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Keyword: ‘Rote Armee Fraktion’

Rote Armee Fraktion: la Germania sa voltare pagina

27 novembre 2008 2 commenti

La lezione tedesca: liberazione condizionale senza richiesta di pentimento per gli ultimi detenuti della Raf

di Paolo Persichetti, Liberazione 26 novembre 2008

La Germania chiude o forse, sarebbe meglio dire, schiude i suoi anni di piombo. Il via libera alla scarcerazione di Christian Klar, concessa due giorni fa dalla corte di appello di Stoccarda, porta lo Stato federale tedesco verso il definitivo azzeramento degli strascichi penali ancora aperti della stagione della lotta armata. A differenza di quelle passate, queste ultime scarcerazioni riguardano i prigionieri che hanno rifiutato di pentirsiDEU TERROR RAF KLAR MOHNHAUPT o dissociarsi. Ex militante della Rote armee fraktion (Raf), Klar uscirà dal carcere il 3 gennaio 2009 al maturare del ventiseiesimo anno di detenzione (forse anche prima, se le riduzioni di pena legate alla buona condotta lo consentiranno), 7 dei quali passati in totale isolamento. Klar aveva ottenuto la possibilità di uscire in permesso già dalla primavera scorsa. In realtà la parola fine potrà dirsi soltanto dopo la liberazione di Birgit Hogefeld, arrestata nel 1993, ed unica a restare ancora detenuta dopo la liberazione condizionale concessa a Klar. Esponente dell’ultima fase della storia politico-militare della Raf (la cosiddetta “terza generazione”, definizione che però viene rigettata dai membri del gruppo autodiscioltosi nel 1998, i quali hanno sempre messo l’accento sull’unità del percorso della loro organizzazione), la Hogefeld è liberabile a partire dal 2011.

Per anticipare la sua uscita Klar aveva fatto richiesta di grazia, ma nel maggio 2007, dopo le polemiche suscitate dalla concessione della liberazione condizionale a, altro membro della Raf con 24 anni di carcere sulle spalle, il presidente della Repubblica, Horst Köeler, rispose negativamente. Un polverone mediatico fu sollevato dalla stampa di destra a causa di un suo messaggio di solidarietà inviato ad una meinhoffahndungconferenza su Luxenburg-Liebknecht, tenutasi a Berlino nel gennaio dello stesso anno, nel quale Klar auspicava una società futura senza capitalismo. Campagna mediatica che chiedeva una esplicita dichiarazione di pentimento come condizione necessaria alla scarcerazione. Tuttavia ciò non ha impedito che nell’agosto successivo fosse concessa la liberazione condizionale anche a Eva Haule, dopo 21 anni di carcere. Incassato il rifiuto della grazia, Klar ha continuato a difendere il proprio diritto di tacere (da intendersi come il rifiuto di sottomettersi a dichiarazioni pubbliche di pentimento) e non fare mercanteggiamenti per uscire. Il 15 agosto 2008 è sopraggiunta una importante decisione della Corte federale che ha chiarito come il diritto al silenzio sia compatibile con terrorlistel’ammissione ai benefici di legge. Questa sentenza ha così definitivamente sbloccato la situazione.
Il sistema penale tedesco, infatti, non prevede che la pena dell’ergastolo venga scontata a vita. Se i giudici ritengono che il comportamento del recluso sia tale da escludere il permanere di una sua pericolosità sociale, l’accesso alla libertà vigilata per una durata di 5 anni, passati i quali la pena è estinta, è ammessa una volta scontati 15 anni di pena, salvo nei casi in cui in sede di condanna venga stabilito un tetto più alto, in ragione della particolare «gravità della colpa». Tetto di reclusione incomprimibile che nel caso di Klar era stato fissato a 26 anni, ovvero allo scadere del 3 gennaio 2009.
A differenza dell’ordinamento italiano, il sistema tedesco non prevede il requisito del ravvedimento,

<Klar>

 la concessione della liberazione condizionale è dunque valutata sulla base del comportamento oggettivo, esternato nel corso degli anni di detenzione dal soggetto, e non sulla scorta di una presunta analisi del suo foro interiore. Prassi che in Italia si è consolidata in una giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza (in più casi censurata dalla Cassazione) che da luogo ad ipocrite procedure di richiesta di scuse e domande di perdono nei confronti dei familiari delle vittime per via epistolare, il più delle volte da queste giustamente rinviate al mittente. L’esperienza dimostra però che all’autorità giudiziaria non interessa l’esito finale di questo tentativo di mediazione, quanto l’atto in sè, inteso come una vera e propria forca caudina, un gesto che di riparatore ha ben poco. In realtà è solo una forma di assoggettamento al sovrano, essenza moderna dei vecchi autodafé, cerimonia di degradazione pubblica, umiliazione dell’intelligenza, etica a buon mercato, grado infimo della coscienza.
Anni di piombo era il titolo che la regista Margarethe Von Trotta scelse per il suo film realizzato nel 1981. Ispirato alla storia di Gudrun Ensslin, militante della Raf uccisa nel carcere di Stammhein nel 1977, quel titolo voleva indicare la cappa plumbea gettata sulle speranze, il germogliare di idee, libertà, conquiste sociali che la rivolta degli anni 70 aveva suscitato. Col tempo l’espressione ha assunto il significato opposto, trasformandosi nel sinonimo della rivolta stessa ridotta al piombo cupo delle armi. Oggi ciò che resta di quella cappa soffocante, le mura e il ferro delle prigioni, almeno in Germania cominciano a fondersi.

In Italia il piombo tiene ancora.

A Gianfranco Faina, sangue nostro

11 febbraio 2015 Lascia un commento

-Gianfranco Faina nasce a Genova il 6 Agosto 1935
-milita nel PCI dal 1953 al 1961
-dal 1961 lavora come assistente volontario nell’Istituto di Storia moderna all’università di Genova dove nel 1967 diventa assistente ordinario
-dal 1970 lavora come professore incaricato di “Storia dei Partiti Politici”
-ha due figli
-milita in Azione Rivoluzionaria dal 1977
– viene arrestato a Bologna il 10 giugno 1979
-in carcere i medici gli riscontrano un “carcinoma polmonare con metastasi osse diffusa” e viene ricoverato a Milano
-l’8 dicembre 1980 gli viene concessa la libertà provvisoria
-muore nella sua casa l’11 febbraio 1981

“Il compagno Gianfranco Faina è morto.
Lo hanno accompagnato fino in fondo la violenza e la disumanità dei suoi nemici, dei nostri nemici: le forze dello Stato e di coloro che aspirano a farsi Stato.
Ma noi compagni che abbiamo condiviso con lui lotte politiche e passioni rivoluzionarie riconosciamo la sua vita, la sua storia come patrimonio delle vittorie e degli errori della lotta rivoluzionaria per la libertà”

 

