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Al-Karama, campo rom: una mostra a Roma

24 dicembre 2013 2 commenti

Occhi che catturano e hanno mondi interi da raccontare:

Foto di Alessia Di Summa

Foto di Alessia Di Summa

occhi piccoli e immensi, che in pochi hanni di vita hanno imparato il significato di alcune parole in modo molto diverso, rispetto ai nostri figli, loro coetanei. Questi tre scatti, bastano questi tre scatti per capire che questa mostra è da vedere e vivere,
che le parole e i volti che Martina e Alessia ci son venute a raccontare, meritano di essere incontrate…
La mostra sarà visibile fino al 6 gennaio alla città dell’altra economia

Quindi mi fa piacere ospitare questo testo di Luca Tincalla, amico e autore di “Testimone a Gezi Park” (libro autoprodotto che da un paio di settimane potete trovare in giro) che ha appena visitato la mostra…

Al Karama è il nome di un campo rom situato tra Borgo Montello e Borgo Bainsizza, nella periferia di Latina. Al Karama è, anche, il nome di uno dei tanti campi rom disseminati per la penisola italica; per chi non se ne fosse accorto. E al karama, infine, è una parola araba e significa dignità.

Ma dignità di chi? Di chi vive lì di espedienti o di chi vive fuori e ignora (in)coscientemente quello che accade lì dentro? Chi è che erige un muro d’indifferenza sulla vita nei campi rom è chi ci vive o chi ne vive fuori? Domande.

Domande alle quali hanno tentato di dare risposte Alessia Di Summa, fotografa, e Martina Nasato scrittrice, attraverso un vernissage a Città dell’altra Economia, Testaccio, Roma. Risposte personali, certo, ma non per questo meno forti, intense e vere di quelle che potremmo leggere in un giornale. In un giornale che ne parlasse, intendo. Perché, in effetti, quest’argomento come quello dei migranti sta diventando sempre più démodé in Italia; e il fatto che oltre alla crisi economica si stia vivendo una crisi sociale, sorprendentemente, non aiuta.

DSC_0903-ModificaPer fortuna, a mio avviso, ci sono ancora persone che non vogliono rimanere a sguazzare nella palude delle notizie non date. Martina e Alessia, armate di una penna e di una macchina fotografica, sono entrate dentro al campo rom per raccontarci quel che succede. L’hanno fatto in punta di piedi e solo con il tempo, dopo aver chiesto permesso, dopo esser state accettate (non da tutti, ci mancherebbe, ma una parte di rom ora è meno diffidente), hanno cominciato a narrare la loro testimonianza. Una testimonianza che potreste condividere, anche voi, se andrete alla Città dell’altra Economia. Il vernissage si concluderà il 6 gennaio, non c’è molto tempo.

Quando ho intervistato Martina, la scrittrice, mi hanno colpito queste sue parole. “Quando entri nel campo rom esci dall’Italia”.  Già. Ma a quale Italia? L’Italia ancora esiste? E cos’è? Sia Martina sia io, credo, stiamo avendo seri problemi a definire questo paese che fa dell’indifferenza una delle sue armi più forti. Poi, alla domanda che cosa ti ha colpito quando sei entrata lì dentro Alessia ha risposto: “Mi ha colpito il loro senso di libertà. Un puro istinto. Senza filtri. Con il rovescio della medaglia di una vita dedicata alla ricerca del denaro per la sopravvivenza, una prigione. L’amore, l’amicizia, i sentimenti in genere, tutto è sacrificabile per arrivare all’alba di un nuovo giorno”. Guardando le foto di bambini che giocano in pozzanghere d’amianto, che si dondolano su altalene di corda, che disegnano scritte vittoriose con il nero opaco di bombolette spray semivuote, con visi sporchi di fango misto a cioccolato, che pregano con un rosario che non appartiene a nessun dio… credo di aver capito qualcosa anch’io. E se nelle venti foto che Alessia espone raramente appaiono adulti è perché gli adulti, in generale, non si possono permettere di essere ripresi e già e tanto che Alessia sia riuscita a scattare queste istantanee che hanno come focus i volti delle persone del campo.

