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Guagliardo sull’amnistia sociale…e una lunga notte NoTav

6 agosto 2013 Lascia un commento

Una lunga notte NoTav, come siamo abituate a vederne e viverne molte: notti resistenti, tra i propri boschi,
dove nel buio ci si muove come animaletti tranquilli,
contro quei plotoni di anfibi e armamenti, trivelle e macchinari che vorrebbero portare lo scempio e la militarizzazione in ogni punto di quel sottobosco così importante da difendere.
Un’altra lunga notte e sarà una settimana di allarme, dove centinaia di “avvistatori” sono pronti a lanciar l’allarme qualora qualche mostro meccanico dovesse provare ad arrivare al cantiere.

Una lotta che va avanti da 20anni, che si è rinventata mille volte e con mille metodologie diverse,
finché Caselli non ha deciso di far piovere avvisi di garanzia dove si parla di finalità terroristiche, di articoli del codice penale che vengono puniti co il 41 bis, l’isolamento, il carcere speciale e condanne a più di una cifra.
La lotta NOTAV viene militarizzata più del suo sottobosco,
i militanti valsusini trattati come briganti aspiranti regicidi…

Questa notte, l’ennesima, è stata bloccata l’autostrada Torino Bardonecchia, all’altezza di Chianocco e della frazione Vernetto: il convoglio che ci si aspettava di bloccare non è mai passato, ma l’emergenza resta alta,
Come potete leggere anche su quest’appello pubblicato da Infoaut: QUI

E allora, visto che la militarizzazione avanza con la criminalizzazione, con il giustizialismo che tutto avvolge,
con una società basata ogni istante di più sul paradigma penale,
la battaglia sull’amnistia è ogni istante più importante e necessaria.Pubblico quindi con molto piacere l’articolo di Vincenzo Guagliardo, uscito oggi sulle pagine de Il Manifesto,
come contributo alla campagna per l’amnistia sociale, alla quale hanno già preso parte la maggior parte dei movimenti del paese (come ad esempio NoTav e NoMuos): leggetelo e diffondete l’appello che trovate QUI

Diritto di manifestare, fine dell’ergastolo e no alla tortura saranno necessariamente la nuova cornice, accanto alle lotte sul lavoro e per il reddito. Sarà l’inizio di un lungo, nuovo e difficile processo storico e non il sereno suggello di un passato. Sarà il mezzo con cui costruire una grande unità oggi ancora lontana

di Vincenzo Guagliardo
il manifesto 6 agosto 2013

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“la talpa” in cantiere

Decenni fa il movimento operaio lottava per pane, lavoro e minor fatica. Alla lotta poteva seguire o meno la repressione secondo i rapporti di forza esistenti. Oggi invece ogni lotta trova a priori un ostacolo di possibile rilievo penale (e di tipo inquisitoriale). Deve fare i conti con una nuova realtà sapientemente (o ciecamente?) costruita negli ultimi tre decenni passo dopo passo, di emergenza in emergenza, da quella contro il “terrorista” a quella contro il lavavetri dichiarata da qualche sindaco-sceriffo.
Le democrazie occidentali rivelano una tendenza “totalitaria” che non può più essere ignorata: da un lato c’è gente in galera da oltre trent’anni e dall’altro c’è gente che è “illegale” per il fatto stesso di esistere grazie a leggi che la privano del permesso di soggiorno. In mezzo a questi due poli, e fra mille gradazioni diverse, può ormai ritrovarsi ognuno.
E ora vediamo in quale cornice stanno questi due poli estremi: nella sua specificità, il caso italiano suscita attenzione persino a livello europeo. Segnali simbolicamente forti sono arrivati dal Vaticano che ha abolito l’ergastolo e riconosciuto la tortura come reato, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo.
E’ importante sottolineare di nuovo che l’ondata repressiva al livello sociale non avviene come repressione “a valle” di episodi signicativi di lotta violenta, ma “a monte”, quale modello di controrivoluzione preventiva offerto come politica principale – per non dire unica – nei confronti del variegato e frammentatissimo proletariato attuale. (Il “resto” è espropriazione di reddito dei poveri a favore dei ricchissimi). Perciò se prima eravamo nell’epoca del “pane e lavoro”, ora siamo in quella di “pane, lavoro e libertà”, da subito, e non “dopo”.
Diritto di manifestare, fine dell’ergastolo e no alla tortura saranno necessariamente la nuova cornice, accanto alle lotte sul lavoro e per il reddito, entro cui dovrà resistere il proletariato attuale contro la propria frammentazione e le drammatiche corporativizzazioni che possono derivarne. Sarà l’inizio di un lungo, nuovo e difficile processo storico e non il sereno suggello di un passato. Sarà il mezzo con cui costruire una grande unità oggi ancora lontana.
E non potrà essere solo una piattaforma rivendicativa: richiede ovviamente un impegno personale che vada al di là del manifestare per chiedere il diritto di manifestare.
La tendenza “totalitaria” infatti è tale perché cancella la differenza tra diritto privato e diritto pubblico. Vuole attentare alla stessa volontà dell’individuo, la vuole sostituire con la norma dell’autorità in ogni piega. Il premio ha sostituito il diritto. L’individuo non è più un “cittadino” ma un suddito o, meglio, un malato da curare da se stesso. E’ così che le aule di giustizia sono diventate un mercato (delle coscienze) attraverso nuovi riti come il “patteggiamento” e il “rito abbreviato” dove alcuni avvocati si prestano ormai a rinunciare al loro ruolo classico di difensori dell’imputato per ridursi a portaborse del pm Difficilmente la resistenza qui indicata andrà avanti se non saprà sottrarsi a questi riti e difendere invece le proprie ragioni dalla logica di mercato applicata alle idee.

Leggi anche:
L’abolizionismo: sempre di Guagliardo
Forlì, la città dei fogli di via
e tutti i link contro il FINEPENAMAI: QUI

Libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti

27 aprile 2011 4 commenti

Finalmente la notte non dividerà più i vostri corpi.
Finalmente la notte non sarà più separazione, ma calore.
Finalmente, almeno per voi due, ogni notte sarà nuova e non più sempre uguale.
Niente più ferro e cemento a dividere i vostri corpi.
Dopo tre decenni e troppi rigetti la vostra pelle torna a dormire sfiorandosi…
e la mia gioia è infinita.
Buona libertà, belli miei!

