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ma si!! un po’ di cibo: LA PICCHIAPO’!

19 ottobre 2010 1 commento

Questo blog ha anche una categoria che porta il nome di ricette… eppure son mesi e mesi che non si riesce mai a parlare di cucina.
Si parla di carceri e migranti (anche sotto questo punto di vista in questi giorni parleremo di ricette), di Medioriente, di storie quasi sempre infami di questo nostro paese e non si riesce mai a trovare un po’ di tempo per parlare di cibo.
E allora voglio riprendere questa discussione orgasmica e millenaria da quello che più di ogni altra cosa, per me, è CASA!
Perchè se mi dovessero fare a freddo la domanda”quale pasto ti fa tornare bambina, felice e appagata?” bhè, non ci potrebbe essere altra risposta che: LA PICCHIAPO’!
Ogni volta che m’è capitato mi son trovata facce stranite davanti! CHE?
EH! La Picchiapò, la ricetta della mia mamma, dei miei nonni, della mia città rimossa perchè soppiantata da quello che ho davanti tutto il giorno, che le assomiglia poco.
Allora…le ricette si fanno per bene quindi:

INGREDIENTI per 3 persone (dosi massicce, ma se avanza è più buona!):
per il brodo:
@ 1 patata, 1 cipolla, 2 carote, chiodi di garofano, olio, sale
@ 1 kg di carne tra bollito e muscolo
poi:
@ 4 cipolle grandi
@ qualche pomodoro
@ olio, sale, pepe, mentuccia

Mettete su una pila per il brodo, dove immergerete la carne e tutto quello che ci siamo detti prima per farlo cuocere a fuoco basso circa tre ore.
Nel frattempo, e di tempo ce n’è sempre tanto quando parliamo di piatti che hanno come base di partenza il bollito, potete tagliare le cipolle e un po’ di pomodorini (io tolgo la buccia, ma volendo si può sorvolare).
Le cipolle si fanno soffriggere in un tegame molto capiente, aiutandosi con un po’ di brodo, per creare un letto morbido dove inizieremo a far cuocere i pomodori. Mai essere parsimoniosi con la cipolla, è lei a vellutare il piatto di quel retrogusto dolce ed unico, è lei a creare la crema che ci farà venir l’acquolina in bocca: io adoro abbondarne. Quando il tutto sarà tinto di un bel rosso e le cipolle completamente cotte possiamo iniziare a sfilacciare il bollito facendolo cuocere una ventina di minuti con cipolla e pomodoro e qualche odore.
Un po’ di brodo per lasciare sempre che il tutto non si asciughi mai completamente.

Il sapore di questo piatto è unico, nella sua semplicità.
Per me è un pezzo di cuore, un sapore che mi fa venir la pelle d’oca, che mi fa tornar tra le braccia di chi non c’è più.
Un piatto di Roma, quella mia.

Del carciofo … tradizioni mediterranee, dai sultani a Lungotevere

13 febbraio 2009 Lascia un commento

Il carciofo è la più misteriosa delle verdure. E anche la più femminile, e senza dubbio una cosa spiega l’altra. 
Mentre le verdure di sesso maschile, come il cetriolo, l’asparago o il porro, non si peritano di esibire ai quattro venti la loro arrogante virilità, il carciofo, al contrario, per pudore innato, se non per civetteria, fa di tutto per nascondere la propria intimità sotto sottane e merletti, pieghe e panneggi. Per accedervi, i suoi amanti devono per prima cosa togliergli tutti questi fronzoli, a uno a uno, delicatamente, lentamente, prendendosi il tempo necessario. 
Allora il carciofo offre loro il suo cuore carnoso , quella parte che i francesi, in epoche meno pudibonde, non chiamavano come adesso ‘fond‘, ma designavano molto appropriatamente, a causa della consistenza setosa e della forma arrotondata, con la parola ‘cul‘.carciofo-vitroplant-exploter-papuan-04-01048-ico

Non è tuttavia per la sua femminilità, come si può facilmente indovinare, che il carciofo è stato a lungo proibito in Francia alle ragazze di buona famiglia. Il Cynara scolymus, che nel XVI secolo aveva attraversato le Alpi proveniente dall’Italia, era considerato, al pari di altre piante fino ad allora  sconosciute, come il pomodoro, potente afrodisiaco.
All’epoca, è un fatto, questo tipo di ghiottonerie era molto di moda, e l’aesempio veniva dall’alto: secondo la comica testimonianza di Brantome, dalla regina madre in persona, Caterina de’ Medici, assai incline alla scappatella. Costei aveva dunque una passione per i cibi creduti a torto o a ragione stimolanti, come i cuori di carciofo e le creste di gallo, tanto che, nel 1575, durante un banchetto di nozze rischiò di scoppiare. Questo non bastò comunque a ostacolare l’esaltante carriera del carciofo. Si racconta per esempio che a Parigi, sotto Enrico IV, i venditori ambulanti di frutta e verdura ne vantavano ancora le incomparabili virtù ‘per il signore e per la signora’. Ma la ‘signora’, che quando mangiava carciofi veniva mostrata a dito, sarebbe stata abbastanza arguta, come prova una poesia popolare della metà del XVIII secolo, da rivolgersi al ‘signore’ in questi termini:

…Mangiali tu, amore mio,
così meglio faranno
che se li mangiassi io.