11 febbraio 1981: 10994067_10204646157567456_8691359575217599224_n-1
muore per una grave forma tumorale nella abitazione di Pontremoli dove si trovava in libertà provvisoria da 2 mesi, il Prof. Gianfranco Faina, la cui liberazione era stata richiesta nel corso della rivolta del carcere di Trani di due mesi prima. Professore di lettere alla università di Genova, era stato lui a presentare al collega Prof. Enrico Fenzi il dirigente della colonna genovese delle BR Micaletto ed era stato tra i fondatori di Azione Rivoluzionaria, definita da Mario Moretti «organizzazione vicina a posizioni anarchiche e contraria a tutte le ideologie», e per la quale verranno inquisite 86 persone. La storia di AR inizia nel 1977 quando alcuni militanti dell’area anarco-libertaria, prendendo atto dei “caratteri di forza” espressi in particolare dal Movimento del ’77 e facendo riferimento alle elaborazioni culturali del situazionismo e della Rote Armee Fraktion (RAF), danno vita all’organizzazione armata Azione Rivoluzionaria. Le tesi politiche generali di questo raggruppamento sono esposte in “Primo documento teorico”, gennaio 1978.
L’impostazione organizzativa fondante di Azione Rivoluzionaria è quella dei “gruppi di affinità”: “dove i legami tradizionali sono rimpiazzati da rapporti profondamente simpatetici, contraddistinti da un massimo di intimità, conoscenza, fiducia reciproca fra i loro membri”. In tale impostazione s’inquadra anche la costituzione di “gruppi d’affinità femministi”, con una propria produzione teorica ed una propria autonomia operativa. Uno dei primi interventi di Azione Rivoluzionaria è il ferimento del medico del carcere di Pisa, Alberto Mammoli (Pisa 30-3-77), ritenuto colpevole della morte a Pisa dell’anarchico Franco Serantini (Pisa 5-5-72) a seguito delle percosse subite in Questura al momento dell’arresto e non curate dai dirigenti sanitari del carcere.
Tra marzo e settembre del 1977 Azione Rivoluzionaria sviluppa la sua presenza in Lombardia, Piemonte, Toscana e Liguria. Con un ordigno esplosivo contro la sede torinese del quotidiano La Stampa (17-9-77) ed il ferimento intenzionale di Nino Ferrero, giornalista del quotidiano L’Unità (18 9-77), Azione Rivoluzionaria dà avvio ad una campagna nazionale contro “le tecniche di manipolazione finalizzate al consenso” messe in atto dai grandi media. In particolare il quotidiano La Stampa viene colpito per la gestione che ha fatto delle notizie relative alla morte, avvenuta a Torino il 4 agosto 1977, di Aldo Marin Pinones ed Attilio Di Napoli, due militanti dell’organizzazione. Questa campagna prosegue nel 1978 con l’attentato agli uffici amministrativi del Corriere della Sera (Milano 24-2-78) e alla redazione di Aosta della Gazzetta dei Popolo (Aosta 29-7-78). Il 19 ottobre 1977, a Livorno, un gruppo di Azione Rivoluzionaria tenta di sequestrare l’armatore Tito Neri. Il sequestro fallisce e i militanti vengono arrestati. Nell’aprile del 1978 AR fa la sua comparsa anche a Roma, collocando tre ordigni esplosivi contro la sede del Banco di Roma, il concessionario della Ferrari e un autosalone di via Togliatti.Nel giugno del 1978 Azione Rivoluzionaria firma, ad Aosta, un attentato contro la sede della Democrazia Cristiana. Nella rivendicazione essa chiede che venga “revocato il permesso concesso al Movimento Sociale Italiano di continuare a parlare nella piazza di Aosta” (18 e 19-6-78). Le tesi generali di AR vengono ampiamente esposte nel documento “Appunti per una discussione interna ed esterna”, redatto nell’estate del 1978. Al processo che si tiene a Livorno fra il giugno del 1979 ed il luglio del 1981 alcuni militanti di Azione Rivoluzionaria presentano un documento in cui viene ufficialmente annunciato l’autodissolvimento della loro organizzazione. Il 4 ottobre 1979, nel corso di un processo a Torino era stato ricordano in un documento il militante di AR Salvatore Cinieri, ucciso nel carcere di Torino il 27 del mese precedente da quel detenuto Fugueras che nell’ 81 presso il carcere di Cuneo aggredirà a coltellate Moretti e Fenzi.
( di Davide Steccanella)

NO all’incarcerazione di Christa Eckes

15 dicembre 2011 5 commenti

Il 1° dicembre 2011 la Corte d’appello di Stoccarda (Oberlandsgericht Stuttgart) ha deciso che l’ex militante della Rote Armee Fraktion (RAF) Christa Eckes deve essere imprigionata per 6 mesi poiché si rifiuta di testimoniare.
La ‘Beugehaft’ è la carcerazione coercitiva prevista dal codice tedesco per costringere un testimone a rivelare quanto di sua conoscenza. Christa è gravemente malata, in cura per leucemia, e questo ordine di carcerazione potrebbe essere la sua condanna a morte.

Scrive il blog dedicato keinebeugehaft :

La nostra amica e compagna Christa Eckes deve andare in prigione perché la corte d’appello ha accolto la richiesta della Procura federale.
Nell’agosto scorso è stata diagnosticata a Christa una leucemia linfatica acuta, e dall’inizio di settembre viene trattata con chemioterapia e radiazioni nella clinica dove è ricoverata e dove lotta per la propria vita.
Una incarcerazione interromperrebbe il trattamento, mettendo in serio pericolo la sua vita. La misura coercitiva che è stata ordinata la mette quindi in rischio coscientemente e cinicamente.
Dal 30 settembre 2010 è in corso a Stoccarda un processo di quelli con grande messinscena mediatica, contro Verena Becker, ex militante della RAF.
Oggetto della procedura è l’esecuzione nel 1977 del Procuratore generale federale Buback. Benché Christa fosse all’epoca dell’attentato già in carcere da anni, è stata, come altri ex militanti della RAF, convocata alla Corte federale di Karlsruhe come testimone in preparazione di questo processo.
Si è rifiutata di rilasciare dichiarazioni, e già su richiesta della Procura federale le appiopparono 6 mesi di ‘Beugehaft’, misura che venne però poi ritirata.
Nel settembre 2011 è stata di nuovo convocata come testimone dalla corte d’appello di Stoccarda. Il certificato medico che precisava natura e gravità della malattia non ha trattenuto la Corte dall’ordinare un’interrogatorio forzato nei locali dell’ospedale. Christa era sottoposta proprio in quel momento ad una infusione di chemioterapia, ma malgrado l’esplicita ingiunzione del primario che l’interrogatorio non durasse in nessun caso più di 30 minuti, la procedura continuò per quasi un’ora.
Christa ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni, e la Corte d’appello ha ordinato, il primo dicembre, sei mesi di carcerazione. Prima dovrebbe comunque essere accertata la sua ‘incarcerabilità’.
La decisione del tribunale è stata trasmessa per fax alla sala dell’ospedale, dove poteva essere letta da ogni passante. Il 9 dicembre le è stato notificato l’inizio della carcerazione coercitiva. Si deve presentare entro il 23 dicembre 2011 al centro medico di esecuzione pena di Hohenasperg presso Stoccarda. La sua incarcerabilità non è stata accertata.
Risulta assolutamente chiaro che in carcere Christa non potrà proseguire la terapia che le permette di sopravvivere -neanche in uno dei centri medici penitenziari, che più che curale, mettono le persone sotto pressione. E poi è molto importante per Christa, in questa situazione estrema, la vicinanza e lo scambio con le amiche, gli amici e la sua famigglia -l’essere circondata da persone che le fanno bene.
Il successo del suo trattamento è già comunque sul filo del rasoio, ed ora viene pure ad aggiungersi la minaccia della giustizia.
(…)
Col processo contro Verena Becker la furia persecutiva della giustizia non arriva alla fine. Altre procedure contro ex militanti della RAF, già condannati, sono state avviate.
Ora bisogna attivarsi, Christa ha bisogno di voi tutti!
Siate rumorosi ed inventivi, protestate!
Esprimete la vostra indignazione!
Chiediamo la revoca immediata della carcerazione coercitiva!
Giù le mani da Christa!

Conto di solidarietà
I costi finanziari per Christa possono crescere in modo enorme, poiché le spese giudiziarie, compreso il carcere, le verranno fatturate direttamente.

Förderverein für antifaschistische Kultur (Associazione di sostegno alla cultura antifascista)
Konto Nr.222 664 15
Banca: Sparkasse Karlsruhe, BLZ 660 501 01
IBAN: DE92660501010022266415
causale di versamento: Beugehaft

Aggiungiamo gli indirizzi per protestare direttamente presso la Corte d’appello di Stoccarda (OLG è per Oberlandsgericht):
OLG 6. Strafsenat
Richter Wieland
Olgastr. 2
70182 Stuttgart

per fax: +49 721 81083848
per e-mail: poststelle@olgstuttgart.justiz.bwi.de

Questi ultimi indirizzi sono tratti da un messaggio di informazione dell’11.12.2011 in cui si legge:

Christa è in ospedale, gravemente malata. Da agosto è sottoposta a chemioterapia, con una probabilità di sopravvivere del 50%.
In una condizione che normalmente fa rilasciare i detenuti perché non carcerabili, dovrebbe ora andare in prigione!
Non si tratta tanto di ottenere che rilasci una qualche dichiarazione, quanto piuttosto di spezzare qualcuno che difende la propria storia e non collabora con i funzionari di Stato.
Di tutti gli ex militanti della RAF convocati a questo processo, nessuno ha parlato. E nessuno ha per questo ricevuto una ‘Beugehaft’.
Il tribunale vuole finire prossimamente il processo e per la conclusione fa pressione su Christa, che sta tra la vita e la morte, per farla collaborare.
Questa è l’esatta definizione di tortura.

