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La torsione del lutto, di Nicola Valentino
UN’EMOZIONE ED UN PIACERE OSPITARE QUEST’OPERA DI NICOLA VALENTINO.
Di Nicola, e con Nicola, c’è molto materiale su questo blog che fareste benissimo ad andarvi a leggere, una boccata di libertà le sue parole, sempre.
Così come quel che costruimmo nell’ergastolo di Santo Stefano, e che speriamo di ricominciare presto a vivere e costruire insieme.
Un diario pittorico scritto in questo periodo di quarantena e dedicato a Salvatore Ricciardi e Gigi Novelli.
Questi stralci provengono da un testo che potete integralmente leggere qui:
Senza corpo non si può vivere completo
“Senza corpo non si può vivere” è il titolo della serie di opere che ho creato tra i
mesi di marzo e aprile del 2020.
Dal nove marzo mi ritrovo, come la quasi totalità delle persone in Italia, recluso agli arresti domiciliari per ragioni sanitarie collegate all’epidemia Covid-19, senza alcuna possibilità di uscire se non per limitatissime necessità, da dimostrare in caso di controllo delle forze di polizia. Appena questa condizione è stata istituita, nel mio corpo sono affiorate tutte le memorie dell’esperienza di reclusione all’ergastolo. Gli ultimi cinque anni della pena li ho trascorsi infatti in libertà condizionale con misure di libertà vigilata a ben vedere meno restrittive delle attuali. In questa nuova condizione infatti mi ritrovo con tutte le relazioni sociali: lavorative, affettive, amicali, ricreative, occasionali, amputate nella loro dimensione di scambio fra corpi, e un corpo de-socializzato viene ad essere minato nella sua umanità.
Ma oltre a questa reclusione domiciliare desocializzante il dispositivo che la nuova condizione ha maggiormente suscitato dal passato è che ogni decisione sulla mia vita sarà presa dallo Stato, nella forma ancora più ristretta del Governo: è lo Stato che ha deciso questo arresto, sarà lo Stato a determinarne modalità e durata in base a proprie valutazioni di ordine sanitario, politico, di opportunità… senza che né io e né a ben vedere altri milioni di persone in Italia, possiamo avere alcuna voce in capitolo. Questa impossibilità a decidere e ad autodeterminarsi in relazione con l’ambiente
circostante è ciò che è stato definito anche come situazione estrema. 1
Nei giorni tra l’otto e il nove marzo, quando questa decisione istituzionale andava maturando, ho detto a me stesso e alle persone che mi erano allora vicine, che sono entrato nella modalità del giglio. Il giglio è il marchio che mi sono tatuato sul braccio destro quando sono uscito dalla condizione dell’ergastolo per non dimenticare quell’esperienza. Il giglio, simbolo della casa reale francese, veniva impresso a fuoco sul corpo degli ergastolani. Questo marchio, nel mio caso, sicuramente era stato
scavato sotto pelle, per cui tanto valeva renderlo evidente. 2
Prima che essere scrittura sul corpo il tatuaggio (quello non puramente estetico) è segno del corpo, segno di un suo stato, come un rossore emozionato, come un pianto, come una cicatrice, e quindi si fa più nitido o sbiadisce a seconda della condizione che il corpo vive. Il nove marzo, infatti, il giglio del mio braccio destro si era fatto più nitido. Il tatuaggio quindi mi sembra sia in relazione con uno stato di coscienza,
con una memoria del corpo. Contribuisce quindi a creare un’identità.
Quando il mio corpo è entrato nella nuova condizione, è questa identità che ha cominciato ad operare perché sa come fare, cosa guardare, e da cosa guardarsi. Sa come mettersi in guardia in una condizione di assoluta disparità di potere e ha anche memoria delle risorse a cui attingere nell’isolamento fisico. Ho anche pensato che se per me la condizione reclusiva consisteva nell’isolamento, per molte altre persone ristrette in domicilio familiare, che si sono chiamate fra loro un “divieto di incontro”, come si usa dire in galera, la condizione sarebbe potuta diventare anche litigiosa se non letale.
In questa nuova cattività l’unica ampia via d’uscita che l’istituzione mi dà è costituita dall’accasamento nel mondo virtuale. Una via obbligata che quindi dal lato esperienziale avverto come una torsione al virtuale. 3
Al corpo impaurito e dalle misure restrittive pressato, viene offerto un unico sfiato. Che questa condizione anche nel breve non sia salutare è un quesito da meditare. La torsione al virtuale dal punto di vista delle connessioni orizzontali che sulla rete posso istituire non è anticipatrice di alcun prevedibile, progettabile incontro reale con le persone in carne ed ossa e il passato relazionale a cui, in alcuni casi potrei far riferimento, lo avverto con un senso di vuoto, come una mancanza. La torsione al virtuale imponendosi come unica via comunicativa mi sembra generi come una abitudine allucinatoria di tipo negativo del corpo proprio e altrui. Se l’allucinazione positiva vede ciò che non c’è, con quella negativa ci facciamo avvezzi a non vedere ciò che c’è. Questa perdita di ancoraggio ai corpi e alla loro storicità l’avverto come un fastidio quando persone che conosco mi “girano” nella chat del cellulare storie, detti, parole che non si sa chi le abbia mai dette né quando le abbia mai dette, dove le abbia mai pronunciate o scritte. I chi, i come, i quando, svaniscono e le parole girano senza ancoraggi ai corpi e quindi senza responsabilità. Mi riferisco a testi o link che vengono copiati nelle mie chat da persone, miei contatti, che spesso non si sono nemmeno preoccupati di aprire, controllare, verificare che tipo di informazioni vi fossero contenute. Questo particolare fenomeno fastidioso mi porta a pensare che quando ci accasiamo nella rete è come se assumessimo delle identità robotiche, oppure, per dirla più precisamente con il paradigma a me caro della molteplicità identitaria, è come se ci
dissociassimo in una identità robotica che agisce in base ad automatismi. 4
[…]

Opera Sesta, Nicola Valentino
L’opera sesta nasce in accogliemento di due notizie luttuose.
Il due aprile ricevo un messaggio che mi informa della morte di Gigi Novelli. Durante la comune esperienza carceraria Gigi lavorò per un periodo nell’officina fabbri del penitenziario di Rebibbia e sapendo che avevo cominciato a dipingere con materiali strani, mi portò in cella una manciata di piombaggine, trafugandola a suo rischio dall’officina. La piombaggine è grafite polverizzata buona per lucidare il ferro
ed è diventata una delle materie che maggiormente utilizzo.
Il nove aprile mi arriva la comunicazione che anche Salvatore Ricciardi ha finito i suoi giorni. Con Salvatore ho condiviso alcuni anni di carcerazione, ma con lui non
mi sono poi mai perso di vista e ci siamo di frequente ritrovati in iniziative politiche e culturali contro l’ergastolo e ogni forma reclusiva. Chi l’avrebbe mai detto che dopo un ergastolo scontato mi sarei ancora trovato recluso e impossibilitato a testimoniare il mio lutto. l’undici aprile apprendo radiofonicamente la notizia che per Salvatore è stata possibile una camera ardente al policlinico e che quando la bara ha attraversato il quartiere San Lorenzo i compagni della radio con cui Salvatore lavorava e altri sono scesi per accompagnarlo – lo hanno fatto anche rispettando le misure previste di distanziamento – il quartiere è stato circondato dalla polizia in assetto anti sommossa e tutti i partecipanti a questo momento di lutto sono stati identificati e il corteo
funebre si è dovuto sciogliere.