Foto di Valentina Perniciaro

Un bell’articolo su Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti

16 luglio 2009 1 commento

TRANQUILLI! VINCENZO GUAGLIARDO DOPO 33 ANNI RESTA IN CARCERE
di Mario Dellacqua
“Il mondo di None” 6/7 GIUGNO-LUGLIO 2009
Mensile di None TO

Questa storia non mi da pace, non interessa quasi nessuno e non ci posso fare niente. Quando Vincenzo Guagliardo è sparito nella lotta armata, non me ne sono accorto. Ero distratto. Quando ne è uscito passando attraverso il carcere –ora sono una vita di 33 anni –  ero ancora più distratto e le sue foto sul giornale dietro le sbarre smuovevano al massimo la mia curiosità, ma finiva lì. Poi vennero i suoi libri. Li ho letti e ne ho parlato su queste ospitali colonne. Venne anche la dimessa lotta solitaria, sua e di sua moglie Nadia Ponti, per ottenere il diritto all’affettività in carcere, condotta con implacabile serenità, anche a costo di rinunciare ai benefici di una legislazione che premiava i detenuti a condizione che esprimessero atti di contrizione, esibizioni pubbliche di pentimento, richieste spettacolari di perdono. La giustizia italiana non concesse i benefici e neppure l’affettività, perché l’umanità del trattamento carcerario prescritta dalla Costituzione si accontenta di considerare i detenuti ancor meno di animali rinchiusi in uno zoo.stor_8048937_30030

Vincenzo e Nadia continuarono a rivendicare la loro dignità di persone senza pretese e rifiutarono persino di tentare la via della spettacolarizzazione massmediatica del loro caso. Scelsero la via del silenzio che reputarono la forma di mediazione più consona alla tragedia della quale erano stati corresponsabili.

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Vincenzo Guagliardo durante un processo

Perciò i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma respinsero nel settembre scorso la prima istanza di liberazione condizionale: Guagliardo era colpevole della “scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime”.
Ma un incontro era avvenuto nel 2005, come Sabina Rossa ha testimoniato in un libro uscito ben prima che la figlia dell’operaio comunista ucciso a Genova nel 1979 diventasse parlamentare del PD.
Semplicemente avvenne senza chiamare Bruno Vespa (senza la benedizione televisiva del quale anche i fatti accaduti sono revocati), perché Vincenzo e Nadia non volevano che un così drammatico faccia a faccia apparisse “merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa.”
L’onorevole Rossa, anzi, si rivolse spontaneamente al magistrato di sorveglianza, riferì dell’avvenuto colloquio, chiese la liberazione dei due detenuti e presentò addirittura una proposta di legge che non subordinava la concessione della condizionale alla imponderabile verifica pubblica della sfera interiore del detenuto come prova dell’autenticità del ravvedimento. Ma i giudici non si sono accontentati e ad aprile hanno respinto per la seconda volta la richiesta di Guagliardo. Non bastano più i contatti con le persone offese: ora si decide che essi assumono “valenza determinante” solo se “accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata”. Poco importa se Sabina Rossa, la figlia della vittima, ha chiesto la liberazione del condannato all’ergastolo dopo 33 anni di carcere: la sua è una “manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese”.
Anche noi anarchici siamo tenuti a rispettare la giustizia e le sentenze di uno Stato che non amiamo, ma nessuno ci toglierà dalla testa che “il tema del perdono –come scrive il giornale comunista Liberazione del 15 aprile scorso – o meglio la mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata, non a quella dello Stato.” Lo Stato democratico, se non vuole diventare Stato etico, non dovrebbe spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato: piuttosto dovrebbe, come stabilisce la Costituzione, misurare se le pene inflitte – che non devono essere contrarie al senso di umanità – hanno raggiunto l’obiettivo della rieducazione del condannato al quale devono sempre tendere (art. 27).

La lotta di Nadia e Vincenzo continua con esemplare e magistrale serenità: essa non cancella l’inamovibile tormento, ma lo scioglie e lo distribuisce sotto forma di una domanda e di un’offerta di umanità che colpisce e turba anche i distratti come me, sempre impegnati in cose più importanti, che non so quanto siano effettivamente più importanti.

Ancora un rigetto per Guagliardo, dopo 33 anni

14 aprile 2009 3 commenti

IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI ROMA RIGETTA LA RICHIESTA DI LIBERTA’ CONDIZIONALE A VINCENZO GUARGLIARDO DOPO 33 ANNI DI CARCERE CON UNA SENTENZA PIENA DI ODIO E ACCANIMENTO.

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979

Vincenzo Guagliardo nel dicembre 1980

Vincenzo Guagliardo nel dicembre 1980

all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».

 

Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale né era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo. Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». stor_8048937_300301I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese». In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare disprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?
____di Giorgio Ferri____

ANCHE IERI SUL CORRIERE A FIRMA DI GIOVANNI BIANCONI:
Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali». 2352_1050271909501_1606848852_130518_735_n
E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà».
Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere processibr1disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione. Giovanni Bianconi
   

 

 

Aboliamo il carcere -un testo di V. Guagliardo-

27 ottobre 2008 5 commenti

ABOLIZIONISMO di Vincenzo Guagliardo

 

Per fortuna ormai un pò di gente arriva a dire che è in atto da anni una regressione dallo Stato sociale allo Stato penale, criminalizzando la miseria, ovvero mettendo in galera il diseredato solo perché è tale e neanche più per quello che ha potuto fare. Tendere a imprigionare la gente per quel che è a prescindere da quel che ha fatto, è anche un passaggio, come alcuni ricorderanno, dalla logica penitenziaria a quella del lager, dove si finiva in quanto ebrei, zingari, omosessuali … 

la cella "liscia"

la cella "liscia"

Questa tendenza, auspicata da tanti e denunciata da pochi, vive dagli anni di Reagan, in pratica da un ventennio, e ha invaso tutto l’Occidente. Essa richiede una riflessione che non si limiti a dire che è in atto una svolta repressiva contro i poveri; richiede una riflessione in grado di capire che questa è la conclusione di una lunga storia. Quanto avviene in questi due decenni è l’epilogo grave, l’ultima evoluzione d’una civiltà fondata sul dominio ed è perciò che bisogna cominciare a parlare di abolizionismo: di movimento per l’abolizione di tutto il sistema penale, dal diritto penale alle prigioni; e non nella società del domani in testa a qualcuno, ma in questa. 
    
