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Tragedia all’occupazione Sans Papiers: per il PD è colpa delle occupazioni
Il responsabile immigrazione del Partito Democratico di Roma commenta in modo vergognoso la tragedia accaduta in un appartamento dello stabile occupato in Via Carlo Felice, dove si trova il centro sociale Sans Papiers, che lascia tutti sgomenti e basiti.Una donna suicida, due bambini morti, un’altra in fin di vita: una famiglia distrutta probabilmente per una crisi, un raptus ancora tutto da spiegare.
Quel che è accaduto in quell’appartamento potrebbe essere accaduto ovunque ed è veramente ridicolo doverlo specificare.
Ci voleva questo genio del Pd per vomitare parole simili, senza vergogna alcuna.
“La tragica notizia del ritrovamento del corpo di una donna marocchina e dei suoi due bambini nel Centro Sociale Sans Papiers, sottolinea ancora una volta l’inadeguatezza dei centri e delle strutture occupate abusivamente nella Capitale – sottolinea in una nota Khalid Chaouki deputato Pd e responsabile immigrazione del Partito Democratico di Roma – Occorre prendere una posizione netta contro queste situazioni di illegalità per garantire il bene di chi abita in quelle strutture e per
risanare quei contesti dove migliaia di persone continuano a vivere in condizioni disumane e fuori da qualsiasi tipo di controllo”.
Vi ricordate di Luca Bianchini? Il segretario di sezione del Pd arrestato poi perché stupratore seriale nei garage romani? Quello che a casa aveva una collezione di film intitolati “ti stuprerò” “stupri dal vero” e che contemporaneamente agli stupri tesserava un sacco di persone nella sezione PD del Torrino come neocordinatore del circolo.
Stuprava di notte, aggrediva alle spalle nei garage con un taglierino e violentava le sue vittime sui sedili delle macchine, prima di dileguarsi: a ragionar come Chaouki avremmo dovuto mobilitarci immediatamente per la chiusura immediata di TUTTE le sedi del partito che lui rappresentava nel suo quartiere, “strutture fuori da qualsiasi tipo di controllo”, luoghi da risanare immediatamente e riportare nella legalità.
San Basilio e Fabrizio Ceruso, 40 anni dopo: la lotta per il diritto alla casa. Una testimonianza
40 anni son passati da quell’assassinio,
40 anni son passati da una pagina di lotta straordinaria e mai rivissuta
40 anni da quelle giornate che per i compagni di Roma sono state lo spartiacque.
Chi ha vissuto quella campale, lunghissima, accorata battaglia c’ha lasciato brandelli di cuore mai più tornati al loro posto,
chi ha vissuto quell’esperienza la porta dentro ancora col fuoco che brucia.
Pubblico qui la testimonianza di Sandro Padula
QUI una pagina di ricordo e QUI la trasmissione di R.O.R. con una ricostruzione di quelle giornate.
San Basilio, 8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa
di Sandro Padula
Il contesto e la dinamica della battaglia determinatasi l’8 settembre 1974 a San Basilio non sono facili da spiegare. Alcuni testimoni di quegli eventi sono morti negli anni successivi, ad esempio il mio amico Roberto di cui parlerò qui; altri ricordano soprattutto la nebbia dei lacrimogeni o mettono in connessione lineare, se non addirittura mitologica, il passato col presente; certi sono diventati “pentiti” negli anni Ottanta e altri ancora hanno cercato di abiurare il proprio passato di militanza politica, ad esempio determinati ex dirigenti di Lotta Continua.
La borgata di San Basilio
Pochi fra i testimoni rimasti in vita ricordano bene gli avvenimenti dell’8 settembre 1974 a San Basilio e i motivi che ne furono alla base. Esistono però alcuni fatti che, da soli, risultano sufficienti ad aprire o a riaprire le porte di una corretta ricostruzione storica. Il 20 febbraio 1973 l’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp) indisse il concorso per l’assegnazione di alloggi a San Basilio, Pietralata e Tiburtino III, tre borgate della periferia sud orientale di Roma, per un totale di 600 appartamenti, ma fra l’estate e l’autunno di quell’anno si capì meglio che le migliaia di famiglie bisognose di un alloggio non potevano farsi molte illusioni.
Come ha correttamente ricordato Massimo Sestili in “sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974″ (saggio pubblicato in Historia magistra, Rivista di storia critica, anno I, n. 1, Franco Angeli editore, 2009) la graduatoria stilata per quel bando pubblico subì una modifica rispetto alla normale prassi seguita in precedenza. A Villa Gordiani e a Tiburtino III dovevano essere demoliti alcuni alloggi dello Iacp e agli abitanti interessati furono assegnati fuori graduatoria più della metà degli appartamenti disponibili. Per concorso furono assegnati “200 alloggi su un totale di 600″.
Il fatto che a Gordiani e a Tiburtino III alcuni alloggi dello Iacp fossero in procinto di demolizione avrebbe dovuto comportare un impegno politico preciso, da parte dello stesso Iacp e del Comune di Roma, per trovare un’alternativa abitativa agli interessati. Il concorso per l’assegnazione di alloggi avrebbe dovuto riguardare solo chi non aveva ancora acquisito il diritto alla casa. Fu invece una truffa di Stato per ottenere il consenso clientelare di 400 famiglie e, nel medesimo tempo, evitare costi aggiuntivi alle casse dello Iacp e del Comune di Roma. Si trattò di una scelta discrezionale in punto di diritto e scellerata in termini politici perché, in pari tempo, costituì una turbativa d’asta e dell’ordine pubblico.In tale scenario, aggravato da un bisogno di case che non riguardava più solo i baraccati come accadeva negli anni Sessanta ma, in modo crescente, anche le famiglie proletarie in coabitazione, 136 abitazioni dello Iacp site a San Basilio in via Montecarotto (in parte nella contigua via Sarnaro) furono occupate nell’estate del 1973. Allora e lì, nonostante l’immediato sgombero e al di là di quel che affermano alcune recenti ricostruzioni, ebbe inizio la lotta per il diritto alla casa a San Basilio.
Quelle stesse case furono poi occupate di nuovo il 5 novembre 1973, sgomberate la mattina di un paio di giorni dopo e, nonostante lo sbarramento di polizia e l’arresto di due persone, rioccupate dalle famiglie nell’immediato pomeriggio. “Le donne, che hanno portato avanti l’occupazione in prima persona, non si sono però allontanate dalle case, ma restando sul posto, hanno formato un loro comitato, che ha presto ottenuto un incontro con un dirigente dell’Iacp. L’incontro è avvenuto il giorno stesso.
Dei 136 appartamenti, ha spiegato il funzionario, 29 erano stati assegnati agli abitanti di Tiburtino III, 21 dei quali le hanno rifiutate perché vogliono andare in quelle costruite, sempre dallo Iacp, ai Monti del Pecoraro. Altre case sono state assegnate ai baraccati di Villa Gordiani. Le rimanenti dovrebbero essere assegnate, in base alla graduatoria e ai «punti», ad altre famiglie bisognose.
È stato insomma il dirigente dello Iacp a confutare, con i dati, la voce secondo la quale gli occupanti avrebbero preso la casa ad altri lavoratori, cui sarebbero state in precedenza assegnate. Dopo l’incontro c’è stata una breve assemblea, in cui gli occupanti hanno fatto le loro proposte: su 136 appartamenti, 60 devono essere assegnati a famiglie bisognose di San Basilio stessa. È la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che queste case vengono occupate. ma questa volta i proletari sono stati più decisi ed organizzati” (da pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 9 novembre 1973).
La borgata di Casal Bruciato, in un’immagine dello stesso anno
Diverse forze politiche e sindacali istituzionali, lungi dal mettere in discussione la logica clientelare dello Iacp e le ipocrisie del Comune di Roma, allora feudi della Democrazia Cristiana, “intervennero per scongiurare un’altra azione della polizia” (pag. 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio” di Gian-Giacomo Fusco, Edizioni Nuova Cultura, 2013) e proposero “di censire le famiglie occupanti al fine di trovare loro un alloggio diverso” (ibidem, pag. 118).
Il Comitato di lotta per la casa, a quel punto, dopo aver precisato di voler escludere dall’iniziativa coloro che avevano già usufruito di una casa popolare, presentò di nuovo allo Iacp una richiesta per l’assegnazione straordinaria di alloggi a tutte le famiglie bisognose di San Basilio. Denunciò le manovre di divisione portate avanti dalla locale sezione del Pci che aveva operato in nome di una “legalità” basata sulla presentazione della domanda al concorso pubblico per l’assegnazione delle case popolari. Infine portò i dati del censimento delle famiglie occupanti dai quali risultava il grado di affollamento da cui esse provenivano: 3,2 persone per vano (vedasi pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 21 novembre 1973).
Qualche tempo dopo il Comitato di lotta organizzò anche l’occupazione di 12 appartamenti dello Iacp a via Fabriano che inizialmente sarebbero dovuti essere utilizzati per insediare a San Basilio un Commissariato di polizia. Da 136 si passò a 148 appartamenti occupati da altrettante famiglie. A quel punto “la situazione cominciò a sedimentarsi; le famiglie ottenevano servizi – allacci sull’acqua, luce, gas e telefono – e si diffuse così l’idea che ormai quelle case erano degli occupanti” (ivi, pag 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio”).
La storia successiva vide il 1974 come l’anno di una grande e diffusa lotta per il diritto alla casa e di una gigantesca repressione poliziesca rispetto a quel bisogno sociale. Ci furono numerosi sgomberi di case occupate – per lo più di proprietà dei pescecani dell’edilizia – tanto che nell’estate di quel medesimo anno a Roma rimasero in piedi solo due occupazioni, quella organizzata alla Magliana dal novembre 1973 e quella gestita dal Comitato di lotta di San Basilio.
I governanti volevano portare un attacco decisivo agli ultimi baluardi della lotta per la casa. I fatti dal 5 all’8 settembre 1974 nacquero in tale contesto. Giovedì 5 settembre 1974, dopo 10 mesi di occupazione, a San Basilio ci fu uno sgombero, ma di sera gli appartamenti furono rioccupati. Venerdì 6 settembre, anche se il Comitato di lotta aveva organizzato una resistenza migliore, si ebbe un altro sgombero. Nella serata, però, le case furono rioccupate dopo una trattativa. Il Comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari avrebbero dovuto decidere dove mandare le famiglie occupanti. Sabato 7 settembre sembrava essersi determinata una sorta di tregua, ma nella mattinata di domenica 8 settembre, come seppi con parecchie ore di ritardo, la situazione precipitò.
San Basilio
Fra le 16 e le 17 di quel giorno festivo cercai vanamente la compagneria del collettivo politico nelle strade, nei muretti e nei locali pubblici del mio quartiere. Decisi allora di fare una passeggiata da solo. Andai verso uno spazio verde tagliato da una marana, una striscia d’acqua inquinata dagli scarti della Pirelli di via di Torre Spaccata. Percorsi un viottolo fino a giungere all’ombra di un fico che dava frutti anche a settembre. Volevo assaggiarne alcuni, ma un imprevisto mi bloccò.
“Ehi! Ehi!”, strillò Roberto dal bordo del prato mentre agitava la mano verso la sua faccia per farmi intendere che avrei dovuto raggiungerlo in fretta e furia. Corsi preoccupato.
“Dobbiamo andare a San Basilio”, disse Roberto che ormai avevo di fronte a me.
“Cos’è successo?”, gli chiesi.
“In mattinata c’è stato un altro sgombero delle case occupate. Poi, fino alle 14, gli scontri hanno fatto il resto”, mi rispose.
“La situazione è cambiata per l’ennesima volta”, commentai.
“Sì – riprese la parola il mio amico – e proprio per questo motivo dobbiamo partire subito con la macchina che sta qui vicino. Alle 18 c’è un appuntamento nella piazza centrale. I compagni e le compagne del nostro collettivo politico sono già lì”.Dopo venti minuti lasciammo l’autoveicolo nei pressi di via Tiburtina. I pali della luce abbattuti non permettevano l’ingresso stradale nella borgata. Vi entrammo a piedi attraversando un prato. Alle 18 molti giovani, in parte provenienti da altre zone periferiche della città, si erano concentrati alle spalle di una chiesa, nella piazza principale della borgata.
Nella parte opposta, soprattutto sulle parallele vie Corridonia e Fiuminata e più precisamente nei punti di accesso a via Montecarotto, mille fra carabinieri e poliziotti erano in assetto da guerra ma la battaglia scoppiò dopo circa un’ora, fra le 19 e le 19,30. Ad un certo punto, un plotone avanzò da via Montecarotto su via Corridonia lanciando decine di lacrimogeni ad altezza d’uomo in direzione della piazza affollata; poi, quando si accorse di non avere più altri “fiori bianchi” da regalare, si ritirò in modo caotico.
Alcuni poliziotti ad esempio, invece di tornare indietro, percorsero via Fabriano nel tratto adiacente l’ingresso della chiesa, l’oltrepassarono fino a fare capolino su via Fiuminata e lì ebbero un contatto con due o tre manifestanti che, privi di armi da fuoco, rischiavano di essere arrestati dai tutori dell’ordine. Vedendo quella scena un gruppo di giovani partì di corsa dalla piazza, imboccò via Fiuminata, giunse nei pressi della via adiacente la chiesa e divenne il bersaglio di alcuni colpi di pistola partiti da un altro plotone di poliziotti e carabinieri, distante 25-30 metri, che già operava nella stessa via Fiuminata.