Può essere un dipinto una forma di lutto quando il lutto viene impedito?
Mi sono ricordato di un amico come me all’ergastolo che quando gli fu negato per motivi di sicurezza l’atto umano di dare un saluto al proprio genitore morto, si chiuse in cella e in un sovrappensiero di ricordi tracciò su un foglio come un ricamo di segni che si cercavano fra passato e presente. Uno scarabocchio come personale cerimonia funebre. L’opera sesta, in ricordo di Gigi e Salvatore, fatta con sabbie di Cuba e del Vietnam, nasce nell’inquietudine di questi momenti e nel riaffiorare di una esperienza
estrema che l’estremo che ora tutti viviamo ha disseppellito.
Gigi e Salvatore non ci hanno lasciato a causa dell’ infezione da Covid-19 ma sono morti in un momento di generale dissacramento dell’esperienza della morte, di sua de
umanizzazione e di negazione del diritto al lutto.
Una persona cara mi invia un messaggio: “ciò che più mi spaventa, per come questa
epidemia è gestita, è che qualora ne morissi lo farei in solitudine”.
In questi mesi migliaia di persone muoiono da sole. Molti corpi sono stati cremati senza la possibilità per i loro cari di una cerimonia funebre. Altri vengono sepolti
nelle fosse dei dimenticati.
Una donna per alcune settimana non ha saputo dove fosse la salma del padre portata fuori regione su carri militari. Lo ha scoperto da una fattura con cui le è stato addebitato il costo della cremazione. Dichiarerà in una intervista che sono tantissime le persone con la sua stessa storia e con vicende anche peggiori: urne cinerarie perse, bare irrintracciabili che sono state trovate dopo una, due settimane di ricerche,
congiunti che si chiedono se veramente in quella bara sigillata ci sia il loro defunto.7
A New York, per liberarsi dei corpi sempre più in fretta, è stata ridotta da 64 a 14 la tolleranza verso le salme che alla morgue non reclama nessuno. In una situazione così non c’è altra scelta: seppellire i senza nome, i senza famiglia, i senza soldi nelle fosse comuni di Hart Island. Se siano vittime del coronavirus nessuno lo sa, se sono morti in casa, da soli, è probabile: ma non viene fatto loro il tampone. Di sicuro “si tratta di
persone per le quali in due settimane nessuno si è fatto avanti, accollandosi le spese
del funerale” 8

Opera Quarta, Nicola Valentino
Una analoga torsione dell’esperienza della morte e del lutto l’ho incontrata promuovendo una esperienza anche molto cara a Salvatore Ricciardi che l’ha divulgata attraverso la sua trasmissione a radio Onda rossa. Per cinque anni tra il 2011 e il 2016 alcune centinaia di persone hanno partecipato all’iniziativa: “Porta un fiore per l’abolizione dell’ergastolo”.
Nell’isolotto di Santo Stefano di fronte a Ventotene, c’è un carcere secolare chiuso nel 1962 che ha funzionato come ergastolo dal 1700. Non molto lontano dal penitenziario si può incontrare un piccolo cimitero dove venivano sepolti i reclusi che vi morivano dimenticati. Esclusi quindi dal consorzio umano anche dopo morti. Per incuria istituzionale negli anni di chiusura del penitenziario quel cimitero è stato seppellito dai rovi e i defunti hanno perso i loro nomi. Il gruppo di persone che con me per vari anni ha portato i fiori sulle loro tombe è riuscito anche a ridare i nomi ad alcuni di quei defunti. Si è verificato anche che il nipote di uno di quei prigionieri morti abbia ritrovato finalmente suo nonno. L’istituzione non aveva mai informato la famiglia di dove fosse sepolto. Dopo ben sessantuno anni ha ricevuto un certificato
di morte del nonno ed è riuscito a dire una preghiera sulla sua tomba. 9
Nel 10000 a. C. come i loro predecessori del Paleolitico i Natufiani erano cacciatori alti un metro e mezzo circa, spesso abitavano all’imboccatura di caverne e disegnavano animali altrettanto bene degli artisti di Lascaux. “Nel 9000 a.C. seppellivano i loro morti in tombe cerimoniali e stavano adottando uno stile di vita più sedentario. Quest’ultimo fatto è indicato dai primi segni di edificazione di strutture, come la selciatura e la recinzione di piattaforme con muri e di cimiteri talvolta grandi abbastanza da contenere ottantasette tombe… (…) siamo all’epoca dei nomi propri di persona con tutto ciò che questo implica. E’ l’insediamento natufiano all’aperto di Eynan a presentare questo mutamento nel modo più vistoso. Scoperto nel 1959 , questo sito molto studiato si trova a una ventina di chilometri a nord del lago di Tiberiade. (…) A questo punto della storia si verifica un mutamento molto significativo negli affari umani. Anzicchè una tribù nomade di una ventina di cacciatori che vivono all’imboccatura di caverne, abbiamo una città con una
popolazione di 200 persone”. 10
Julian Jeynes prosegue la sua narrazione osservando che la tomba e la cerimonia funebre sono state fondamentali affinché gli umani potessero continuare ad ascoltare la voce dei loro morti che, divenuti antenati autorevoli e poi dei, consentivano alla comunità di procedere in modo integrato nella vita associata. In poche parole il racconto di Jeynes ci sembra dire che istituendo un legame con i corpi che se ne
vanno si genera il legame fra i corpi di quelli che restano.
Ho ripescato questa antica storia per dare una profondità temporale allo smarrimento del momento: quando 11020 anni dopo le tombe di Eynan una autorità qualunque impedisce il diritto al commiato e ad una sepoltura rituale, si viola una profonda acquisizione antropologica attraverso cui l’umano si è generato come corpo
comunitario seppur differenziato nei culti e nelle culture.
Che la cultura del lutto sia così costitutiva dell’umano lo si può evincere anche da alcuni esempi che hanno mostrato come la torsione del lutto che si è verificata nelle epidemie e nelle guerre sia poi sfociata in una contro reazione culturale e sociale. Un
esempio in tal senso è costituito da un luogo che mi è molto caro.
1 Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti 1987
2 Nicola Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, 2009; Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia, Ergastolo e pena di morte, Sensibili alle foglie 2017
3 Sul concetto di torsione: Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino,Nel Bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie, III edizione 2015.
4 Sul concetto di molteplicità identitaria vedi Renato Curcio, Nicola Valentino, La città di Erech, Sensibili alle foglie 2001, scaricabile gratuitamente sul sito della libreria http://www.libreriasensibiliallefoglie.com. / In riferimento alle metamorfosi identitarie nella Società digitale, Renato Curcio, L’algoritmo sovrano, Sensibili alle foglie 2018
7 Rai News 23 aprile 2020 intervista di Giuseppe La Venia
8 Anna Lombardi 10 aprile 2020 La Repubblica, Troppi Morti a New York: si torna a seppellire nell’isola dei disperati.
9 Nicola Valentino (a cura di), Liberi dall’ergastolo
10 Julian Jeynes, Crollo della mente bicamerale e nascita della coscienza, Adelphi, 1984
Sta per iniziare l’operazione Amberlight: VOLANTINO DA STAMPARE E DIFFONDERE IL PIU’ POSSIBILE
Era solo l’ottobre 2014 quando l’operazione Mos Maiorum si è svolta in tutti i paesi europei,
una full immertion di retate contro i migranti durata 13 giorni, che ha toccato tutti i porti, le stazioni e i punti di passaggio delle persone in movimento, legale o illegale.