Almeno in Italia, l’attuale svolta non cominciò considerando ogni emarginato un potenziale colpevole, ma colpendo con meccanismi inquisitoriali. Tizio e Caio vennero puniti più di altri se volevano pensare con la loro testa. Già qui non importava più quel che si era fatto; fu l’epoca dei pentiti e delle dissociazioni, ovvero delle delazioni e abiure a pagamento, in nome dell’emergenza antiterrorista. E’ da quella fase tipo gulag che si è poi arrivati all’inizio di questa nuova, tipo lager. Naturalmente i due principi continuano a coesistere; se il primo storicamente prepara il secondo, il secondo comprende il primo. E se ci si pensa, non è la prima volta che questo processo si verifica nella storia della nostra civiltà. Solo che questa volta, tale processo, unito ad altri fattori degenerativi, rischia di travolgere tutto e tutti con beate incoscienze e diffuse partecipazioni. 
Il rito del capro espiatorio è stato e resta a fondamento della nostra cultura, la base su cui si è costruito ogni potere prima, quindi ogni dominio e infine ogni sistema di sfruttamento. E’ la costante, il fattore K. E’ utile rileggersi cosa fu il massacro degli eretici fino alla definitiva sconfitta dei catari nel Duecento, e poi vedere non già esaurirsi, ma rilanciarsi l’Inquisizione che lì era nata, per darsi al massacro nella cosiddetta “caccia alle streghe” durante i secoli successivi. Vi si scopre che tante novità non sono tali, appunto. Anche allora ci fu un passaggio dal modello tipo gulag verso gli eretici e i mondi sociali che rappresentavano, a quello tipo lager contro le streghe, donne mandate al rogo non più per quello che pensavano (se non nell’immaginario degli inquisitori) ma per ciò che costituivano: l’indipendenza di un mondo fondato sulla sussistenza, fuori dalla logica invadente del mercato. Oggi, nel regno liberista, tutto questo avviene però in un giorno, invece che in qualche secolo. Ecco che chi fa l’abiura delle lotte per la liberazione sociale – riducendola a vicende da KGB e di subordinazione al regime dittatoriale dell’URSS – manda negli stessi giorni il grande messaggio della lotta alla criminalità: in pratica contro i più deboli dei deboli, quei 50 mila in carcere che sono già, comunque, il doppio di alcuni anni fa. 
Ancora una volta, dunque: ancora una volta vediamo che offrire vittime sacrificali serve ad ogni potere a “limitare” la violenza e a controllarla a suo uso e consumo. La si indirizza contro qualcuno per evitare che tutti si scannino contro tutti mossi dall’invidia, dal risentimento, dato che comunque si tratta di salvare un sistema basato sull’ingiustizia e non certo sull’amorevolezza … Questo antichissimo meccanismo permette di cooptare chiunque, anche il ribelle, perché è la via più facile per spiegarsi le cose. E’ infatti più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui che la trave nel proprio; soprattutto è più comodo. E non è forse vero che anche i rivoluzionari hanno spesso mantenuto questo vizio, “tradendo” così ogni volta ogni rivoluzione? In un breve scritto poco conosciuto, Gramsci si entusiasmò per la nuova profonda autenticità della rivoluzione bolscevica perché il primo atto che la contraddistinse fu la liberazione dei prigionieri a Riga. La rivoluzione francese ha ancora oggi come simbolo la presa della Bastiglia. Ma poi arrivano quelli della rivoluzione diventata potere … e sappiamo che Stalin fece fuori per primi proprio i bolscevichi suoi compagni, e poi instaurò un immenso sistema penale che giunse a incarcerare anche i dodicenni (sì, come Blair). E nella rivoluzione francese quando, pochi anni dopo, furono assalite delle carceri, fu per massacrare i prigionieri! 
Il principio della pena è l’unico valore, il centro della morale di questa società. Essa non ha altro, e praticamente tutti partecipano al suo sistema, da cui discendono modelli educativi, teorie psicologiche, concezioni filosofiche, ecc. Quella della pena è la lingua in cui parliamo tutti, e fin da piccoli. I benpensanti vogliono in galera i poveracci, gli altri i ricchi o i “fascisti”, ma tutti accettano quel centro, i ruoli previsti dalla tragica sceneggiatura, il cui perno è la vittima sacrificale, demone per l’ uno o eroe per l’altro. La pena non è mai servita a reprimere realmente i colpevoli; ogni storico serio lo riconoscerà. Serve a gratificare, a cementare il senso d’appartenenza di quelli che la vogliono applicata ad altri. La pena è dunque “inefficiente” per definizione, per la sua stessa natura; e proprio così unisce tutti, amici e nemici. 
    
Ma ora che, nella vita sempre più atomizzata del mondo attuale, tutte le sue istituzioni implodono, è come se – per reazione – si tornasse sempre più alle origini con l’esplosione del sistema penale. E’ come se, dopo aver distrutto via via tutto, non restasse più altro, come valore morale, che questo atto fondatore di una comunità linciante. Perciò oggi la violenza insita nel rito della vittima sacrificale non incontra più i confini, i “limiti” stabiliti nel sacro da cui è nata e vediamo anzi la logica del sistema penale diventare sempre più invadente: dominando la politica interna (questione sociale = questione criminale), quella internazionale (dalla crisi della diplomazia verso l’esaltazione di un tribunale penale internazionale permanente), fino ad aver pericolosamente rovesciato recentemente lo stesso senso “tradizionale” della guerra. Le guerre non sono mai state definite come delle sentenze. La guerra convenzionale è una sanzione violenta che pretende di raggiungere l’ordine che si è dato, come è in fondo altro tipo di lotta violenta e non, dallo sciopero al boicottaggio. Solo l’incarcerazione e la pena di morte hanno generalmente lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l’obbiettivo per cui esso è stato dato. Ma la guerra Nato condotta nei Balcani è stata frutto di un ragionamento penale invece che guerresco vero e proprio. 
 In questo nuovo contesto, parlare di abolizionismo significa anzitutto guardar se stessi prima di mettere in croce un altro (o volere che ci resti come martire e faro di ribellione … futura): perché si vada alla radice della pena come centro della morale comune, onde definire una nuova strategia dei conflitti non più fondata su una loro prevalente riduzione a reati. 
 Tutto ciò apre il campo a molte riflessioni che non si possono affrontare qui per ragioni, se non altro, di spazio. Ma una cosa mi è chiara: non tutti gli abolizionisti saranno necessariamente dei rivoluzionari; ma, di sicuro, chi non è abolizionista, rivoluzionario da oggi in poi non potrà più esserlo.

Vincenzo Guagliardo

Carcere di Opera, ottobre 1999

L’importanza delle parole e il loro utilizzo: “IRRIDUCIBILI”

6 febbraio 2013 4 commenti

Pubblico, con un po’ di ritardo e con molto piacere, questo testo di Paolo.
Molto del materiale su Prospero che è stato pubblicato sul suo blog in queste settimane non ho fatto in tempo nemmeno a linkarlo, quindi vi consiglio poi,
di leggere anche un po’ dei testi maniacalmente riordinati in quella carrellata che poi troverete dopo l’articolo

Il testo è di quelli che vanno letti con calma,
di quelli che prendono il capello ( in questo caso l’uso, per altro sistematico, della parola “irriducibili” nei confronti di alcuni dei componenti delle formazioni armate che hanno alimentato in Italia quella rivolta manu armata che circolava nel mondo intero e in Europa tra gli anni  ’70 e ’80 ) e lo spaccano in diverse parti, lo sezionano, lo smontano nel dettaglio.
Perchè torna sempre più necessario farlo:
usare le parole nel modo giusto, aver conoscenza dei lemmi che si scelgono, destreggiarsi  tra le sfumature semantiche e linguistiche dei termini che ci vengono mossi contro, e che possiamo tranquillamente, lentamente ribaltare.
E sarebbe da farne un nuovo dizionario,
un dizionario ritrovato delle parole usate.
Iniziamo qui con irriducibili, potremmo poi passare a “sfasciacarrozze” 🙂

Buona lettura.

Una risposta a Benedetta Tobagi… 1/continua


In nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare  il nostro passato?