Parla o t’ingabbio
Tortura, vi pare una espressione troppo forte?
E che ne dite della definizione della Beugehaft, l’incarcerazione del testimone renitente, data da un procuratore tedesco del 1989: si tratta di una… “misura educativa” (Erziehungsmassnahme)!
Legalmente è una misura coercitiva che non pretende di educare al nazismo, è il cosiddetto ‘arresto coercitivo’ (Erzwingungshaft‭“‬) previsto dall’art. 70 del codice di procedura penale tedesco per chi rifiuta di testimoniare, senza disporre di un diritto a non testimoniare. Può durare al massimo sei mesi ed essere applicata una sola volta nella stessa procedura.
L’arresto coercitivo viene usato soprattutto nei procedimenti per partecipazione ad associazione sovversiva o terroristica, come strumento per fomentare la desolidarizzazione dei militanti dei gruppi di sinistra. Lo riconobbe esplicitamente la Procura federale nel 1987 argomentando che occorreva ‘rompere l’azione collettiva per mezzo della Beugehaft’.
Resta che coercitivo significa ‘che impone sulla volontà altrui, con l’uso della forza o del ricatto’.
Le dichiarazioni così ottenute, che valore potranno mai avere? Il fine dichiarato è proprio mettere la persona nella condizione di dichiarare qualsiasi cosa pur di uscirne.
E quale impalpabile differenza può distinguere quelle dichiarazioni coercitive da quelle ottenute mediante ‘tortura’? L’unico aspetto mancante è la minaccia di morte, che, vera o presunta, sempre distingue la tortura.
E qui siamo al caso di Christa Eckes, seriamente minacciata di morte dall’ordine di arresto coercitivo. No, non è ‘troppo forte’ parlare di tortura in questo caso.

Nella memoria degli episodi di uso politico del metodo dell’arresto per ottenere dichiarazioni, era rimasto forse solo quello, ma dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, di Bernardine Dohrn.
La dirigente dei Weather Underground uscì dalla clandestinità all’inizio degli anni ’80, e le accuse principali contro di lei vennero ritirate perché l’FBI aveva passato ogni limite nel tentare di catturarla, così da invalidare gli atti. Venne però poi arrestata per rifiutarsi di collaborare nel caso di una violenta rapina ad un furgone blindato attuata dal Black Liberation Army (BLA) con l’appoggio di alcuni militanti che venivano dai Weathermen. Per Comptent of Court venne imprigionata per sette mesi, dopodiché dovettero ammettere che non v’era alcuna possibilità che cambiasse idea e collaborasse, neanche tenendola per il massimo di 18 mesi, e, coprendola di insulti, la rilasciarono. La pena sarebbe passata da coercitiva a punitiva, dissero (qui la sentenza).

Appare insomma che l’uso politico di questa misura, in sé piuttosto barbara, abbia soprattutto il senso di vendetta impotente, del ‘ti faccio comunque pagare qualcosa, sporco sovversivo’.
Nel contesto tedesco attuale, è difficile dare un senso diverso a quanto accade. Attorno al processo contro Verena Becker, pieno di ambiguità e segreti mantenuti, come quello della sua collaborazione con l’organismo di difesa della Costituzione (servizio segreto antiterrorista), ci sono stati numerose richieste di arresto coercitivo.
Il processo nasce dall’insistenza del figlio del procuratore Siegfried Buback nel voler identificare con precisione i ruoli dei militanti che parteciparono all’azione del ‘Kommando Ulrike Meinhof’ della RAF. In effetti i fatti furono già giudicati, gli autori condannati e le lunghe pene interamente eseguite, ma Buback junior vuole sapere esattamente chi sedeva davanti e dietro sulla moto usata per l’attentato.
Il processo va avanti con testimonianze improbabili (come il giornalista che riferisce che il suo amico dell’antiterrorismo, ormai deceduto, gli aveva detto dopo i fatti chi era stato) e sembra svolgere soprattutto un ruolo mediatico e politico e, anche se non raggiunge le vette di misteriologia che si conoscono in Italia, tende a riattizzare una campagna d’odio che copra la memoria storica.

I militanti della RAF hanno assunto collettivamente, fino allo scioglimento dell’organizzazione, le responsabilità delle azioni, senza mai fare dichiarazioni testimoniali davanti ai magistrati, e questo l’hanno pagato molto duramente, con pene lunghissime, isolamento totale nei bracci della morte, massacranti scioperi della fame, e molti di loro (almeno 9 della RAF) non sono usciti vivi di galera.
Che poi i processi abbiano attribuito colpe singole a persone che non avevano compiuto il singolo atto, è noto a tutti ed è anche giusto ricordarlo -sono contraddizioni del sistema. Altra cosa è invece dire, hanno condannato tizio per quella cosa, che invece l’ha fatta caio.
Gli ex della RAF non sono caduti in questa trappola, avevano rifiutato di testimoniare ai tempi, ed in prigione, e continuano a farlo ora, da liberi.
Sicché sono intervenute dal marzo 2011 almeno 11 richieste di Beugehaft contro di loro; si tratta di Günter Sonnenberg, Stefan Wisniewski, Rolf Heißler, Adelheid Schulz, Waltraut Liewald, Knut Folkerts, Brigitte Mohnhaupt, Sieglinde Hofmann, Rolf Clemens Wagner, Irmgard Möller, Siegfried Haag, vedi il sito dedicato dal Soccorso rosso: beugehaft.
I difensori hanno però fatto valere che avevano un diritto legittimo a non deporre, col rischio di testimoniare contro se stessi.


Perché allora questo diritto non vale per Christa Eckes?
Qui siamo ad un paradosso. Come s’è detto sopra, Christa a momento dell’attentato Buback (aprile 1977) era in carcere. Era stata arrestata nel 1974 (la foto sopra illustra bene il modo in cui i ‘mostri’ rivoluzionari arrestati venivano presentati alla stampa, tirandoli per i capelli se recalcitravano) e fu condannata a 7 anni per l’attacco ad una banca, nel settembre 1977, in pieno sequestro Schleyer. Scarcerata nel 1981, venne di nuovo arrestata nel 1984.
Che diavolo potrebbe dunque sapere e testimoniare su un’azione clandestina esterna? Non si sa e non importa, ciò che conta è che siccome non era libera e non può aver partecipato all’azione, non rischia di autoincriminarsi e quindi deve testimoniare!

La magistratura germanica delle condizioni di salute dei ‘terroristi comunisti’ incarcerati se n’è sempre fottuta allegramente. Recentemente s’è vista l’estradizione di Christian Gauger, affetto da amnesia totale a seguito di grave crisi cardiaca (vedi qui e qui), mentre ai tempi Günter Sonnenberg venne processato, condannato all’ergastolo e messo in isolamento pur essendo incapace di parlare, intendere e ricordare perché colpito da un proiettile in testa, e malgrado le dure proteste dei medici.
Christian però è stato recentemente scarcerato, e nel caso ancor più grave di Christa Eckes si deve far di tutto per riportare a un minimo di ragionevolezza i magistrati, che possono ancora accogliere il ricorso del suo avvocato e attestare la sua incompatibilità col carcere.
Perciò vale la pena scrivere e protestare agli indirizzi dati sopra, non importa in che lingua, si tratta di far sentire che c’è presenza ed attenzione.