I proiettili, su quella medesima strada, raggiunsero il muro di cinta della chiesa, un palo della luce, un albero e Fabrizio Ceruso. Quest’ultimo, diciannovenne del Comitato Proletario di Tivoli, un organismo dei Comitati Autonomi Operai, fu colpito al petto. Tre giovani lo presero da sotto le ascelle e dai piedi. Da via Fiuminata giunsero nella piazza e da lì ancora più lontano fino a via Corinaldo, dove c’era un piccolo pronto soccorso. In seguito, accertata la gravità delle condizioni fisiche di Ceruso, bloccarono un taxi e vi entrarono portando con sé il ferito.
“Al Policlinico! Al Policlinico!”, urlò uno di loro al tassista.
“Corri! Corri!”, disse un secondo passeggero.
“Hanno ammazzato mio fratello!”, esclamò un altro durante il tragitto verso l’ospedale.I tre giovani non erano parenti, ma compagni di lotta di Ceruso. Così lo sentivano mentre lui non dava più segni di vita. Temevano di essere ficcati nei guai dalla polizia e perciò fuggirono appena il taxi giunse al Policlinico. La notizia della morte di Ceruso si diffuse rapidamente. Venne trasmessa anche dalla televisione e dalla radio. Giunse a noi che restammo a san Basilio anche dopo il tramonto fra barricate, lacrimogeni e sparatorie.
Il giorno successivo, il 9 settembre 1974, il Consiglio della Regione Lazio varò una legge: le famiglie che avevano occupato una casa nel territorio laziale, per autentico bisogno e prima dell’8 settembre di quell’anno, avevano diritto all’assegnazione di un appartamento. Quando poi – giovedì 12 settembre – arrivò la data del funerale, il feretro partì dall’obitorio del Policlinico e fu seguito da un corteo di automobili. Doveva giungere a Tivoli, la cittadina di residenza dei parenti del giovane, ma prima passò a San Basilio. Lì, ad attenderlo, molte persone stavano sui marciapiedi delle principali vie.
Non aveva più il casco rosso che portava in testa quando lo vidi cadere. Non era più a pochi passi da via Fabriano e a dieci metri da me e Roberto che correvamo dietro di lui su via Fiuminata. Eravamo davvero matti a sfidare, in quel momento solo con qualche sasso, i lacrimogeni e le pallottole delle forze dell’ordine. Ma forse erano più matti coloro che componevano il quinto governo Rumor (14 marzo 1974 – 23 novembre 1974), cioè i massimi responsabili politici della morte di Fabrizio Ceruso.
Gettiamo invece un velo pietoso sui dirigenti del Pci e del Sunia (il sindacato inquilini e assegnatari vicino al Pci) che allora intervennero solo a livello di mediazione istituzionale ed esclusivamente a favore della presunta legalità di una miserabile truffa di stato. E che dire della magistratura? Il pubblico ministero Gugliemo Cavallari, pur avendo iniziato immediatamente le indagini, depositò la requisitoria venticinque mesi dopo: l’8 di ottobre del 1976 (vedasi: “Fatti di San Basilio: sotto accusa i metodi usati dalla polizia”, Franco Scottoni, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
Con essa, “in ordine all’omicidio di Ceruso, al ferimento di 47 militari di Ps e alle violenze a pubblico ufficiale”, si chiese che il giudice istruttore dichiarasse “con sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato”. Sul piano giuridico i fatti di San Basilio furono poi archiviati dal giudice istruttore, il dottor Capri, ma la requisitoria del pm Cavallari costituì soprattutto un’accusa politica verso i metodi usati dalla polizia e una critica incontrovertibile alla tesi della questura di Roma secondo cui le forze dell’ordine sarebbero state innocenti rispetto all’omicidio di Fabrizio Ceruso.
Sempre a San Basilio, settembre 1974
Il pm affermò che “furono concentrate presso la Direzione di Artiglieria di Roma le pistole appartenenti alla forza pubblica; fu controllato se le armi in dotazione fossero quelle effettivamente consegnate; furono controllati gli elenchi di servizio e i libretti personali degli agenti” (ibidem, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
“Da tali verifiche – scrisse il pm – è emerso che la tenuta di alcuni documenti non era regolare: in particolare il registro della scuola di Ps di Caserta presentava pagine tagliate e re iscrizioni a penna su precedenti scritture a matita fatte con grafie diverse. Inoltre l’elenco del I battaglione Celere è risultato redatto dopo il rientro in caserma, sulla base di annotazioni provvisorie”.
Il pm Cavallari precisò che Ceruso fu “raggiunto da un proiettile calibro 7,65 che aveva camiciatura nichelata e tracce di laccatura viola sulla godronatura, caratteristiche comuni a gran parte delle cartucce in dotazione agli agenti operanti a S. Basilio, in via Fiuminata, dove avvenne l’omicidio”. Quel proiettile, sempre secondo la requisitoria del pm, risultò “appartenere ad una fornitura di cartucce di produzione piuttosto remota (non posteriore all’anno 1965) della quale gli agenti avevano un notevolissimo quantitativo in dotazione”. Dal 1960 del governo Tambroni in poi, almeno fino al quinto governo Rumor, la polizia ebbe il monopolio nel possesso di cartucce di quel tipo perché queste ultime erano state “vendute dalla Fiocchi anche a privati ma solo fino al 1960″. I governi erano davvero coi Fiocchi.
C’è qualcuno che oggi ricorda bene queste cose? La memoria di ognuno rischia di essere fallace, altalenante com’è fra un dubbio e l’altro inculcato dai professionisti delle dietrologie e delle menzogne storiche mass-mediate. Serve perciò una memoria collettiva e critica. Fatta pure di singoli e personali ricordi o racconti, ma tutti documentati o documentabili con precisione e senza inutili mitologie.
Nel 1974 la borgata di San Basilio stava diventando un quartiere. La maggioranza degli occupati in qualche lavoro era composta da lavoratori salariati ed era solidale verso il Comitato di lotta per la casa. L’8 settembre 1974 non ci fu nessuna “guerra fra poveri” a San Basilio. Ci fu una linea della fermezza da parte del governo Rumor V – e già sperimentata il 9 maggio 1974 con la strage compiuta nel carcere di Alessandria dalla forza pubblica diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che da un lato provocò l’omicidio di Fabrizio Ceruso e dall’altro il ferimento di 47 agenti delle forze dell’ordine.
Se i governanti fossero stati a San Basilio dopo le ore 19 e 30 dell’8 settembre 1974 avrebbero potuto vedere coi propri occhi una rivolta armata di massa. Decine di abitanti facevano sporgere dalle finestre i fucili da caccia o a canne mozze e le pistole. Molti nelle strade avevano con sé biglie, fionde, sassi, bulloni e bottiglie molotov. Un ragazzo si proteggeva la testa con un casco rosso. Somigliava a Fabrizio ma era soltanto un suo fratello di lotta.
“un’ordinanza equilibrata e innovativa”: il Medioevo ci sta mangiando.
Certe notizie non riescono a rosicchiare nessun spazio nemmeno online.
Perchè, d’altronde, è solo la notizia di un arresto di tre anarchici, accusati di aver resistito ad uno sgombero di uno stabile occupato nella periferia bolognese: peccato che dietro questa notizia si celi ben altro,
cela il potere totale sui nostri corpi, cela un codice penale che permette ad un procuratore di scrivere nero su bianco certe cose.
Ricominciamo: c’è uno sgombero, a questo sgombero c’è chi oppone resistenza lanciando oggetti ed escrementi contro i vigili del fuoco (beati i tempi in cui il corpo dei Vigili del Fuoco si rifiutava di compiere sfratti e sgomberi!) intenti ad aiutare le forze dell’ordine nello smantellamento di alcune barricate per impedire l’accesso all’edificio. Le accuse sono: invasione di edificio, danneggiamento aggravato, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.
Il tutto avviene in Via Beverara, a Bologna, all’interno di proprietà dello stesso comune.
Qual’è la conclusione?
Gli arrestati hanno il divieto di dimora a Bologna, dove son stati arrestati e dove probabilmente risiedono… e già qui sembra il confino di altri tempi.
La cosa surreale è che questo divieto viene esteso anche a Chiomonte, a qualche centinaio di kilometri di distanza, sede dei cantieri dell’alta velocità.
Secondo il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, è “un’ordinanza equilibrata e innovativa”.
A me fate schifo.
E tutti i millantatori difensori della Costituzione ora li vorrei veder sbraitare davanti allo schifo di questa ordinanza,
a tutti i blateratori della legalità, venitemi a raccontare cosa c’è di “legale” in un foglio di via da un comune che magari i tre fermati non hanno mai visto in vita loro. Dove siete, urlatori della democrazia?
Ah no scusate, so’ 3 anarchici, che ve frega.
Lo spazio liberato dalle Cagne Sciolte, e la passeggiata collettiva del 2 febbraio
Mai ho avuto modo di scrivere dello spazio occupato dalle Cagne Sciolte, in via Ostiense 137, una manciata di settimane fa, il 14 dicembre.
Eppure quel luogo è stata la sola fonte di fughe di queste giornate lunghissime, il solo luogo di calore totale e immediato,
quello spazio liberato straordinario,
liberato da compagne che insieme son di una forza e di una bellezza rara.
Non son mai riuscita a ringraziarle se non per le azioni fatte alla loro nascita, prima che quel locale sigillato per loschi giri sui corpi delle donne fosse preso e riaperto ad una comunità che è trascinante e bella, variegata e non ortodossa, liberata e liberante.
Un luogo che ha il sapore della complicità, che ha l’energia e la forza di chi lotta da sempre, in ogni contesto attraversato,
che sento lontano da dinamiche ormai insopportabili che ci portiamo dietro come una zavorra ormai genetica.
E allora non lo faccio nemmeno ora, che son lontana, e mi mancano… non ne scrivo, che tanto basta guardarle un secondo per capire che le parole non servono poi così tanto.
Non lo faccio perché ho voglia di cazzeggiare ballando intorno a quei 4 pali, ho voglia di chiacchierare su quei divanetti e veder mio figlio correre intorno al palco come un pazzo: troppi desideri per poter “scrivere” senza sembrare un po’ scema.
Spero di essere con voi, per le strade di quel quartiere, domenica 2 febbraio…
( qui gli altri articoli sulle Cagne Sciolte : LEGGI )
Le Cagne Sciolte liberano uno spazio a Roma! Daje!!
Ci son giornate che iniziano bene.
Giornate che iniziano con pezzi di riappropriazione, giornate che ti fan sentire meno sola,
che senti quella vocina dentro che dice “daje che ancora c’è ossigeno”.
Le “Cagne Sciolte”, nuovo gruppo di donne di cui abbiamo parlato dal primo vagito della loro storia,
hanno liberato un nuovo spazio, a Roma. Uno spazio che sarà immediatamente uno sportello di accoglienza per donne,
uno spazio che… ecco compagne eh, mo arrivoooooo.
Le “cagne sciolte” hanno saputo far parlar di loro dal primo momento,
son state caricate dopo pochi istanti di vita, e hanno fatto rosicare i fascisti come poche…
ora ci donano quattro nuove mura da vivere collettivamente, grazie care.
Buon nuovo inizio, in uno spazio nuovo tutto da vivere, da determinare e costruire insieme.
Ci vediamo a momenti, in via Ostiense 137 … ve vojo abbraccià una ad una
Qui il loro sito: Vedi
Abbiamo liberato uno spazio in Viale Ostiense 137.
Vogliamo farne un punto di riferimento e di incontro per le donne.
Abbiamo avviato questa esperienza in questo territorio perché non ci sono luoghi in cui riprenderci il nostro tempo, incontrarci con le altre e riconoscerci riscoprendo le nostre potenzialità; quelli che invece ci sono nelle città sono troppo pochi o lontani.
Uno dei primi progetti che vogliamo avviare sarà uno spazio di accoglienza per le donne che hanno subito o subiscono violenza, riservando un luogo protetto per le situazioni concrete e personali, dove sarà possibile avere colloqui con operatrici e avvocate, dove si possano trovare tempi e modalità per rielaborare e liberare le proprie vite da ricatti e sensi di colpa.
Ognuna può uscire dall’isolamento e dal senso di impotenza in cui vogliono rinchiuderci attraverso la paura e la diffidenza, i falsi miti sull’individualismo e l’arrivismo.
Non vogliamo essere remissive, siamo battagliere.
Il nostro sogno è vivere felici e vorremmo iniziare da qui.
Lottiamo contro la violenza sulle donne, ma non ci interessa farlo con la retorica della donna buona e onesta che non si tocca neanche con un fiore.Pensiamo piuttosto che la violenza si inizi a sradicare ogni volta che una donna non vuole stare alle dipendenze di qualcuno, servile e indifesa, in casa o al lavoro…ma per farne una cultura dobbiamo esserne coscienti tutte!
In questo progetto ci mettiamo tutta la voglia e il coraggio di iniziare da capo e imboccare strade inesplorate, convinte di trovare altre sorelle lungo il cammino, perché sentire la solidarietà e la presenza delle altre è sempre qualcosa che cambia le prospettive e apre possibilità che prima neanche si vedevano.
Insieme si moltiplicano le forze: quello che ci sarà è innanzitutto quello che vorrai condividere e contribuire a creare. Sarà uno spazio in cui venire a prendere fiato da una vita che ti soffoca, a comunicare con le altre, in cui proporre e costruire tutti i progetti che desideri, uno spazio in cui confrontarsi su quello che succede intorno e ciò che vorremmo cambiare, in cui sperimentare pratiche per agire, dove trovare una situazione di mutuo aiuto per tutti i problemi che ci rendono la vita una faticata anziché una ficata.
Noi ci mettiamo l’inizio, il seguito lo determina chi vorrà esserci e sostenerci, consapevoli che cerchiamo di abbattere un sistema che disprezziamo, fondato sullo sfruttamento e la sopraffazione: il nostro non sarà un luogo per accumulare denaro, né per avere riconoscimenti sociali, né per farsi forza con le debolezze delle altre. Non ci interessano i contentini e le pacche sulle spalle (o sul culo!).