Non era certo la prima di queste operazioni su scala europea e tra pochi giorni inizierà l’ennesima operazione, che vede la comunità europea e le sue polizie, in collaborazione con Frontex, impegnate dal 1 al 15 aprile in controlli, fermi, retate: si chiamerà Operazione Amberlight .
Lo scopo è facile da intuire: reprimere, arrestare quanti più irregolari possibile usando la solita scusa della raccolta di informazioni sulle rotte migratorie
SCARICA, STAMPA E DIFFONDI IL VOLANTINO IN ALTA RISOLUZIONE.
Il blog Hurriyya, che diffonde questo volantino e le informazioni riportate qui sotto, ci informa che presto questo volantino sarà tradotto anche in arabo e in altre lingue, per permetterne una diffusione massiccia, che è la vera arma che si ha contro questo tipo di operazione. L’informazione sta circolando molto poco, facciamo in modo che si sappia, che si possano trovare questi volantini nelle stazioni, nei porti e in tutti i punti di passaggio dei nostri compagni migranti.
Perchè siano liberi di circolare e vivere in questa maledetta Fortezza che è l’Europa.
Dal blog Hurriya
Dal blog Hurriya
Dal 1 al 15 aprile è quindi previsto un aumento delle retate in tutta Europa.
I luoghi maggiormente interessati saranno:
– stazioni
– aeroporti
– bus
– metro
– porti
– autostrade
– treni
– snodi di transito
– mercati
– frontiere interne alla Fortezza Europa
La notizia della prossima “Operazione Amberlight” sta circolando pochissimo, uno dei pochi siti per il momento è questo.Avvisiamo più persone possibile.
Portiamo la solidarietà in strada.
Respingiamo insieme le retate.
Gli unici stranieri sono gli sbirri nei quartieri.
Nell’ultimo documento rilasciato da Statewatch (consultabile qui) Domenica 22 Marzo , si precisano alcuni punti, non chiariti in precedenza, sulla prossima operazione “AMBERLIGHT 2015″:
DATE dell’Operazione – l’operazione AMBERLIGHT è prevista nel periodo 1-14 aprile 2015 o dal 18 al 30 Aprile 2015
OBIETTIVI – Lo scopo dell’attività “AMBERLIGHT 2015″ è quello di intensificare i controlli alle frontiere […] e si propone di raccogliere informazioni sugli “overstayers “(cittadini di paesi terzi) alle frontiere aeree esterne (per overstayers si intendono le persone che soggiornano oltre il periodo previsto da un visto o un permesso di soggiorno, oltre che le persone senza documenti)
ATTUAZIONE – Sono previsti controlli alle “frontiere aeree” degli stati membri e dei paesi associati all’accordo di Schengen, cioè negli aereoporti. Tuttavia si specifica che, come nelle precedenti operazioni, c’è la “possibilità di estendere i controlli anche alle frontiere marittime e terrestri, su richiesta della maggioranza degli stati membri.”
In quest’ultimo caso i controlli si concentrerebbero, come nell’ultima operazione Mos Maiorum, anche sui treni diretti negli altri paesi europei, nelle stazioni , ai valichi di frontiera e lungo le strade ed autostrade che collegano i vari paesi europei.
La sezione femminile del carcere di L’Aquila
Giulio Petrilli conosce bene il carcere. E quando è lui a parlarne, o chi come lui, che il carcere se ne è fatto tanto tanto per poi essere pure assolto, bisognerebbe fare un secondo di silenzio e ascoltare.
Giulio Petrilli quando ti racconta la sua città e magari te la mostra tra le sue rovine, indecentemente e rovinosamente rimaste al suolo, non riesce a non parlarti di un pezzo di città che nessuno nota mai: il carcere.
Era un po’ che non lo faceva, ma ora non ce l’ha fatta più, e ha ricominciato.
(Qui se volete leggere un suo comunicato di anni fa sulla Blefari Melazzi e le condizioni di detenzione che subiva, che l’hanno poi portata a scegliere il suicidio: LEGGI)
Purtroppo la mia città de L’Aquila, ha un triste primato nel mondo: quello di avere un carcere femminile peggiore di Guantanamo e di Alcatraz.
Nella sezione speciale femminile del carcere Le Costarelle de L’Aquila, le condizioni di vita delle detenute sono simili se non peggiori del famigerato carcere americano e peggiore anche di Alcatraz.
Isolamento totale, perquisizioni corporali quando si esce dalla cella nell’unica ora quotidiana.
Totale divieto di comunicare tra detenute.
Un bunker nemmeno paragonabile a Guantanamo come spazi, con celle due metri per due.
Spazio per l’aria, tre metri per tre senza mai sole.
Il sole non esiste piu’.
Due libri al mese, due soli quaderni per poter scrivere.
Corrispondenza con l’esterno praticamente inesistente, visto la forte censura.
Condizioni che ledono completamente i diritti umani.
Ma le donne democratiche della mia citta’ dove sono?
Ma non solo loro, anche gli uomini e non solo nella mia citta’ perche’ e’ un problema nazionale.
Tutto tace, tutti girano la testa dall’altra parte.
La sezione femminile del carcere speciale de L’Aquila, ha condizioni di gran lunga peggiori delle sezioni a 41bis e credo che questo dimostri che e’ l’unico carcere femminile al mondo cosi’ duro.
Non e’ una esagerazione, purtroppo e’ la realta’.
La tortura di per sé è un fenomeno incredibile, ma applicato nella detenzione delle donne, nel silenzio quasi totale, ha dell’incredibile.
Io racconto queste cose a ragion veduta, perché ho visitato diverse volte questa sezione speciale e leggo di denunce sulla situazione descritta, che non hanno visibilità.Torno a riaffrontare questo tema dopo otto anni, quando dopo per aver partecipato a una manifestazione proprio a L’Aquila contro il 41 bis ho avuto conseguenze dure e difficili.
18.03.15 Giulio Petrilli
Il festival di Sanremo abbraccia i morti di Lampedusa: ce lo potevano risparmiare
Stiamo parlando dell’ennesima strage che ha inghiottito nel mare blu qualche centinaio di persone.
Il tutto a poche ore dall’inizio dell’ennesimo Festival della canzone italiana di Sanremo: festival che è approdato nel nuovo millennio e nel mondo dei social network con una pagina twitter che probabilmente ha lo stesso ufficio stampa che gestisce l’Expo (quello che due giorni fa ha attribuito il David di Michelangelo a Donatello, come se niente fosse).
Quindi senza ulteriori inutili, sprecate, parole
ecco a voi il tweet che commenta 300 cadaveri ancora non galleggianti di persone senza colpa se non quella di provare a vivere.
Magari liberi. Magari schiavi. Ma vivi.

mi fate schifo.
Due gommoni alla deriva, in mezzo ad un mare di vergogna
Due gommoni vuoti in mezzo al mare.
Due gommoni vuoti in balia delle onde, in pieno inverno.
Due gommoni senza vita, quando invece la vita sopra ci si era accalcata per trovare posto e respiro durante la traversata.
Traversata impossibile, traversata che l’Europa ha deciso di trasformare in una morte quasi certa.
Un’altra strage in mare, un’altra strage di vite che non interessano a nessuno ma che son vite,
son occhi e sorrisi, son fotografie nelle tasche, indirizzi scritti sulla pelle, son soldi nelle mutande, son figli attaccati ai capezzoli, son bambini che han lasciato a terra sorelle o madri,
son persone sì, persone con in tasca il futuro e davanti una morte annunciata, decisa a tavolino, già bella che scritta.
