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A Claudio Rotondi, volato via troppo presto…


Sapere che te ne sei andato mi lascia un grande vuoto.
Sapere che tra poco sarai terra, mi consola e mi fa sorridere.
Sapere che non litigheremo più mi crea un grande vuoto.
Ciao antipatico rompicoglioni,
t’ho sempre voluto tanto bene, ciao compagno nostro.

[…]
Mi avranno
soltanto
con un colpo alle spalle
I D’Anthes non mireranno alla mia fronte
Quattro volte invecchierò, quattro volte sarò ancora giovane
prima di
scendere nella tomba.
Dovunque io muoia
morirò cantando.
Dovunque io cada
sarò degno di giacere laggiù
con chi è caduto sotto la rossa bandiera.
Ma comunque vada
la morte è sempre la morte.
E’ spaventoso non amare
terribile non osare più.
C’è per tutti un colpo,
per tutti un coltello.
E per me che cosa?
E quando?
Nell’infanzia forse,
sul fondo,
ritrovo in tutto
dieci giorni discreti.
E quel che tocca agli altri?!
A me già basterebbe!
Ma no.
Vedete
non l’ho avuto!
Credere all’aldilà!
Lieve il banco di prova.
Basta
tendere la mano
e in un attimo
il colpo
ti traccia nell’oltretomba
il cammino sibilante.
Ma che fare
se con tutta
con tutta l’ampiezza del cuore
io
ho creduto
e credo
in questa vita
e in questo mondo.
Petizione A.. (vi prego, compagno chimico, compilate voi stesso) Majakovskij

Foto di Valentina Perniciaro _Claudio, nel suo habitat naturale_

 

  1. keoma
    28 novembre 2010 alle 22:08

    In ricordo di Claudio Rotondi

    Galleria fotografica al link :

    http://www.cobas.it/index.php/cobas/Multimedia/Foto/In-ricordo-di-Claudio-Rotondi

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  2. Oreste e Lucia
    19 dicembre 2010 alle 22:32

    …e adesso, anche Claudio…..

    Un’altra vita che si chiude, sta diventando una cadenza, è la cosa più normale del “mondo”, eppure ogni volta diventa un dolore acuto, singolare, come se la persona che si perde fosse un’ eccezione iniqua, per lei/lui e per “io”/nojaltri, e non lo sapessimo da sempre, non vivessimo aspettando[ce]lo e anche artigliati da questa consapevolezza che passa come un’ombra, a tratti più o meno lunghi, sulle nostre giornate.

    Non siamo “soli al mondo”, ed è bene non pensarci né “i migliori” né i più “crudelmente colpiti, bersagliati, proditoriamente usurpati di una pienezza di vit ache ci spetterebbe….”. Epperò, niente da fare : Claudio oggi, riaffiora un’immagine come di “conosciuto da sempre”, anche « familiare » nel senso buono del termine. Le distanze spazio-temporali si appiattiscono, non possiamo identificare un luogo e un momento, una “data di nascita” della nostra amicizia e “compagnità” : riunioni (piene di fumo), cortei, manifestazioni corse scontri…, radio, cortile di prigione e un saluto mandato dal cortile mentre passi, se ricordo bene. Insomma, una vita.

    Alcune cose, sovrappensieri ricorrenti ogni volta, diventano come una sorta di giornale intimo/pubblico, una sorta di epigrafe, quasi un manifesto …

    Un’altra vita (sia detto senza jattanza proprietaria, identitaria : una vita “nostra”, di uno-di-noi, noialtri, gente comune eppure per noi, con un rapporto ulteriore, un po’, come dire….speciale) – ancora una vita che si chiude, altri pezzi del nostro vissuto che vanno disincarnandosi.

    Una sorta di desertificazione, se non ci fosse l’irrompere incessante di un presente, un “ora qui ”, che in continuo si ripopola, con intensità a tratti crescente di irruzioni perentorie, epperciò risulta vitale e al contempo struggente perché finisce per saturare tempi di vita, spazî, territorî esistenziali inesorabilmente distanziando “ère” pregresse che si fanno nostro malgrado come remote, e riaffiorano periodicamente come inquietudine d’inadempienza.