NESSUNA SARA’ LIBERA FINCHE’ NON LO SARANNO TUTTE LE ALTRE!
CHIAMIAMO TUTTE E TUTTI ALL’ASSEMBLEA PUBBLICA IN
VIALE OSTIENSE 137 ALLE ORE 17.00
Occupi scuola? Una volta rischiavi lo sgombero, ora c’è la “vigilanza” che spara…
Il mazzo di chiavi della scuola, le urla col preside per cacciarlo da scuola: professori che sbraitano, altri sornioni e solidali, studenti fomentati, altri che voglion tornar a far lezione (esistono anche quelli, il peggior ricordo della mia vita scolastica)…
una scena vista un sacco di volte. Decibel elevati, magari pure mezza pizza che vola da qualche parte: poi scuola è occupata o no.
Decide la determinazione degli studenti, decidono tante piccole cose della politica che in quelle prime esperienze inizi a capire, a testare e valutare.
Tante volte il preside riesce a chiamare le guardie, arrivano sempre, non sempre sgomberano.

Il foro dello sparo, sempre sul sito “tinnapoli.net”
Una quasi normalità scolastica, una piccola palestra di vita che tutti (occupanti o no) ci siam trovati a vivere.
Senza piombo però, ecco.
Senza traccia di pistole o pistoleri.
Invece a Pomigliano d’Arco non è andata così ieri.
All’ istituto tecnico Barsanti di Pomigliano non è arrivata la polizia ma una vettura con due vigilantes a bordo.
Su questo sito, Tinnapoli.net, c’è un racconto in esclusiva di un ragazzo che potete leggere nel box qui sotto…
…Ora mi piacerebbe saper tutto su questi due uomini.
Son due vigilantes, due omini armati di pistola e anfibi: nemmeno due poliziotti, tronfi della divisa di Stato, ma dei pagliaccetti armati (spesso scarti delle forze armate) e mascherati da guardie.
Vi lascio al racconto perché non le voglio nemmeno cercare le parole per commentare:
meglio che non tiro fuori quelle che escono di getto, ancora con lo spirito di chi strappava quel mazzo di chiavi per il suo pezzo di libertà e autorganizzazione,
meglio poi che non tiro fuori quello che ormai da madre mi verrebbe voglia di dire, perchè ….
mejo che sto zitta va…
POMIGLIANO D’ARCO- Giornata shock quella di ieri all’Itis Barsanti di Pomigliano, che noi noi della Redazione di Tin Napoli, abbiamo provato a ricostruire IN ESCLUSIVA, raccogliendo le dichiarazioni degli studenti.Foto di Valentina Perniciaro _Licei romani_
”Ieri mattina-esordisce uno Studente mentre svolgevamo il corso aereodinamico, alcuni studenti hanno provato ad occupare la scuola, così la segreteria ha dato l’allarme”.
”Mentre cercavamo di dialogare con il nostro Preside -prosegue lo Studente, sopraggiunge una volante della VIGILANZA ITALIA, dalla quale scende un agente, il quale estrae dal fodero una pistola e provvede ad inserirvi al suo interno il caricatore”.
”Il Vigilante-continua lo Studente, mi intima subito con toni minacciosi di consegnargli le chiavi del portone della scuola che io non avevo e da subito un calcio alla porta e cosa assurda spara un primo colpo di pistola al catenaccio mancandolo, con me dietro la porta terrorizzato”.
”Non contento l’uomo – ribatte lo Studente, spara un secondo colpo di pistola; questa volta centrando in pieno il catenaccio del portone, con me che intanto ero scappato verso le scale”.
”Il vigilante riesce così ad entrare a scuola e mi obbliga a sdraiarmi a terra con le mani in alto e puntandomi la pistola dice:FERMATI O TI AMMAZZO, TI GIURO, TI FACCIO SPUTARE SANGUE, NON TI MUOVERE”, frase poi ripetuta di lì a poco da un suo collega: NU T MOVR”.
‘‘Intanto -aggiunge lo Studentel’altro agente, riesce a prendere due studenti, ai quali da uno schiaffo ed un cazzotto violento nello stomaco, facendoli sdraiare anche a loro a terra al mio fianco e inseguendo un’altro studente, che però riesce a scappare dalla finestra, spara ancora un’altro colpo”.
”VI STO SEGUENDO DA UNA SETTIMANA, FERMI O VI FACCIO SPUTARE SANGUE, 6 MESI DI GALERA NON VE LI TOGLIE NESSUNO, BRUTTI BASTARDI, MI AVETE FATTO SPRECARE 3 COLPI, IO VI AMMAZZO, sono le altre frasi minacciose del Vigilante; dopodichè estrae il caricatore dalla pistola e non appena arrivano i carabinieri, modifica completamente il suo atteggiamento” –conclude lo Studente.La Redazione di Tin Napoli ringrazia gli studenti dell’Itis Barsanti per aver scelto IN ANTEPRIMA la nostra redazione, per chiarire in maniera dettagliata il triste accaduto.
Assemblea Pubblica al nuovo studentato occupato a Roma: Casa dei precari Alexis
COMUNICATO DI LANCIO DELL’ASSEMBLEA DI VENERDì 7 ALLE18—
STUDENTATO/CASA DEI PRECARI –ALEXIS
Ieri abbiamo occupato lo stabile in via Ostiense 124 e lo abbiamochiamato Alexis ,
perché quando diciamo che i compagni/e vivono nellelotte, ci crediamo veramente.
Infatti la giornata di ieri è stata una grande giornata di lotta, una giornata di cortei, di occupazioni e di risposta reale .
Lo avevamo detto, scendere in piazza a consumare le strade non ci basta più, cominciamo a portare elementi di proposta, luoghi dove sperimentare il comune e le possibilità oltre l’esistente, oltre il capitalismo.
Alexis vuole essere uno spazio aperto alla città, vuole essere una risposta abitativa per gli studenti che non hanno alcuna agevolazione da parte delle università dal punto di vista di alloggi che vengono messi in affitto e nei quali l’accesso è sempre più limitato se non sconveniente, visto il decentramento degli alloggi che spostano il problema abitativo con quello della mobilità, oltretutto concepiti come mini-caserme (documenti all’entrata).
Ma Alexis vuole anche uscire dalla situazione prettamente studentesca in quanto poi parlare di soggetto studente oggi è qualcosa di molto difficile , preferiamo parlare di precari in formazione, essendo questo soggetto inserito da subito nella totale precarietà, e quindi pensare ad una casa anche dei precari e delle precarie in un contesto sociale e con un mercato del lavoro non solo disastroso, ma sempre più portato verso il baratro da parte delle misure di austerity messe in campo per il mantenimento del sistema economico-politico.
Tutti noi siamo già da tempo nella giungla della precarietà e ci ritroviamo nel “gioco” delle 47 modalità contrattuali o a nero a dover accettare lavori sottopagati e prese in giro varie, qualcosa di sempre più diffuso, ma la necessita di non accettare questa condizione si fa sempre più forte.
Alexis quindi si colloca in uno spazio cittadino, di una citta dove l’abuso edilizio e la speculazione sono altissimi, dove sono più le case senza persone che le persone senza case, ma anche direttamente nello spazio territoriale dove a pochi metri si compie una grandissima speculazione su quello che era l’ex “quartier generale” Acea tenuto in affitto al costo di un miliardo e mezzo l’anno da partedella regione , vuoto e frutto delle speculazione di più privati, aziende , costruttori noti e in un territorio che subisce fortemente in maniera negativa la presenza di una grande fabbrica, la fabbrica del sapere di Roma3.
Allo stesso tempo Alexis vuole collocarsi in uno spazio transnazionale ed Europeo, perché sente forte il bisogno di una connessione e di generalizzare il conflitto in tutti gli ambiti sociali, sente il forte bisogno di cambiamento e di alterità, vuole darsi come tendenza lo sciopero sociale.
Rivendichiamo reddito, perché non vogliamo piegarci al ricatto del lavoro sottopagato e dello sfruttamento e lo facciamo riprendendocene un pezzetto, smettendo di pagare l’affitto e le case, i soldi che buttano, con cui speculano, devono cominciare a darli alle persone.
Stamattina hanno sgomberato l’occupazione di Sette Camini e, mentres criviamo, sappiamo essere in atto altri tentativi di sgombero, ma anche conseguenti mobilitazioni per rispondere subito ad ogni intimidazione;
noi portiamo la nostra vicinanza e complicità e sappiamo tutti e tutte che anche se sgomberati,
Oggi pomeriggio invitiamo tutte le realtà di movimento , tutti soggetti, singoli, gli abitanti del quartiere, studenti e chiunque voglia, ad intervenire e a prendere parola con noi in un’ASSEMBLEA PUBBLICA CITTADINA e a sentirsi complici di un progetto ed una prospettiva, che tende al cambiamento non solo possibile ma necessario.
APPUNTAMENTO ORE 18
IN VIA OSTIENSE 124
Su uno sfratto torinese: all cops are BASTARD, altro che “pecorelle”.
Questa è Torino.
Questo è il nostro paese.
Questo continuerà ad essere il nostro paese se non impariamo a vivere,
a difenderci, a pretendere altro nella nostra vita e strapparglielo via.
Queste due fotografie sono state scattate questa mattina e circolano in rete grazie al CSOA Gabrio, che faceva parte del presidio antisfratto duramente attaccato oggi.
Dalle 7 di mattina Corso Cosenza è stato incaso da diverse camionette e molti agenti della Digos:
il tentativo di sfratto s’è fatto subito violento. Manganellate, spintoni e calci,
per arrivare a sfrattare Hedia, suo marito e i suoi bambini.
LA DIGNITA’ NON SI SFRATTA.
LE NOSTRE VITE NON SI MANGANELLANO.
PAGHERETE CARO.
Israele e i suoi ultras: se li chiamiamo “nazisti” ci dicono pure che siamo “antisemiti”…vabbhé
A poche ore dalla strage avvenuta a Tolosa fanno ancora più rabbrividire queste immagini.
Perché anche chi sa bene cos’è il sionismo, anche chi ha visto con i propri occhi questo tipo di violenza,
non riesce mai ad abituarsi.
Non ho paura a dirlo, non ho paura a dire che quando i miei occhi in Palestina (tondi tondi 10 anni fa) leggevano sui muri dei Territori Occupati “Gas the arab” “death to all arabs” o cose simili ho avuto quella chiara sensazione di vivere in prima persona qualcosa che pensavo parte della storia.
I rastrellamenti di Nablus o di Gaza sono molto simili a quelli di Varsavia, ma se lo dici sei tacciato di antisemitismo.
Non si parla di altro e non c’è accusa più sterile e facile da lanciare contro chi ha a cuore il popolo palestinese (come qualunque altro sotto occupazione militare, apartheid e costretto a 60 anni di fuga e diaspora), contro chi lotta per l’autodeterminazione di un popolo che vive in uno stato di detenzione e soprusi costanti, inimmaginabili.
Ma la violenza sionista non è solo fatta di coprifuoco, di muri che crescono e mangiano terre, villaggi, campi e fonti d’acqua,
la violenza sionista non è solo bombardamenti, tank e cecchini,
non è solo fosforo bianco e uranio impoverito,
non è solo la morte, l’assenza di possibilità di curarsi, tumori e malformazioni dovuti agli armamenti usati,
Israele non è solo quello.
Il sionismo è quello che ieri ha portato 85 ulivi alla morte solo nell’area di Betlemme, estirpati da ruspe scortate da coloni armati e sorridenti,
il sionismo è quello di questi ragazzi, tutti tifosi della più antica squadra di calcio israeliana,il Beitar,
che entrati in un grande magazzino, usano la loro goliardìa da ultras deficienti, non per rubare qualche panino o maglietta,
ma per una becera, nazista, incommentabile “caccia all’arabo palestinese”.
Ed io non ho parole per descrivere queste cose,
perché vedo gli occhi di mia nonna che mi raccontano degli anfibi tedeschi che marciavano,
perché vedo il sorriso spaventato di qualche anziano abruzzese, a cui hanno minato la porta di casa e un pezzo di vita per rappresaglia,
vedo quelle migliaia di bimbi polverosi cresciuti nei campi profughi nei paese adiacenti alla loro terra,
bambini che crescono con il solo desiderio di poter un giorno cogliere le olive o le arance dei loro nonni.
Spesso ignari che non ne esiste più traccia, e che al posto loro troverebbero i parchi divertimenti dei loro aguzzini.
Israele è tante cose,
è il miglior libro aperto di storia per capire il nazismo.
Repressione e carcere: il governo Monti alza il tiro … e sarà la nostra quotidianità
Questo nuovo governo, che il popolo viola dell’antiberlusconismo piddino ha accolto con festosi Alleluja,
ha immediatamente fatto capire, riforme e manganello alla mano,
cosa vuol dire vivere sotto un governo di banche, di finanza, di capitalismo sciacallo, più del solito.
E così non ci si può muovere che i plotoni gestiti da un ministero tutto composto da ex e non funzionari della polizia di Stato arrivano,
nel peggiore dei modi, caricando chiunque si trovino davanti,
inseguendo manifestanti fin dentro i bar,
arrestando, processando e condannando ragazzi giovanissimi ed incensurati a pene surreali.
E’ il governo che volevate eh!
C’avete fatto due palle tante che il nemico era Berlusconi e la sua cricca,
che ora queste manganellate e queste celle tutte gestite dal capitalismo finanziario
sembra che quasi ce le meritiamo, paese intriso di stoltezza e amore per la schiavitù.
Le mobilitazioni NoTav che avvolgono il paese e non solo la Val di Susa, che rischia in prima persona sul profilo dei suoi monti e del suo bel popolo dalla testa alta, come le opccupazioni abitative e la lotta per il diritto all’abitare
parlano un linguaggio chiaro.