Roland Barthes

di Paolo Persichetti

C’è una parola che mette molta paura: quella di «irriducibile». Si è scritto tanto attorno a questo termine nei giorni scorsi, dopo la morte e la cerimonia di saluto a Prospero Gallinari, momento in cui i cosiddetti irriducibili, cioè quelli che sono stati descritti come gli indefessi, gli ostinati e gli irremovibili, altrimenti detto «coloro che non hanno mai fatto i conti col passato», e dunque per questo ritenuti ottusi e tetragoni testimoni della stagione rivoluzionaria degli anni 70, sarebbero sorprendentemente riemersi – cosa ancor più preoccupante – in folta compagnia.
Ne ha scritto su Repubblica in due occasioni, il 15 (qui) e il 24 gennaio (qui), Benedetta Tobagi, di fresca nomina al cda della Rai e proiettata, forse un po’ troppo in fretta, nel ruolo di amministratrice della memoria di quel decennio.

Irriducibile: un termine estraneo al lessico della lotta armata
Eppure contrariamente a quanto si è scritto in passato e si continua a scrivere, la parola «irriducibile» non appartiene al lessico brigatista. La diffusione di questa etichettatura ha contribuito non poco a fornire una immagine distorta della cultura politica dei militanti che hanno preso parte alla lotta armata. Proviamo a vedere perché.
Il lemma, in realtà, ha svolto una funzione centrale nel vocabolario dell’emergenza giudiziaria e penitenziaria. E’ un conio dello stato di eccezione italiano, impiegato dalla magistratura, utilizzato dai corpi di polizia e dall’apparato carcerario e, in seguito, divenuto di uso comune nel mondo dei media per classificare i prigionieri politici che hanno rifiutato di sottomettersi alla legislazione premiale e differenziale: la delazione remunerata dei collaboratori di giustizia (i cosidetti “pentiti”) e l’abiura, anch’essa remunerata, la cosidetta dissociazione.
Irriducibile, era e resta, chi ha rifiutato di accedere a queste due categorie. Un’area, quella della «irriducibilità», che include figure e generazioni molto diverse tra loro per opinioni politiche e atteggiamenti (sul perdurare o meno dello scontro armato e sull’analisi della società).
Per intenderci: sono considerati irriducibili i cosidetti “continuisti”, cioè coloro che hanno mantenuto ferma la convinzione nel proseguimento della lotta armata anche di fronte ai radicali mutamenti sociali e geopolitici intervenuti nel corso degli anni 80, al pari di quelli che si sono pronunciati in favore di una discontinuità, di un oltrepassamento dell’esperienza armata, o di quelli che in forme varie, anche meno visibili pubblicamente, hanno ritenuto conclusa l’esperienza della lotta armata avviando altri percorsi non più, o non sempre, politici, ricollocando il loro impegno – quando hanno pututo – su terreni civili, sociali e culturali.
Ciò che accumuna quest’area pluriversa, etichettata comunque come “irriducibile”, è dunque il rifiuto delle logiche inquisitoriali dell’emergenza giudiziaria. Nulla a che vedere con lo stereotipo riportato da Benedetta Tobagi nei suoi articoli (ma anche da altri), ovvero: «significato storico assunto dall’aggettivo, sostantivato per designare il terrorista o detenuto politico “che non recede dalle proprie convinzioni”». Lì dove per «recedere» – è bene sottolineralo – non si deve intendere una libera azione riflessiva, una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito, che potrebbe ispirare e accompagnare nobili percorsi di distacco interiore, momenti d’autocritica assolutamente disinteressati, autonomi e genuini, ma l’adesione ai dispositivi di assoggettamento previsti in sede penale e penitenziaria, attraverso una lunga serie di decreti e dispositivi legislativi di tipo premiale, varati tra il 1979 e il 1987, che introducendo trattamenti differenziali hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o di svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Qualcosa di assolutamente opposto ad ogni storicizzazione o esercizio libero ed autonomo della critica.
Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Se ancora le parole hanno un senso, in questa epoca dove ormai il senso sembra aver perso ogni parola, la nozione di irriducibilità dovrebbe designare l’emergenza giudiziaria, il protrarsi ad oltre tre decenni di distanza degli irrisolti penali, degli ergastoli, degli esiliati, gli ukaze contro la parola degli ex militanti di allora. Irriducibile è la memoria giudiziaria che dopo tanti decenni ha sovrapposto all’oblio penale l’oblio dei fatti sociali e alla memoria storica la memoria giudiziaria.

«Negli ultimi dieci anni l’Italia aveva subito la più radicale trasformazione socio-economica dal dopoguerra ed erano cambiati sia i soggetti sociali e politici delle lotte da cui erano nate le Br, sia i presupposti della nostra strategia rivoluzionaria. Prendere atto di queste trasformazioni era una necessità storica che valeva per me, quanto per chi desiderava seriamente interrogarsi sul significato di ciò che era successo. A quel punto la parola “irriducibile” non connotava nessuna realtà sociale. Era un trucco del linguaggio. A cosa si sarebbe dovuti essere “riducibili”? Secondo il potere, alla dissociazione: nel senso che non si era più irriducibili se si diventava dissociati!».

Renato Curcio (intervistato da Mario Scialoja), A viso aperto, Mondadori 1993, p. 209

«L’abiura è come un’eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela. Dirò una cosa che vorrei provocasse quelli della mia generazione. Quel che è avvenuto negli anni Settanta è roba nostra, non puoi glissare. I dissociati glissano. Mentre sarebbe stato possibile – difficile ma possibile – fare tutti assieme una riflessione vera, completa, senza rimozioni, dichiarando che era finita. Perché il progetto era realmente fallito, questo era chiaro, anche a quelli che continuarono non potendo far altro.[…] Fare questo dibattito sul serio e fino in fondo significava assumersi la responsabilità politica di tutto mentre si chiudeva tutto. E quanti erano disposti a farlo? Fra di noi e fuori di noi? Apperna si fosse arrivati a una discussione seria anche sul modo con il quale si reagì al fenomeno Br e lo si combatté, coloro che non vogliono fare i conti con quegli anni, avrebbero inchiodato la discussione con i soliti falsi misteri che servono a impedire che se ne parli. Avrebbero fatto e detto di tutto contro di noi – nella sconfitta, ci ricorda la scuola dei cinici, chi ha perso non solo ha perso, ma deve essere cancellato, deformato, annichilito».

Mario Moretti (intervisatto da Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate rosse, una storia italiana, Abanasi 1° edizione 1994, pp, 252 e 254

«Siamo al culto della delazione, alla canonizzazione dei collaboratori di giustizia. E in parte è colpa mia. Le confesso una cosa: ogni sera io recito un atto di dolore per aver contribuito, negli anni Settanta, alla diffusione di questo modo di fare giustizia […] Sa, sto pensando di presentare un disegno di legge per cambiare le cose: prendo le regole dell’Inquisizione di Torquemada e le traduco in italiano moderno. Ci sono più garanzie in quelle che nel nostro codice di procedura penale».

