è naturalmente reso conto dell’immenso dispositivo di sicurezza che c’era, per l’occasione, attorno allo Sheraton, e che non ci sarebbe stato nei giorni ordinari. Osserva che non è stato perquisito. Ma è logico!!! Era conosciuto, perché dovevano perquisirlo? Poi si chiede, il Pensabene, a che vale celebrare la Festa Nazionale a spese dello Stato (una precisazione: la Festa Nazionale viene organizzata a spese personali dell’Ambasciatore), quando l’Italia va male. Ora, non voglio essere retorico, ma l’evento che si celebra il 2 giugno è la ricorrenza del plebiscito che scelse la forma Repubblicana. Si celebra, quindi, l’Italia riportata alla libertà da una lunga lotta di resistenza contro i nazi-fascisti, l’Italia che elaborò una delle migliori costituzioni del mondo, l’Italia finalmente assurta alla democrazia, l’Italia che seppe operare la ricostruzione economica e morale. Forse il giovane studente considererebbe tutto questo delle sciocchezze. Ma l’Italia che celebriamo con la Festa Nazionale è quella, è l’Italia che molti italiani, e certamente noi che operiamo nelle Istituzioni, vorremmo veder risorgere anche ai nostri giorni! Non vale la pena di celebrare la festa? Faccia come crede e celebri ciò che vuole. Pensabene sostiene che alla festa fossero invitati solo riccastri, affaristi, eccetera. Ma quando mai! Intanto c’era anche lui e tutti gli italiani residenti o di passaggio, per studi o altro. C’erano yemeniti e stranieri in qualche modo collegati all’Ambasciata o da essa conosciuti, di tutti gli strati sociali. Vi erano invitati, fra gli altri, artisti, scrittori e poeti, gente che opera nella cultura o nel sociale, persone che abitano nella città vecchia e che fanno mestieri normalissimi, come il medico tradizionale, l’intagliatore, o il sarto, due modestissime e povere famiglie di Sana’a e del vicino villaggio di Bait Baus, gente semplicissima della cui amicizia mi onoro e mi vanto…

    Il Pensabene poi contesta il fatto che l’Ambasciata sia stata obiettivo di un attentato, sostenendo (la sa lunga lui…) che le bombe erano dirette invece alle dogane. Così gli hanno detto gli amici yemeniti. Sfido io!!! Per amor proprio gli yemeniti – ed è comprensibile – cercano di negare che vi sia nel Paese qualcuno che attacchi gli stranieri. Nelle prime ore avevano detto addirittura che, nessun problema, si trattava di un’esercitazione! Le bombe in realtà sono finite sulle Dogane solo per sbaglio. Era un mese che venivano attaccate ambasciate occidentali, luoghi di raccolta e residenza di occidentali, aziende multinazionali occidentali: qualcuno mi può spiegare che c’entrava attaccare le Dogane?!?! Del resto l’attacco, per fortuna non riuscito (ma forse Pensabene direbbe sfortunatamente, visto che come si evince dal suo articolo avrebbe in qualche modo gradito la morte per terrorismo di qualche componente dell’Ambasciata), fu espressamente rivendicato da Al Qaeda e i competenti servizi di otto Paesi hanno valutato che l’obiettivo eravamo proprio noi. Se mi soffermo su questo è perché tutti gli italiani non addetti ai lavori con i quali ho parlato si sono detti sicuri che i terroristi non cercassero noi. Forse alcuni italiani coltivano ancora il mito dell’italiano amato dovunque. Dimenticano che siamo attivi in azioni internazionali, che collaboriamo alla lotta contro il terrorismo, che cerchiamo di svolgere un ruolo nel mondo, e che almeno quelli della jihad possono avercela anche con l’Italia. Ah, forse non hanno letto degli attacchi ai nostri soldati in Afghanistan…

    Poi il Pensabene si fa beffe dell’eventualità che l’aeroporto internazionale di Sana’a fosse reso inagibile dai colpi della guerriglia, che era oramai alla periferia della capitale. Dice, va bene, avremmo aspettato finché lo riparassero, e poi ci sono altri aeroporti. Stupisce tanta ingenuità in un ragazzo comunque laureato o laureando, non ricordo bene. Se l’aeroporto fosse stato colpito, anche per sbaglio, il colpo alla stabilità del Governo sarebbe stato enorme, e le tante tensioni presenti nel Paese, anche non direttamente connesse alla guerra di Sa’da, avrebbero potuto esplodere, impedendo l’accesso alle strade e agli altri aeroporti. Avrei voluto vederlo, in una situazione del genere, il nostro Pensabene, che sostiene di essersi spaventato anche solo per pochi pacati avvertimenti!