E per andare indietro con la memoria: il procuratore federale Siegfried Buback era stato membro del partito nazista.
L’ex militante Stefan Wisniewski s’è presentato ad un’udienza con una scritta sulla maglietta: ‘seguite la traccia – 8179469’.
Era il numero della tessera di Buback, che come tanti alti funzionari e dirigenti del regime hitleriano ha continuato la carriera nel regime democratico.
Ai tempi dell’epurazione vennero protetti, vi fu uno zelo esattamente contrario a quello applicato a Christa ed ai militanti di sinistra oggi

Sonja e Christian: altre 2 estradizioni annunciate

21 novembre 2009 4 commenti

Quando la memoria si fa vendetta
dal blog Damnatio Memoriae  prendo questo lungo articolo. Finalmente del materiale in italiano -OTTIMO- su questi due compagni rifugiati in Francia. 

Ancora due estradizioni

Fatta a pezzi la dottrina Mitterrand, la Francia non si vergogna più di tradire la parola data, di rinnegare l’ospitalità concessa.
Stavolta sono due ex-militanti tedeschi degli anni ’70 a subire la vendetta di Stato.
La loro storia ripropone le assurdità di quella di Paolo Persichetti, Cesare Battisti e Marina Petrella.
Come i militanti italiani, anche Sonja Suder (oggi 76 anni) e Christian Gauger (68) si erano rifugiati in Francia, dopo aver militato nelle Revolutionäre Zellen (RZ), organizzazione autonoma di cui s’è parlato nel post sulla strage di Bologna.
Sonja e Christian arrivano in Francia nel 1978 e vivono a Lille, una cittadina di provincia, dove campano da ‘brocante’ con pochi soldi, recuperando, riparando e rivendendo oggetti al mercato delle pulci.

 Nel 2000, vengono arrestati su mandato estradizionale della Repubblica Federale Tedesca, che rimprovera loro la partecipazione a tre azioni incruente : nell’agosto 1977 le esplosioni contro la ditta MAN di Norimberga e la ditta KSB di Frankenthal, e nel maggio 1978 l’incendio al castello di Heidelberg.
Gli attacchi furono rivendicati dalle Revolutionäre Zellen (RZ), che accusavano le due imprese di produrre compressori e pompe per il nucleare, esportandole tra l’altro verso il Sud Africa, dove vigeva l’apartheid razzista (siamo al tempo del massacro del ghetto di Soweto, con Nelson Mandela incarcerato come terrorista), ed il sindaco di Heidelberg della politica di distruzione di quartieri cittadini per farne delle zone destinate ai ricchi. [‘Gentrificazione’, dall’inglese gentry, nobile, è il neologismo che oggi si usa per indicare questi processi di modificazione classista del territorio urbano.]

Ulteriore accusa contro Sonja, era di aver contribuito al reclutamento nelle RZ di Hans-Joachim Klein e all’organizzazione logistica dell’attacco alla sede dell’OPEP a Vienna nel 1975. Tre mesi dopo quel primo arresto sono messi in libertà provvisoria su cauzione ed in seguito la corte parigina emette un ‘avviso sfavorevole’ all’estradizione. La possibilità di perseguire i due viene negata alla Germania poiché i reati sono, secondo il diritto francese, prescritti per i molti anni passati dagli avvenimenti.

Sonja e Christian, il cui rifugio in Francia sembra solidamente garantito da una sentenza definitiva, riprendono così una vita ‘normale’ da esiliati, per la prima volta alla luce del sole. Per la prima volta dopo 22 anni, possono allacciare rapporti sociali apertamente, senza nascondersi, ed entrare in contatto anche con altri esiliati, tra cui gli italiani, che offrono loro appoggio solidale.
Per Christian la ritrovata condizione di legalità è inoltre particolarmente importante, poiché gli permette di accedere alle cure mediche di cui ha urgente bisogno, per i gravi problemi cardiaci di cui soffre.Ciò che invece sta proprio in quegli anni cominciando a cambiare, è la politica di asilo del governo.

Dall’elezione del socialista François Mitterrand alla Presidenza della Repubblica, nel 1981, la Francia aveva preferito non estradare gli ex-militanti rifugiatisi sul suo territorio. Il principio seguito era quello dell’ospitalità verso chi, esiliandosi apertamente e quindi rispettando le leggi del paese che li accoglie, avesse rinunciato alla lotta armata.
Quali che fossero le sentenze nelle procedure d’estradizione verso l’Italia, e cioè anche in caso di “parere favorevole all’estradizione”, la Francia non rimpatriava i rifugiati politici di fatto. Indifferenti a tentativi e proteste delle autorità italiane, tutti i governi francesi continuarono a seguire questo principio, che aveva del resto un aspetto utilitario di un certo rilievo, almeno nei primi anni: evitare la clandestinità sul proprio territorio di centinaia di ex-militanti, ed evitare così di spingerli di nuovo all’illegalità.

Dopo i famosi attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, tutto cambia: ora il principio si chiama ‘tolleranza zero’. Il 25 agosto 2002 viene eseguita nel giro di poche ore l’estradizione di Paolo Persichetti, che da 8 anni era stato lasciato lavorare e studiare alla luce del sole. 
Seguirà Cesare Battisti, anche lui ‘legalizzato’ con un permesso di soggiorno, dopo aver subito, 13 anni prima, un processo estradizionale risoltosi con un “parere sfavorevole”, che è ri-arrestato nel 2004 e ri-processato fino ad ottenere un “parere favorevole” (per gli stessi reati del precedente “parere sfavorevole”).
Nel 2007 è di nuovo la volta di Sonja e Christian.
Vanno in farmacia a prendere delle medicine e vengono catturati: “un agguato puro, come nel caso di Paolo”, commentano.
E come nel caso di Cesare, di nuovo un processo estradizionale per le stesse accuse, fino ad ottenere un “parere favorevole”, che arriva nel febbraio 2009.
Questa volta, per cappottare la prima sentenza, i giudici dicono che i termini di prescrizione applicabili sono quelli tedeschi.
E subito, nel luglio 2009, il Primo ministro François Fillon firma il decreto d’estradizione, che viene comunicato a fine ottobre.

Accuse senza atti

Sonja e Christian, difesi dall’avvocato Irène Terrel, hanno ancora un ricorso aperto al Consiglio di Stato. Il loro pessimismo è purtroppo legittimo.
“Se ci estradano, finiamo in prigione a Hessen. Gli avvocati tenteranno ovviamente di tirarci fuori, ma chissà quando tempo occorrerà per il processo. Sarà messo in cantiere quando saremo nel paese. Anche gli atti non li si riceve prima, e così non si può neppure preparare una strategia difensiva.”
Ciò che si sa, è che il loro coinvolgimento nei procedimenti penali contro le RZ (sui gruppi Revolutionäre Zellen e Rote Zora si è detto nel post sul caso Thomas Kram), è dovuto alle dichiarazioni del 1978 di un altro militante, Hermann Feiling.
Hermann Feiling, all’epoca studente di 26 anni, venne colpito dall’esplosione di una bomba che era destinata al consolato argentino di Monaco per protesta contro la feroce repressione scatenata dalla dittatura militare. Quel 23 giugno 1978, l’esplosivo, che avrebbe al più rotto qualche mattone del muro consolare, lo ridusse in fin di vita. Il suo ‘interrogatorio’ cominciò meno di 24 ore dopo le operazioni chirurgiche d’urgenza che dovette subire. Le autorità volevano approfittare della situazione per “penetrare nelle Cellule Rivoluzionarie” -come dichiarò il Procuratore federale Kurt Rebmann in una conferenza stampa il 4 luglio- di cui conoscevano poco o niente. Ti è esplosa una bomba sulle ginocchia: hai perso le gambe (amputazioni sopra la coscia), e gli occhi (estrazione dei bulbi oculari). Sei rintronato, letteralmente (epilessia post-traumatica), e i tuoi sensi sono alterati (lesioni cerebrali alla funzione della memoria).
Un essere umano in queste condizioni ha bisogno di aiuto, di cure, di protezione. Negargliele per intero, esercitando un potere assoluto sulle sue condizioni, è un trattamento inumano.Nel buio in cui hai paura di essere abbandonato, qualcuno ti fa capire di volerti aiutare, di essere dalla tua parte. Sei circondato solo da investigatori, procuratori, guardiani e personale medico, ma hai sentito un nome che credi sia del tuo avvocato, e quelli sono tutto il ‘tuo’ ambiente sociale che ti ‘sostiene’, l’unico contatto che ti racconta il mondo che non vedi più. Hai un male cane, ti riempiono di medicine (Dipidolor, a base di morfina, Valium a siringate) che ti rendono ancora più strano, ma ti alleviano il dolore, e loro ti parlano, ti chiedono.
Così è stato ‘sentito’ Heiling, a cominciare dalla clinica universitaria in cui venne ricoverato d’urgenza, isolato per quattro mesi da ogni contatto con familiari, amici e difensori; questa misura di ‘Kontaktsperre’, usata nei regimi di reclusione più duri per i ‘terroristi’, non era neppure basata su un ordine di arresto, e addirittura ‘Der Spiegel’, il settimanale del gruppo Springer nemico giurato dei terroristi, se ne mostrò sorpreso.