Francesco Cossiga, La Stampa, 19 aprile 1995

Che cosa vuol dire irriducibile?
Il primo significato suggerito dal vocabolario online della Treccani (qui) e ripreso anche dalla Tobagi nel suo articolo è, «Che non si può ridurre, cioè rimpiccolire, restringere, ricondurre a una forma più semplice». Altrimenti detto schiacciare. D’altronde l’etimologia è chiara: la particella prefisso “ir”, davanti a parole che inizano con “r” – spiega il dizionario etimologico – assume valore di negazione del significato positivo del termine corrispondente all’interno del quale è comunque ricompreso, a meno che il lemma non abbia assunto una sua rilevanza ed autonomia significative. Esempio: raggiungibile/irraggiungibile; razionale/irrazionale; resistibile/irresistibile, riguardoso/irriguardoso; rilevante/irrilevante.
Per esser chiari: irriducibile vuol dire «non riducibile», dunque che non può essere o non si lascia ridimensionare, che non può essere semplificato, banalizzato, appiattito, livellato. Per estensione: omologato, adattato, limitato, forzato, formattato, obbligato, impoverito.
E siccome le parole hanno senso solo se calate nel contesto in cui sono state coniate per fornire una definizione, in carcere irriducibile è colui che non si lascia piegare dalla disciplina punitiva dell’emergenza, è colui che resiste e oppone al tentativo di riduzione, di adattamento e formattazione ai valori dominanti, all’omologazione della norma, la ricchezza della propria esperienza, della storia dai cui proviene. In questo contesto irriducibile è sinonimo di complessità, estensione, espansione, molteplicità, stratificazione, sfumatura.
Irriducibile è quando ti si vuole imporre una forma e tu ti opponi perché ne contieni mille altre. Non a caso Benedetta Tobagi per contestare una cosa del genere è costretta a definire l’irriducibile, colui che «non depone l’armamentario ideologico per riconoscersi nei principi dello Stato costituzionale», come se lo Stato costituzionale – stando a quelli che sono i suoi postulati teorici – possa conciliarsi con il suo contrario, un assoluto etico a cui tutti devono uniformarsi, dove non c’è spazio sociale o pubblico autonomo e separato dallo spazio statale e quindi tutto ciò che è autonomia, figuriamoci critica, diventa immediatamente una forma di sovversione dell’etica istituzionale costituita.
Di irriducibili è piena la storia, pensate a Galileo.

«La storia, si è già detto, è stata sempre quella narrata dai vincitori. Bisognerebbe aggiungere e precisare che i suoi scrittori sono spesso reclutati fra gli sconfitti o i trasfughi, i quali in tal modo si trasformano in uomini vinti. A quanto pare, la lezione fornita dall’uomo vinto è alla base della nostra memoria. E oggi, per tanti aspetti, è come se ci trovassimo in una situazione fondativa, analoga a quella dei primi secoli della nostra era.
La storia degli eretici, per esempio, ci è stata raccontata soprattutto dai loro grandi nemici, gli eresiologi, e sulla visione di costoro si è fondata l’ortodossia; ma bisogna ricordare che la maggior parte di questi eresiologi furono degli eretici o dei pagani pentiti come l’ex manicheo sant’Agostino, così diventato potente vescovo di Cartagine, o l’ex pagano sant’Ireneo vescovo di Lione, autore di un testo – Contro le eresie – d’importanza fondamentale per la storia dell’ortodossia cristiana. Si potrà ricordare lo storico degli ebrei Flavio Giuseppe. Egli e i suoi compagni rimasero accerchiati dai romani e decisero di suicidarsi per non consegnarsi al nemico. Per ultimo rimase proprio Giuseppe; cambiò idea, passò dalla parte dei romani e si mise a scrivere la storia degli ebrei… per i romani, benignamente trattato dall’imperatore Vespasiano e aggiungendosi il nome Flavio».

Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie 1997, p. 89

Fare i conti?
Una delle caratteristiche dell’irriducibile, scrive Benedetta Tobagi, è la sua incapacità di saper fare i conti col passato.
Ma cosa vuol dire “fare i conti” ? Un giurista tedesco, Helmut Quaritsch (Giustizia politica, Giuffré 1995) lo spiegava all’incirca in questo modo:

«Fare i conti» va inteso come espressione che contiene un concetto comprensivo che include in sé la nozione di elaborazione e di superamento del passato. Processo non conclusivo, lì dove esso è legato al problema della ricerca storica, della coscienza della memoria, ma anche chiusura lì dove la riflessione giuridica configura la presenza di una componente formale di decisione e procedura del superamento del passato che si esprime nelle sentenze ma anche nelle amnistie».

continua/1

La cerimonia di saluto
Il discorso: “A Prospero Gallinari. Fine di una storia la storia continua
Tutti a Coviolo per salutare Prospero Gallinari la cerimonia si terrà domani 19 gennaio alle-14-30
Ciao Prospero
In diretta da Coviolo immagini e parole della cerimonia di saluto a Prospero Gallinari/1
In diretta da Coviolo in migliaia per salutare Prospero Gallinari/2
La diretta twitter dai funerali
Ciao Prospero
Gli assenti
Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”
Fine di UNA storia, LA storia continua
Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero

Testimonianze
“Volevo dirgli grazie per avermi fatto capire la storia di quegli anni”. Una testimonianza sui funerali di Prospero Gallinari
Perché sono andato ai funerali di Prospero Gallianari by Stecca
In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara
Su Prospero Gallinari
Da contromaelstrom.com – Ciao Prospero, amico e fratello
Gallinari e il funerale che andava fatto anche per gli altri
Un contadino comunista nelle lotte di classe degli anni 70

Riflessioni
Irriducibili a cosa?
Ancora una volta Prospero Gallinari ha spiazzato tutti
Laboratorio Aq16, Gli anni 70 che non finiscono mai. Riflessioni sulla cerimonia di saluto a Prospero Gallinari

La storia
Quadruppani – Mort d’un combattant
Bianconi – I parenti delle vittime convocati via posta per perdonare Gallinari
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
Gallinari è morto in esecuzione pena dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari un uomo del 900
Chi era Prospero Gallinari?
Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
Gallinari, Gotor e le lettere di Moro
Caselli Prospero Gallinari e i cattivi maestri
In risposta a Caselli su Gallinari

Punizioni e premi: la funzione ambigua della rieducazione

3 gennaio 2010 2 commenti

Quando il “trattamento” si trasforma in polizia della coscienza
di Vincenzo Guagliardo, Liberazione 3 Gennaio 2010