Questa seducente reputazione ovviamente non poggia su alcunché di solido. Ed è un puro caso che Enrico VIII, colui che fondò davanti all’Eterno la Chiesa anglicana, consumasse mogli e carciofi con eguale appetito. Certo, nel mondo islamico, Rhazes aveva attirato l’attenzione sugli effetti stimolanti del

Tajine

Tajine

prezioso ortaggio sin dal X secolo, nel suo Libro dei correttivi sugli alimenti, Ma non ho letto da nessuna parte né ho mai sentito dire che i califfi, sultani o re delle nostre parti, che pur avevano tutti il temibile obbligo morale di soddisfare un intero harem, ne abbiano fatto largo uso. Mi chiedo del resto se kangar di cui parla Rhazes fosse davvero il carciofo. E mi pongo la stessa domanda di fronte a termini come harshaf, kharshaf, kharshuf, qinariya… Quanto al ‘akkub‘, che compare nell’opera  del geografo palestinese Muqaddasi, e che il mio amico André Miquel traduce con ‘carciofo’, sono sicuro che si tratta di un cardo spinoso, e per altro delizioso, lo stesso che insanguinava le mani di mia nonna quando si ostinava a prepararcelo.
Veniamo così a un altro mistero del carciofo: quelle delle sue origini. In effetti, attraverso i secoli, nei paesi di lingua araba sono stati dati nomi diversi a una stessa pianta o famiglia di piante, che potevano o meno essere identiche al carciofo, a volte, al contrario, un solo nome a ogni sorta di acanti, cardi e carciofi selvatici o coltivati. Sfido chiunque a raccapezzarsi tra queste piste orribilmente confuse, prima per colpa degli stessi botanici, da Dioscoride a Ibn al-Baytar, quindi dei loro traduttori, e infine della coorte dei commentatori, i quali, inutile dirlo, non hanno affatto contribuito a fare chiarezza. Quel che mi sembra più o meno certo, in questo ginepraio, è che il carciofo è nato nell’Africa del Nord, da un cardo selvatico , e che sono stati i nostri cugini maghrebini ad allevarlo e prendersene cura. Erano interessanti alle costole più che alla testa, somigliante a quella del cardones, altro cardo commestibile. 
Gli andalusi, incontestati maestri giardinieri, hanno cercato in seguito di ingrandirne la testa, come lascia intendere, alla fine del XII secolo, l’agronomo sivigliano Ibn al-Awwam. Dalla Spagna, quel che ormai conviene senz’altro chiamare carciofo passò in Sicilia, e quindi a Napoli, donde arrivò a Firenze nel 1466. La parola arava al-harshaf, designante il cardo, diviene alcarchofa in spagnolo, anticcioco in lombardo, artichaut in francese. Nel XIX secolo, riscoprendolo al termine di questa lunga evoluzione, gli arabi del Levante lo chiamarono ardishoki, parola veramente geniale perché chiude il ciclo delle derivazioni arricchendone al tempo stesso il significato, dato che il termine –shoki (come shawk, spina) rinvia per assonanza all’ascendenza spinosa del carciofo.normal_carciofi_106
Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se il Maghreb è oggi, con l’Italia, l’area in cui il carciofo è più valorizzato. Questo è anche vero per il cardo, che i francesi, sfortunatamente, hanno troppo trascurato, malgrado l’avveduto consiglio di grimod de la Reynière, che nel suo Almanach des gourmands lo definisce il “nec plus ultra della scienza umana“. Secondo lui, “un cuoco capace di fare un piatto di cardi squisiti può intitolarsi primo artista d’Europa”.
Di cuochi siffatti non ne esistono più, in Europa, o molto pochi, ma ce ne sono in Marocco, dove il tagin ai cardi, quanariya, è tanto raffinato che viene utilizzato per controllare la qualità dell’olio d’oliva nuovo. E che dire del tagin ai cuori di carciofo selvatico, con eventuale aggiunta di fave verdi o piselli, se non che si tratta di uno dei piatti più prelibati che esistano sul pianeta terra?
Per prepararlo, ci vogliono  indubbiamente molto coraggio e abnegazione, perché questo tipo di carciofo somiglia a una corona di spine, ma alla fine del calvario c’è il Paradiso. Tuttavia, se non siete disposti a sacrificarvi per i vostri convitati, pure volendo far loro piacere, non esitare a tentare il tagin ai carciofi selvatici, o lo spezzatino tunisino ai carciofi ( ganarriyya) e limone, insaporito col peperoncino rosso, o ancora i cuori di carciofo (qarnun) all’algerina farciti di carne tritata, cipolla e prezzemolo, il tutto amalgamato con un uovo e aromatizzato col pepe nero e la cannella. 
Ho visto la mia vicina di Costantina  metterli in una pirofila, arricchirli con polpette preparate con lo stesso ripieno, e poi cuocerli in una salsa di pomodori freschi. Una ricetta diversa dalla nostra ma che non ha nulla da invidiarle.
Non andate ora a pensare, vedendomi celebrare le virtù dei carciofi maghrebini, che sottovaluti quelli francesi, Al contrario, non ne conosco di migliori, e neppure di equivalenti salvo forse i pinzimoni italiani, che si lasciano sgranocchiare senza tante moine, crudi con un po’ di sale. 