 L’articolo che lo Spiegel pubblicò a commento del processo, nel novembre 1980, si chiedeva: Un uomo senza gambe né occhi sul banco degli accusati. Combattere i terroristi a qualsiasi prezzo? 

Nella sua dichiarazione al processo, Hermann Feiling ebbe a dire: La mia condizione di pericolo di vita, il traumatismo dopo l’accecamento, il mio assoluto disorientamento, la mia totale impotenza capitarono al momento giusto per investigatori, dopo anni di frustrazioni. Le 1330 pagine di verbali, che proverrebbero da me, sono il frutto di quella situazione. Lì ci sono anche persone del mio fantastico mondo dei sogni di allora che vengono chiamate in causa in relazione alle RZ, o vengono accusate persone che io non ho mai conosciuto.Un paio di luminari della contro-guerriglia media attesteranno che Hermann era in perfette condizioni per rispondere coscientemente agli interrogatori, magari non da subito, ma quasi. (vedi le perizie del Prof. Mentzos e del Prof. Jacob)

Dell’uso della malattia come strumento di indagine, di cui s’è parlato recentemente in Italia (per il suicidio di Diana Blefari Melazzi) c’è un altro episodio che sembra ricalcare quello di Hermann Feiling.

 Nel 2002, in Grecia, il pittore di icone Savvas Xiros ebbe pure lui un incidente con una bomba, che gli costò tra l’altro le mani.
E pure lì la polizia brancolava nel buio da anni e saltò sull’occasione. L’organizzazione clandestina cui davano la caccia si chiamava 17 Novembre, e nessuno dei suoi membri era stato mai identificato. Con le ‘interviste’ ad un uomo in brandelli riuscirono a prenderne i militanti e ad irrorarli di ergastoli. Giustificarono poi i metodi da ‘Guantanamo greca’ dicendo che Savvas non era in stato di arresto, e tutti quegli incappucciati che lo circondavano erano li ‘per proteggerlo’.

Le ragioni dell’accusa
 

Le narrazioni di Hermann Feiling sono dunque il primo pilastro dell’accusa, che vorrebbe fare a Sonja e Christian un ennesimo ‘ultimo processo alle RZ’. Ennesimo, perché già il processo conclusosi il 19 febbraio 2009 a Stammheim era stato chiamato così dalla stampa (vedi Il processo a Thomas K., anche per alcuni tratti storici e politici delle RZ).
Il secondo pilastro dell’accusa è costituito dalle dichiarazioni di un pentito, Hans-Joachim Klein, che ha raccontato che Sonja lo avrebbe messo in contatto, nel 1975, con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina ‘External Operations’(PFLP-EO) per organizzare l’attacco alla sede dell’OPEP di Vienna.
Klein fece da ‘testimone della corona’ (Kronzeuge, delatore premiato) in quel processo e ne ottenne in cambio la libertà (fece 3 degli 8 anni di condanna, anziché tre ergastoli).
Il tribunale di Francoforte assolse però Rudolph Schindler, altro ex-militante delle RZ accusato degli stessi fatti rimproverati ancora oggi a Sonja, perché ritenne Hans-Joachim Klein completamente inattendibile.Anche questo secondo ‘pilastro’ è di sabbia, tanto che ci si chiede che senso abbia mantenere un mandato di cattura internazionale, perché spingere tanto una procedura d’estradizione, per accuse così fragili e dopo 34 anni dai fatti? “Mancanza di pentimento e di disponibilità a cooperare vanno punite, altrimenti non non si faranno più accordi e nemmeno paura. Quando dei militanti della sinstra se la cavano, è una piccola, ma fondamentale trasgressione della ragion di Stato.” Così commenta Analyse&Kritik (‘Non perdonare nulla, non dimenticare nulla’ Nr. 538/17.4.2009), e che ci sia voglia di esemplarità in è l’unica spiegazione sensata di questo caso. La vedono anche Sonja e Christian: “… si crede, con un processo come questo, di poter dimostrare alla nascente resistenza che nessuno se la cava.”

La memoria giudiziaria

Da parte sua, il Ministero pubblico di Francoforte si nasconde dietro il dito della legalità: “Noi dobbiamo perseguire fino alla prescrizione”, dice la sua portavoce Doris Möller-Scheu “e da noi l’omicidio non va in prescrizione.” Omicidio? Allude alle vittime dell’attacco all’OPEP, cui Sonja non ha partecipato, non ve ne sono altre possibili perché la violenza praticata dalle RZ escludeva il ricorso all’assassinio politico.

 Ciò che è in realtà successo, è che la seconda richiesta di estradizione si è basata soprattutto su una nuova, grande disponibilità francese a collaborare nella repressione a tolleranza zero, ed ha approfittato di un nuovo accordo bilaterale che consente di tenere conto dei termini di prescrizione non del paese richiesto, come è stato sino ad ora in tutte le Convenzioni d’estradizione, ma del paese richiedente. E in Germania i termini di prescrizione per reati con uso di esplosivo sono stati aumentati a 40 anni, mentre in Francia, come si è visto, tutti i reati di cui sono accusati Sonja e Christian sono ormai prescritti. Con l’istituto della prescrizione lo Stato sancisce un termine temporale oltre il quale esso rinuncia a perseguire e punire un reato. Il trascorrere del tempo assume dunque il ruolo di recidere definitivamente il legame tra reato e pena. Tra le ragioni che fondano la memoria giudiziaria come limitata nel tempo -e inevitabilmente seguita dall’oblio giudiziario- spiccano due orientamenti: uno è di prospettiva garantista, che vede la prescrizione come una forma di tutela del cittadino dall’ingerenza dello Stato (senza necessariamente esplicitare un diritto soggettivo alla prescrizione); un altro è di ordine utilitaristico, che vede nel lungo trascorrere del tempo la perdita dell’interesse dello Stato a punire, stante che non può più invocare la necessità di integrare l’ordine pubblico turbato dal reato.
Sul piano che il diritto chiama di ‘prevenzione speciale’, si considera che il tempo, incidendo anche sulla natura psichica della persona, la trasformi, sicché la pena che arrivi tardi, quando il legame tra autore e fatto è ormai dissolto, colpirà un individuo ormai diverso, sul quale non avrà alcun effetto rieducativo. Una punizione tardiva rispetto al reato, priva d’una ragione di essere, non può che apparire una vendetta.
Salvo che la concezione della pena come controllo sociale non necessiti di un ‘esempio’, del monito ‘puniremo sempre e comunque ogni atto di ribellione sociale’: una scelta integralmente politica che non ha più nulla a che vedere con considerazioni giuridiche.
La prescrizione, che costituisce una rinuncia preventiva al potere repressivo dello Stato, non esiste nei paesi anglosassoni ordinati secondo la ‘common law’. La loro memoria giudiziaria è in questo senso assoluta e senza fine. L’oblio lì interviene prima, poiché essi conoscono la discrezionalità dell’azione penale, che pure permette la rinuncia preventiva alla repressione. Gli USA hanno così chiesto ed ottenuto l’arresto estradizionale, in Svizzera, del regista franco-polacco Roman Polanski, per il reato di rapporti sessuali illeciti con una minorenne.Per l’ordinamento svizzero, il reato è largamente prescritto, ma la Confederazione si è pecorescamente sottomessa ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che fa prevalere la legge statunitense, e dovrà estradarlo.
Che c’entra, è presto detto.

Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, che deve autorizzare la consegna di Sonja e Christian, ha pubblicamente protestato contro l’arresto estradizionale di Polanski, scandalizzandosi del fatto che il giudizio venga dopo 32 anni, quando ormai l’interessato ne ha 76. Ne ha parlato in un’intervista a Le Figaro il 15.10.09, poi Le Monde del 27.10.09 ha messo in relazione la su affermazione con il caso di Sonja Suder e Christian Gauger. L’articolo di Le Monde sul caso ripete però un luogo comune che non corrisponde alla realtà storica, poiché dice che le Cellule Rivoluzionarie erano “un’organizzazione vicina alla Rote Armee Fraktion”, mentre in realtà le due formazioni non avevano legami, né organizzativi né politici. Ma erano senz’altro assai poco conosciute fuori dalla Germania. In un riquadro, Le Monde segnalava ancora che era in preparazione una lettera a Sarkozy. Ora è stata fatta e gli è stata inviata. Eccola.

Lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica da alcune persone senza qualità né titoli particolari

Signor Presidente della Repubblica,
Lei ha affermato, a proposito dell’affare Polanski: “Pronunciarsi trentadue anni dopo i fatti, ora che l’interessato ha settantasei anni, non è buona amministrazione della giustizia” (Le Figaro del 16.10.2009). In questo enunciato Lei non ha espresso una semplice opinione, ma ha invece richiamato un principio fondamentale del diritto, evocando la necessità imperativa di limiti temporali all’esercizio della giustizia penale, principio affermato ‘in dottrina, norma e giurisprudenza’. Senza il quale, una giustizia che si pretendesse ‘infinita’ diverrebbe una teologia della vendetta.
Sul caso che è all’origine della Sua essenziale messa a punto, è stato scritto, Signor Presidente: “esiste un solo argomento a favore di Polanski, ma decisivo: il tempo…”.
Già il diritto romano considerava che il trascorrere dei decenni estingue progressivamente la turbativa provocata dall’atto originario, “e ciò traduce, in tutte le culture, un più alto principio di civiltà”. Se ci si attiene a questo principio, nessun privilegio quindi, per chicchessia, soltanto ‘una difesa logica, generale, uguale per tutti’.
Converrà, Signor Presidente che evocarlo in un caso per derogarne in seguito l’applicazione in un altro caso sarebbe peggio ancora che ignorarlo.
Orbene, nel momento stesso in cui Lei rilasciava questa dichiarazione, due cittadini tedeschi, Sonja Suder e Christian Gauger, rispettivamente di settantasei e sessantotto anni di età, si vedevano notificare un decreto di estradizione in forza di accuse risalenti a più di trent’anni e riguardanti fatti a carattere politico, sopravvenuti nel contesto dei movimenti sociali radicali degli anni settanta in Germania.

ScrivendoLe, signor Presidente, ci siamo fatti divieto di far valere come argomenti i nostri affetti e i nostri specifici giudizi di valore sui contesti storici e sociali e a fortiori sulle persone: ci siamo imposti di attenerci qui alla sola lettera del diritto.
Con questa decisione che spetta esclusivamente all’esecutivo, lo Stato di cui Lei è il primo magistrato, potrebbe a termine consegnare alla giustizia tedesca due persone in vista di un processo che si svolgerebbe ben al di là dei ‘termini ragionevoli’ richiesti per un ‘processo equo’.
L’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger significherebbe comunque consegnarli a una lunga detenzione preventiva, dal momento che in forza delle disposizioni in vigore in Germania, rimangono pur sempre degli imputati in attesa di giudizio. Ci sembra inoltre importante ricordare che quest’uomo e questa donna hanno già sofferto di questa ‘giustizia che non rinuncia mai’.
Nel 2001 infatti, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Parigi li ha dichiarati non estradabili poiché la Germania imputava loro fatti prescritti in diritto francese. Ciononostante, questa stessa sezione li ha giudicati estradabili per gli stessi fatti, sulla base della Convenzione di Dublino, appena introdotta, secondo la quale i dispositivi di prescrizione che governano l’estradizione sono ormai quelli del paese richiedente. Orbene, l’applicazione di questa convenzione al caso di Sonja Suder e Christian Gauger calpesta due principi essenziali dei diritto: ‘l’autorità della cosa giudicata’ e il carattere non retroattivo dei testi repressivi allorché essi aggravano la situazione degli imputati.
Non possiamo credere, signor Presidente, che Lei non applicherà a queste due persone il criterio che ha pubblicamente difeso. Tanto più che esse rientrano pienamente nella ‘clausola umanitaria’ prevista dai testi internazionali. Non fosse che per questi due motivi, s’impone l’annullamento dei decreti di estradizione nei confronti di Sonja Suder e Christian Gauger.
Ci sembra inoltre signor Presidente che da questo principio di ‘civiltà giuridica’ che la Francia rivendica, derivi inoltre la decisione di non procedere a nessuna estradizione per fatti risalenti a più di un quarto di secolo.
Ecco quello che volevamo dirLe signor Presidente, noi che siamo oggi inquieti per le minacce che pesano sulla vita di Sonia Suder e Christian Gauger.
La ringraziamo dell’attenzione che vorrà riservare al nostro appello.

Parigi, 5 novembre 2009
Jean-Michel Arberet
Emmannuelle Bastid
Jean-Pierre Bastid
Claire Blain-Cramer
Gilles Berard
François Chouquet
Guido Cuccolo
Claudio Di Giambattista
Aitor Fernández-Pacheco
Claudio Ielmini
Mouloud Kaced
Janie Lacoste
Ezio La Penna
Lucia Martini-Scalzone
Elda Necchi
Isabelle Parion
Claudine Romeo
Luigi Rosati-Elongui
May Sanchez
Oreste Scalzone
Gianni Stefan
Hanlor Tardieu …


L’indirizzo email per sottoscrivere la lettera è: contact[at]stopextraditions.info
Sito per Sonja e Christian 

9 Maggio 1976: ULRIKE MEINHOF

9 Maggio 2008 4 commenti

        Il 9 maggio 1976, Ulrike Meinhof è stata trovata appesa alle sbarre della sua cella.

Militante della R.A.F. (Rote Armee Fraktion) , organizzazione armata tedesca attiva dagli anni ’70 anche conosciuta come Banda Baader-Meinhof.

La mattina del 9 maggio 1976 nel supercarcere-fortezza di Stammheim terminava la vita di Ulrike . Gli agenti di custodia avevano trovato la detenuta impiccata nella sua cella. Un anno e mezzo più tardi, il 18 ottobre 1977, altri tre appartenenti alla Raf, Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe, verranno anch’essi rinvenuti morti nelle loro celle.


“Battete in Piazza il calpestìo delle Rivolte!
In alto, catena di teste superbe!
Con la piena di un nuovo diluvio
laveremo le città dei mondi   

Il toro dei giorni è pezzato.
Il carro degli anni è lento.
Il nostro Dio è la corsa.
Il Cuore è il nostro tamburo.

Che c’è di più celeste del nostro oro?
Ci pungerà la vespa d’un proiettile?
Nostre armi sono le canzoni.
Nostro oro le voci squillanti

Prato, distenditi verde,
copri il fondo dei giorni.
Arcobaleno, dà un arco
ai cavalli veloci degli anni.

Vedete, il cielo s’annoia delle stelle!
Senza di lui intrecciamo i nostri canti.
ehi, Orsa Maggiore, esigi
che ci assumano in cielo da vivi!