Lo storico è prudente per sua natura; esterna al lettore le sue tesi di fondo solo quando può documentarle dati alla mano con centinaia di note e snervanti citazioni di fonti d’archivio con relative abbreviazioni…; altrimenti, lascia al lettore trarre le sue conclusioni, seppure fortemente aiutandolo da quel che traspare dalle parole documentate. Egli fa il contrario del dietrologo, che esterna le sue opinioni o fantasie di cittadino spacciandosi per storico.
Il libro di Christian G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007 (Laterza 2009, pp. 216, euro 18) è quello dello storico, che prova a colmare un vuoto importante di conoscenza sugli ultimi decenni con criteri storiografici rigorosi. E che comunque gli permettono di dichiarare la sua narrazione dalla parte dei reclusi piuttosto che delle istituzioni, con l’auspicio di portare così «un contributo alla trasformazione» del sistema penitenziario. Ma la mia non vuol essere la recensione di un libro che ho pur apprezzato, ma un’interlocuzione. Qui c’è un problema: quale tipo di “trasformazione”? Non è quella dell’autore una dichiarazione troppo timida per un terreno come quello scelto? Nella prefazione al libro, Guido Neppi Modona, che è giurista, ci fornisce invece la sua senza esitazioni: «La sfida è appunto quella di trasformare il carcere – ancora basato sul principio, peraltro mai realizzato, del trattamento di detenuti italiani condannati per i reati della tradizionale delinquenza individuale – in comunità destinate a fare convivere qualche decina di migliaia di tossicodipendenti e di immigrati extracomunitari, assicurando condizioni di vita materiali e morali degne di un paese civile». E’ una prospettiva inquietante: un’estensione della pena (sofferenza legale) a decine di migliaia di persone per fatti che di per sé non dovrebbero neppure costituire reato. Non è questo il cammino già in atto e che già ci preoccupa? (E come andrebbe trattato il delinquente “individual-tradizionale”? con la stessa concezione tenuta fino ad oggi?).
Per fortuna, il libro di De Vito contiene tutte le premesse per arrivare a conclusioni opposte, anche se non esplicitate. E cioè (a mio parere): l’unica riforma utile è la riduzione del carcere: della sofferenza legale. Ogni sua trasformazione è sempre un boomerang per la società o, meglio, per la civiltà. Il carcere all’inizio era una sorta di isola separata dalla società. I riformatori non hanno mai combattuto il carcere ma, a loro parere, questa separazione. De Vito mostra i loro limiti e le loro ambiguità: fin dai tempi dell’Assemblea costituente nell’immediato dopoguerra, hanno contrapposto genericamente la necessità della “rieducazione” al principio preciso – sostenuto dai conservatori (il futuro presidente della Repubblica Leone, Bettiol, il giovane Aldo Moro) – sicuritario e afflittivo. In costoro c’era «la preoccupazione che l’introduzione del concetto di rieducazione, nel testo dell’articolo relativo alla pena, minasse l’intero impianto del sistema penale: la rieducazione aveva già un suo posto, ed era nell’ambito delle misure di sicurezza; alla pena della reclusione spettava la connotazione retributiva che, sia pure mitigata da un processo di umanizzazione, doveva rimanere ben visibile». In realtà proprio la pretesa e presuntuosa rieducazione entrando nel sistema retributivo l’ha rafforzato invece d’esserne l’alternativa. Ha finito per sostituire il premio al diritto, e così ha finito pure per farci uscire dal diritto tout-court. Da sempre, infatti, il carcere aveva attuato una pratica di punizioni-premi che si nascondeva alla società, e si sottraeva a ogni diritto ogni volta che poteva (e poteva grazie a chi girava lo sguardo dall’altra parte). Ma ora questa pratica è addirittura promossa al vertice della concezione che guida il nuovo… “diritto” penitenziario (legge Gozzini).
Ha vinto, “incredibilmente”, proprio grazie ai riformatori, ossia alla defunta sinistra italiana (forse defunta proprio per questo). Passaggio essenziale di questa sconosciuta rivoluzione copernicana è stato il grande contributo dato dalla sconfitta delle lotte armate italiane attraverso la “dissociazione” di una buona parte dei loro militanti, ossia l’abiura premiata, che ha ispirato la legge Gozzini. Da allora non si giudicano più i comportamenti ma si valutano le… anime: arbitrio e lealizzazione neo-inquisitoriali (di sinistra…?). Da allora nella società il carcere non è più un’“isola” ma il centro di un invadente arcipelago in cui la pena va ben oltre lo stato di detenzione nella sua politica di lealizzazione delle coscienze.
La riforma ha aumentato il numero dei reclusi e quello di chi è nelle mani del sistema penale anche al di fuori della reclusione vera e propria, e ha consentito l’orrore della formazione di campi di concentramento per stranieri. Per tutti, come nei lager, si è puniti per quel che si è e non per quello che si fa. Perciò, l’unica riforma possibile è la riduzione di questo centro. Parafrasando Thoreau a proposito del governo migliore (in Disobbedienza civile, 1849), direi che preferisco il carcere che incarcera meno, e anzi, che il miglior carcere è quello che non incarcera affatto.
Questo in Italia vuol dire anzitutto abolire l’ergastolo come nei paesi europei più civili. La diminuzione delle pene verso livelli europei diminuirebbe poi il sovraffollamento delle carceri perché solo questo può far diminuire la condizione disumanizzante e i regolamenti che ipocritamente la rafforzano in nome di presunte riforme umanizzanti, che hanno il solo scopo di accettare il sovraffollamento. Oggi viviamo ormai pene indefinite, affidate a pareri sempre più indefinibili su reati che vanno verso l’infinito. Il carcere e il sistema penale sono ormai irriformabili: speriamo – siamo disperatamente costretti a dire – che siano almeno nell’immediato riducibili con pene certe invece che fluide e vischiose.
Foucault diceva che è davvero strana quest’idea della nostra civiltà: che la sofferenza inflitta possa elevarci spiritualmente. Purtroppo quest’idea continua ad accomunare gli opposti schieramenti, che tali – cioè “opposti” – proprio per questo motivo più non sono. E amen.

E ora una domanda: si vuole aumentare la pena ai poliziotti che sparano, aumentare quella per i violentatori e i pedofili, tenere chiuso persino un ultranovantenne nazista di nome Priebke, o cambiare strada? La prima aumenta i reati, perciò rafforza la giustezza del concetto “reato”, e ciò mi pare, alla luce della “Storia”, un suicidio per ogni idea di progresso civile – e spirituale. Per la seconda, chi scrive aspetta che si creino le condizioni per poterne parlare onde non farlo a vanvera. Per adesso, mentre assisto alla crisi sempre più profonda della giustizia penale, mi faccio la galera, direi quasi volentieri. Nulla vedo all’orizzonte; ogni tanto mi viene da sperare in una stramba idea, come primo passo: che nella magistratura qualcuno ancora “all’antica”, un vecchio conservatore si ribelli, invece di compiacersi, al sovraccarico che la “politica” gli ha affidato, prima con una sorprendente “via giudiziaria al socialismo” (ai tempi di Tangentopoli), ormai con l’abdicazione stessa alla politica di politiciens autoreferenziali, di “destra” o di “sinistra” che siano.

La sindrome di Quirra

26 aprile 2009 21 commenti




La trasmissione l’INCHIESTA di Rainews24 torna a Villaputzu in Sardegna, un piccolo centro adiacente al poligono militare di Quirra, il più grande d’Europa. 