Una morte che non interessa a nessuno, di cui nessuno parlerà, su cui qualcuno speculerà.
Che qualcuno dovrebbe vendicare.
I racconti parlano di un gommone con 200 persone a bordo.
Il gommone galleggia vuoto.
In mezzo al mare, in mezzo ad un mare di vergogna e di complici.
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Morire di freddo
La resistenza di Kobane morirà nel mare?
Altri 500
Siamo tutti ASSASSINI
Mare nostrum: un cimitero liquido
Il mare della morte
La strage di Catania
I corpi sugli scogli
Eurosur e la Fortezza Europa
Quando si assassina col freddo e col gelo
Mentre tutti postate fotografie di come la neve imbianca il vostro quartiere, si muore di freddo.
Si muore di freddo bambini, si muore di freddo donne, si muore di freddo in gravidanza,
in un battello galleggiante in mezzo al nulla.
In mezzo ad un universo di acqua in cui si confida al punto di chiamarlo futuro.
I morti di oggi, assiderati durante una traversata, dopo ore di difficoltà di navigazione a largo di Lampedusa sono stati deliberatamente assassinati dalle scelte europee sui profughi e i richiedenti asilo che salpano dal nord Africa per arrivare in Europa, in questo grande vergognoso lager che è l’Europa.
I 29 morti di oggi non son morti di freddo, ma assassinati dalla scelta di sospendere anche Mare Nostrum,
che almeno le vite le salvava, anche se poi le immetteva in meccanismi repressivi e di privazione di libertà di movimento.
Si muore di freddo, nemmeno affogati, ma di freddo.
Bastava nulla per salvare quelle vite: nulla. Solamente 7 dei 29 son stati trovati morti a bordo quando i soccorsi sono arrivati: gli altri son morti mentre arrivavano verso terra.
Bastava nulla per salvare quelle vite.
Nulla.
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Mare nostrum: un cimitero liquido
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Altri 500 corpi a picco nel Mar Mediterrano, uccisi da noi
Il Guardian è il solo giornale che leggo volentieri,
il solo giornale che reputo faccia giornalismo, in tutto il suolo europeo.
Quest’articolo del Guardian oggi lascia senza parole, senza voce, con quella stretta d’odio che dall’aorta si fa tutto il sistema venoso, prima centrale e poi periferico.
Sì mi scorre odio in ogni piccola venuzza quando guardo il nostro mare, son cresciuta guardando le coste della mia terra come un luogo agognato di approdo,
son stufa di veder raccogliere corpi e corpicini, e di sapere che la maggior parte volano a picco verso il fondo,
per non comparire mai più.
Non son mai riuscita a veder quei corpi come corpi annegati, come cadaveri, mai una sola volta.
Ogni fottuta volta ho visto persone, storie, sguardi pieni di parole che avrei voluto ascoltare,
ogni volta ho visto la vita, la speranza di chi scappa senza nulla.
Di quei corpi mi son sempre sentita responsabile,
delle vite colate a picco di quelle persone -migliaia e migliaia di persone- vi reputo responsabili.
Ogni fottuta maledetta volta.
E questa volta il Guardian che, ripeto, non è un giornale qualunque,
ci racconta che queste 500 vite umane son state ammazzate deliberatamente...e chissà quante altre volte è successo.
Sono almeno mille dollari a persona, mille dollari a persona per 500 persone che mai arriveranno:
pagare la propria morte, di propria mano, pagarla cara, pagare con tutto quel che si possiede, con molto di più di tutto quel che si possiede.
Parlo a vanvera, sono l’antigiornalismo in persona perchè manco i fatti riesco a raccontare,
mi son stufata di farlo. Andatevelo a leggere da soli.
Voglio solo urlare, voglio abbracciare uno di quei bambini che parte sottobraccio alla mamma e la vede affogare,
vorrei dirgli qualche parola nella sua lingua, aprirgli la mia casa e la mia vita.
Vorrei poter far qualcosa, vorrei poter far qualcosa…
vorrei prosciugarlo questo maledetto mare per poter far qualcosa per voi…
voi che il mondo non saprà mai che avete un nome,
un luogo di nascita, un colore preferito, un cibo che vi disgusta e uno che vi ricorda l’infanzia.
Vorrei poter far qualcosa e poi leggo queste righe di Nawal e capisco che non posso
Ieri…
Un padre e’ venuto dalla Svezia…
Attendevo l’arrivo del figlio partito dall’Egitto…
Mi seguiva ovunque….
Mi faceva le liste delle persone che dovevano partire in treno…
Ci guardavamo come se lui fosse mio padre e io fossi in una barca forse affondata….
Gli ho detto tuo figlio arrivera’… Era una bugia…
sapevo gia’ che la barca affondata era quella egiziana e non libica….
Sono arrivati i rifugiati che hanno conosciuto i due superstiti ed hanno raccontato tutto….
Io mi sono allontanata..
Le lacrime erano acqua…..
Lui era seduto a terra….
Io avevo ancora 100 biglietti da fare….
Volevo solo scomparire….
Non potevo star vicino…
Dovevo andare……
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Il mare della morte
La strage di Catania
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Rivolta in corso a Ponte Galeria…
Un’estate intera di rivolte, di bocche cucite con ago e filo,
di tentativi spesso autolesionisti per uscire da situazioni kafkiane in cui si trovano i migranti reclusi nei CIE: tante cose si son mosse in questi mesi nel CIE di Ponte Galeria che questo blog non è riuscito a seguire.
Da poco più di un’ora però la situazione sta degenerando: son centinaia i celerini entrati nel centro di identificazione ed espulsione romano,
e le minacce son rivolte soprattutto ha chi ha scelto di rischiare ulteriormente,
raccontando all’esterno quel che accade al di là di quelle sbarre, sbarre per chi non ha commesso alcun reato.
[Ascoltate Ondarossa per le corrispondenze con i migranti reclusi: corrispondenze che appariranno anche sul loro sito]
Gli ultimi aggiornamenti parlavano di un grosso incendio causato dai materassi in fiamme, grazie al quale le celle erano state aperte permettendo a qualcuno di raggiungere il tetto: la celere però è arrivata a centinaia, per cercar di sedare la rivolta e rinchiudere nuovamente tutti dentro le celle.
Seguite gli aggiornamenti su twitter …
#deiCiesoloMacerie #PonteGaleria
Sulle deportazioni di ieri QUI
NO ALLE FRONTIERE
DEI C.I.E. VAN LASCIATE SOLO LE MACERIE.
seguiranno aggiornamenti…
Un’intervista che ci racconta il carcere di Santo Stefano degli anni ’50

Il panoptico di Santo Stefano dall’alto in una foto abbastanza recente
Quella che leggerete è l’intervista ad un maestro, Stefano di Filippo, che per un paio di mesi della sua vita si trovò sullo scoglio di Santo Stefano, ad insegnare ai detenuti dell’ergastolo che dal periodo borbonico, rimase aperto e stracolmo fino all’aprile del 1965.
L’intervista è di Melania Del Santo, compagna di Liberi dall’ergastolo, che lo scorso anno è venuta con me in Sicilia ad intervistare chi quel carcere l’aveva fatto ai ferri, il mitico bandito dell’Isola di Milano, Ezio Barbieri…
da qualunque parte lo si racconti quel carcere si sente lo stesso odore di zuppa di piselli o fave, da qualunque parte lo si guardi, non si può non sentire la violenza della segregazione in un luogo mangiato dai mari e dai venti.