 

Il carciofo è sempre saporito, divertente, ricco di vitamine, povero di calorie, coleretico, diuretico, e molte altre cose ancora. E se non è veramente afrodisiaco, lo può diventare. Basta crederci.

Polpette di carciofo  _Mbattan gannariyya_
Tunisia

Ingredienti per 4 persone:
@ 250 gr di cosciotto d’agnello disossato e tritato
@ 12 cuori di carciodo
@  1/2 limone
@ 2 cipolle tritate sottilmente
@ 2 uova
@ 100 gr di formaggio grattuggiato
@ 1 mazzo di prezzemolo sfogliato e tritato
@ 4 cucchiai di farina e 1/2 cucchiaino di paprika
@ 2 cucchiai di polpa di pomodoro
@ olio d’oliva, harissa, sale e pepe

Fate cuocere i carciofi in acqua con un po’ di sale e succo di limone, e riduceteli in purè. Mescolate il purè con la carne, il prezzemolo, la cipolla, il formaggio grattuggiato, il sale e le spezie.
Formate delle polpette e friggetele dopo averle immerse nelle uova battute e nella farina.
Diluite il concentrato di pomodoro e la harissa in un bicchier d’acqua, aggiungete un po’ d’olio d’oliva e portate a ebolizione. Controllate il sale e fate restringere la salsa a fuoco lento
Servite caldo con salsa a parte 

e adesso passiamo alle tradizioni di casa: 

_carciofiallaromanaIl carciofo è un ottimo alimento che, soprattutto nel Lazio, gode di un apprezzamento fuori dal comune. Tra i vari tipi di carciofi, di provenienza oltre la campagna romana, si preferisce quello romanesco o cimarolo, coltivato nella zona compresa, grosso modo, tra  Roma e Civitavecchia e particolarmente nella campagna di Cerveteri e Ladispoli. Il segreto, ammesso che si tratti di segreto, per ottenere un carciofo tutto da gustare, grazie soprattutto alla sua tenerezza, sta nel saperlo ‘capare’, ossia nel saperlo liberare completamente delle foglie dure, altrimenti, come si dice a Roma ‘ciancichi e sputi’.
La mani esperta, pignola ma non esagerata, taglia la parte più dura delle foglie, quella superiore per intenderci, con un coltellino a punta, ben affilato, cominciando dal fondo che ha le foglie più tenere, per proseguire fino al centro. Il carciofo acquista allora una forma sferica. E’ bene insistere che in particolare, riguardo alle prime foglie da togliere, la mano si affida alle proprie dita e, foglia dopo foglia, le spezza nel punto dove finisce il tenero che, dall’alto verso il basso, viene liberato di quella pellicola leggera che lo ricopre. A questo punto si pulisce il gambo, togliendogli, senza affondare troppo il coltello, la corteccia e lo si immerge in acqua ben acidulata con succo di limone, affinchè non si faccia nero. Successivamente, aperta bene la bocca del carciofo e battuta più volte sulla tavola, se ne estrae dall’interno l’eventuale fieno, a Roma detto ‘pelo’, poi vi si introduce un pezzetto d’aglio, un pizzico di mentuccia, insieme a sale, pepe e all’olio necessario e abbondante. Una strofinata esterna, leggera, di un po’ di sale e pepe non guasta.
Ogni carciofo così preparato si dispone capovolto in un tegame, preferibilmente di terracotta, con i bordi alti affinché i gambi rimangano dritti e fermi durante la cottura. Nel tegame poi si versa tanto olio vergine di oliva quanto ne occorre per coprire a metà i carciofi e si aggiunge inoltre l’acqua necessaria perchè la copertura sia totale. 

 Queste ricette e notizie sul carciofo e i cardi sono tratte da “La cucina di Ziryab” di Farouk Mardam-Bey e “La cucina romana e del Lazio” di Livio Jannattoni

Dello zafferano…

26 ottobre 2008 Lascia un commento

Lo zafferano è nato da un duplice ferita. Si racconta in effetti che il dio Hermes, un giorno che si esercitava nel lancio del disco, ferì per sbaglio il suo amico Croco. Questi morì sul colpo, ma il suo sangue, sparso sul terreno, si tramutò per volere di Hermes in strani fiorellini, ciascuno dotato di tre stimi. L’intenso profumo e il colore luminoso ne avrebbero fatto la spezia più preziosa.
La stessa leggenda vuole che la ninfa Smilace, che amava Croco appassionatamente, fosse anch’essa trasformata da Hermes in fiore di zafferano. Da quest’ultima vittoria dell’amore, i due amanti ormai riuniti per l’eternità nel cuore di un fiore, deriva forse la prima virtù dello zafferano, o almeno quella un tempo più celebrata, vale a dire la proprietà afrodisiaca.
E’ probabile per questa ragione che Zeus in persona, secondo Omero, ne usò, e ne abusò, giungendo a tappezzare il suo giaciglio di pistilli di zafferano. Più tardi, sull’esempio del dio, i ricchi romani avrebbero cosparso di zafferano le lenzuola degli sposi novelli. E, a credere al Satyricon, se ne sarebbero serviti a
profusione nei loro banchetti, in realtà più per ostentare ricchezza e prodigalità che per eccitare l’amore.