Una lingua che non lotta contro una ferrovia, che non lotta contro un appalto, che non lotta contro l’amianto,
ma contro i nostri modi di produzione ed accumulazione,
una lotta contro il capitalismo, contro la servitù al capitale,
contro lo sfruttamento di corpi e territori.
E il governo Monti probabilmente sta cercando il modo di arrestarci tutti.
Non sarà difficile trovarci comunque,
perché saremo in ogni strada, davanti ad ogni carcere, a difendere case e montagne
con la stessa identica priorità:
GUAI A CHI CI TOCCA!!
Vi allego qui il comunicato di ieri, dopo gli arresti ai danni degli appartenenti dei movimenti di lotta,
che stamattina saranno processati per direttissima
QUANDO LE LOTTE SI UNISCONO FANNO PAURA
LIBERI SUBITO I COMPAGNI ARRESTATI
Oggi alle 11:30 i movimenti di lotta per la casa hanno occupato la sede del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) dietro uno striscione che recitava “1 km di TAV = 500 case popolari”.
Un’iniziativa pacifica, organizzata perché in questa sede vengono definiti gli stanziamenti di fondi per il TAV in Val di Susa.
Le 400 persone che hanno dato vita all’iniziativa sono state più volte caricate dalla Polizia ed infine spinte fuori dal palazzo di via della Mercede 9.
Alla legittima richiesta di poter proseguire la protesta con un corteo, 35 persone, compagni e compagne, sono state identificate e fermate ed uncompagno è rimasto a terra ferito dalle violente cariche. I fermi che poi sono risultati arresti e sono 4.
Contemporaneamente la tendopoli del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa che stava presidiando i palazzi abbandonati di proprietà del demanio pubblico in Via Boglione 63 (nella periferia Sud di Roma) è stata sgomberata.
A detta delle stesse forze dell’ordine si è trattato di una rappresaglia per l’occupazione del CIPE in via Mercede.
Nel corso dello sgombero del presidio, operato dal reparto mobile della Guardia di Finanza, sono state identificate tutte le famiglie presenti. Due donne sono state portate al Commissariato Preneste perché in quel momento prive di documenti.
Forse nel timore che la vendetta non fosse sufficente, le forze dell’ordine, nel pomeriggio, hanno assaltato con inaudita violenza l’occupazione di via Casal Boccone dei Blocchi Precari Metropolitani.
Sono stati sparati lacrimogeni sul tetto, una parte dello stabile è stata devastata, ma grazie alla determinazione degli e delle occupanti lo sgombero non è stato portato a compimento.
Oggi a Roma si è reso palese l’atteggiamento aggressivo e repressivo che comune e governo stanno avendo nei confronti di chiunque, in questo paese, alzi una voce di dissenso e cerchi di autodeterminarsi.
Ancora una volta ci dimostrano quale sia per loro la democrazia: quella che occupa militarmente i territori nella Val di Susa, che uccide nei CIE e nelle carceri, che punisce con sentenze spropositate chi si è difeso il 15 ottobre dai caroselli della polizia, e che non si preoccupa di sgomberare centinaia di famiglie sotto la neve.
Ma le lotte sociali non si fermano. Scendono in piazza per la libertà di movimento chiamando alla mobilitazione in solidarietà e complicità con gli arrestati, a partire da domani mattina.
ORE 9.00 PRESIDIO SOTTO IL TRIBUNALE A PIAZZALE CLODIO
ORE 10.00 PRESIDIO DAVANTI AL CARCERE DI VELLETRI
ORE 15.00 ASSEMBLEA PUBBLICA AL VOLTURNO OCCUPATO
In Grecia si occupano e autogestiscono gli ospedali pubblici!
Secondo una dichiarazione (04-02.2012) pubblicata dall’ assemblea generale dei lavoratori dell’ Ospedale Generale di Kilkis, i medici, gli infermieri e dell’ altro personale dichiara che i problemi di lungo corso del Sistema Sanitario Nazionale (ESY) nel paese non possono essere risolti attraverso limitate richieste di risarcimento del servizio sanitario. Pertanto, i lavoratori dell’ Ospedale Generale rispondono al fascismo del Potere occupando questo ospedale pubblico e ponendolo sotto il loro diretto e completo controllo. L’ organo decisionale per le questioni amministrative sarà l’ assemblea generale dei lavoratori.
Sottolineano inoltre che il governo greco non ha assolto ai suoi obblighi finanziari verso l’ ospedale. I lavoratori denunceranno tutte le autorità competenti alla pubblica opinione e, se le loro richieste non saranno soddisfatte, si rivolgeranno ai comuni, alla comunità locale e non, per avere un supporto di qualunque tipo possibile per aiutare i loro sforzi: per salvare l’ ospedale e difendere la sanità pubblica, per rovesciare il governo ed ogni politica neo liberista.
La prossima riunione generale di tutti i dipendenti si terrà nella mattinata del 13 Febbraio. La loro assemblea avrà luogo giornalmente e sarà l’ organo principale per ogni decisione concernente i lavoratori e l’operatività ospedaliera.
I lavoratori chiedono la solidarietà fattiva dei cittadini e dei lavoratori di tutti i settori, per il coinvolgimento dei sindacati e delle organizzazioni progressiste, e per il sostegno dei media dell’ informazione reale. Essi faranno anche una relativa conferenza stampa il 15 Febbraio, alle ore 12.30. Tra gli altri, si invitano i colleghi degli altri ospedali a prendere decisioni appropriate, nonchè i dipendenti del settore pubblico e privato a fare lo stesso.
Tradotto dal sito ContraInfo
PER LEGGERE IL LORO COMUNICATO PER INTERO, TRADOTTO: QUI!
Diverso materiale a riguardo lo potete leggere QUI
E ancora, una riflessione sulla puntata di Santoro, blaterante di crisi in Grecia, scritta dal caro Marconista: LEGGETELA QUI!
Grecia: la rivoluzione è d’acciaio e zucchero. Lo sciopero delle acciaierie e l’occupazione di una famosa pasticceria
Sarà il più martoriato dei paesi che stanno subendo la crisi economica, l’austerity imposta dai “mercati internazionali” che spezza la normale vita economica di tutti gli strati del paese,
sarà il paese che sta sfiorando il baratro in modo sempre più pericoloso,
ma ogni volta che #stavitademerda mi permette di trovare il tempo di scovare notizie dalla Grecia,
il mio cuore si riempie di gioia.
Di quella gioia fatta di collettività, di sudore e organizzazione, di costruzione di percorsi d’autonomia, fondamentalmente di lotta di classe,
quella che da quest’altra parte del mare (un mare piccolo piccolo che sembra immenso) abbiamo rimosso.
Seppellita sotto tonnellate di riformismo, di sindacalismo colluso,
di complottismo, di giustizialismo, di grettezza politica
di incapacità di canalizzare energie e trovare il coraggio di portare avanti le battaglie come si devono portare avanti:
con il coraggio di chi non ha niente da perdere, e vorrebbe TUTTO da conquistare.
Ma non è aria, qui.
No.
Ma la Grecia sta prendendo la strada giusta: sta cercando di prendersi con la forza quello che con molta più forza è stato strappato via.
E lo fa riallacciando la corrente illegalmente alle famiglie che non possono pagare la tassa di proprietà,
lo fa espropriando supermercati di grandi catene e ridistribuendo il cibo preso nei mercati rionali,
lo fa portando solidarietà ai detenuti,
lo fa portando in piazza 15.000 lavoratori delle accierie staccati da qualunque sindacato sempre e comunque colluso e parte integrante dell’indotto di stato di sfruttamento e tagli.
Il piano di Manesis, capo delle acciaierie, caratterizzato dal terrore imposto dai continui licenziamenti e dalla proposta di lavoro a turnazioni, è stato bloccato dalla
tenacia e dalla forza dei lavoratori, che hanno oltretutto trovato un vero e proprio fiume di persone pronte a portare la loro solidarietà.
I volantini dei lavoratori delle acciaierie parlano chiaro, come quelli di studenti, immigrati, disoccupati:
la chiamata è generale, è ad una lotta di classe contro potere, che sia composta, foraggiata e alimentata da tutte le componenti di sfruttati ed emarginati del paese:
chiama a raccolta studenti, precari, dipendenti pubblici, disoccupati, migranti, clandestini, cittadini e nomadi…
tutti uniti, verso un’organizzazione rivoluzionaria capace di soverchiare il sistema,
così com’è.
Mi si riempie il cuore nel leggere i loro volantini, lo ribadisco emozionata.
• Un’altra notizia “greca” ci arriva da Salonicco, battagliera città, dove i lavoratori di una famosa pasticceria (è una catena con negozi in tutto il paese) “Hatzis”, hanno deciso di occupare il negozio nel quartiere di Kalamaria, dopo che da dicembre combattevano per cercare di ottenere i 5 precedenti mesi di salario, oltre che i bonus economici previsti nella mensilità di dicembre.
Una storia che va avanti da alcuni mesi e che ha dell’irreale visti gli ultimi 5 anni di fatturato della pasticceria e il maldestro tentativo (che sicuramente riuscirà) di puntare al fallimento approfittando della crisi nel paese, per evitare di
pagare i milioni di debiti accumulati con le assicurazioni pubbliche.
Basterebbe fallire, cambiar nome alla società e tutti i debiti, per primi quelli con gli stessi lavoratori, spariranno nel nulla.
Alla luce di ciò negli ultimi mesi i licenziamenti sono stati tanti, rimpiazzati con lavoratori “fantasma”, privi di regolari contratti o con l’obbligo di una precedente firma di “dichiarazione volontaria di licenziamento” che permettono al padrone di non pagare le indennità a chi viene licenziato.
Sono 400 euro al mese per turni fino a 12 ore di lavoro: questo è.
tanto che, come ormai per tradizione in quel paese, il padrone sta iniziando a tremare.
I suoi locali sono bloccati e occupati: al secondo giorno di occupazione la polizia ha fatto irruzione arrestando otto persone, tra cui 4 lavoratori e altri 4 solidali:
la cosa non ha minimamente fermato la mobilitazione.
La lotta continua…alla faccia del padrone, di Manesis e di quelli come loro.
Atene: azione diretta in una radio… e successiva pesante repressione
Questa mattina diversi militanti dell’assemblea solidale con l’organizzazione “Lotta rivoluzionaria” attualmente sotto processo, sono entrati ed hanno invaso i locali della stazione radio Flash, situata nel sobborgo ateniese di Maroussi.
Immagini del presidio di capodanno, davanti al carcere di Korydallos (in un post precedente su questo blog potete trovare il video)
Una volta entrati in redazione, hanno interrotto le trasmissioni e dopo essersi impossessati dei microfoni hanno letto dei comunicati di solidarietà nei confronti dei detenuti reclusi nel maledetto carcere di Korydallos.
Un’azione breve, tanto che alle 11.30 le trasmissioni avevano già ripreso regolarmente;
nessuno dalla redazione della radio aveva richiesto l’intervento della polizia, sapendo che era un’azione che mirava alla lettura di alcuni fogli, ma malgrado ciò dopo pochissimi minuti sono arrivati plotoni su plotoni: dalla polizia antisommossa ai reparti speciali.
Più di due ore di stallo, poi alle 14.30 la polizia (con due avvocati) ha fatto irruzione nei locali arrestando tutti coloro che avevano partecipato all’azione di solidarietà,
mai denunciata dalla stessa radio.
Le accuse poi partono automaticamente ormai, con le leggi anti-terrorismo in vigore da poche settimane: tutto immediatamente diventa “azione terroristica, ed illegale uso della forza”.
In questo momento buona parte dei militanti sono stati trasferiti nel quartier generale della polizia sito in Alexandras Avenue, dove dalle 17.30 è stato convocato un presidio di solidarietà.
Seguiranno aggiornamenti …
leggete OccupiedLondon per rimanere informati sulle lotte greche
Normalizzare l’anormale: l’eccezionalità di Israele
Ringrazio le compagne del Freepalestine.noblogs.org per aver pubblicato e avermi segnalato questo articolo, estremamente interessante
Versione in inglese da sito web del PACBI [Palestinian Campaign for the Academic&Cultural Boycott of Israel]. Traduzione a cura di Renato Tretola.
Nella lotta palestinese ed araba contro la colonizzazione, l’occupazione e l’apartheid, la “normalizzazione” di Israele è un concetto che ha generato diverse controversie, poiché spesso viene frainteso, oppure perché ci sono disaccordi su quelli che sono i suoi criteri; e questo nonostante il quasi unanime consenso tra i Palestinesi e tra i popoli del mondo arabo sul rifiuto a trattare Israele come Stato “normale” con cui si possano intrattenere relazioni regolari. In questa sede tratteremo la definizione di normalizzazione che la grande maggioranza della società civile palestinese, quella rappresentata dal movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ha adottato a partire da novembre 2007, e analizzeremo le sfumature che tale definizione assume in diversi contesti.
Può essere utile pensare alla normalizzazione come ad una “colonizzazione della mente”, in base alla quale il soggetto oppresso finisce per credere che la realtà dell’oppressore sia la sola realtà “normale” alla quale si debba aderire e che l’oppressione sia un dato di vita con cui bisogna aver a che fare. Chi partecipa alla normalizzazione ignora questa oppressione oppure la accetta come lo status quo con cui bisogna convivere. In uno dei suoi tentativi di autoassolversi per le proprie violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, Israele prova a crearsi un nuovo marchio, o presentarsi come normale – anzi “illuminato” – attraverso una serie di relazioni e di attività che spaziano dal campo culturale e quello legale, dall’hi-tech alla cultura LGBT e ad altri.