Bevi le gioie! Canta!
Nelle vene la primavera e diffusa.
Cuore, batti la battaglia!
Il nostro petto è rame di timballi.”

Vladimir Majakovskij – La nostra Marcia (1917)

Su Ulrike: LEGGI QUI

A Christa Eckes, ora libera

9 giugno 2012 Lascia un commento

Vengo a sapere oggi della morte di Christa Eckes, avvenuta  il 23 maggio a Karlsruhe,
e di un flauto che ha accompagnato un lungo funerale in cui è stata salutata da tanti compagni.
Christa era una ex-militante delle RAF, che dopo molti anni di carcerazione si è trovata pochi mesi fa ad affrontare il Beugehaft, carcerazione coercitiva prevista dal codice tedesco per costringere un testimone a rivelare quanto di sua conoscenza. Tutto ciò mentre la leucemia le rosicchiava la vita e la forza che l’ha sempre contraddistinta.

CIAO CHRISTA,
CHE LA TERRA TI SIA LIEVE.
A PUGNO CHIUSO.

Un paio di link:
No all’incarcerazione di Christa Eckes
Christa Eckes, riflessioni di una femminista

Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof: 3° parte

3 marzo 2011 3 commenti

Questo blog ha dedicato spesso dello spazio ad Ulrike Meinhof e alla storia della RAF.
Da secoli dovevo proseguire con il rendere fruibile alla rete, le altre parti del Rapporto della Commissione internazionale di Inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, così maledettamente identica a quella dei suoi compagni.
Vi lascio i link delle precedenti pagine, comunicandovi che proseguiremo con l’analisi degli accessi al piano delle celle e dei reparti presenti nell’Istituto di pena in quella nottata…
PRIMA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA con riferimento alle condizioni di detenzione
SECONDA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA e perizie mediche

Inchiesta criminologica

Le perizie mediche, conseguenti all’autopsia del corpo di Ulrike Meinhof, dimostrano che gli elementi a disposizione assolutamente non provano -come pretende la tesi ufficiale- che si tratti di un suicidio per tipica impiccagione. L’ipotesi del suicidio, al contrario, rivela contraddizioni insolubili che si ripetono anche nell’inchiesta criminologica e che il governo e la giustizia, da parte loro, non sono evidentemente in grado di spiegare.
Proprio queste contraddizioni rafforzano il sospetto dell’intervento di terzi.
Oltre alle contraddizioni riscontrate dal dott. Meyer nei suoi accertamenti e confermate dai detenuti di Stammheim (posizione del cadavere, genere dell’oggetto servito allo strangolamento etc..), debbono essere inclusi nell’inchiesta i seguenti dati:

A. L’ASCIUGAMANO E L’OGGETTO TAGLIENTE

La striscia ritagliata da un asciugamano, adoperato per lo strangolamento, non poteva essere fissata alla rete della finestra senza un adeguato strumento ausiliare. “La rete metallica ha quadrati di mm 9×9: senza uno strumento adeguato -una piccola pinza, ad esempio- è impossibile far passare una striscia tale nella maglia della rete e reintrodurla in un’altra maglia tirandola verso l’interno. Una pinza del genere non è stata trovata. Ogni altro mezzo (cucchiaio, forchetta…) è inutilizzabile per una simile operazione poiché le maglie sono troppo piccole” ( dichiarazione dei detenuti di Stammheim)  […]

B. SEDIA / MATERASSO

Per quanto riguarda la posizione del corpo, esistono versioni che si escludono reciprocamente.

  • Scheritmuller (funzionario della prigione): “Non c’era sgabello. Non ho visto sedie”
  • Henck (medico della prigione) : “I piedi erano a 20 cm dal suolo”
  • I funzionari di polizia non citano mai sedia o materasso
  • La sedia appare per la prima volta in Rauschke, nel suo rapporto di medicina legale e nel rapporto della polizia criminale. Rauschke parla di un materasso; la polizia criminale di un materasso e parecchie coperte. Nel rapporto destinato a Jansenn, Rauschke non parla del materasso; in tal modo Jansenn è costretto a partire da indicazioni inesatte
  • “Una sedia posta su una base così instabile si sarebbe immediatamente rovesciata per gli sgambettamenti – di cui si è parlato- che sarebbero stati così forti da provocare le ferite, numerose e profonde, che sono state accertate alle gambe” (dichiarazione dei prigionieri)

C. COPERTA

“Ulrike Meinhof ha sempre dormito con una coperta di pelo di cammello che portava, ricamato, il nome di Andreas Baader. Questa coperta mancava al momento in cui furono consegnati gli effetti personali all’esecutore testamentario. La coperta era ancora nel carcere poco tempo prima. Non è citata nella lista di oggetti presi in consegna dai funzionari della Sicurezza di Stato. Dal registro dell’Istituto di pena risulta che la coperta è stata registrata e quando. Una coperta non poteva lasciare la prigione” [documenti dell’IVK]

D. LAMPADINA ELETTRICA

“Ho aperto ieri sera, alle 22, secondo il regolamento vigente nell’istituto di pena di Stammheim, la cella della signora Ensslin e quella della signora Meinhof, per farmi consegnare, come ogni sera, i tubi al neon e le lampadine elettriche delle celle”. Ecco quanto dichiarava una guardiana ausiliaria, la signora Frede, nel corso del primo interrogatorio della polizia criminale il 9 maggio 1976.
Tuttavia, nel corso dell’inventario ufficiale, il 10 maggio, una lampadina elettrica che recava impronte digitali e che si trovava nella lampada da scrittoio è stata requisita e inviata all’istituto tecnico di criminologia dell’Ufficio federale della polizia criminale. L’istituto rende noti i risultati della perizia dattiloscopica: “Le tracce dattiloscopiche che si trovavano sulla parte esterna della lampadina, rese già visibili dalla polvere nera, sono state fotografate, qui, più di una volta. In ogni caso, si tratta di frammenti di impronte digitali che sono inutilizzabili a scopo di identificazione. Il confronto di questi frammenti con le impronte di Ulrike Meinhof, nata a Oldenburg il 7.10.34, non ha permesso di rilevare alcuna somiglianza.

E. VESTITI

Scaturisce dai verbali, come dalle dichiarazioni di Gudrun Ensslin, che Ulrike indossava la sera dell’8 maggio un jeans slavato e una camicetta rossa. Alla scoperta del cadavere, portava un pantalone di velluto nero e una camicetta di cotone grigia a maniche lunghe. Rimangono dunque due interrogativi: 1. Perchè qualcuno che vuole impiccarsi si cambia d’abito? 2. Perchè la polizia criminale e la Procura non hanno chiesto dove si trovavano i vestiti indossati dalla Meinhof la sera dell’8 maggio? [ Jurgen Saupe, settembre ’76]

F. CONTRADDIZIONI NELLE DEPOSIZIONI Di RENATE FREDE

Durante la sua prima deposizione dinanzi alla Polizia criminale, la guardiana ausiliaria Frede dichiara di aver aperto la porta della cella della Meinhof per farsi consegnare le lampadine elettriche. Senza darne spiegazione, la procura l’ascolta una seconda volta l’11 maggio. La Frede dichiara: “Nel corso della mia prima deposizione, ho dichiarato per errore che avevo aperto la porta della cella della Meinhof; non è del tutto esatto. Non ho aperto la porta della cella, ma lo sportello attraverso il quale vengono passati i pasti. In quel momento, anche i funzionari Walz e Egenberger erano presenti. Lo sportello è chiuso da un catenaccio”.