Martina, la scrittrice, mi dice che frequenta il campo da qualche anno ed è grazie a Paolo Bortoletto che n’è venuta a conoscenza. E Paolo Bortoletto è solo un agricoltore che viveva nei pressi del campo rom e si è chiesto chi fossero queste persone e come avrebbe potuto aiutarle – al posto di andare lì con un forcone, ma questa è un’altra storia. Quando ho chiesto a Martina quale fosse la prima cosa che l’ha colpita, lei mi ha risposto così. “Sapevo sarei andata in un ambiente degradato ma non fino a questo punto. L’odore. Il fetore. La puzza. Io le prime volte che sono andata lì non riuscivo a respirare, avevo conati di vomito. Eppure quelle persone vivevano lì come se nulla fosse. Allora ci ho provato anch’io, ho provato a respirare come loro, e con il tempo mi sono abituata a sopportare l’odore. È stato difficile entrare in questo mondo poiché i rom sono molti diffidenti con noi, gli italiani. Hanno paura di aprire le loro porte non per mostrare la miseria, che c’è, ma perché temono che gli italiani possano fare la spia. Il finto rispetto che provano per le autorità non è altro che una corazza che li aiuta a resistere e ritornare un’altra volta a casa. Ma non è che non provino emozioni, basta guardare le foto di Alessia per capire che sono persone con un’incredibile gioia di vivere, glielo si legge negli occhi”.

Sono risposte semplici quelle che hanno dato Martina e Alessia. E le risposte semplici sono le più difficili da dare. Ora sta a noi porci delle domande.

“Scopo della mostra – spiegano le autrici – è quello di sfondare il muro dell’indifferenza e insinuare il seme della curiosità. Non c’è volontà di rendere edotti, né di costruire un filo narrativo lineare. Quel che cerchiamo di trasmettere non è la sensazione di aver capito, di aver conosciuto una realtà, peraltro tanto circoscritta quanto difficilmente penetrabile, bensì speriamo di insinuare nello spettatore e nel lettore l’impulso ad approfondire per conto proprio il tema affrontato. Lo facciamo rappresentando, attraverso due espressioni artistiche diverse, quelle che sono state le nostre emozioni”.

Luca
workingclasshero@lucatincalla

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“Testimone a Gezi Park” sbarca a Roma

12 dicembre 2013 Lascia un commento

Luca Tincalla per me era @workingclasshero,
poi è arrivata la rivolta di Gezi Park ed è più amichevolmente diventato “il turco”,
fanciullo misterioso che narrava le vicende che accadevano intorno a lui, con occhio curioso e parole apparentemente distratte.
Ho immediatamente pubblicato i suoi testi,
me li mandava dalle periferie anatoliche e non esitavo un secondo a metterli sul blog.
Mi piaceva il suo modo di scrivere, sembrava un passante spaesato che voleva solo capire quell’effervescenza virale ed improvvisa: poi l’ho visto come per magia arrivare a Testaccio, in piena estate, con la sua bicicletta malgrado un caldo raro.
I suoi scritti hanno subito preso forma, ancor prima di in un aperitivo tra scivoli, altalene e pancioni scalcianti: lui scrive precisamente come pedala, parcheggia, cammina per il mondo. Luca e le sue parole si assomigliano come si mormora dei cani con i loro compagni umani.

Ora quelle pagine son diventate un libro autoprodotto ed anche il nostro aperitivo è diventato letteratura 😉
quindi sabato 14 venite a farvi due chiacchiere con lui e chi vuole saperne ancora dei suoi racconti da un parco che voleva resistere,
del mondo che intorno a quegli alberi è nato, in quel paese e nella vita del nostro ciclista stanco ma tenace.
A sabato e … buona lettura.

Sabato 14 Dicembre alle ore 19
presso la Libreria Antigone in via degli Ausoni 48,  Roma
Testimone a Gezi Park
di Luca Tincalla
(Sarà presente l’autore)

a fine presentazione Aperitivo solidale a sottoscrizione per la Libreria Antigone
A Istanbul, un uomo in cerca di se stesso si ritrova – volente o nolente – a essere testimone di quello che succede a Gezi Park. Gezi Park è un fazzoletto verde, un parco, nei pressi della piazza di Taksim, teatro storico delle principali manifestazioni in città e nel Paese. Perché degli abusivi (degli attivisti) stanno occupando il suolo pubblico? Per cosa manifestano? E contro chi? Mentre l’uomo, che è a Gezi Park per caso, si pone queste domande, un poliziotto si avvicina e con un idrante lo annaffia dalla testa ai piedi. Pian piano, andando avanti, l’uomo comincia a perdere la sua innocenza e ad acquisire consapevolezza. Ma è pur sempre un emarginato, un pazzo, un çapulcu; non sarà facile per lui capire e, infatti, il “processo di consapevolezza” sarà un po’ il leitmotiv del libro.