Un principio-chiave che il termine “normalizzazione” sottende è che esso è interamente basato su considerazioni di carattere politico, più che razziale, ed è quindi in perfetta sintonia con il rifiuto da parte del movimento BDS di tutte le forme di razzismo e di discriminazione razziale. Opporsi alla normalizzazione è un mezzo per resistere all’oppressione, ai suoi meccanismi e alle sue strutture. In quanto tale, opporsi è dunque attività assolutamente slegata, o incondizionata, dall’identità dell’oppressore.
Dividiamo la normalizzazione in tre categorie che corrispondono alle differenze inerenti ai vari contesti dell’oppressione coloniale e all’apartheid di Israele. È importante considerare queste definizioni minime come base per azioni operative e di solidarietà.
1) La normalizzazione nel contesto dei Territori Occupati e del mondo arabo
La Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI) ha definito espressamente la normalizzazione in un contesto palestinese ed arabo “come la partecipazione ad un qualsiasi progetto, iniziativa o attività, in Palestina o a livello internazionale, che miri (implicitamente o esplicitamente) a riconciliare i Palestinesi (e/o gli Arabi) con gli Israeliani (tanto la popolazione che le istituzioni) senza porsi come meta la resistenza alla, e lo scontro con la, occupazione israeliana e con tutte le forme di discriminazione e di oppressione contro il popolo palestinese”. Questa è la definizione approvata dal comitato nazionale del BDS (BNC).
Per i Palestinesi della Cisgiordania occupata (compresa Gerusalemme Est) e di Gaza, qualunque progetto intrapreso con gli Israeliani che non sia posto all’interno di un contesto di resistenza, serve a normalizzare le relazioni. Definiamo questo “contesto di resistenza” come basato sul riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese e sull’impegno a resistere, in diversi modi, a tutte le forme di oppressione contro i Palestinesi, compresa la (ma non limitata alla) fine dell’occupazione, il riconoscimento di pieni ed eguali diritti per i cittadini palestinesi di Israele, il sostegno e la promozione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi; questa può in modo appropriato essere definita una posizione di “co-resistenza”. Fare altrimenti significa consentire che relazioni quotidiane e ordinarie esistano accanto ai continui crimini commessi da Israele contro il popolo palestinese, e indipendentemente da essi. Questo a sua volta alimenta la compiacenza e fornisce una falsa e deleteria impressione di normalità in una situazione palesemente anormale di oppressione coloniale.
I progetti, le iniziative e le attività che non abbiano inizio da una base di principi condivisi di resistenza all’oppressione israeliana, puntualmente consentono un approccio a Israele come se le sue violazioni possano essere messe da parte e rinviate e come se la coesistenza (opposta alla “co-resistenza”) possa precedere o condurre alla fine dell’oppressione. In questo processo i Palestinesi, a prescindere dalle intenzioni, finiscono col servire da foglia di fico per gli Israeliani, che possono trarre beneficio da un ambiente in cui tutto continui come se niente fosse, forse persino consentendo agli Israeliani in questo modo di sentirsi con la coscienza pulita per aver coinvolto i Palestinesi che di solito li si accusa di opprimere e discriminare.
I popoli del mondo arabo, con le loro diverse identità e i loro diversi background nazionali, religiosi e culturali, il cui futuro è più tangibilmente legato al futuro dei Palestinesi rispetto a quanto non lo sia generalmente il resto della comunità internazionale, non ultimo a causa delle continuate minacce politiche, economiche e militari da parte di Israele ai loro Paesi, nonché a causa della vicinanza ancora predominante e forte con i Palestinesi, si trovano di fronte a questioni simili in merito alla normalizzazione. Fintantoché l’oppressione israeliana continua, qualunque approccio con gli Israeliani (singoli o istituzioni che siano) che non avviene all’interno del contesto di resistenza sopra definito serve a ribadire la normalità dell’occupazione israeliana, del suo colonialismo e del suo apartheid nelle vite della gente nel mondo arabo. È quindi indispensabile per tutti nel mondo arabo evitare ogni relazione con gli Israeliani che non sia fondata sulla “co-resistenza”. Non si tratta di un appello ad evitare di comprendere gli Israeliani, la loro società e il loro sistema politico. È piuttosto un appello a condizionare qualsiasi conoscenza e qualsiasi contatto di questo tipo secondo i principi della resistenza, fino a quando arriverà il tempo in cui i diritti dei Palestinesi e degli Arabi saranno pienamente soddisfatti.
Gli attivisti BDS possono sempre andare oltre i nostri requisiti minimi se dovessero identificare delle sottocategorie all’interno di quelle che abbiamo identificato. In Libano o in Egitto, ad esempio, gli attivisti della campagna di boicottaggio possono andare oltre la definizione di normalizzazione data dal PACBI/BNC, considerata la loro posizione nel mondo arabo, mentre quelli che si trovano in Giordania, per dire, possono formulare riflessioni differenti.
2) La normalizzazione nel contesto dei cittadini palestinesi di Israele
I cittadini palestinesi di Israele – quei Palestinesi che sono rimasti tenacemente sulla propria terra dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 a dispetto dei ripetuti sforzi di espellerli e di sottoporli alla legge militare, alla discriminazione istituzionalizzata e all’apartheid – si misurano con tutt’altra serie di considerazioni. Essi si trovano ad affrontare due forme di normalizzazione. La prima, che possiamo chiamare relazione coercitiva quotidiana, è quella serie di relazioni che un popolo colonizzato, e coloro che vivono sotto apartheid, sono costretti a intrattenere per sopravvivere, condurre la vita quotidiana e guadagnarsi da vivere all’interno delle strutture oppressive costituite. Per i cittadini palestinesi in Israele, in quanto contribuenti, tali relazioni coercitive quotidiane vanno dall’impiego quotidiano in luoghi di lavoro israeliani all’uso dei servizi pubblici e delle istituzioni, come scuole, università ed ospedali. Tali relazioni coercitive non sono esclusive di Israele ed erano già presenti in altri contesti coloniali e di apartheid quali, rispettivamente, l’India e il Sudafrica. Ai cittadini palestinesi di Israele non si può ragionevolmente chiedere di recidere questi rapporti, o quanto meno non ancora.
La seconda forma di normalizzazione è quella nella quale i cittadini palestinesi di Israele non sono invece costretti a relazionarsi con Israele per necessità di sopravvivenza. Tale normalizzazione può comprendere la partecipazione a forum internazionali come rappresentanti di Israele (come nel concorso canoro Eurovision) o a eventi israeliani destinati a un pubblico internazionale. La chiave per comprendere tale forma di normalizzazione è considerare che quando i Palestinesi intraprendono tali attività senza inserirle all’interno dello stesso “contesto di resistenza” sopra descritto, contribuiscono, anche se involontariamente, a costruire un’ingannevole apparenza di tolleranza, democrazia e vita normale in Israele per un pubblico internazionale che potrebbe non conoscere meglio la questione. Gli Israeliani e le loro istituzioni possono a loro volta usare tutto ciò contro i promotori del BDS internazionale e contro coloro che lottano contro le ingiustizie israeliane, accusandoli di essere “più santi” dei Palestinesi. Negli esempi appena forniti, i Palestinesi promuovono relazioni con le istituzioni ufficiali israeliane al di là di ciò che costituisce il mero bisogno di sopravvivenza. L’assenza di vigilanza in questo campo ha l’effetto di trasmettere all’opinione pubblica palestinese l’idea che può convivere e accettare l’apartheid, che anzi dovrebbe relazionarsi con gli Israeliani sul loro stesso terreno e rinunciare a qualunque atto di resistenza. Quest’ultimo è un tipo di normalizzazione con la quale molti cittadini palestinesi di Israele, insieme alla PACBI, si trovano sempre più spesso ad identificare e combattere.
3) La normalizzazione nel contesto internazionale
In campo internazionale la normalizzazione non funziona poi troppo diversamente e segue la stessa logica. Mentre il movimento BDS prende di mira le istituzioni israeliane complici, nel caso della normalizzazione ci sono altre sfumature da tenere in considerazione.
Generalmente ai sostenitori internazionali del BDS si chiede di astenersi dal partecipare a eventi che a livello morale o a livello politico mettano sullo stesso piano l’oppressore e l’oppresso, e che presentino il rapporto tra Palestinesi e Israeliani come simmetrico. Una tale eventualità è da boicottare poiché normalizza la dominazione coloniale di Israele sui Palestinesi, ignorando le strutture di potere e le relazioni insite nell’oppressione.
Dialogo
In tutti questi contesti, “dialogo” e partecipazione sono spesso presentati come alternativi al boicottaggio. Il dialogo, se avviene al di fuori di quel “contesto di resistenza” che abbiamo delineato, diventa un dialogo fine a se stesso, vale a dire una forma di normalizzazione che intralcia la lotta per porre fine all’ingiustizia. I processi di dialogo, “risanamento”, “riconciliazione” che non siano finalizzati a mettere fine all’oppressione, a prescindere dalle intenzioni che ci sono dietro, servono solo a privilegiare la co-esistenza nell’oppressione ai danni della co-resistenza, in quanto presuppongono la possibilità di una coesistenza prima che si abbia giustizia. L’esempio del Sudafrica chiarisce alla perfezione questo punto; lì la riconciliazione, il dialogo ed anche l’indulgenza sono venuti dopo la fine dell’apartheid, non prima, nonostante i legittimi interrogativi sulle condizioni tuttora esistenti di ciò che qualcuno ha chiamato “apartheid economico”.
Due esempi di tentativi di normalizzazione: OneVoice e IPCRI
Mentre molti, se non proprio la maggioranza, dei progetti di normalizzazione sono sponsorizzati e finanziati da organizzazioni internazionali e da governi, molti di questi sono realizzati da partner palestinesi e israeliani, spesso con generosi finanziamenti internazionali. La cornice politica, spesso israelo-centrica, della “partnership”, è uno degli aspetti più problematici di questi progetti e istituzioni congiunti. L’analisi della PACBI su OneVoice, un’organizzazione congiunta israelo-palestinese rivolta ai giovani con sedi in Nord America e propaggini in Europa, ha rivelato che OneVoice è un altro di quei progetti che riuniscono Palestinesi ed Israeliani non per lottare insieme contro le politiche coloniali e di apartheid di Israele, ma per fornire piuttosto un limitato programma di azione sotto lo slogan della fine dell’occupazione e la fondazione di uno Stato palestinese, mentre contemporaneamente si rinsalda l’apartheid israeliano e si ignorano i diritti dei profughi palestinesi, che costituiscono la maggioranza del popolo palestinese. La PACBI ha concluso che, in sostanza, OneVoice e altri programmi simili servono solo a normalizzare l’oppressione e l’ingiustizia. Il fatto che OneVoice consideri i “nazionalismi” e i “patriottismi” delle due “parti” come se fossero alla pari ed ugualmente fondati ne è un indicatore significativo. Vale la pena far notare come praticamente l’intero spettro delle organizzazioni e associazioni giovanili e studentesche palestinesi all’interno dei Territori occupati abbia inequivocabilmente condannato i progetti di normalizzazione come OneVoice [in arabo].
Un’organizzazione simile, anche se con un diverso target di riferimento, è l’Israel/Palestine (IPCRI) (Centro di ricerca e informazione Israelo/Palestinese), che si definisce “l’unico gruppo israelo-palestinese al mondo di esperti di politiche pubbliche dedicato alla soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base del principio ‘due stati per due popoli’”. L’IPCRI “riconosce i diritti del popolo ebraico e del popolo palestinese a soddisfare i propri interessi nazionali in un contesto di soddisfacimento del diritto all’autodeterminazione nazionale all’interno dei rispettivi Stati ed instaurando relazioni pacifiche tra i due Stati democratici che vivranno fianco a fianco.” In questo modo si sostiene uno stato di apartheid in Israele che priva dei diritti civili i cittadini palestinesi e ignora il diritto al ritorno, sancito dall’Onu, dei profughi palestinesi.
Esattamente come OneVoice, l’IPCRI adotta l’onnipresente “paradigma del conflitto” mentre ignora la dominazione e l’oppressione che caratterizza le relazioni dello Stato di Israele con il popolo palestinese. L’IPCRI opportunisticamente non si interessa ad un’analisi delle radici di questo “conflitto”, su che cosa verte, e su quale “parte” ne stia pagando il prezzo. Proprio come OneVoice, l’IPCRI glissa sul dato storico e sulla instaurazione di un regime coloniale in Palestina seguito all’espulsione della maggioranza della popolazione indigena di quel territorio. Il momento maggiormente significativo della storia del “conflitto” non viene dunque riconosciuto. La storia della costante espansione coloniale, dello spossessamento e del trasferimento forzato dei Palestinesi viene anch’essa opportunamente ignorata. Con le proprie omissioni, l’IPCRI nega il contesto di resistenza che abbiamo precedentemente delineato e conduce Palestinesi e Israeliani in un tipo di relazione che privilegia la co-esistenza sulla co-resistenza. Ai Palestinesi si chiede di adottare il punto di vista israeliano su di una soluzione pacifica e non un punto di vista che riconosca i loro pieni diritti, come definiti dall’Onu.
Un ulteriore aspetto preoccupante, ma anch’esso totalmente prevedibile, del lavoro dell’IPCRI è il coinvolgimento attivo nei suoi progetti di personale e personaggi israeliani implicati nelle violazioni dei diritti del popolo palestinese e in gravi infrazioni del diritto internazionale. Lo Strategic Thinking and Analysis Team (STAT – Team di pensiero e analisi strategiche) dell’IPCRI comprende, oltre a funzionari palestinesi, ex diplomatici israeliani, ex generali di brigata dell’esercito israeliano, personale del Mossad e quadri del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano, molti dei quali legittimamente sospettati di aver commesso crimini di guerra.[link]
Non sorprende dunque che il desiderio di porre fine al “conflitto” e realizzare “una pace duratura”, entrambi slogan di questi ed altri sforzi simili di normalizzazione, non hanno nulla a che fare con la giustizia per i Palestinesi. Infatti il termine “giustizia” non trova posto nell’agenda della maggior parte di queste organizzazioni, né si trova alcun chiaro riferimento al diritto internazionale come arbitro ultimo, lasciando i Palestinesi alla mercé del ben più potente Stato di Israele.