Lo zafferano infatti non ha soltanto il colore dell’oro, ma ne ha anche, o quasi, il valore.
Gli stimmi devono essere necessariamente colti a mano, con lo stesso gesto millenario che si può ancora vedere raffigurato in un affresco del palazzi di Cnosso, a Creta.
E per fare un chilogrammo di spezia ci vogliono non meno di cento-cinquantamila fiori. Perciò gli antichi hanno per lo più riservato la nostra pianta aromatica a usi medicinali, come il famoso rimedio kuphi in Egitto, o se ne sono serviti per tingere certi tessuti a scopi rituali, come a Tiro, dove le spose novelle portavano un velo color zafferano per indicare che avevano ormai acquistato tutti gli attributi della femminilità.
Nel Medioevo, una volta acclimatato dagli arabi in Spagna, tra l’VIII e il X secolo, lo zafferano svolgerà in Europa le stesse funzioni medicinali e artigianali.
I medici più rinomati, fra i quali quelli della scuola di Salerno, ne vanteranno così i meriti, e in particolare il potere esilarante, mentre i mercati di stoffe, dalla Toscana alle città della Lega anseatica, lo cercheranno per tingere la propria mercanzia. Sembra persino che a Firenze, dov’era molto apprezzato, fosse offerto a volte come garanzia nelle operazioni finanziarie.
Nell’Islam classico, come altrove, lo zafferano preoccupò naturalmente i medici. Alcuni di loro, come Rhazes, lo condannarono senza appello perchè avrebbe provocato nausee e tolto il sonno, mentre altri, fra i quali Avicenna, ne lodarono gli effetti benefici sulla “sostanza dello spirito vitale”. E’ certo tuttavia che venne impiegato di più, e con successo, per uso esterno, per cicatrizzare le ferite, calmare la gotta e curare la cateratta. Coltivato in piccole quantità nel Vicino Oriente arabo, molto di più in Iran e in Turchia, esso conquistò il Maghreb, e di qui passò in Spagna, che divenne la sua terra d’elezione. 
L’agronomo sivigliano Ibn al-‘Awwam ne trattò si dalla fine del XII secolo con notevole precisione. In tutt’altro ambito, il fiore di zafferano, con i suoi tre stimmi, attirerà una folla di poeti paesaggisti del periodo postclassico, che vi vedranno di volta in volta “fili di zolfo fiammeggiante”, “vergini sbigottite” o “tre donzelle abbracciate”. Non si contano poi i riferimenti al suo colore giallo-rosso e al suo valore pari all’oro.
Resta il fatto che lo zafferano è da sempre apprezzato innanzitutto per il suo profumo penetrante. E se il re Salomone lo cita  nel Cantico dei Cantici, è appunto per evocare gli effetti della donna amata.
Più prosaicamente, si sa che è impiegato da secoli, in tutti i paesi mediterranei, per condire le pietanze.
In Francia vi fu persino un’epoca, il XIV secolo, in cui, in un libro di cucina che contenteva 172 ricette, si contavano più di 70 piatti aromatizzati con lo zafferano (o colorati con il cartamo). Soltanto pochi sono sopravvissuti, ma sono in generale veri gioielli della gastronomia regionale, come la bouillabaisse di Marsiglia o la minestra allo zafferano del Sud-Ovest, detta mourtayrol. Senza dimenticare, beninteso, nel capitolo degli alcolici, il celebre elisir dei monaci certosini.
Gli italiani, poi, sono ghiotti sin dal Medioevo del panforte di Siena, aromatizzato allo zafferano.
In Spagna, che produce il migliore zafferano del mondo, il suo uso è ovviamente più diffuso, anche se all’estero si conosce soltanto la paella, adattata qua e là con esiti più o meno felici.
Nessuna cucina al mondo, tuttavia, fa onore allo zafferano quanto la cucina marocchina. Gli arabi del Vicino Oriente ne rinoscono il valore, e a volte lo usano per condire il riso e i dolci, come la baluza, derivata dal classico faludhag. Gli aleppini, in particolare, lo mescolano al muschio per preparare la zarda, un dolce di riso che offrono nelle feste di nozze. 
Ma è in Marocco, e in certa misura anche in Algeria e in Tunisia, che si impone con tutto il suo aristocratico sapore. Si trova in piatti tipici e vari come il cuscus, la harira, la shorba, la bastella e, soprattutto, in un gran numero di tagin.
I tunisini e gli algerini lo utilizzano anche per gli umidi e gli arrosti, e i marocchini per speziare il griush, deliziosa frittella imbevuta di miele e cosparsa di semi di sesamo.
Occorre precisarlo? Lo zafferano di cui si parla qui non ha niente a che fare con il volgare cartamo, anche noto con il nome dispregiativo di “zafferano bastardo”. Quest’ultimo colora ma non dà profumo, ed è facile produrlo in abbondanza. E’ per questo che certi commercianti senza scrupoli sono stati tentati spesso di venderlo come zafferano. Ma non consiglio a nessuno di provare: nel 1344, in Germania, un mercante di spezie che aveva tentato il colpo fu bruciato vivo sulla piazza del mercato con tutta la sua paccottiglia! 