Testimone a Gezi Park è stato pubblicato su giap di Wu Ming (con il loro articolo sulla rivolta in Turchia), qui: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=13550

Turchia: vittime collaterali

14 settembre 2013 2 commenti

Un post da @workingclasshero che ci racconta le ultime ore ad Istanbul,
Grazie caro!

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Serdar Kadakal è morto stamattina. È morto per un attacco cardiaco dovuto a inalazione di gas. È morto perché da tre giorni a Kadikoy, quartiere in parte asiatica di Istanbul, va in onda uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio offerto dalle forze dell’ordine. Non è dunque il gas delle mura domestiche che ha stroncato Serdar, ma quello nostrano delle forze del disordine. Omicidio? Suvvia non scherziamo. Chiamiamola tragica fatalità.

Una fatalità che aveva già preso tra le sue braccia il destino di Metin Lokumcu, Irfan Tuna e Selim Onder. Non c’è due senza tre. Ora siamo arrivati a quattro. Quattro vittime – morti non basta – collaterali agli eventi di occupygezi. Difatti nessuna di queste quattro persone è morta negli scontri, anche se le famiglie spingono su questo fatto, anche se la loro scomparsa è legata a questi. Una morte indiretta, se vogliamo, ma scordatevi la casualità. Non si muore per caso.

Ma perché da tre giorni si protesta a Kadikoy? A questa domanda vorrei rispondere non in maniera sintetica, preparatevi a sorbirvi un mezzo pippone. Anzi, no. Prima rispondo, non sia mai si vada a cercare la ragione tra le pagine di qualche infausto quotidiano. A Kadikoy – e a Istanbul, Ankara, Izmir e altre città – si protesta perché pochi giorni fa è morto (ammazzato?) un manifestante. Ahmet Atakan, 22 anni, secondo la polizia si è buttato di sua volontà da un muretto, mentre per i ribelli è stato centrato in pieno da un candelotto lacrimogeno sparatogli da cinque metri. Dov’è la verità? In un video, in effetti, si vede cadere Ahmet da un muretto. Ma cade a peso morto, come un pupazzo, senza muovere un arto; per gli sviluppi si aspettano il RIS di Parma o il CSI. Domanda tecnica per gli esperti di balistica: i candelotti non si sparavano a 45 gradi dal terreno?

Pippone. In Turchia non si manifesta da tre giorni. La protesta non si è mai fermata. Continua dalla fine di maggio e, come tutte le cose, si è evoluta (o involuta, dipende). C’è meno gente che a giugno/luglio, ma più che ad agosto. Niente bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. E nemmeno occupygezi due, che fa molto vendemmia. No. È la natura che è cambiata, meno di pancia e più con il cervello – anche se i morti sembrano smentirmi. Ci sono più partiti adesso che aprono le bandiere dentro le manifestazioni, tipo il BDP e il CHP, e non è necessariamente un male; peccato che questo nuovo partito non ce l’ha fatta a formarsi e non ci sia segno di una grosse koalition. I forum, comunque, stanno dando una spinta eccezionale alla protesta e continuano e continuano, non si sono mai fermati.

Il motivo vero per il quale si è perso di vista la protesta in Turchia, in Italia come altrove, è che non interessa. Diciamocelo. Non fa audience. I morti assordanti dell’Egitto hanno rubato giustamente la scena per poi essere rimpiazzati da quelli silenziosi della Siria. Per un giorno eh, non di più. Poi, pure per loro, dura minga. Dicono che un premio per la pace si prepara a combattere l’ennesima guerra, io non lo so, non so più chi è il buono e chi è il cattivo. Il brutto è che girarsi è troppo facile, ignorare è troppo facile, fare finta di niente è troppo facile. La Turchia è finita sui giornali pochi giorni fa quando Istanbul ha perso la possibilità di tenere le olimpiadi del 2020, ancora ho letto di gente che in Italia pensava a un’opportunità persa per la “democrazia” quando qui i capulcu erano per le strade a festeggiare. A festeggiare una sconfitta. Ossimori, eh?

E così mi sento un po’ io. Sconfitto. Ma non ancora vinto. E fino a quando avrò fiato scriverò le mie parole su un pezzo di carta e che buon pro vi faccia.

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