La descrizione, da parte di uno scrittore israeliano, del cosiddetto Centro per la pace “Peres”, una delle maggiori organizzazioni coloniali e di normalizzazione, può anch’essa ben rappresentare il programma di fondo dell’IPCRI e di quasi tutte le organizzazioni che lavorano per la normalizzazione:
«Nell’attività del Centro per la pace “Peres” non si vede alcuno sforzo evidente di cambiare lo status quo politico e socio-economico nei territori occupati, ma anzi l’esatto contrario: sforzi vengono compiuti per allenare la popolazione palestinese ad accettare la propria inferiorità e prepararsi a sopravvivere sotto le limitazioni arbitrarie imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli Ebrei. Sostenendo il colonialismo, il centro presenta un olivicoltore che scopre i vantaggi del marketing cooperativo, un pediatra che riceve formazione professionale negli ospedali israeliani e un importatore palestinese che apprende i segreti del trasporto delle merci attraverso i porti israeliani, famosi per la loro efficienza e, naturalmente, partite di calcio e orchestre composte di Israeliani e Palestinesi, con una falsa immagine di coesistenza.»
La normalizzazione di Israele – normalizzare l’anormale – è un processo perfido e sovversivo che lavora per occultare le ingiustizie e colonizzare le parti più intime degli oppressi: le loro menti. La collaborazione con queste organizzazioni che servono esattamente a questo scopo è, quindi, uno dei primi bersagli del boicottaggio, nonché un espediente che i sostenitori del BDS devono affrontare insieme.
PACBI
“I ricchi hanno Dio e la Polizia, i poveri stelle e poeti” …da una cella di Palestina
La cella m’ha insegnato a viaggiare verso spazi lontani, e a scrivere anche verso spazi lontani.
Il carcerato, sempre, viaggia con la mano nell’acqua e tenta di scrivere con la voce. Tre mesi, durante i quali non leggemmo nè un giornale, nè un libro.
Uno dei carcerati per alleviare la paura della tortura chiese un Corano: gli portarono una Bibbia!
– La cella è impura – dissero – il Corano non entra nella cella.
Così ci imposero, a noi reclusi palestinesi nella prigione militare, le divinità d’Israele. Così, di nuovo, tornò Sansone l’Israeliano: l’avevamo lasciato a Gaza, un mucchio di pietre sopra il quale c’è una cupoletta, tuttora esistente nei pressi della scuola statale.
Adesso ce lo riportavano come carceriere nella prigione militare
* * * * * *
In cella non vuoi un gallo che canti, ma una nave che viaggi.
Jawhari voleva viaggiare di notte; di giorno doveva menarci per cento terzi, di notte cantava per contro suo. Il secondino era innamorato.
– Dicono che scrivi canti.
Ti prende la gioia perchè quando il tuo carceriere si ricorda ch’un giorno avevi una penna in mano, c’è caso che per qualche minuto si dimentichi della frusta che è nella sua.
– Scrivi!
– Scrivo che?
– Scrivi un canto per me.
E scrissi il mio primo canto in cambio d’una sigaretta.
La seconda settimana il secondino recapitò la mia prima lettera; mi aveva dato penna e carta e io scrissi la mia prima lettera che spedii per suo tramite.
Era per la mia fidanzata Vittoria, e fu il primo progetto di nozze palestino-egiziane ad entrare nel carcere militare.
Così il carceriere diventò un solerte postino nel carcere militare
* * * * * *
La pioggia è la mia migliore amica. Quando la pioggia cade, s’infila nella serratura della cella, la apre e tu esci. La nave è sempre lì, davanti alla porta della cella, ad aspettarmi. Ora viaggi nel grano.
Quando si mescolano due colori ne esce fuori un terzo, ma cosa succede al recluso quando il carceriere mischia la sua frusta con centinaia di grida?
La tortura arriva sempre dall’esterno della cella. Quando cominciano a torturare quello della cella accanto, cominciano a torturare anche te, te che aspetti il tuo turno: sanno d’allungarti la tortura con l’attesa. Forse il tuo turno non è questa notte eppure lingue di fuoco hanno già preso a bruciarti le ossa. Ogni urlo che t’arriva dall’esterno della cella è una lingua di fuoco. Il fumo del fuoco filtra dal corpo del tuo vicino: lo sgozzano col fuoco e ti soffocano col fumo. Il fumo filtra nella cella, aghi, chiodi: ti conficcano il fumo nelle ossa come fossero aghi, chiodi. E’ un’esperienza alla quale t’hanno già abituato e sta a te ricordarti di qualche cosa che ti faccia resistere.
Le voci entrano nella tua cella tutte mescolate come urla d’un’anatra selvatica caduta in trappola.
Il carceriere strofina la sua mano sul muro della mia cella: sulle sue dita c’è il sangue di Farid.
Hamza Basyuni, direttore del carcere, giunge adesso, giunge al momento opportuno. Dall’esterno arrivano urla mentre lui all’interno grida:
– Scrivi soltanto che non sei comunista!
Adesso ti danno la penna, quelli che t’hanno spezzato le dita. Adesso ti danno la carta, quelli che t’hanno spogliato dei tuoi vestiti; quelli che non conoscono altre penne che le zanne dei cani poliziotto. Volevano che tu scrivessi. E allora ti ricordi degli occhi di tua madre, del mare di Gaza nel quale hai imparato a nuotare a sette anni. E tu allora vedi con chiarezza il viso di Fakhri Murqa, il sergente della centrale di polizia che mise tutti i fucili della centrale nel bagagliaio della sua auto e scappò per raggiungere la brigata dello shaykh Hasan Salama.
Da bambino andai a trovare Fakhri Murqa nella prigione di Acca: era stato condannato alla pena di morte, poi tramutata in ergastolo. Fuggì dalla prigione e arrivò a Gaza nel 1957.
Lo amai molto, soleva ripetermi:
“I RICCHI HANNO DIO E LA POLIZIA. I POVERI HANNO LE STELLE E I POETI”
tratto da “Dafatir filastiniyya” _Quaderni Palestinesi_ di Mu’in Bsisu
Traduzione di Angelo Arioli
E dopo il Volturno, ci provano con via dei Volsci. Ma s’attaccano!
DA VIA DEI VOLSCI NON CE NE ANDIAMO
L’estate è calda, e con il caldo i rettili provano ad attaccare dall’ombra, sperando di non essere visti.
Venerdì 29 luglio, senza alcun avviso, un ufficiale giudiziario accompagnato degnamente ha tentato di interrompere i 40 di lotta della
sede occupata di via dei volsci 30 con un semplice cambio di lucchetto.
L’abbiamo scoperto solo questa settimana, all’arrivo in sede.
Questa sede è uno dei luoghi naturali di riunione del movimento, utilizzata con regolarità dal Comitato “Carlos Fonseca” presente fin dalla sua nascita nelle sedi di via dei Volsci, e sede dell’archivio storico del movimento romano. Archivio che assieme ai documenti e al materiale del Comitato è stato sequestrato per una settimana impedendo l’accesso ai compagni.
Strisciando nell’ombra sperando di non essere visti proprietà e tribunali ci hanno nascosto l’avvio del procedimento di sfratto arrivato fino alla Corte d’appello e alla sua esecuzione senza che noi ne avessimo alcuna notizia. Sono i soliti affari nell’ombra dei potenti che sperano di non essere scoperti, in una città dove l’intreccio tra la speculazione immobiliare e commerciale e la politica esplode nella sua esagerazione, in un quartiere che si è trasformato tanto negli ultimi anni da rendere appetibili pochi metri quadri per utilizzarli a fini commerciali.
Il tentativo di sgombero fallito ieri al Volturno è la dimostrazione che questi animali a sangue freddo, bisce o lucertole che siano, con l’estate azzardano tentativi di far arretrare le barriere alla speculazione che abbiamo posto. A questi rettili rispondiamo che in via dei volsci continueremo a starci per altri 40 anni. Oggi le compagne e i compagni del Comitato e del movimento hanno recuperato alla libertà la sede di via dei Volsci 30. Uno spazio aperto al movimento che non abbandoneremo mai.
CONTRO LA SPECULAZIONE E IL PROFITTO
PER UNA SEDE APERTA AL MOVIMENTO
Comitato di solidarietà con i popoli dell’America Latina “Carlos Fonseca”
Magazzino “Rosa Luxemburg”
Associazione culturale Prometeo
Volturno occupato: tentativo di sgombero
In questi anni il Volturno ha ospitato e continua ad ospitare assemblee, sportelli di consulenza e di lotta sulla casa, sull’immigrazione e sui problemi delle donne, spettacoli teatrali ed altre iniziative della cultura libera.
Stamattina abbiamo assistito ad un tentativo, vile e maldestro, di spazzare via tutto questo in nome del profitto privato, addirittura scavalcando ogni procedura legale, visto che persino la polizia di stato, sopraggiunta, ha dichiarato di non essere a conoscenza dello sgombero “privato”, che ci ricorda quello della sede dell’Eutelia occupata da lavoratori e lavoratrici, avvenuta qualche anno fa.
Per fortuna la prontissima mobilitazione degli occupanti del volturno, coadiuvati da occupanti dei movimenti per il diritto all’abitare, compagni e compagne da tutta la città, ha di fatto sgomberato gli sgomberatori, costringendoli a fuggire rompendo le grate che loro stessi avevano montato sulle uscite di sicurezza.
Poco dopo il Volturno è rientrato nel possesso della ROMA BENE COMUNE, continuando ad essere a disposizione della città e di chi vuole organizzarsi e lottare perché il diritto all’abitare sia una realtà per tutti e tutte, per costruire iniziative culturali libere dal mercato, e perché la qualità della nostra vita conti di più del profitto di pochi.
Israele e le maschere grossolane
Nuove divise della polizia militare israeliana? Questo è il campo profughi di Shuafat, nei Territori Occupati
Ispezioni in carcere, chiunque può accompagnare i parlamentari
Non siamo abituat@ alle buone notizie ma questa volta è innegabile.
Avevamo parlato proprio pochi giorni fa del processo che si sarebbe svolto contro le mamme di una compagna e un compagno e la consigliera regionale Anna Pizzo, per un ingresso in carcere che secondo la magistratura era illegale. Quando di legale quegli arresti avevano veramente poco, visto l’impianto accusatorio, poi caduto.
Delle mamme che riescono a vedere i loro figli, privati della possibilità di aver colloqui, attraverso l’accompagnamento di un parlamentare (o consigliere regionale) in visita in carcere.
C’è stata la piena assoluzione, e ne sono entusiasta
Assolta la consigliere regionale Anna Pizzo
Ispezioni in carcere, chiunque può accompagnare i parlamentari
di Paolo Persichetti, Liberazione 6 maggio 2011
I parlamentari o i consiglieri regionali che conducono visite ispettive nelle carceri possono avvalersi dell’ausilio di accompagnatori di loro scelta. Membri del governo, parlamentari europei, sindaci e presidenti della provincia, magistrati a capo dei tribunali e delle procure dove hanno sede le carceri, presidenti delle Asl competenti per territorio, garanti dei detenuti ed altri ancora. E’ piuttosto ampia, anche se ancora del tutto insufficiente per rendere le mura delle prigioni trasparenti, la schiera di figure istituzionali che possono entrare nelle carceri per condurre visite ispettive senza previa autorizzazione. Nel corso delle visite queste autorità possono avvalersi delle presenza di accompagnatori, anche questi autorizzati a varcare la soglia degli istituti di pena senza necessità di nessuna autorizzazione. Lo prevede l’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario.
Una prassi consolidata, che tuttavia non è indicata nella norma, contiene il numero degli accompagnatori ad un massimo di due a testa. L’amministrazione penitenziaria non ha alcuna autorità per introdurre limitazioni ad una norma di legge. Lo ha ribadito ieri con una decisione lampo il gip del Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi su una denuncia depositata nel dicembre 2009 dalle direzioni del carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile contro l’allora consigliera presso la regione Lazio, Anna Pizzo, insieme alle due persone che l’avevano accompagnata durante le visite nei due istituti di pena. Si trattava delle madri di due giovani di un centro sociale della Capitale, il Macchia rossa, situato nel popolare quartiere della Magliana e finito al centro di un teorema accusatorio ispirato da alcuni esponenti locali del Pdl, ex An, che avevano come unico scopo quello di sloggiare l’occupazione, da parte di una decina di famiglie senza casa, di una scuola abbandonata da anni. Occupazione che ostacola la realizzazione di alcuni lucrosi progetti speculativi (cf. Liberazione del 10 dicembre 2009).