Un luogo che noi abbiamo scelto come simbolo per parlare dell’indecenza della segregazione e dell’aberrazione del Fine Pena Mai.
Anche quest’anno, il 14 giugno, siamo salpati: 60 persone da ogni dove, per raggiungere quel carcere e quel cimitero degli ergastolani.
Ancora una volta un’esperienza grande, ricca e infinitamente eterogenea: ancora una volta abbiamo portato i nostri fiori, le nostre voci, i nostri sorrisi sulla tomba di Gaetano Bresci e dei suoi 46 compagni di riposo.
CONTRO OGNI CARCERE.
M.: Professo’, raccontatemi un poco di questa esperienza. Quanto tempo siete stato a Santo Stefano?
Pr.: Ci stetti solo 3 mesi a S. Stefano, da ottobre a dicembre, fino alle vacanze di Natale.Gli ultimi giorni in carcere mi ammalai di tifo. Mi venne la
L’interno del panoptico, prima della costruzione del cordolo di cemento al terzo piano. (Che proteggeva i detenuti del terzo anello dal sole, ma che sta ora distruggendo col suo peso le arcate sottostanti)
febbre alta, a 41 C.Mi ricordo quando avevo la febbre che sono stato chiuso un po’ di giorni nella cella… una notte mi sono alzato che mi mancava l’aria perché la cella era piccola e si era consumato l’ossigeno.Aspettavo ogni giorno il “vapore” (la barca) che non veniva da qualche giorno perché c’era il mare agitato. Ad un certo punto venne un carcerato: <<Professo’, professo’, la barca. La barca è arrivata!>>. E così finalmente me ne andai a Ventotene dove c’era mia moglie che abitava là perché insegnava nella scuola elementare di Ventotene. Il comune aveva messo a disposizione una barca che faceva servizio per chi lavorava al carcere. C’era un barcaiolo che lavorava per il comune che la guidava. Dopo qualche anno morì perché prese il tetano a causa di un chiodo arrugginito con il quale si ferì proprio mentre puliva la barca.A Ventotene a quel tempo non si stava bene. Era come andare ai lavori forzati per i maestri, come per mia moglie. Era una sede troppo disagiata.Quando il mare era mosso era pericoloso attraccare a Santo Stefano. Dalla barca bisognava fare un salto, tant’è vero che qualcuno era pure caduto in acqua… qualche guardia (ride).A volte anche per 4 o 5 giorni non arrivava la barca. Come quella volta che ebbi la febbre io. Tant’è vero che non attraccammo neanche al porto di Ventotene quando mi portarono via, ma dietro.
M.: Quanti maestri eravate?
Pr.: Nel carcere eravamo due insegnanti, io e un collega di Gaeta perché c’erano 2 sezioni. Si faceva scuola dal lunedì al venerdì, dalle 7.30 alle 11. La barca che faceva servizio da Ventotene a Santo Stefano arrivava tutti i giorni alle 7.30 per portare le guardie carcerarie. Ma poi alle 9 andava via e quindi dopo le 11 non c’era più il servizio del “vapore” che ci poteva riportare indietro. Allora io e il collega di Gaeta stavamo là tutta la settimana, come i carcerati, ma solo dal lunedì al venerdì.
M.: Professore, dove dormivate?
Pr.: Nella cella. Nel carcere c’erano gli appartamenti per il direttore e per gli impiegati della direzione. Alcune guardie carcerarie, quelle che avevano famiglia, vivevano là, sempre negli appartamenti. Invece i giovani scapoli che lavoravano nel carcere dormivano nelle celle vuote, adibite ad alloggi per i lavoratori più giovani. Come noi.
M.: Quanti erano i carcerati a quel tempo?
Pr.: Un centinaio, o forse meno.
M.: Che tipo di lezioni facevate?
Pr.: Facevamo lezioni di italiano, matematica, storia e geografia. Nella mia classe c’erano 3 o 4 di quelli della banda Giuliano. Il vice di Giuliano, si chiamava Terranova, e poi ‘On Pisciotta (ndr. Don Pisciotta. Da un po’ di ricerche fatte poteva essere Salvatore, padre di Gaspare il quale nel ’57 era già morto). Poi c’erano diversi altri detenuti che avevano fatto varie cose, dall’omicidio alla… strage di persone! Questi della banda Giuliani erano ben istruiti, preparati, “scafati”. Con loro si potevano fare discussioni più alte rispetto agli altri detenuti. Anche quelli che sapevano leggere e scrivere, venivano lo stesso a scuola, per perdere un po’ di tempo. Parlavamo anche di argomenti di attualità, ragionavamo di cose come lo sbarco sulla Luna che in quel periodo era un dibattito molto acceso (ndr: Sputnik 1, sovietico, 4 ottobre 1957; Sputnik 2, 3 Novembre 1957). Ti ricordi il cane Laika? Soprattutto i siciliani erano assai interessati. Avevamo materiale didattico. Si facevano compiti scritti, ma anche dibattiti su argomenti che leggevamo sul giornale. Era bello.
M.: C’erano le guardie in classe?
Pr.: Quando insegnavo c’era sempre una guardia di piantone per difendermi, ma non ce n’è stato mai bisogno. Era un ambiente tranquillo.
M.: E di pomeriggio che facevate?
Come appariva l’ingresso del cimitero degli ergastolani prima che il carcere fosse dismesso e poi abbandonato
Pr.: Anche di pomeriggio continuavamo le discussioni iniziate in classe, oppure andavamo a parlare in direzione o col ragioniere. Parlavamo sempre nella piazzetta quando c’era il sole, chi diceva una cosa, chi un’altra, era un ambiente non pericoloso. Ognuno aveva i propri compiti e là dentro erano liberi. Mo’ ti racconto un aneddoto. Quando stavamo liberi (fuori dall’orario scolastico) passeggiavamo per il cortile circolare con qualcuno di questi della banda Giuliani. Quando incontravamo una guardia, il detenuto la chiamava con un soprannome che era uno storpiamento del cognome. Io chiedevo, ma se tu sai il cognome, perché la chiami così? E loro dicevano: noi abbiamo la matricola, veniamo chiamati con un numero, allora per dispetto cambiamo il nome pure noi alle guardie. Però erano “contranomi” senza cattiveria.
M.: Che facevano i carcerati durante la giornata?
Prof.: Alcuni lavoravano in un laboratorio, un bel laboratorio di tessitura. Cotone, seta… stava al piano terra. L’attività principale era proprio nel laboratorio tessile, ma questi prodotti erano gestiti dalla direzione. Altri facevano i muratori e altri erano addetti alla manutenzione del carcere. Alcuni detenuti poi lavoravano alla casa colonica che stava fuori. In questa casa abitava una famiglia di affittuari o mezzadri. Coltivavano le lenticchie che erano prodotti locali, nella fattoria che stava fuori. I prodotti però là (nel carcere) non arrivavano. Quelli che lavoravano la terra fuori percepivano la mercede.
M.: Come era tenuto il carcere a quel tempo?
Prof.: Il carcere era tenuto bene, i detenuti lavoravano per tenerlo pulito e facevano tanti lavoretti di manutenzione.
M.: Come era organizzato logisticamente?