 

 

    9 Maggio, Ulrike Meinhof. 1° parte della commissione internazionale d’inchiesta sulla sua morte

    9 Maggio 2009 4 commenti

    Il 9 maggio ricorre (oltre all’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato) l’anniversario dell’assassinio di Ulrike Meinhof, nel carcere di Stammheim. Già in passato questo blog si è occupato di questa figura degli anni ’70 tedeschi, con alcuni stralci presi dalle sue lettere e dai suoi scritti.
    E’ il caso, invece, da questo momento in poi (la “serie” sarà un po’ lunga) di mettere in rete un po’ di materiale che dimostra l’assassinio che c’è dietro la sua morte e quella successiva e simultanea di altri 3 prigionieri della stessa formazione , la R.A.F. anche conosciuta come Banda Baader-Meinhof.ulrikeimpiccata, a partire dal Rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof. Fu ritrovata impiccata, con ancora un piede poggiato sulla sedia, morta da ore…ma come vedremo successivamente, l’autopsia dimostra più che chiaramente come non si sia trattato di suicidio…
    Prima di affrontare la parte tecnica dell’inchiesta mettiamo la sua dichiarazione d’intenti e una parte della prima inchiesta sulla tortura ‘pulita’ applicata costantemente su tutti i detenuti politici tedeschi, e non solo.
    Di tortura non si può smettere di parlare, di indagare, di archiviare e diffondere

    « …anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi del secolo passato, credevano di purgare la terra di più fieri nemici… » (Pietro Verri –Osservazioni Sulla tortura- 1776)

    DICHIARAZIONE DELLA COMMISSIONE INTERNAZIONALE D’INCHIESTA SULLA MORTE DI ULRIKE MEINHOF

    A conclusione dei suoi lavori, la Commissione internazionale d’inchiesta Sulla morte di Ulrike Meinhof ha preso atto del rapporto formulato dalla segreteria.Senza far propria ogni singola formulazione, la Commissione sottolinea, tuttavia, che si tratta di un lavoro serio, realizzato grazie alla collaborazione di periti qualificati, che merita di essere preso in considerazione e ampiamente diffuso.
    Per riassumere i pareri sui quali i suoi membri hanno trovato un accordo, la Commissione ha constatato :

    – che Ulrike Meinhof è stata sottoposta, a più riprese e per lunghi periodi, a condizioni di detenzione che si è costretti a qualificare « tortura ». Si tratta di quel tipo di tortura chiamata isolamento sociale e privazione sensoriale, comunemente applicanto nella Repubblica Federale Tedesca a numerosi prigionieri politici e anche a detenuti comuni ;

    – che la tesi delle autorità statali, secondo la quale Ulrike Meinhof si sarebbe suicidata per impiccagione non è provata e che i risultati della Commissione tendono a dimostrare che Ulrike Meinhof non potuto impiccarsi da sola ;

    – che i risultati dell’inchiesta suggeriscono che Ulrike Meinhof era morta quando è stata appesa e che vi sono indizi inquietanti d’intervento di terzi in relazione a questa morte. eorge

    La Commissione non può esprimersi con certezza sulle circostanze della morte di Ulrike Meinhof. Tuttavia, il fatto che al di fuori del personale della prigione i servizi segreti avessero accesso alle celle del 7° piano attraverso un passaggio distinto e segreto autorizza ogni sospetto. I risultati dell’inchiesta, qui presentati dalla Commissione, rendono più urgente la nécessita di costituire una commissione internazionale d’inchiesta sui morti di Stammheim e di Stadelheim.
    1562265690_lLa Commissione ringrazia la sorella di Ulrike Meinhof che ha messo a disposizione tutta la documentazione in suo possesso, nonché tutte le persone ed organizzazioni che hanno facilitato il lavoro intrapreso, appoggiandolo e contribuendo al suo finanziamento. Il lavoro è stato finanziato esclusivamente da questi contributi e senza di essi non sarebbe stato possibile realizzarlo. La Commissione ringrazia anche tutte le persone che si sono impegnate nella pubblicazione del presente rapporto.
    Parigi, 15 dicembre 1978

    Michelle Beauvillard, avvocato, Parigi  – Claude Bourdet, giornalista, Parigi – Robert Davezies, giornalista, Parigi – Georges Casalis, teologo, Parigi – Joachim Israel, sociologo, Copenhagen – Panayotis Kanelakis, avvocato, Atene – Henrik Kaufholz, giornalista, Aarhus (Danimarca) – John McGuffin, scrittore, Belfast – Hans Joachim Meyer, neuropsichiatra, R.F.T. – Jeane-Pierre Vigier, fisico, Parigi

    [stralci del Rapporto della Commissione]

    1. CONDIZIONI DI DETENZIONE

    Dopo l’arresto di Ingrid Schbert e di Monika Berberich, nell’ottobre 1970, i prigionieri della R.A.F. sono sottoposti ad un regolamento di detenzione, calcolato fin nei minimi dettagli : il totale isolamento e l’isolamento in Piccoli gruppi.

    Rapporto di Jorgen Pauli Jensen, psicologo, Danimarca :

    All’indomani dell’arresto, Ulrike Meinhof fu tenuta prigioniera, in condizioni di assoluto isolamento, nel « braccio della morte » del carcere di Colonia-Ossendorf [era in un braccio vuoto, con 6 celle vuote e lei era al centro di queste]. Questo primo periodo di isolamento totale (poi ne seguiranno altri) è durato 237 giorni.UlrikeMeinhofFestnahme

    Metodo ed effetto della tortura dell’isolamento sono in diretta interdipendenza : il metodo consiste nell’isolamento assoluto da ogni contatto sociale e nella soppressione di impressioni sensoriali differenziate, che sono una condizione necessaria al funzionamento dell’organismo umano. Rinchiudendo i detenuti in una camera silens, una cella perfettamente isolata, dunque senza alcun rumore ( o una cella nella quale si ascolta un suono incessante), buia di giorno (o dipinta di bianco e illuminata al neon giorno e notte), con ridotte possibilità di movimento e aria viziata, si tenta, in qualche modo, di esasperarne il bisogno umano di contatti e impressioni sensoriali, vale a dire di comunicazione umana. Le ricerche di psicologia sperimentale e, disgraziatamente, anche l’esperienza diretta, ci hanno insegnato con certezza che tali condizioni possono corrodere e annientare, nel giro di breve tempo, gli esseri umani fisicamente e psichicamente

    A livello fisico, la funzione vegetativa è distrutta poco a poco (modificazione patologica del bisogno di dirmire e urinare, della famé, della sete, nonchè mal di testa e perdita di peso). A livello psichico si sviluppa instabilità emotiva (angoscia improvisa o collera). Sul piano psichico e su quello della ulrike3conoscenza si sviluppa entro brève tempo, un disorientamento nel tempo e nello spazio ; difficoltà di concentrazione, difficoltà nel definire un pensiero , perdita della memoria, déficit del linguaggio e della comprensione, allucinazioni ecc.
    Tuttavia, non sempre questo progetto raggiunge il suo scopo : esistono donne e uomini che, malgrado la tortura dell’isolamento, conservano la loro identità politica.

    Dal 1972 vengono applicati metodi speciali contro i prigionieri politici nelle carceri della R.F.T.

    – isolamento sistematico dei prigionieri in rapporto agli altri ; esclusione da tutte le attività comuni, dalla vita normale della prigione ; divieto di comunicare con altri prigionieri, ogni tentativo di ignorare tale divieto viene punito con la detenzione nelle celle di punizione ;
    – l’applicazione di inferriate speciali dinanzi allé finestre delle celle allo scopo di rendere impossibile la vista sull’esterno [bocche di lupo]
    – solo un’ora d’aria, soli, con manette ai polsi
    – divieto di ricevere visite e lettere, tranne che da familiari
    – tutte le visite sono sorvegliate dalla polizia politica, che registra tutta la conversazione e l’utilizza, all’occorrenza, nel processo
    – censura totale di libri e giornali

    CONTINUA CON LA SECONDA PARTE

    « …Che fare ? E’ chiaro, sporgere denuncia per lesioni fisiche. Allora, dai ! L’ho già detto centinaia di volte : psichiatra e –ormai l’ho capito- otorinolaringoiatra che spieghino, finalmente, scientificamente, come il ‘silenzio’ abbia gli stessi effetti degli elettrochoc, provochi lo stesso tipo di lesioni, di devastazioni nell’organo dell’equilibrio e nel cervello… »   Ulrike Meinhof ai suoi avvocati, dal braccio della morte, febbraio 1974

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