I due, Gabriele e Francesca, erano finiti in carcere e si trovavano in isolamento. Poche settimane prima, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, Stefano Cucchi era morto nel reparto carcerario dell’ospedale Pertini dove era finito dopo le percosse subite prima di passare davanti all’udienza di convalida dell’arresto in tribunale. Sui media campeggiavano da giorni polemiche e denunce sulle condizioni in cui si svolgevano i fermi nelle stazioni dei carabinieri e nei sotterranei del tribunale di piazzale Clodio. La visita in carcere venne realizzata per verificare le condizioni di salute e di detenzione dei due giovani e nel rispetto delle procedure previste. All’ingresso dei due istituti la consigliera regionale e le due donne che l’accompagnavano si videro obbligate a compilare un prestampato dell’amministrazione penitenziaria nel quale era indicata, senza altra possibilità di scelta, la funzione di “collaboratore” (da intendersi come figura stabile e continuativa) per qualificare il ruolo di accompagnatrici. Nel declinare le loro generalità le due donne fecero presente di non rientrare in quella fattispecie, ma poiché la burocrazia penitenziaria non prevedeva altre possibilità furono costrette a riempire l’unica casella esistente. Sulla base di queste dichiarazioni, in qualche modo “imposte” per un’imperizia burocratica dovuta ad una forzata interpretazione restrittiva della legge, le direzioni dei due istituti hanno successivamente inviato una segnalazione in procura provocando l’apertura d’ufficio di un procedimento penale per false dichiarazioni. «Il fatto non sussiste», ha stabilito il Gup.
Sotto processo le mamme di compagni e compagne: vergogna!
Il 5 maggio p.v.si avvierà l’udienza che vede come imputate le mamme di Francesca e Gabriele e l’ex consigliera regionale di SEL Anna Pizzo.
Il 14 settembre 2009 viene messo in atto un assurdo e scenografico arresto dei compagni, della compagna e di alcuni occupanti della ex scuola 8 marzo. Tali arresti, voluti dal PDL romano, si basavano su accuse false ed infamanti con l’unico scopo di bloccare una piccola lotta sociale in corso che vedeva protagoniste alcune decine di famiglie che, con i compagni del C.S.O.A. Macchia Rossa, avevano occupato l’ex scuola 8 Marzo abbandonata da anni.
Il giorno dopo gli arresti, le mamme di Francesca e Gabriele, accompagnate da alcuni consiglieri regionali, si recano in visita presso il carcere di Regina Coeli e Rebibbia. Il direttore di Regina Coeli Mauro Mariani denuncia la presenza della madre di Gabriele che in quanto familiare diretto non poteva vedere il proprio figlio prima dell’interrogatorio di garanzia. Il suo zelo contagia anche a direttrice di Rebibbia Femminile dr.ssa Zainahi, che a posteriori denuncia la madre di Francesca. La comunicazione della chiusura delle indagini ed il provvedimento di rinvio a giudizio per le mamme e per la consigliera Anna Pizzo seguono di lì a poco con sospetta tempestività, quando i compagni e la compagna erano ancora agli arresti domiciliari.
Le mamme e la consigliera Anna Pizzo sono entrate in carcere perché conoscono la violenza che regna all’interno delle caserme, dei commissariati e degli istituti penitenziari. E’ di soli pochi giorni più tardi l’agghiacciante notizia della morte di Stefano Cucchi: ragazzo assassinato per mano di carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e medici dell’Ospedale Pertini, quelli cioè che dovrebbero essere i tutori della legge, delle buone condizioni di vita all’interno delle carceri e assicurare l’assurdo concetto di “rieducazione” e di quelli che dovrebbero garantire il diritto alla salute ed alla vita. Ma le nostre madri non vengono dalla montagna del sapone, Sconvolte politicamente e ed ancor più emotivamente dall’arresto e da una campagna stampa che ci dipingeva come dei mostri, degli aguzzini, dei razzisti, guerrafondai , dei ladri e come cioè persone prive di qualunque scrupolo, hanno voluto costatare con i loro occhi, che ai loro figli non fosse stato torto un capello. Hanno voluto con la loro presenza dimostrarci la loro vicinanza e solidarietà, per un arresto ingiusto che si era abbattuto su di noi e che stava infamando un intero movimento.
L’aver rinviato a giudizio le mamme e la consigliera Anna Pizzo, è soltanto l’ennesimo tassello di un accanimento giudiziario ed una campagna diffamatoria, come non se ne vedevano da molti anni e che da aprile 2009 ha intessuto la cronaca della ex scuola 8 marzo. Crediamo che questa udienza sia l’antipasto di un boccone ben più ghiotto che vuole mettere a processo non solo i compagni e la compagna ma attraverso loro anche un intero movimento come quello per il diritto all’abitare , che si organizza e lotta. Questo processo vuole mettere alla sbarra la capacità di tanti/e di autodeterminarsi e sottrarsi al ricatto del affitti a nero e dello sfruttamento e riconosce nella lotta e nello strumento della autorganizzazione l’unica possibilità di riscatto politico e sociale.
CSOA Macchia Rossa
Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa
Dibattito pubblico: Libertà per tutti e tutte, con o senza documenti
R.A.P. gruppo inchiesta, Radio OndaRossa, Rete no-Cie e occupanti di Casale de Merode
invitano tutte e tutti coloro che vogliono un mondo senza gabbie né frontiere
a partecipare a un dibattito pubblico sui Cie
DOMENICA 6 MARZO 2011
all’occupazione abitativa di via del Casale de Merode, 8 (Tormarancia)
– dalle ore 17.00:
dibattito pubblico: libertà per tutte e tutti! con o senza documenti!
per scambiarci informazioni ed esperienze sulle lotte contro i Cie e le deportazioni forzate,
sulle strategie di resistenza e sulle forme di autorganizzazione
mostre fotografiche sui Cie e sulle insurrezioni in corso nel Maghreb, materiali informativi, Nella tua città c’è un lager (bollettino bisettimanale sulle vicende che si susseguono nei cie), Scarceranda (l’agenda di Radio OndaRossa contro ogni carcere, giorno dopo giorno)
– a seguire:
cena con tutti i sapori del mondo
il ricavato della cena servirà ad acquistare delle radioline portatili da consegnare alle recluse e ai reclusi durante il prossimo presidio solidale del 12 marzo davanti al Cie di Ponte Galeria perchè ascoltare una radio è un modo per mantenere un contatto con l’esterno
PORTA UNA RADIOLINA A PONTE GALERIA!
contribuisci anche tu a rompere il muro del silenzio e dell’isolamento!
>> VERSO IL 12 MARZO <<
per un mondo senza gabbie né frontiere! chiudere tutti i Cie!
>> ASCOLTA LO SPOT DELLE DUE INIZIATIVE <<
>> ascolta/scarica/diffondi lo spot contro i Cie<<
“Fino a quando avrò un ulivo…”
Fino a quando avrò pochi palmi della mia terra!
Fino a quando avrò un ulivo…
un limone…
un pozzo…un alberello di cactus!..
Fino a quando avrò un ricordo,
una piccola biblioteca,
la foto di un nonno defunto.. un muro!
Fino a quando nel mio paese ci saranno parole arabe…
e canti popolari!
Fino a quando ci saranno un manoscritto di poesie,
racconti di ‘Antara al-‘Absi
e di guerre in terra romana e persiana!
Fino a quando avrò i miei occhi,
le mie labbra,
le mie mani!
Fino a quando avrò… la mia anima!
La dichiarerò in faccia ai nemici!..
La dichiarerò… una guerra terribile
in nome degli spiriti liberi
operai.. studenti.. poeti..
la dichiarerò.. e che si sazino del pane della vergogna
i vili… e i nemici del sole.
Ho ancora la mia anima..
mi rimarrà… la mia anima!
Rimarranno le mie parole.. pane e arma.. nelle mani dei ribelli!
SAMIH AL-QASIM
PALESTINA
[Trad. di Antonietta Giampaglia]
Quando Davide Diventa Golia
GERUSALEMME: QUANDO DAVIDE DIVENTA GOLIA
I residenti di Silwan, quartiere di Gerusalemme Est, affrontano il gigante israeliano, ma per quanto potranno resistere ancora?
SERVIZIO SPECIALE DI ELENA HOGAN da Gerusalemme, 29 luglio 2010, Nena News (foto di Rebecca Fudala) –
Fakhri Abu Diab interrompe l’intervista improvvisamente, quando il suono allarmante di fischi lo raggiunge dalla strada. Si alza e si precipita fuori dalla tenda del “Centro Al Bustan”, una struttura di legno fatta alla buona e ricoperta da un telo nero, sul quale sono affisse foto ingrandite che ritraggono alcune scene della lotta popolare di questa area di Silwan, quartiere di Gerusalemme Est occupata e presunto sito della Città del Re Davide. Lo stesso Davide che sfidò Golia. Giovani ragazzi urlano e i fischi si moltiplicano mentre tre, poi quattro, jeep militari israeliane sgommano per poi fermarsi davanti alla tenda. Un gruppo di sei o sette soldati che indossano passamontagna neri e caschi, in tenuta antisommossa, salta giù, gridando e puntando gli M-16, in assetto da combattimento.
“Vedi cosa accade?” chiede retoricamente Abu Diab, “Questa è la nostra vita. Questo è il problema. E’ così qui ogni giorno ormai.” Il suo sguardo passa dai soldati ai tre ragazzi piccoli, ad un metro di distanza che aspettano l’autobus. “E vedi quei bambini? Non hanno paura, non si spostano, restano lì…non vogliono dare ai soldati l’opportunità di sparare…vedi? Noi glielo insegniamo. Adesso le jeep se ne vanno.”
Abu Diab, presidente del Comitato popolare dell’area di Al Bustan a Silwan e membro del comitato popolare generale di Silwan (che unisce tutte e 12 le zone di Silwan), si volta e torna sotto la tenda.
Costruita nel febbraio del 2009 dagli abitanti della zona, la tenda è il luogo d’incontro per la lotta popolare collettiva di Al Bustan, che tenta di proteggere 88 abitazioni, le case di più di 1.500 persone. 88 abitazioni i cui residenti hanno ricevuto multipli ordini di demolizione, perche’ al loro posto verra’ attuato l’ampliamento del sito archeologico israeliano della “Città di Davide”, un progetto di recupero di un patrimonio culturale che le autorità israeliane vorrebbero fosse esclusivamente ebraico; un progetto che però comporta l’espulsione di decine di famiglie palestinesi, che ad Al Bustan vivono da secoli. Alcune delle case di Al Bustan già segnalate per la demolizione, risalgono a prima della creazione dello Stato d’Israele nel 1948, mentre la maggior parte sono state costruite prima dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est nel 1967. Tutti pagano l’Arnona, la tassa municipale israeliana sui beni immobiliari, versata al municipio da quando Israele ha “annesso”, nel 1980, la parte est della città. Anche se dichiarata “nulla” dalla risoluzione ONU 478, in quanto atto che viola il diritto internazionale, quest’annessione continua a rappresentare una realtà di fatto che comporta conseguenze concrete per i palestinesi di Gerusalemme.
Abu Diab, come uno dei nove volontari eletti che formano il comitato popolare di Al Bustan, passa la maggior parte del suo tempo libero in contatto con gli avvocati che seguono gli 88 processi legali in corso nelle corti israeliane. E’ il portavoce di Al Bustan nelle riunioni con il municipio e tiene aggiornati i media, i suoi vicini di casa e i gruppi di attivisti israeliani sulle azioni militari e le demolizioni previste, attraverso il sito web del comitato e tramite contatti diretti.
Il centro Al Bustan dà luogo alla preghiera collettiva del venerdì, una protesta spirituale settimanale. In più, ospita campi estivi e corsi per il primo soccorso, la gestione della paura, il trauma infantile, e lezioni in lingua inglese ed ebraica. Ma nonostante gli sforzi interminabili, dieci degli 88 edifici di Al Bustan sono già stati abbattuti. In più, tutti i suoi abitanti stanno pagando delle multe salate in quanto considerati occupanti abusivi, multe che ammontano a cifre pari ai 65.000 NIS (circa 13.000 euro), dal momento che i residenti rifiutano di andarsene.
“Non abbiamo nessun potere e Israele è al di sopra della legge internazionale, quindi cosa dobbiamo fare?” chiede Abu Diab, “Possiamo aiutare la gente a contattare gli avvocati, ad organizzare le manifestazioni…ma quando vedo i miei figli o mia moglie, loro non sono felici…Quando torno a casa, vedo la cucina, le camere da letto, la sala, e dico ‘forse questa è l’ultima cena, l’ultimo caffè, l’ultima volta che mi siedo con i miei figli in casa mia’…molte famiglie soffrono di problemi psicologici, e per affrontare questi problemi, noi, la comunità, non riusciamo ad aiutarli”.
Abu Diab cita come esempio un ragazzo di Al Bustan di sette anni molto studioso. Il suo maestro ha cominciato a preoccuparsi quando il bambino ha smesso di prendere dei buoni voti. Un giorno il maestro ha fermato il ragazzo e gli ha chiesto se aveva bisogno di aiuto per i suoi compiti. Gli ha detto di aprire lo zaino, e quando il ragazzo l’ha fatto, il maestro ha scoperto che dentro era pieno di giocatoli anziché libri di scuola. L’insegnante si è recato dai genitori del ragazzo per discuterne con loro. Quando la madre gli ha chiesto perché aveva lo zaino pieno di giocatoli, il bimbo ha risposto che aveva sentito i genitori discutere di come la loro casa sarebbe stata distrutta, ma che nessuno sapeva esattamente quando. Ha spiegato, che stava portando con sé a scuola i suoi giocattoli preferiti, per proteggerli dai bulldozer.
Ma la grave situazione di Silwan non è limitata ad Al Bustan. Sul pendio adiacente, nella zona chiamata Baten el-Hawa, sette famiglie palestinesi, dell’edificio Abu Nab, sono sotto minaccia costante di “sfratto” da parte delle famiglie di coloni israeliani che occupano l’edificio Beit Yonatan, li’ accanto. Abu Nab è costruito sul sito dove nel XIX secolo sorgeva una sinagoga yemenita, motivo più che idoneo per le autorità israeliane per sfidare il diritto di proprietà di qualsiasi palestinese. Appena più avanti sulla stessa strada, Zuhair Rajabi, padre di quattro bambini piccoli, passa buona parte del suo tempo a documentare sistematicamente la violenza che circonda casa sua, tramite sei videocamere che ha montato in tutti gli angoli del suo palazzo.