Prof.: A piano terra, vicino al cortile, c’era la direzione e un vano che era un centro di commercio dove venivano gli ambulanti che portavano scarpe, pantaloni ecc. per i detenuti. Alcuni detenuti lavoravano l’uncinetto, facevano cose tipo sciarpe, centrini mantelline che vendevano in questo centro agli ambulanti per fare un po’ di soldi da mandare alle famiglie.
M.: I detenuti percepivano una paga?
Prof.: Sì, i detenuti percepivano la mercede, uno stipendio dato dallo stato per i lavori che facevano. Una parte di questi soldi li mandavano alle famiglie, una parte invece serviva a loro.
M.: Professore, si ricorda di qualche detenuto?
Prof.: Prima di prendere servizio a Santo Stefano io non avevo mai visto un detenuto. Quando arrivai il primo giorno fui accolto da un signore vestito a righe. Questo era un ergastolano che faceva il segretario, l’uomo di fiducia del direttore. Era lui che riceveva quando il direttore non c’era.
M.: Si ricorda chi era questo signore?
Prof.: Era un alunno d’ordine delle ferrovie. Una notte mentre era di servizio con il capostazione cercò di scassinare la cassaforte per prendere i soldi. Mentre stava facendo questa operazione arrivò il capostazione e allora lui… lo ammazzò (sussurrato). Era un bel giovanotto. Poi c’era un altro, il nipote del ministro Spadaro. Prima era stato un ufficiale dell’aeronautica ed aveva un’amante, una signora ricca, più anziana. Una notte la ammazzò per prendersi tutti i gioielli. Questo ragazzo faceva l’operatore della televisione perché ne capiva. Infatti nella mensa c’era la televisione.
Un fiore contro il Fine Pena Mai, Santo Stefano 2014
M.: C’erano detenuti politici?
Prof.: Quando stavo io non c’erano detenuti politici, ma prima, soprattutto durante il fascismo erano tutti antifascisti. Mi hanno raccontato che c’era stato Settembrini. Lo sai che all’inizio del Novecento c’erano i briganti che vivevano a Ventotene nelle grotte?
M.: Avevate dei rapporti migliori con alcuni detenuti piuttosto che con altri?
Prof.: Non c’erano detenuti preferiti per noi, ma sicuramente c’erano detenuti più colti, alcuni erano ingegneri. Quelli più importanti erano quelli della banda Giuliano. Gli altri detenuti li chiamavano “i nobili”. Quindi le differenze tra i detenuti erano evidenziate da loro stessi. Riconoscevano quelli della banda Giuliano, diciamo, come intellettuali va.
M.: Dove mangiavate?
Prof.: C’era il refettorio e la cucina dove cucinavano stesso i detenuti. Però il cibo buono non c’era.
M.: Che mangiavate?
Prof.: Per esempio pasta e polvere di piselli. Pasta e polvere di fave. Roba secca. Mangiavamo tutti insieme: guardie, detenuti e maestri, sia a mezzogiorno che la sera. Qualche guardia qualche volta si portava cibo da Ventotene e se lo faceva preparare. Allo spaccio però cibo buono non ne arrivava.
M.: Quindi i detenuti non erano rinchiusi .
Pr.: No no, i detenuti, erano “liberi”, non stavano chiusi nelle celle. Invece le famiglie delle guardie stavano sempre chiuse dentro casa perché, soprattutto i detenuti muratori che spesso stavano in giro, era facile che andassero a bussare alle porte delle mogli delle guardie per… (ride). Mi ricordo un muratore che stava sempre arrabbiato, stizzoso.
M.: I parenti dei detenuti venivano?
Pr.: I parenti dei detenuti non venivano mai, erano come dimenticati. Le guardie ci dicevano che non dovevamo fidarci dei detenuti perché se ne potevano approfittare per far uscire delle lettere fuori dal carcere. C’era la censura, la posta non poteva uscire. Alcuni ci tenevano a farsi ben volere da noi per poter far uscire fuori le lettere indirizzate ai parenti. Il capo reparto del laboratorio tessile stava sempre vicino a me, mentre le guardie (o il direttore) mi dicevano di stare attento. Usavano la tattica di avvicinarsi e raccontare la loro storia, dicendo <<sì abbiamo sbagliato>>, ammettendo il loro errore, però sempre giustificando la causa e dando una spiegazione a quello che avevano fatto. Avevano un’arte nel farsi ben volere.
M.: Ma voi sapevate i loro reati?
Pr.: In direzione c’erano le schede con i reati dei detenuti, ma erano riservate. A volte qualcuno ci diceva qualcosa, ma noi non le potevamo leggere. I detenuti non ci parlavano mai di quello che avevano fatto gli altri. Il detenuto che ne parlava, al massimo parlava del suo reato, ma soprattutto per giustificarsi. Per dire “je nun so’ malament’. Nun so’ cattivo”. Voleva dimostrare che era una brava persona, e quello che avevano fatto aveva una spiegazione, che c’era una ragione alla causa, diciamo così. Invece quelli di Giuliani non ne parlavano mai di quello che avevano fatto, del perché stavano là dentro. Erano quelli “più spiccioli” che ne parlavano.
M.: Si ricorda del cimitero?
Pr.: Quando facevamo le passeggiate, in un certo punto, prima del cimitero, c’era un’immagine che chiamavano l’incompiuta, vicino al muro. L’avevano fatta un paio di detenuti che chiesero al direttore il permesso di dipingere questa immagine. Lo scopo però era quello di scappare. Un giorno che andarono a dipingere si tuffarono e scapparono a nuoto fino a Ventotene. Presero una barca per scappare a Ischia, però poi furono presi. E quindi l’immagine rimase incompiuta. Il cimitero era chiuso, non si poteva entrare. C’erano due colonne con la scritta: “Qui finisce la giustizia umana, qui comincia la giustizia divina”.Ci sono andato una sola volta. Poi non ci sono mai più tornato.
M.: E al carcere ci è mai più tornato?
Prof.: Dopo le vacanze natalizie tornai là per dare le consegne e andai a salutare i ragazzi dicendo che mi dispiaceva, ma che me ne dovevo andare. Proprio quelli della banda di Giuliani mi dissero: “Professore, ci dispiace che ve ne andate perché siete una brava persona, però siamo contenti che ve ne andate da questo luogo schifoso che non è per voi”. Alla fine posso dire che si stava bene comunque là, anche il mio collega di Gaeta lo diceva, e lui stava da due anni. Se non mi fosse venuta la febbre sarei rimasto. E poi era conveniente stare nella scuola carceraria, venivamo pagati dallo Stato, dal Ministero di grazia e giustizia e dal provveditorato. Nei confronti del maestro c’era un gran rispetto. E l’ambiente era gioioso perché si discuteva molto. Nella vita mi è piaciuta questa esperienza che ho fatto. E’ stata breve a causa di quella febbre, però bella.
– Adotta il logo contro l’ergastolo!!
– L’ergastolo e le farfalle
– Un fiore ai 47 corpi
– Aboliamo l’ergastolo
– Gli stati modificati della/nella reclusione
– Il cantore della prigionia
– Piccoli passi nel carcere di Santo Stefano, contro l’ergastolo
– La lettera scarlatta e la libertà condizionale
– Perpetuitè
– Il cerchio e la linea retta
– Con gli occhi di Luigi Settembrini
La Marina fa campagna per arruolamento: e c’è chi scrive la verità ;)

AMO!