Dopo le denunce sull’uranio impoverito e la presenza delle nano particelle di metalli pesanti individuate in animali nati malformati e persino nei tessuti di alcuni militari del poligono interforze, si parla ormai da anni della cosiddetta Sindrome di Quirra.
L’ inchiesta si occupa anche di un aspetto finora tralasciato dalle ricerche precedenti: la presenza di campi elettromagnetici nella banda delle microonde, prodotti presumibilmente dai radar installati nell’area militare. Il “caso Quirra” riemerge dunque con la sua lunga catena di morti nella minuscola frazione alle porte del poligono più grande d’Europa e con i dati terribili delle nascite di bambini deformi nel piccolo paese di Escalaplano. Da oltre vent’anni gli abitanti vivono nel terrore. Il tasso di natalità medio è di 20 nascite l’anno ma nel 1988 ci sono state ben sei nascite “anomale”, tra le quali anche un caso di ermafroditismo.guerra_morte
L’attività del poligono non sembra rallentare. Il poligono di Quirra, cresce non solo in estensione ma soprattutto nelle tipologie di armi sperimentate e nei test degli aerei senza pilota e rischia di trasformare la Sardegna in un territorio asservito alle esigenze militari e industriali su scala internazionale. 
Per avere dati precisi sulla cosiddetta sindrome di Quirra il gruppo inchieste di Rainews24 ha deciso di effettuare delle analisi sulle urine di 3 volontari: il primo è un agricoltore che vive e lavora vicino al poligono sempre a contatto con la terra e quindi con le polveri;
Il secondo è un ex operatore missilistico che ha lavorato fin dal 1968 in basi militari, la maggior parte del tempo proprio qui in Sardegna, malato terminale che non vuole che il suo caso venga usato per coinvolgere il poligono anche se non esclude l’eventualità che questo sia coinvolto. Il terzo è un pastore. Suo padre è morto di leucemia e la zona dove opera si trova proprio tra le due aree del poligono. Racconta che 3 anni fa 20 capretti sono nati ciechi SU UN GREGGE DI 300.
Siccome non riuscivano ad essere autonomi, a pascolare, li hanno macellati. Ma quale è la causa misteriosa della Sindrome di Quirra?  

MA QUI NESSUNO CHIEDE GIUSTIZIA E CERTEZZA DELLA PENA?
CI AMMAZZANO QUOTIDIANAMENTE, CI AVVELENANO, CI SFRUTTANO, CI MASSACRANO LE TERRE E NESSUNO PAGA.
NESSUNO PAGA MAI.  
PERO’ COME SI URLA PER OTTENERE L’ESTRADIZIONE DI MARINA PETRELLA, COME SI URLA PER NON DARE LA CONDIZIONALE A GUAGLIARDO DOPO 33 ANNI TRA LE SBARRE, COME SI SBRAITA SULL’ALLARME SICUREZZA/ROM/ROMENI E TUTTE LE ALTRE STRONZATE.
CONTINUIAMO COSI’, A FARCI AMMAZZARE E A FARE I GIUSTIZIALISTI.
POVERA ITAGLIA


Qui il comandante del poligono Fabio Molteni con le sue agghiaccianti dichiarazioni!

Ad Edoardo Arnaldi

18 aprile 2009 Lascia un commento

EDOARDO ARNALDI

-Nasce a Genova il 27 novembre 1925
– dal 1949 lavora come avvocato civilista, nel ’69 diventa penalista
-milita in Soccorso Rosso
– muore suicida a Genova il 19 aprile 1980, quando i carabinieri vanno a casa sua per arrestarlo. Nelle stesse ore a Milano arrestavano un altro avvocato, Sergio Spezzali, per « connivenza » con le Brigate Rosse.

Vincenzo Guagliardo : Testimonianza del Progetto Memoria, Carcere di Opera 1994
Subito dopo l’esecuzione di via Fracchia, le forze dell’ordine andarono ad arrestare l’avvocato Edoardo Arnaldi poichè Sulla base delle indicazioni di Patrizio Peci, egli ormai non poteva che essere un brigatista.pugnochiuso
La nascita del « pentito » moderno fonda improvvisamente una nuova etica : la comunità non è piu’ orgogliosa, (per se stessa) di avere piccole « zone franche » dove il medico, o l’avvocato devono restare impuniti e devono incontrare il fuorilegge in pericolo per la propria vita o libertà. I delicati contrappesi di una cultura costruitasi in secoli spariscano in un baleno. Le definizioni usuali che ne conseguivano per l’identità e la coscienza del singolo sbiadiscono, le parole dello storico o del filosofo vengono sostituite da quelle del giudice e del poliziotto, le quali stritolano, riducono, annullano ogni differenza nella semplice e immensa visione del complotto.

Devo qui confessare che Edoardo accettò, per esempio, di incontrarsi con me, mentre ero brigatista e latitante, perchè considerava ciò un suo dovere nella sua … antiquata morale. I suoi modi, la sua voce, i suoi ragionamenti avevano una gentilezza d’altri tempi. Neppure io, all’epoca, ero cosciente dei cambiamenti avvenuti. Mi era parso dunque giusto incontrare quest’uomo onde dargli un aiuto économico per sostenere i suoi viaggi appresso ai compagni in carcere e ai loro casi. Non vedevo grandi rischi per lui.
Quando le forze dell’ordine arrivarono a casa sua per un motivo del genere, Edoardo chiese di andare un attimo in un’altra stanza, e qui si sparò un colpo di pistola e morì. Mi viene in mente la filosofia di Anders, secondo la quale l’essere umano risulta essere ormai un prodotto antiquato rispetto a ciò che ha costruito, rispetto ai suoi stessi prodotti. E a volte si ribella come può, aggiungo.
Va detto che Edoardo s’era rovinato economicamente per noi. Aveva accettato di difendere i brigatisti insieme a Sergio Spazzali, e si era ritrovato umanamente sempre più solo e senza più tanti clienti. Ma tutto questo non è niente perchè dei suoi beni svenduti penso che se ne fregasse. Il fatto è che stava pure male fisicamente : era diabetico e affetto dal morbo di Bürger, ragion per cui, quando lo rividi da clandestino, zoppicava vistosamente.