Vive accanto ad un’altra casa occupata di Silwan, il Beit al-’Asl (conosciuta come Beit Haduash dai suoi occupanti). Il fatto che Zuhair possieda i documenti che attestano l’acquisto di Beit al-’Asl da parte di suo zio dalle mani di un’altra famiglia palestinese, prima che anche questa casa venisse dichiarata di proprietà di coloni israeliani, finora non lo ha aiutato. “Così stiamo lottando contro [i coloni] nel tribunale israeliano. Che cosa altro possiamo fare? Israele è forte e noi siamo deboli. Ogni settimana, due o trecento persone vengono alle riunioni del comitato popolare, ci stiamo chiedendo cosa possiamo fare, come possiamo resistere. L’ironia è che noi siamo residenti di Gerusalemme, quindi paghiamo le bollette dell’acqua, dell’elettricità, le tasse allo Stato d’Israele. E con questi soldi Israele finanzia il suo esercito e paga le sue forze di sicurezza per opprimerci”.
Zuhair mantiene contatti costanti con gruppi di attivisti israeliani come Tayoush, ICAHD, e Breaking the Silence, e fino a 20 attivisti alla volta passano la notte nel palazzo di Abu Nab per tentare di proteggere i suoi residenti palestinesi dai coloni israeliani. Insieme ai suoi video, Zuhair ha preservato tutti i bossoli degli M-16 che hanno colpito la sua casa e la sua macchina, e il fumogeno lanciato dentro la sua sala durante la notte del 26 giugno—l’ultima volta i coloni hanno deciso di mettere in scena un tentato esproprio ‘autogestito’ di Abu Nab—casomai dovessero servire un domani come prove legali.
Nella vallata di Wadi Hilwe all’entrata di Silwan, una bambina minuta, di circa otto anni, figlia di coloni, cammina per la strada. E’ seguita da una scorta armata privata, a sua volta seguita da un jeep militare israeliana. Una fila di case occupate spuntano su tutta la strada, facilmente identificabili dalle grandi bandiere israeliane che sventolano dai balconi: case da cui le famiglie palestinesi sono state cacciate per fare spazio alle ragioni dei coloni israeliani. La bambina e la parata armata che la scorta, sfilano di fronte al Centro di informazioni di Wadi Hilwe di Silwan, un’altra tenda fatta alla buona, eretta come risposta palestinese al Punto d’informazione turistico israeliano della Città di Davide, ubicato a pochi metri di distanza sulla stessa strada e circondato da soldati. “Abbiamo il diritto di raccontare la nostra storia qui e non soltanto di sentire gli altri che raccontano la storia di questo quartiere come se non fossimo mai esistiti qui”, spiega Nihad Siyam, uno dei membri fondatori del centro, “Siamo qui da migliaia di anni, anche se questo è un fatto che vorrebbero cancellare”. Il centro funziona come base per i tour archeologici alternativi di Silwan condotti in collaborazione con gli archeologi israeliani di Emek Shaveh, che sottolineano il ruolo politico dell’archeologia all’interno del conflitto israelo-palestinese e promuovono una visione di proprietà collettiva del passato archeologico della zona piuttosto che la sua appartenenza esclusiva ad un solo gruppo etno-religioso.
Così Davide è diventato Golia: un campione dell’impunità internazionale, ingabbiato da Israele nel retaggio storico di una narrazione esclusivamente ebraica. E gli abitanti palestinesi di Silwan continuano le loro battaglie legali apparentemente senza speranza, dove la giustizia viene decisa dall’oppressore. Continuano con creatività ad ideare e ad organizzare iniziative dal basso, tecniche di resistenza e attività mirate a rafforzare la loro comunità. Ma per quanto tempo ancora Silwan potrà continuare a resistere di fronte a questa massiccia aggressione israeliana prima di esplodere affidandosi all’uso disperato di molto più che solo pietre e fionda? (Nena News)
Nakba e sangue: 15enne ucciso da un colono vicino Ramallah
Il “bollettino di guerra” più costante della storia dell’uomo è ormai quello proveniente dalla terra di Palestina, terra stuprata da un’occupazione militare di cui domani si “festeggia” l’anniversario.
La NAKBA, catastrofe del popolo arabo di palestina, catastrofe mai terminata dal 1948.
Quella di oggi è stata l’ennesima giornata insostenibile per quel popolo e quella terra: sono 60 anni di nomi di morti, di martiri bambini, di fanciulli falciati su una strada assolata.
Nemmeno 15 anni aveva Ayssar Yasser al-Zaben, residente nel villaggio di Mazra Ash-Sharquieh, a pochi kilometri da Ramallah, sulla maledetta statale numero 60.
Ucciso non dall’esercito e nemmeno dalla polizia israeliana: ucciso da un solo colpo che l’ha centrato al cuore, colpo partito dall’arma di un colono israeiano.
La sparatoria (se così si può chiamare l’uccisione con un colpo al cuore di un fanciullo di 15 anni, classe 1994) sembrerebbe partita dopo un lancio di sassi in direzione di una macchina con dentro due coloni israeliani. L’assassino, occupante integralista di quella porzione martoriata e ridicola che ormai è la West Bank, si è fermato sul ciglio della strada ed ha aperto il fuoco con la sua arma personale.
Normale amministrazione.
Normale amministrazione soprattutto da quando il governo israeliano è guidato da Bibi Netanyahu e dal ministro Avigdor Liebermann: la loro politica sugli insediamenti israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania è palese ed ha legittimato una pericolosa escalation di attentati contro proprietà arabe, moschee e campi coltivati.
Contro ogni forma di segregazione e gerarchia
L’assemblea dei rivoltosi dell’isola di Salamina e dei quartieri di Perama, Keratsini, Nikaia, Koridallos e Pireo ha fatto un volantino/manifesto veramente interessante sulla crisi. Poche parole, che fanno però capire molto bene il livello di conflitto che si aggira per le strade della Grecia: si parla di crisi e dei suoi responsabili, si parla di crisi inevitabile se si continua con il mantenimento di questo tipo di sistema.
Le loro proposte? Scioperi, solidarietà, occupazioni, sabotaggio, espropri e mutuo soccorso.
Chiari e tondi! 😉
The (financial) crisis shall become their crisis once we play with a full deck of playing cards
The crisis is not a natural disaster that simply happens; the crisis is the outcome of the choices of all those who want to maintain this system, in which we are exploited, repressed and governed. Their proposals on how to come out of the crisis do not differ from suggestions on how the existing situation could be reinforced and take root. Our propositions can be nothing less than strikes and solidarity, occupations and sabotage, expropriations and mutual help… in order to create the world that we choose for ourselves, against all kinds of segregations and hierarchy.
Assembly of the revolted in (the island of ) Salamina, (and the neighborhoods of) Perama, Keratsini, Nikaia, Koridallos, Piraeus
Ancora sgomberi a Roma
Ieri all’idroscalo di Ostia oggi a Centocelle. Le politiche abitative diventano ordine pubblico.
Questa mattina intorno alle 10.30 ingenti forze di polizia, carabinieri, finanza e vigili urbani, hanno sgomberato i nuclei familiari che presidiavano da venerdì scorso l’ex scuola Tommaso Grossi in via degli Eucalipti nel VII municipio.
Il primo gruppo di carabinieri ha fatto irruzione sfondando il cancello di entrata, per poi spintonare le persone che hanno provato a resistere pacificamente allo sgombero. Una delle donne che presidiano da venerdì la struttura è stata immobilizzata e minacciata di arresto e solo l’intervento degli altri occupanti ha impedito che questo avvenisse.
Più di dieci persone hanno raggiunto il tetto dell’edificio per proseguire il presidio a oltranza. Più di cinquanta agenti sono saliti e hanno portato coloro che provavano a resistere fuori dalla scuola, provando a dividere i migranti dagli italiani. Questa operazione non è riuscita per l’opposizione di tutti i presenti.
In un clima di continue provocazioni anche la stampa e i fotografi sono stati insultati dalle forze dell’ordine.
Questo avviene alla vigilia del dibattito in consiglio comunale è ha l’obiettivo di avvelenare l’aria e disegnare le prove generali per un piano casa che non fornisce risposte adeguate all’emergenza abitativa di questa città. Attaccare in questo modo, dopo le cariche sotto la prefettura, i movimenti per il diritto all’abitare aumenta la tensione in maniera irresponsabile. Questo avviene perché la politica sta abdicando al suo ruolo consegnando le conseguenze della crisi e i conflitti inevitabili al prefetto e al questore di Roma.
I nuclei sgomberati si riuniranno, ospitati dal Forte Prenestino in via Federico Delpino, in assemblea alle 13.30. insieme ai movimenti per il diritto all’abitare convocano una conferenza stampa per le 15 di oggi sulla piazza del Campidoglio.
Roma 24 febbraio 2010
Movimenti per il diritto all’abitare
Sullo stupro avvenuto nell’ex-scuola “8marzo” di Magliana
Ritengo necessario pubblicare questo comunicato che da un po’ di ore sta girando su indymedia e nelle liste di “movimento”.
Necessario pubblicarlo, dopo lo spazio che questo blog ha dato a tutta la vicenda giudiziaria contro i compagni/occupanti dell’ex scuola “8 marzo” a Magliana, Roma.
Necessario per portare solidarietà in primis alla donna vittima dell’aggressione e poi a tutt@ i/le compagn@ di Magliana, che hanno avuto il coraggio di queste righe!
Comunicato sullo stupro avvenuto nella ex-scuola “8 marzo”
Alcuni giorni fa all’interno della scuola occupata “8 marzo” tre uomini occupanti hanno agito violenza contro una donna ospite, anche lei, dell’occupazione. La donna ha denunciato gli stupratori.
Noi ci schieriamo a fianco di questa donna a cui riconosciamo il coraggio della denuncia ed esprimiamo a lei tutta la nostra solidarietà.
Purtroppo la nostra esperienza politica e sociale ci ha insegnato che la sopraffazione degli uomini sulle donne avviene anche in quegli ambienti che dovrebbero essere liberi, come gli spazi di movimento, e che tali violenze non cesseranno mai di esistere se non vengono costantemente messi in discussione i rapporti di potere tra i generi e contemporaneamente e fermamente condannati gli atteggiamenti e i comportamenti sessisti che troppo spesso vengono assunti come “normali” in una società patriarcale e uomo-centrica e passano pertanto in secondo piano.
Abbiamo invece appreso, con rabbia e rammarico, che la donna non ha ricevuto alcun tipo di solidarietà da parte degli altri occupanti. Anzi è stata letteralmente cacciata fuori dalla 8 marzo dopo essere stata picchiata! Inoltre non solo gli occupanti continuano a convivere tranquillamente con gli uomini violenti, ma, a quanto ci viene riferito, iniziano a girare voci che denigrano la donna per il suo stile di vita e per i suoi comportamenti: un copione che da sempre accompagna gli episodi di violenza contro le donne quando queste denunciano pubblicamente la violenza subita.
Tra le persone accusate di violenza c’è Sandro Capuani, un occupante che, pur non avendo mai fatto parte del CSOA Macchia Rossa, è stato coinvolto nel procedimento giudiziario contro alcuni militanti e una militante del centro sociale e della 8 marzo occupata. Esprimiamo la nostra netta condanna nei confronti di tale soggetto a cui, da ora in avanti, neghiamo ogni forma di sostegno politico, legale ed umano. A questo punto ci aspettiamo ogni sorta di strumentalizzazione da parte dei carabinieri della stazione di villa Bonelli e dai cosiddetti giornalisti loro sodali, vista la fervida fantasia di cui hanno saputo dare prova. Questo non toglie nulla alla drammaticità dei fatti.
Nell’ottobre del 2007 c’era stata un’altra grave aggressione ai danni di una occupante della “8 marzo” da parte del suo compagno. Allora, però, il comportamento degli/delle occupanti era stato ben diverso: l’aggressore era stato messo in fuga ed il massimo sostegno era stato fornito alla donna, arrivando anche a testimoniare in tribunale sull’avvenuta aggressione.
Dal 14 settembre 2009, data del ben noto arresto di alcuni compagni e di una compagna, le cose sono cambiate. Hanno tentato di farci credere che in un occupazione dove ci sia un’assemblea che si dà delle regole finalizzate ad una convivenza civile ed al contrasto di comportamenti violenti, in particolare contro le donne, è da considerarsi un crimine. Un crimine da punire con la galera. O almeno questo, secondo il teorema accusatorio costruito da carabinieri e magistratura, è quello che vogliono farci credere.
Nei mesi successivi a quella data la situazione all’interno della “8 marzo” non ha fatto che peggiorare: dietro l’esplicita minaccia della repressione, i meccanismi di autogestione hanno smesso di funzionare, compagni e compagne sono stati progressivamente allontanati/e dall’occupazione, che si è di fatto auto-isolata dal contesto cittadino della lotta per la casa. A parte alcuni che hanno tentato di evitarlo, la maggioranza degli\delle occupanti, sempre dietro la minaccia dei carabinieri, ha di fatto abbandonato la strada dell’autorganizzazione, accettando la convivenza con informatori e spie, tralasciando la lotta e negando nei fatti la solidarietà ai compagni e alla compagna inquisiti.
Per tutti questi motivi, purtroppo, ad oggi i compagni e le compagne del CSOA Macchia Rossa non hanno nulla a che fare con la gestione dell’occupazione “8 marzo” e dichiarano pubblicamente e politicamente la loro estraneità a quello che accade in un’occupazione gestita dai carabinieri e priva delle fondamenta dell’autorganizzazione sociale, della lotta e della solidarietà.
CSOA Macchia Rossa – Magliana
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