La Marina Militare pensa bene di fare un po’ di pubblicità delle loro “grandi opere”
e la campagna di arruolamento quest’anno è dirompente e invade le nostre strade e città con cartelloni immensi:
VIENI IN MARINA, è scritto a caratteri cubitali sotto due fotografie.
Due volti, uno in divisa da cerimonia col classico berretto bianco e la baionetta ben in vista,
l’altra in versione da “missione”, con il volto mimetico e lo sguardo da marine!
D’altronde devono apparire belli e bravi, per tentar di riportare in “patria” i due Maro’ detenuti in India per l’assassinio gratuito di due pescatori…
devono salvare la faccia e dimostrare al mondo quanto so’ bbbelli.
Queste mie righe solo per ringraziare chi ha messo nero su bianco il pensiero di molti nel guardare questi enormi invadenti cartelloni
Vieni in Marina è mutato in “VIENI IN INDIA A SPARARE AI PESCATORI”.
Si legge ben visibile nella zona di San Paolo, a Roma… e non potevo non condividere con voi la gioia nel vedere queste immagini!
Leggi anche:
Uh Marò, che risate
Marò: latitanza autorizzata
Ancora, con il nostro pellegrinaggio libertario verso Santo Stefano
Anche quest’anno parteciperò al nostro annuale pellegrinaggio libertario,
anche quest’anno, tra una manciata di ore, attraverserò quel tratto di mare che ci ha rubato il cuore e che ha fatto nascere l’affiatato gruppo di “Liberi dall’ergastolo”, ormai una grande famiglia a cui è sconosciuto il concetto di privazioni.

Foto di Valentina Perniciaro _ i gironi di Santo Stefano_
Dovrei usare altre forme verbali però, visto la vita che strada ha preso dopo che ho lasciato quello scoglio, ormai un anno fa.
E’ cambiato tutto,
tutto è cambiato dentro me e attorno a me,
ora con l’ergastolo ho una dimestichezza nuova, ora l’ergastolo mi è entrato nella vita,
un ergastolo che ha conosciuto altre sbarre ed altre istituzioni, ma senza liberarsi della sua violenza.
Ho conosciuto l’ergastolo della malattia, della disabilità, ho conosciuto quell’ergastolo che segue quando sbeffeggi la morte e rimani in vita malgrado tutto:
ho conosciuto un dolore nuovo e lacerante, che toglie il respiro come le scudisciate che risuonavano nel cortile di Santo Stefano quando il detenuto da punire veniva messo al centro,
così che tutti potessero vedere e sentire con i propri organi la lacerazione della pelle, le urla del dolore, la rabbia della dominazione.
Al centro di quel panoptico, sotto le cinghie dei carcerieri ci son stata, ci sono ancora,
ci sto costruendo la vita di mio figlio, sto cercando di insegnargli (in realtà è lui che lo insegna a me) come conquistare e costruire una libertà in ogni piccolo movimento muscolare… quest’anno a Santo Stefano vestirò la casacca del carcerato,
ma proverò a farlo con un sorriso, con lo stesso sorriso che quel posto mi ha sempre donato.

ADOTTA IL LOGO CONTRO L’ERGASTOLO
Vengo a trovarti nuovamente Gaetano Bresci, e mai come questa volta voglio che mi insegni ad “uccidere un principio” più che un re!
Mi devi insegnare come hai fatto, mi devi dar la tua forza e la mano ferma per affrontar questo futuro privo di arti per correre leggeri,
da te quest’anno vengo per imparare, non solo per portarti il profumo dei fiori freschi.
Quest’anno per me sarà come la prima volta: poggerò il cuore in quelle 99 celle, sulla ruggine e il cemento che cade pezzo pezzo,
lo poggerò su quelle tombe, sulla terra che smuoverò per piantare nuove vite in un luogo che volevano di morte e redenzione.
SI SALPA SABATO 14 GIUGNO,
alle ore 12 dal porticciolo di Ventotene. Alcuni gommoni ci porteranno verso la Marunnell, selvaggio approdo di un’isola che volevano solo intrisa di dolore, ma che noi vogliamo terra di libertà, libertà contagiosa.
Contro l’ergastolo, come ogni anno,
porta un fiore al cimitero degli ergastolani.
Vi lascio i molti link prodotti in questi anni di “pellegrinaggio” in quel magico luogo:
– Adotta il logo contro l’ergastolo!!
– L’ergastolo e le farfalle
– Un fiore ai 47 corpi
– Aboliamo l’ergastolo
– Gli stati modificati della/nella reclusione
– Il cantore della prigionia
– Piccoli passi nel carcere di Santo Stefano, contro l’ergastolo
– La lettera scarlatta e la libertà condizionale
– Perpetuitè
– Il cerchio e la linea retta
– Con gli occhi di Luigi Settembrini
Prospero Gallinari, un anno fa
Prospero ci ha lasciati il 14 gennaio dello scorso anno,

Foto di Valentina Perniciaro : i funerali di Prospero Gallinari, Coviolo 2013
si è accasciato poco dopo esser uscito di casa e se ne è andato, quel rivoluzionario di altri tempi, di altri luoghi, di storie di cui la memoria collettiva sembra scordarsi, se non quando qualche deriva dietrologica o giustizialista li trascina fuori.
Non ci si ricorda della “brigata ospedaliera” che di lui si prese cura, non ci si ricorda di tante cose…
Prospero Gallinari, rivoluzionario, uomo del 900, contadino, uomo più unico che raro,
che come ultimo regalo ci ha donato i suoi funerali, che per ognuno di noi sono stati una grande emozione.
Chiunque ha calpestato quella neve, in quella fredda giornata di un gennaio emiliano, porta dentro di sè un calore raro,
il calore della “generazione più felice e più cara“, che noi abbiamo avuto solo modo di sfiorare,
di aspettar fuori dalle galere, di osservare invecchiare ed ora lentamente morire.
In un oblio che fa tanta rabbia.
Prospero ci ha fatti stare tutti insieme quel giorno, ha permesso un funerale non solo suo, ma anche di tutti gli altri, di tutti quelli che non hanno potuto ricevere lo stesso saluto, di quelli caduti sull’asfalto o lasciatisi morire penzoloni in una cella.
Quel giorno, tra i nostri canti stonati, li abbiamo urlati tutti i nomi di quelli che non avevamo mai potuto seppellire così, tutti insieme, cantando piangendo e ridendo: quel giorno abbiamo seppellito Mara e Walter, quel giorno Annamaria, come Riccardo o Ennio, come tanti e tanti altri sono stati seppelliti nel calore dei loro compagni, della loro storia.
Altri nomi sono stati urlati poi… i nomi degli assenti;
di tutti coloro che ancora scontano quegli anni sulla propria pelle e non possono spostarsi.
I detenuti come gli esuli, quel giorno eravamo tutti insieme.
Chi si è fatto fino all’ultimo giorno di carcere, chi ha rosicchiato libertà usufruendo della clemenza di Stato: quel giorno per un po’ si è stati tutti insieme, e la neve s’è sciolta d’emozione.
E allora grazie, che mi hai regalato un pezzettino di voi, anche a me, che vengo da un mondo altro.
Che fa pure un po’ schifo.
Un funerale che ha dato fastidio, almeno alla Procura di Bologna, forse a corto di lavoro interessante: ben 4 son le persone indagate per “istigazione a delinquere in concorso” per aver partecipato al funerale.
Un funerale, scambiato per terrorismo … pensa che risata ti sarai fatto.
CIAO GALLO!