    Così è : di ‘cerimonia degli addìi’ in altra cerimonia altri addìi, è come se anche da noi stessi andassimo prendendo congedo. Senza saper veramente come, nell’aggiungersi di lutti e di tentativi d’elaborarli – travail/deuil… Senza per altro, malgrado l’intensificazione della cadenza, abituarvisi mai : ogni volta daccapo, è una sorta di sbigottito sgomento come di, come da, bambini – chi può dire di non averlo conosciuto ? Si gira in tondo – gli opposti non si elidono, non si compensano, vorticosamente si esaltano – tra la percezione della singolarità, dell’unicità di ogni morte, e la vertiginosa astrazione dell’inferita generale ineludibile mortalità ; nonché per il vuoto e la diminuzione che si sente per chi “viene a mancare”, e il presagio del ‘venire a mancare’ noi stessi per gli altri – come nell’effetto di vertigine in cui si vede il nostro proprio corpo precipitare.

    Non so…, tendo a pensare, che tutte le sapienze del mondo non possano pervenire a cancellare davvero il gelo nelle ossa per quello che, nella “filosofia ingenua” di domande infantili, torna e ritorna come concatenamento di enigmi e vertigine, che il discorso non esorcizza o rischiara – in ogni caso, non del tutto.

    ‘Esseri parlanti’, formanti specie detta « specializzata nella parola epperciostesso pericolosa », sportisi fuori dell’essere e riguardatisi, concepitisi, avent’inferito l’altro, la mortalità, affrancata dal governo innato dell’istinto di autoconservazione della specie e lanciata nel logos con tutto quanto ne segue, siamo – mi pare si possa dire – fatti d’altri : ogni sottrazione finisce per introdurre ad una sorta di anticipazione di quell’attimo interminabile finale d’ognuno detto iper-opsìa : in cui, si dice, si rivisita tutta la propria vita.

    Scorrono, ora qui, gli anni dell’ assalto al cielo. Riaffiorano sequenze, situazioni, ‘paesaggi’, quei territorî esistenziali sempre più accanitamente fatti oggetto nell’attuale società (potremmo dire – a viva forza e con violenta majeusi agguerrita nell’esorcismo contro la potenza di vita – da “capitalizzare-statizzare”, funzionalizzare domare ‘macchinizzare’ legalizzare), fatti oggetto – dicevamo – di uno sfiguramento ossessivo, d’un diniego, per dirla così, di ogni ‘storicità’– fatti oggetto di un trattamento della memoria pubblica e forzosamente impartita ad ognuno, assolutamente speciale, teso in qualche modo ad espungere la lunga vicenda di quegli anni dal pensabile, e in definitiva ad espellere, chi l’ha popolata, dall’umano.

    Quando si è indotti dalla vita e dalla morte a ri-porsi ‘in situazione’, risulta particolarmente irrespirabile la tracotanza con cui i sovrastanti, i gerarchi, gli utilizzatori dell’oggi, incarnazione visibile di una ideologia da predatori – e a dirla tutta, da prosseneti e sicofanti – ricominciano sempre il loro sporco lavoro, parlano le loro nov-langue, mettono in scena le loro ‘Pubbliche Moralità’. Vaniloquiano storie scucite e fantasmatiche, fanno girare le ruote della loro miserabile intrapresa di accaparramento del senso e d’arbitrio sui passati – passato che rendono, in continuo, aleatorio, per far spazio alle loro sgangherate narrazioni di futuri, nell’esercizio del ruolo che gli resta, di sceneggiatori dell’incubo, di metteurs en scéne di spettacoli incongrui autocontraddittorî scuciti e assurdi, dentro cui la loro autoreferenzialità tossica e contagiosa, che finge di sapere ed è incapace d’intendere, gioca una lotta mortale contro la potenza della vita – disperata vitalità – che persiste […].>

    Claudio ci manca, manca e mancherà in modo straziante acuto ai suoi prossimi nella quotidianità, dai suoi figli a quelli come Simonetta & Vincenzo, solo per accennare a quelli di cui so la prossimità fino all’ultimo. Claudio Rotondi, “Volscio” di quegli anni, uomo sognante e ribelle di ‘sempre’ : si vorrebbe poter dire, “dormi, vola, riposa : che la terra ti sia lieve” – che importa quante infinite volte è stato detto ? La ripetizione non ne consuma il carattere singolare-comune.

    Un abbraccio ai presenti, Oreste con Lucia e (non c’è il tempo) come se “&….C ”

    da Parigi, il 30 novembre 2010

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