Tagin d’agnello alle patate (Tagin batata) –Marocco-

Ingredienti per 4 persone:

@ 1 Kg di spalla d’agnello tagliata in 8 pezzi
@ 1 Kg di patate piccole e sode
@  scorza di limone
@ 1 dozzina d’olive verdi sminuzzate
@ 1 cucchiaio da caffè di polvere di zafferano
@ 1 cucchiaio da caffè di polvere di zenzero
@ 1 spicchio d’aglio pestato
@ 1 tazza d’olio d’oliva
@ sale

– Rosolate la carne. Condite con il sale, la zafferano, lo zenzero e l’aglio. Coprite d’acqua e lasciate cuocere a fuoco lento, aggiungendo altra acqua se necessario
– Quando la carne è cotta, toglietela dal fuoco. Mettete le patate nella pentola, copritele e fatele cuocere nella salsa.
– Aggiungete la scorza di limone affettata sottilmente e le olive. Fate restringere la salsa prima di rimettere la carne nella cassuerola per qualche minuto
– Sistemare la carne su un piatto di portata. Aggiungete le patate, poi le fettine di scorza di limone e le olive. Annaffiate abbondantemente di salsa.

A tavola in Sicilia: anelletti al forno

16 ottobre 2008 Lascia un commento

Ingredienti:

@ 800gr. Anelletti
@ 250 gr di estratto di pomodoro
@ 200 gr. di carne di maiale
@ 200 gr. di vitello
@ 100 gr. di sugna
@ un bicchiere di vino rosso
@ 100 gr. di caciocavallo grattugiato
@  250 gr. di primosale
@ 1 cipolla
@ olio, sale, pepe

Sono a Palermo il piatto della festa per eccellenza. Una volta gli anelletti si facevano in casa con la pasta fresca, oggi si trovano in commercio in pacchi. La ricetta che riporto viene ai nostri giorni arricchita con piselli, salame e anche uova sode a fette.


Preparazione: Fate rosolare bene nella sugna (oppure un bel cucchiaio d’olio abbondante) i due tocchetti di carne di vitello e di maiale, metteteli da parte e nel grasso rimasto soffriggete la cipolla grattugiata e finemente  affettata. Appena dorata aggiungete l’estratto di pomodoro e scioglietelo nel modo solidto con qualche sorso d’acqua. Sfumate col vino, allungate con un litro d’acqua e rimettete in tegame la carne, lasciando cuocere il tutto a fiamma lenta per circa un’ora. A parte lessate gli anelletti, scolateli al dente e versateli nella zuppiera dove li condirete con una parte del sugo di carne e il formaggio grattugiato.
Passateli in una teglia imburrata e spolverata di pangrattato, alternando a strati gli anelletti con fette di primosale e la rimanente salsa. Coprite l’ultimo strato con il primosale e il sugo, un po’ di pangrattato e passate al forno caldo per circa mezz’ora.

Del montone: del mansaf e della maqluba

13 ottobre 2008 2 commenti

I beduini del Vicino Oriente sono gli inseparabili compagni del montone, senza dubbio perchè lo frequentano da quando è stato addomesticato in Mesopotamia, ottomila anni or sono. E’ vero sì che ignorano, e non a caso, lo squisito sapore dell’agnello allevato nei pascoli vicini al mare, e non è dalle loro parti che si aspetta il cosciotto come un innamorato, secondo quanto raccontava Grimond de la Reynière. Resta il fatto che Alexandre Dumas confessa nel suo Grand Dicionnaire de cuisine di aver mangiato in Tunisia, sul limitare del deserto, nel 1833, il miglior montone di tutta la sua sbalorditiva carriera di buongustaio. L’animale, ripieno di datteri, fichi, uva passa e miele, era cotto con tutta la pelle sotto la cenere, come si potrebbe fare con una patata o una castagna…
In Giordania, i valori beduini sono esaltati in tutti i toni.
Non potrete perciò sottrarvi al mansaf, un piatto che i pastori nomadi apprezza da sempre.
Consiste in carne d’agnello, cosciotto o spalla, bollita con cipolle tritate, zafferano, paprica, pepe e cannella fino ad essere cotta perfettamente. Il brodo è poi mescolato con latte di pecora fermentato, cotto in precedenza. Quando lo yogurt è di latte vaccino, come in Francia, bisogna aggiungervi una chiara d’uovo sbattuta e un po’ di farina prima di metterlo a fuoco medio mescolando ininterrottamente con un cucchiaio di legno. Il mansaf è poi preparato come una panata: in fondo al piatto di portata è disposto il pane tagliato in quadratini, poi il riso pilaf sul quale versano la carne e la salsa. Il tutto è guarnito con pinoli dorati nel samn (burro raffinato).
So che molti francesi esiteranno anche di fronte al mansaf più sontuoso, sia per ragioni religiose, dato che l’Antico Testamento vieta di cuocere l’agnello nel latte della madre, sia perchè uno yogurt, per loro, è un dessert al sapore di fragola o lampone, destinato alle merende dei bambini.