    Come gli altri studenti e gli altri italiani, Giuseppe Pensabene è stato accolto e seguito con la massima cordialità da parte dell’Ambasciata, è stato ascoltato quando ha voluto esprimersi ed è stato invitato alla Festa Nazionale con la migliore disposizione di spirito. Non sapevamo, all’epoca, che disprezza tanto questa celebrazione. Mi chiedo perché ci sia venuto, visto questo suo sentimento. In ogni caso, lo avremmo invitato lo stesso, e siamo contenti che abbia comunque partecipato. Sorprende molto, pertanto, tutta l’evidente acrimonia con cui si esprime nei riguardi dell’Ambasciata stessa e dei suoi componenti. Se poi – in preda, come afferma egli stesso, ai fumi dell’alcool – non è riuscito a inserirsi in una conversazione, non dipende affatto dal non averlo gli astanti calcolato o considerato, come afferma. In una conversazione uno si inserisce, se ha cose da dire. Se se ne sta lì e non parla, pazienza, vorrà dire che preferisce ascoltare!

    Mi sono risoluto a scrivere questa replica non soltanto per legittima difesa contro volgari insulti, critiche infondate e arzigogolate considerazioni… nonché in difesa dei riminesi… Ma soprattutto perché esso lasciava pensare cose non vere sul senso e l’attività delle Ambasciate e dei diplomatici, segnatamente quelli italiani. Tanto per cominciare, non siamo “quasi tutti di destra”, come insinua il nostro: le opzioni politiche sono distribuite come altrove, e comunque quando operiamo, operiamo per il Paese e per i cittadini italiani: imprese, università, studenti, ricercatori, operatori sociali e culturali, gente comune. Ben lungi dalle scene da operetta descritte dallo studente e diffuse, proprio in questi giorni, da un insulso sceneggiato televisivo, lavoriamo al servizio del Paese e contribuiamo alla sua economia, al suo progresso, alla difesa dei suoi interessi. Ogni commessa vinta contribuisce a evitare qualche licenziamento, ogni avanzamento delle relazioni commerciali contribuisce ad allontanare la recessione. Lavoriamo inoltre per lo sviluppo dei diritti umani nel mondo e per lo sviluppo civile, economico e sociale dei Paesi che ancora abbiano bisogno di aiuti: ogni progetto di cooperazione ben condotto, in quei Paesi, migliora la vita delle persone.

    Foto di Valentina Perniciaro _U.N. nel Golan_
    Su questi temi accetto qualunque dialogo o discussione. Anzi, invito tutti coloro che abbiano letto i due articoli, ogni redattore di “Carmilla” che intendesse farlo, a scrivere per dir la loro, se lo desiderano, sperando che la rivista voglia continuare a ospitarci. Chi voglia, compreso lo studente in questione, può anche scrivermi personalmente: mario.boffo@esteri.it, perché è ora che quella parte dell’opinione pubblica che ancora la ignora, apprenda la differenza fra Istituzione e Governo, fra Pubblica Amministrazione e malapolitica, e apprenda qualcosa di più sul nostro lavoro, così mal conosciuto e vittima di tanti infondati stereotipi.

    Un piccolo commento finale sulla rivista. “Carmilla” ospita di consueto articoli interessantissimi contenenti su questa o quella questione analisi sociali o politiche, condivisibili o meno, ma ottimamente argomentate. In quest’occasione ha pubblicato uno sfogo del tutto soggettivo e chiaramente steso senza la serenità che sarebbe auspicabile presso chi scriva pubblicamente, contenente insulti ripetuti e basse insinuazioni nei riguardi di enti e persone chiaramente identificabili, senza la possibilità di contraddittorio perché il sito non prevede un link che si possa cliccare per rispondere. Ho potuto infatti inviare questa mia replica solo grazie alla collaborazione di una persona amica. Sbaglierò, ma ritengo che la redazione – che bene fa ad aprire le pagine della rivista a ogni opinione, anche dura, anche polemica, anche aggressiva – dovrebbe tuttavia rifiutarsi di pubblicare scritti in cui la metà delle parole sono insulti gratuiti a persone specifiche, invitando magari gli autori a sopprimere almeno le parolacce! “Carmilla” è una rivista seria e per quanto mi riguarda apprezzatissima, che in molte cose si distingue meritoriamente da tanta malastampa che alligna in Italia. Perché non distinguersi anche evitando di pubblicare articoli basati sul turpiloquio e su manifestazioni ingiuriose puramente soggettive e non argomentate? Sarebbe un eccellente contributo a una stampa civile e corretta. Inoltre, in caso di attacchi così diretti e diffamatori, la rivista dovrebbe secondo me adoperarsi per avvisare le persone attaccate, per favorire il contraddittorio. Io ho scoperto l’articolo incriminato solo per il dato casuale di essere un affezionato lettore di “Carmilla”. Altrimenti quelle infamie sarebbero circolate su Internet per l’eternità, diffondendo immagini e commenti calunniosi e infondati. Se la rivista si comportasse, in questi casi estremi, nel senso che ho umilmente indicato, darebbe un significativo contributo a un giornalismo… equo e sostenibile! A questo principio spero che sia improntato il più ampio reportage sullo Yemen che viene annunciato e al quale sono più che disposto, se di interesse della redazione, a collaborare.