Foto di Bruno Barbey _Sotto il selciato la spiaggia_

Foto di Bruno Barbey _Sotto il selciato la spiaggia_

Provo ora ad interpretare il suo gesto anche se mi rendo conto dell’arroganza e dell’insufficienza di un tale tentativo di fronte alla complessità dell’essere umano che si suicida.
Edoardo era stato un partigiano, uno dei tanti che erano rimasti delusi dei risultati ottenuti dalla Resistenza. Perciò sviluppò verso i brigatisti dei complessi rapporti « paterni ». Disse in un’arringa che avevamo dovuto fare i conti con i limiti di quanto aveva ottenuto la lotta della sua generazione.
Perciò essendo ancora noi dei « ragazzi con il sangue nelle vene », avevamo dovuto cercare a modo nostro e come potevamo di finire ciò che lui e quelli come lui avevano provato a cominciare. Oserei dire che ci vedeva a errare da limiti suoi più che nostri… Penso che in questo tipo di affermazioni ci sia un ingiusto « complesso di colpa » verso se stesso, ma al tempo stesso e al di là di questo,  un profondo senso storico, una coscienza della inevitabile e necessaria contraddittorietà dell’atto umano volto alla liberazione. Il limite viene individuato per rafforzare la solidarietà invece che per giudicare ; per non rinunciare al cammino.
Certo è che una persona come questa, trovatasi di fronte all’idea di finire in galera in quelle condizioni, avrà pensato più o meno : « Nelle mie condizioni fisiche finire in carcere significherà dover accettare umiliazioni per ogni cosa ».
Inoltre, c’era in lui l’uomo deluso dagli esiti della Resistenza che ora doveva fare i conti con un arresto dovuto a tradimento fondato -per giunta – su una malafede interpretativa impensabile fino a pochi anni prima. E c’era proprio uno dei suoi « figli » ideali  che per cavarsela lo denunciava così. Qui l’uomo antico che era in lui si sarà ribellato : il vecchio amico dichiarato, ma non identico ai giovani brigatisti, non poteva accettare di essere così presentato e denunciato proprio da un brigatista delatore. E allora un uomo che sta male è orgoglioso, non ci sta ad accettare giorni umilianti per le sue condizioni fisiche e per una ragione del genere : un secondo tradimento dei suoi sogni. Allora va nell’altra stanza e si spara.
In un nuovo contesto, con altri pensieri più ricchi d’esperienza, bisognerà riconquistare le caratteristiche dell’  « uomo antiquato rispetto al suo prodotto », farlo rivivere.

ABOLIAMOLE: presentazione del libro ABOLIAMO LE PRIGIONI? di Angela Davis al Volturnoccupato

6 marzo 2009 Lascia un commento

 

aboliamoleprigioni-davispAboliamo le prigioni?” sarà presentato domenica a Roma al Volturnoccupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell’ambito di una “giornata sulla prigionia femminile” organizzata da Scarceranda e Ora d’aria 

di Vincenzo Guagliardo, Liberazione 6 Marzo 2009

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E’ rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi “maestri”, il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson,

Funerali di George Jackson

Funerali di George Jackson

da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l’abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , minimum fax, 270 pagine, euro 14,50).
Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà».
I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all’invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a cella_largeGuantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della “democrazia”, cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, “il cancro” della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? E come ignorare che l’esportazione della “democrazia” americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… “di brutto”?
Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell’abolizione»). Ma immagino che l’intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d’intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria…
Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l’attualità delle tesi abolizioniste dell’autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un’attualità tutt’ora virtuale, s’intende…

Sabina Rossa ottima e coraggiosa!

16 ottobre 2008 1 commento

Sabina Rossa: «Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre»
Giorgio Ferri, Liberazione del 16 ottobre 2008 

Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano, sindacalista della Cgil e militante del Pci ucciso nel corso di un’azione realizzata dalla colonna genovese delle Brigate rosse, ha chiesto alla magistratura di sorveglianza di riconsiderare la decisione che ha portato al rifiuto di concedere la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, 31 anni di carcere sulle spalle, anche lui ex operaio della Fiat e membro del gruppo di fuoco che la mattina del 24 gennaio 1979 colpì suo padre.
«Ho incontrato Vincenzo Guagliardo quando era in regime di semilibertà e credo di poter testimoniare a favore del suo ravvedimento», ha dichiarato la deputata del Pd, aggiungendo di voler «parlare con il giudice perché possa riconsiderare la sua decisione».
Guido Rossa venne colpito dopo aver denunciato e fatto arrestare dai carabinieri un altro operaio, Francesco Berardi, suo compagno di lavoro, sospettato di diffondere volantini delle Br in fabbrica e poi morto suicida nel carcere speciale di Cuneo. 
L’episodio fu uno dei momenti più drammatici e laceranti della storia di quegli anni. Mise a nudo la profondità di un conflitto che arrivava fin nel cuore più rosso e combattivo della classe operaia e segnò uno dei punti di crisi maggiore nella strategia brigatista.
La scelta di colpire Rossa fu molto dibattuta all’interno delle Br, consapevoli dei rischi politici che quell’azione comportava per la loro organizzazione. Dopo aver scartato per ragioni operative l’ipotesi del rapimento incruento, i brigatisti optarono per il ferimento ma qualcosa andò male quella mattina. L’inchiesta giudiziaria accertò che Guagliardo aprì il fuoco solo per ferire il sindacalista. Dietro di lui Riccardo Dura intervenne nuovamente colpendo Rossa, questa volta mortalmente forse perché questi nel tentativo di sottrarsi aveva spostato il baricentro del suo corpo. In un comunicato dell’esecutivo i brigatisti parlarono di errore. La morte di Rossa suscitò viva emozione nel paese e i funerali furono l’occasione per un grande cordoglio di massa. La colonna genovese non si riprese più dopo quell’episodio.
Sabina Rossa era una bambina in quegli anni e in un libro pubblicato nel 2006, Guido Rossa, mio padre (Rizzoli Bur), rievoca il doloroso percorso della memoria, la riscoperta del padre attraverso chi l’aveva conosciuto e con lui aveva vissuto la fabbrica, la lotta politica, il clima di “guerra civile contro il terrorismo”, la grande passione per l’alpinismo. Un libro molto sincero, che non nasconde nulla e svela anche aspetti rimasti sconosciuti. Un percorso del lutto che la porta a voler incontrare anche le persone condannate dalla giustizia per la morte del padre. Una passaggio difficile ma a cui Sabina Rossa, mostrando grande forza e coraggio, non si sottrae. Il libro si apre con la telefonata a Guagliardo, che interpella subito con un «tu», quasi fosse una figura familiare. Finalmente dava una voce, una consistenza materiale a una figura che per decenni aveva accompagnato i suoi pensieri, le sue angosce, la sua rabbia, i suoi incubi, la voglia di sapere.
Il libro riporta i passaggi registrati della telefonata, l’imbarazzo ma anche la cordialità umana del detenuto. «Tu hai debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi» e Guagliardo accetta. 
Nell’ordinanza che il 23 settembre scorso il tribunale di sorveglianza di Roma ha emesso per motivare il rigetto della domanda di semilibertà non c’è però alcuna traccia di questo episodio. A Guagliardo, sia pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» realizzato, si contesta paradossalmente «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime. 
Qui si tocca un nodo di fondo, lo stesso affrontato in una lettera scritta nel luglio scorso da Marina Petrella, ma resa nota solo ieri e pubblicata da Le Monde , «il dolore delle vittime mi ha sempre accompagnato. Il pudore nel manifestarlo e il rifiuto di ricavarne un qualunque guadagno personale sono state sempre le uniche ragioni che hanno fatto ostacolo alla sua espressione».

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