 


MAQLUBA (rovesciato) 

ingredienti
@ 1 kg.carne di agnello, montone o pollo
@ 2 melanzane affettate
@1/2 kg. di cavolfiore
@ 1 kg diriso
@ 1/2 cucchiaino di noce moscata
@ 1/2 cucchiaino di cannella
@ olio, sale e pepe
@ altre spezie a scelta  

 

Mettere il riso in ammollo con acqua calda per circa 15 minuti e quindi risciacquarlo per togliere l’amido. Rosolare una cipolla tritata e la carne in una pentola profonda. Versare sopra circa un litro d’acqua e, aggiungere un cucchiaio di sale, cannella, noce moscata e lasciare a bollire per 20 minuti circa; dopo di che togliere la carne dalla pentola e lasciare il brodo nella pentola perchè ci servirà in seguito. Dividere il cavolfiore a pezzettini e salare le fettine di melanzane per assorbire l’acqua interna e farle perdere l’amaro. Rosolare il cavolfiore e le melanzane in olio e togliere via dalla padella. In una pentola sovrapporre degli strati; primo strato di carne; secondo strato di melanzane e cavolfiore; terzo strato aggiungere il riso; a questo punto versare il brodo sopra il riso finchè rimane tutto coperto dal brodo per 1cm circa. Cuocere a fuoco basso e a pentola coperta per 30 minuti circa o finché il riso è cotto e il brodo è assorbito. Rosolare 1/2 etto di pinoli e mandorle a parte.Togliere la pentola dal fuoco. Appoggiare il piatto da portata sulla pentola e rovesciarla. Decorare il piatto con i pinoli e le mandorle rosolate.
Il piatto viene servito quasi caldo e accompagnato da insalata di pomodori e cetrioli tagliate fini oppure con lo yogurt naturale.

Oggi si mangia cinese: Ravioli al Vapore

11 ottobre 2008 1 commento

Nella cucina cinese, i Jiaozi (gyōza in Giapponese) sono un tipo di fagottini (in italiano comunemente chiamati ravioli) molto popolare in Cina, Giappone e Corea. Ripieni di carne e/o verdura, sono avvolti con una sottile pasta sigillata con la pressione delle dita. Non devono essere confusi con i wonton: i jiaozi hanno una pasta più spessa e ondulata, schiacciata alle estremità, e sono generalmente consumati dopo l’immersione in salsa di soia e aceto di soia (o salsa chili piccante); i wonton sono più sottili e sferici, di solito serviti in brodo.
Esistono quattro tipi a seconda della tecnica di cottura:

  • Ravioli bolliti – shuijiao, letteralmente “fagottini d’acqua” (Cinese: 水餃; pinyin: shuǐjiǎo)
  • Ravioli al vapore – zhengjiao, letteralmente “fagottini al vapore” (Cinese: 蒸餃; pinyin: zhēngjiǎo)
  • Ravioli brasati – guotie, letteralmente “bastone al tegame”, (Cinese: 鍋貼; pinyin: guōtiē), chiamati anche “fagottini fritti asciutti” (Cinese: 煎餃; pinyin: jiānjiǎo).
  • Ravioli all’uovo – se avvolti con uovo invece che con la pasta (Cinese: 蛋餃; pinyin: dànjiǎo).

Di solito si usa per il ripieno carne tritata di maiale, bovino, agnello, pollo, pesce o gamberi, spesso mescolati con verdure come cavolo, scalogna, cipollotti o erba cipollina cinese. I ravioli sono accompagnati da salsa di soia con aggiunta di aceto, aglio, zenzero, aceto di riso, salsa piccante o olio di sesamo.
I ravioli sono uno dei principali cibi consumati al Capodanno cinese. La forma assomiglia a un Tael d’oro (moneta cinese) e simboleggia un augurio di buona fortuna per l’anno nuovo. Per tradizione, le famiglie e gli amici si riuniscono per preparare i ravioli insieme. Nelle campagne si sacrifica il bestiame migliore e si conserva la carne per i ravioli approfittando del clima freddo. Sono anche popolari un tipo di ravioli dolce.

Per la pasta:
@ 200 gr di farina bianca 00 setacciata
@ acqua tiepida (30° C) quanto basta

Per il ripieno:
@ 150 gr di carne di maiale e 150 gr di manzo
@ 200 gr di erbette o verza
@ 200 gr di cavolo cinese
@ 1 porro
@ 1 cipolla
@ 1 pezzo di zenzero (come una noce)
@ 1 cucchiaio di salsa di soia e 2 di olio di sesamo
@ 2 cucchiai di fecola di patate
@ sale quanto basta
@ 1 pizzico di glutammato monosodico