    Mario Boffo
    Ambasciatore d’Italia nella
    Repubblica dello Yemen

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  2. 1 ottobre 2008 alle 18:07

    RISPOSTA DI GIUSEPPE ALL’AMBASCIATORE:

    Quando ho mandato il mio testo a Carmilla già sapevo che probabilmente sarebbe stato letto anche dall’ambasciatore, avendo notato in precedenza la recensione al suo libro sullo stesso sito. Il fatto non mi spaventava e assolutamente non credevo di innescare una tale reazione. Ammetto anche che ho un certo desiderio di leggere “Femmina Strega” essendo appassionato di letteratura storica e fidandomi ciecamente del giudizio di V.E.
    Leggendo che il Boffo si chiede perché non gli abbia detto in faccia le cose che pensavo mi fa credere che non siano stati capiti l’intento e la forma del mio testo e questo certamente per colpa mia.
    Pensavo si cogliesse che “il nemico che avanza” è essenzialmente un diario personale, scritto durante il mio soggiorno per motivi di studio a Sana’a, in cui sono presenti degli spunti interessanti di riflessione sulla società e sulla situazione politica dello Yemen, ma che il protagonista principale del testo sono io, le mie reazioni emozionali alle vicende che accadevano in quel meraviglioso paese e la mia visione soggettiva . Infatti il tono per la maggior parte delle volte è sarcastico o ironico e i commenti ingiuriosi sono messi fra parentesi e in corsivo. Non è un articolo giornalistico sull’operato dell’ambasciata italiana in Yemen bensì il racconto di come un giovane ragazzo di ventiquattro anni ha vissuto tutta una serie di vicende e sulle quali, esprime il suo parere, spesso esagerando volutamente i toni, spingendosi fino al paradosso, esclusivamente per ingenue, criticabili e a quanto pare mal riuscite, intenzioni/velleità letterarie. Ed infatti è stato pubblicato su una rivista che reca come intestazione “Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione” e non su un sito di reportage giornalistici.
    Riguardo alla frase “ il nemico che avanza” adoperata dal Boffo, che mi accusa di non capire le metafore, mi basta citare quel che ho scritto: “Sicuramente involontario e dovuto più alle velleità artistiche del nostro ambasciatore, che a un effettivo parere personale, il paragone che aveva adoperato era emblematico: rappresentava perfettamente il sentire comune di buona parte dell’occidente nei confronti dei popoli musulmani: il nemico che avanza. Era chiaro che il nemico inteso erano al Qaeda e i terroristi ma stante che, in Italia e nel resto del mondo “civilizzato”, l’identificazione religione islamica – terrorismo era consolidata presso buona parte della gente e diffusa e patrocinata dalla stessa classe dirigente (i vassalli del castello che mettono in guardia i contadini?), la metafora usata dall’ambasciatore mi agghiacciò. Coloro i quali avevano fatto esplodere le stazioni di Londra e Madrid sono, per me, nemici quanto i governi che con fantasiose giustificazioni diffondono morte e devastazione attraverso avide guerre sanguinarie.”
    Ciò che mi aveva colpito erano semplicemente i termini utilizzati da cui ho tratto spunto per spiegare il mio parere su un errato e pericolosissimo giudizio che circola nel nostro paese al riguardo della religione musulmana e dei suoi praticanti. Non ho detto “il Boffo la pensa così”, ho invece sottolineato il fatto che, in quella situazione, l’ambasciatore rappresentava lo stato italiano, stato italiano governato da individui (Berlusconi, Borghezio, Calderoli…) che volentieri associano la parola Islam alla parola Nemico.
    Mi scuso e mi dispiace aver offeso l’ambasciatore con cui peraltro condivido un ottimo amico che sempre me ne ha parlato bene. Sia chiaro che non ho nulla di personale contro di lui ne contro lo staff dell’ambasciata che effettivamente mi ha accolto e trattato con amicizia durante tutti e quattro i mesi passati nello Yemen.
    Nel mio testo speravo, ingenuamente, di raccontare le varie tendenze, spesso in contrasto, presenti nei miei pensieri: dalle reazioni più istintive violente, anche volgari, per le quali infatti è stato usato il dialetto romanesco, fino ai rimorsi, deliranti e appositamente esagerati, mistico-religiosi.
    Non mi aspettavo tanto pubblico ardore nel difendere l’operato dell’ambasciata italiana dai giudizi dati da uno che si autodefinisce studente matto e sballone.
    Probabilmente mi sarei dovuto attenere ai cosiddetti generi letterari scindendo fra diario personale e resoconto di viaggio, ma l’intento originario, evidentemente non realizzato, era di amalgamare questi due generi in un testo che fosse divertente ma che facesse anche riflettere. “Non scampa da chi veste da parata chi veste una risata” diceva Guccini.
    Se Carmilla ha ritenuto di pubblicare il mio articolo forse qualcosa di interessante è riuscito a emergere dal “turpiloquio” e spero che i lettori lo abbiano apprezzato.
    Giuseppe Pensabene Perez

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  3. chiara
    2 ottobre 2008 alle 18:12

    io ho apprezzato e letto con interesse anche i successivi interventi.
    ciao ragazzi!!!
    barudina ti bascio.

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