Il segreto di una buona riuscita sta principalmente nella qualità della sfoglia che dovrà essere così liscia, sottile e uniforme da risultare quasi trasparente una volta cotta. Per ottenere una simile sfoglia è consigliabile impastarla una prima volta e lasciarla riposare 12 ore. Si procede nel seguente modo:si dispone a fontana sull’asse la farina setacciata con l’aggiunta di un pizzico di sale e si impasta aggiungendo a poco a poco dell’acqua tiepida fino ad ottenere un impasto abbastanza consistente e ben omogeneo che andrà lavorato a lungo.  Si copre la pasta con un tovagliolo e si lascia riposare. Al momento di preparare i ravioli, si riprende l’impasto e lo si rilavora nuovamente con cura: poi si spolvera di farina e si tira con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia sottile come una seta che andrà poi ritagliata in tante sfogliette rotonde con l’orlo di un bicchiere. 
Per allestire il ripieno, lavare e asciugare accuratamente le verdure, tritarle molto finemente e metterle in un recipiente; aggiungete lo zenzero precedentemente grattugiato, un pizzico di sale, eventualmente il glutammato, la salsa di soia, la fecola, le carni ben tritate e i due cucchiaini di olio di sesamo (in mancanza si può usare del buon olio d’oliva); mescolare bene il tutto fino ad ottenere un ripieno morbido.
Questo ripieno, suddiviso in tante pallottoline, si porrà al centro di ciascuna sfoglietta che si ripiegherà in due dopo averne inumidito leggermente i bordi interni.
Per chiudere il raviolo, premere accuratamente sui bordi. La cottura ideale e più tipica è quella al vapore: un buon accorgimento può essere quello di predisporre un canovaccio umido di tela sottile sul fondo del cestello. Mettere al fuoco una casseruola con poca acqua e quando questa bolle disporvi il cestello (che non dovrà toccare l’acqua) e cuocere a vapore.
Questi deliziosi ravioli saranno pronti quando la pasta sarà diventata trasparente.

Dell’impasto e della fettuccina…

29 settembre 2008 1 commento

Foto di Valentina Perniciaro  ...pranzetti vacanzieri...

Foto di Valentina Perniciaro ...pranzetti vacanzieri...

Ingredienti:
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1 grosso uovo per ogni 100 g di farina bianca di granotenero e poca acqua. 
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per rendere più gustoso l’impasto, potete aggiungere 1 o 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva.

Preparazione:
Fare la pasta in casa offre sostanzialmente due vantaggi: permette di poter essere certi della freschezza degli ingredienti e consente di ottenerla secondo i propri gusti. Per quanto riguarda gli ingredienti, la ricetta canonicaprevede 1 grosso uovo per ogni 100 g di farina bianca di grano tenero. Se però l’impasto fosse duro, potrete ammorbidirlo con poca acqua. Una volta si calcolava 1 uovo per persona, ma attualmente con 3 uova si preparano 4-5 porzioni.Inoltre, per rendere più gustoso l’impasto, poteteaggiungere 1 o 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva.Come procedere. Innanzitutto disponete la farina a fontana, ossia versandola in modo da ottenere un mucchietto e formando un incavo proprio nel mezzo, cos che possa ricordare il cratere di un vulcano. Rompete quindi le uova e versatele nel centro dell’incavo.Mescolatele, con una forchetta, incorporando gradualmente la farina.Dopo pochi minuti le uova avranno formato con la farina assorbita un impasto giallo che, integrato con la rimanente farina, diventerà sempre più consistente. A questo punto proseguite lavorando il composto direttamente con le mani. Occorre premerlo con vigore, tirarlo leggermente e riavvolgerlo. Quando sarà liscio e omogeneo, stendetelo con il matterello in modo da ottenere una sottile lamina. Per avere una sfoglia rotonda ruotate la pasta manmano che la tirate, in modo da formare un ampio disco.Lasciatela allora asciugare, per evitare che, avvolgendola per poterla tagliare, si incolli. Se invece la pasta è destinata a essere farcita, nondovete farla asciugare, ma procedere celermente, proprio perché essa deve conservare la necessaria umidità per potersi incollare al momento della confezione del tipo di pasta ripiena desiderato (ravioli, tortellini, agnolotti, ecc.). Anche per le tagliatelle non lasciate seccare la pasta più del dovuto, perché perderebbe elasticità e siromperebbe al momento di arrotolarla. Cospargetela con poca farina, arrotolatela e, senzapremere, tagliatela con il coltello a strisce strette o larghe ma tra loro uguali). Prendete quindi i rotolini ottenuti, apriteli, infarinateli e adagiateli sul pianodi lavoro evitando di sovrapporli. Se utilizzate l’apposita macchina a rulli, dovete tagliare l’impasto in pezzi più piccoli, che passerete prima attraverso i rulli per ottenere altrettante strisce sottili. Taglierete queste nella lunghezza desiderata e le passerete negli appositi rulli forniti di dischi taglienti.

Dell’albicocca…

24 settembre 2008 1 commento

Che i miei amici armeni mi perdonino: malgrado il nome, la Prunus armeniaca, ovverosia l’albicocca, non è originaria dell’Armenia, ma della Cina, proprio come la pesca, un’altra delizia che i botanici si ostinano ad attribuire alla Persia. E le albicocche migliori, non dispiaccia ai francesi, non sono quelle del Rossiglione, senza dubbio pregevoli, ma i frutti di miele e d’oro che si trovano soltanto nel Levante. E’ qui, sicuramente, in Turchia e in Siria, che un albero ritenuto difficile come l’albicocco sembra aver eletto il proprio domicilio, se mi si passa l’espressione, e se ne sta a suo agio come soltanto in patria si può stare. 
Sospetto perciò che proprio i siriani, e in particolare i damasceni, per altro poco inclini alla speculazione metafisica, abbiano diffuso, se non inventato, la leggenda secondo la quale l’albero di Adamo ed Eva, creato per insegnarci a distinguere il bene dal male, sarebbe l’albicocco e non il melo o il fico. Un modo come un altro per insinuare che non si può resistere alla tentazione dell’albicocca. Forse anche, con un abile sotterfugio, per collocare in Siria il giardino dell’Eden.
Bisogna dire che a Damasco, prima dei guasti dell’urbanizzazione, l’arte di vivere era scandita in qualche modo, almeno durante certi mesi, dal ciclo dell’albicocca. Molto presto, già da marzo, la fioritura dell’albicocco annuncia la primavera, attirando verso i giardini della Ghuta una folla eterogenea di gitanti.
Ma la meraviglia di fronte alla delicata bellezza dei fiori, corolle bianche ombreggiate di rosa tenero, non è priva di apprensioni, e i damasceni temono, come per ogni cosa precoce, i colpi imprevedibili del destino: una pioggia troppo abbondante, un vento un po’ violento, una gelata tardiva. Soltanto le grida dei venditori ambulanti, a partire da giugno, vengono infine a rassicurarli, quando si levano per celebrare le mishmish baladi, “pasticcini all’acqua di rose”, o il tipo detto hamawi, “regina di cuori” che andrebbe portata “in fazzoletti di seta”. Comincia così la stagione dell’albicocca, tanto breve, purtroppo, dopo la lunga attesa, che nella lingua parlata si designa con tale espressione tutto ciò che è fugace o improbabile.
Ci si mette dunque a mangiare albicocche, coscienziosamente, fino a sazietà, per paura di restare senza l’anno successivo. E sulle terrazze della città si vedono ben presto marmellate e confetture riposare al sole, all’aria aperta, in recipienti di tutte le misure, coperte appena di una mussolina che protegge dalla polvere e dagli insetti. Colta al momento giusto e ricolma di luce, l’albicocca non si è mai meglio conformata a una delle sue denominazioni latine, apricum, il frutto che ama la luce del sole. 


Foto di Valentina Perniciaro Suq di Damasco e abbondanza di melograni

Ma l’infatuazione dei damasceni di oggi per l’albicocca non è nulla in confronto a quella dei loro avi. Nel periodo mamelucco, se bisogna credere al viaggiatore egiziano Badri, egli stesso ghiottone impenitente, la Ghuta produceva ventuno varietà di albicocche, nove soltanto delle quali sono giunte fino a noi.
Per apprezzarle tutte nel loro giusto valore, in poco tempo, era indispensabile consacrarvisi anima e corpo. Di conseguenza, gli ulama non esitavano a mettersi in ferie, durante la stagione dell’albicocca, abbandonando senza ritegno cattedre e libri. Essi si piegavano in tal modo a un piacevole costume. Stagione benedetta da Dio, a più d’un titolo, in cui anche le muse partecipavano alla festa, ispirando ai letterati alcune delle loro metafore più frivole. A quanto pare mancava soltanto, per soddisfare tutti i gusti, il “vino” d’albicocca per il quale, stando al Libro dei Canti di Isfahani, il musicista Ishaq al-Mawsili andava matto.
Ai nostri giorni, non si estraggono dall’albicocca nè vino nè alcol, e sono stati dimenticati anche altri usi meno problematici come la mishmishiyya, spezzatino di albicocca e carne d’agnello, scomparsa da tempo dalle tavole di Damasco, al pari di altre pietanze agrodolci.
Curiosamente, il piatto che porta oggi questo nome non è preparato con delle albicocche, ma con le fave. Resta nondimeno il fatto che a Damasco, e solo a Damasco, l’arte di conservare le albicocche tocca il sublime. Solo le albicocche secche di Turchia possono competere coi nuqu’ siriani, che consistono in succulente albicocche baladi schiacciate con il nocciolo e seccate al sole.
Vengono consumate soprattutto nel mese di Ramadan, sotto forma di khoshaf, per calmare la sete.
Quanto al qamar al-din, alla lettera la “luna della religione”, nome che rimanda ad un’antica varietà turca molto apprezzata da Ibn Battuta, è patrimonio esclusivo di Damasco, e tale resterà fino alla fine dei tempi. Lo si ottiene impastando le albicocche e stendendo la pasta, privata dei noccioli, su tavole di legno lunghe due metri ed esposte al sole. Quando è secca, la pasta di albicocche è spennellata di olio di sesamo, perchè si mantenga brillante e vellutata, ed è infine arrotolata come un tappeto. Può essere degustata così, o ancora meglio macerata in acqua fresca.

 

SPEZZATINO ALLE ALBICOCCHE
Ingredienti per 4 persone

600 gr di spalla d’agnello disossata
600 gr di albicocche secche snocciolate
100 gr di olio d’oliva
1 cucchiaino da caffè di cannella
2 boccioli di rosa
2 cucchiai di zucchero
sale

@Tagliate la carne in 8 pezzi, condite con sale, cannella e boccioli di rosa sbriciolati, fate rosolare nell’olio e poi coprite d’acqua e portate ad ebollizione. Abbassate il fuoco e lasciate cuocere per un’ora con il coperchio.

@ A metà cottura, aggiungete le albicocche e lo zucchero e controllate il documento

@Prima di servire, fate restringere la salsa fino a renderla cremosa

tratto da “LA CUCINA DI ZIRYAB” di Farouk Mardam-Bey