Voglio lasciarvi con una carrellata di link, con i racconti di quei giorni, con del materiale su Prospero Gallinari…
tutte cose che ogni tanto fa bene rileggere…
Link
– A Prospero Gallinari volato via troppo presto
– Ciao Prospero
– Fine di UNA storia, LA storia continua
– Chi era Prospero Gallinari
– Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero
– In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
– Su Prospero Gallinari di Salvatore Ricciardi
– Prospero Gallinari, un uomo del 900
– Gallinari è morto in esecuzione pena. Dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
– Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
– Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
– “Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
– Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
– Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
– Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”
– “Volevo dirgli grazie per avermi fatto capire la storia di quegli anni”. Una testimonianza sui funerali di Prospero Gallinari
– Perché sono andato ai funerali di Prospero Gallianari by Stecca
– Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara
I Cie si devono chiudere: presidio a Ponte Galeria il 26 dicembre
Ieri ho pubblicato le foto delle labbra cucite, mentre avevamo appena letto della cattura di 5 di loro, per una probabile immediata deportazione che poi è avvenuta.
La protesta continua e continuerà fino alla riduzione in macerie di questi lager di Stato.
26 dicembre – Presidio davanti il CIE di Ponte Galeria (Roma)
Dal 21 dicembre, per fermare una deportazione di massa e protestare contro l’internamento, i detenuti del CIE (Centri di Identificazione e di Espulsione) di Ponte Galeria sono in sciopero della fame e 10 di loro hanno scelto di cucirsi le labbra come gesto estremo di protesta. Ieri, 23 dicembre, nonostante le condizioni di salute, almeno 5 ragazzi sono stati prelevati con violenza dalle celle e deportati in fretta: troppo clamore intorno al lager. Nelle stesse ore, dopo il rifiuto dello status da rifugiata, una donna rinchiusa nella sezione femminile tenta il suicidio impiccandosi, solo grazie all’intervento delle sue compagne di cella è ancora in vita. Poco dopo anche le altre donne aderiscono alla protesta: grida di rabbia e qualcosa prende anche fuoco. Circa 100 persone si trovano attualmente rinchiuse nelle gabbie del centro d’identificazione ed espulsione per migranti alle porte di Roma, il CIE di Ponte Galeria. Le condizioni brutali di prigionia nei lager per migranti continuano a sollecitare una tiepida indignazione collettiva cavalcata dai media, che diviene parte di un processo di normalizzazione e riforma del sistema di espulsioni forzate della Fortezza Europa. Spetta a noi qui fuori amplificare la lotta delle persone migranti e dimostrare che nessun@ è sol@ davanti l’oppressione dello Stato. Giovedì 26 dicembre, appuntamento davanti le mura del CIE di Ponte Galeria per un presidio solidale di due ore. Al fianco di chi lotta nei campi d’internamento etnico di Roma, Torino e Bari.
Appuntamento a Stazione Ostiense alle ore 16 per raggiungere insieme il presidio. Appuntamento davanti le mura del CIE alle 17 (stazione Fiera di Roma del treno per Fiumicino)
Tutte e tutti liber*
Chiudere tutti i CIE subito
Nemici e Nemiche delle frontiere
A Ponte Galeria ci si cuce la bocca: I CIE VANNO RIDOTTI IN MACERIE

Le bocche cucite a Ponte Galeria
In 60 in sciopero della fame, in 9 si chiudono la bocca.
Basta: l’orrore dei CIE deve finire, deve finire immediatamente in macerie.
Chiunque lavora lì dentro, chiunque collabora con cooperative che lì dentro lavorano, chiunque non si mobilita per la distruzione di questi posti è complice dell’abominio costante, compiuto su corpi colpevoli solo di aver scelto una strada,
di essersi mossi liberamente nel mondo, di scegliere altro.
Non esiste solo Lampedusa, i CIE sono nelle nostre città, ci passiamo davanti… e dobbiamo distruggerli.
AGGIORNAMENTI: Questa mattina, 23 dicembre, 5 dei 9 che si son cuciti le labbra sono stati prelevati con la forza dalle gabbie.
DOMENICA 26 DICEMBRE:
PRESIDIO A PONTE GALERIA, LEGGI

Ancora labbra cucite

C’è un CIE nella tua città: distruggilo anche tu!
Solidarietà ai NoTav: Roma scende in piazza il 14 dicembre
9 dicembre 2013, una nuova operazione repressiva a firma dei PM Padalino e Rinaudo, con varie perquisizioni e l’arresto a Torino di Chiara, Claudio, Niccolò (che era già detenuto alle Vallette) e a Milano di Mattia.
Le accuse, condite con l’aggravante di terrorismo (art. 280) riguardano un’azione contro il cantiere TAV in Clarea svoltasi nella notte tra il 13 e il 14 maggio.
Un attacco e un sabotaggio che avevano fatto infuriare il Partito del Tav e della Polizia, una possibilità concreta di inceppare la macchina del Terrorismo ad Alta Velocità che vogliono imporre in Val di Susa ed ovunque.
I No Tav hanno saputo rispondere bene, rifiutando ogni distinzione tra buoni e cattivi, assumendo la pratica del sabotaggio come storico strumento di lotta nella tradizione degli oppressi.
Le dichiarazioni del Ministro dell’interno sono esplicative: “Lo Stato c’è, ascolta e poi decide, lo Stato non si fa fermare”.
Sentiamo l’esigenza di dare una risposta forte e far vivere la solidarietà della Roma No Tav che ci ha fatto scendere in strada con determinazione e rabbia, intonando “si parte e si torna insieme”.
I No Tav ci sono, ascoltano e poi decidono, I No Tav non si fanno fermare.
Appuntamento Sabato 14 Dicembre ore 16 piazzale Tiburtino (San Lorenzo)
APPUNTAMENTO
FACCIAMO SENTIRE LA NOSTRA RABBIA
CHIARA CLAUDIO NICCOLO’ MATTIA LIBERI!
Roma NoTav
Per scrivere alla compagna e ai compagni in carcere:
Chiara Zenobi
Niccolò Blasi
Claudio Alberto
Mattia Zanotti
c/o Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”
Via Maria Adelaide Aglietta n. 35
10149 Torino
Ridateci Cecilia: ORA!
Acciuffare una donna come Cecilia non è cosa facile.
Infatti in forze son giunti sul suo corpo per privarlo della sua dirompente e contagiosa libertà.
Gli scagnozzi di Stato, sempre pronti a difendere sventolatori di celtiche, son riusciti ad arrestarla e in questo momento si starà dirigendo, in traduzione, verso il suo processo per direttissima, di cui dopo daremo aggiornamenti.
Certa che il tuo sorriso sarà tale anche in quella cella in cui sei sola,
certa che i tuoi diretti colpiranno con forza la privazione di libertà.
1.3.1.2.
DA INFOAUT:
A 48 ore dall’arresto non abbiamo ancora ricevuto aggiornamento sulla situazione penale di Cecilia.
L’avvocato Claudio Novaro ha potuto visitarla questa mattina: Cecilia sta bene, è in cella da sola. L’udienza sarà domani mattina e per sabato sera o domenica a pranzo dovremmo avere l’esito.
Di prassi il giudice per le indagini preliminari (gip) ha 96 ore di tempo per confermare o meno l’arresto. Non sappiamo se il sipario di silenzio che circonda il suo arresto prefigura una volontà punitiva di farla sostare il più a lungo possibile nelle patrie galere in assenza di prove considerevoli (mera e vigliacca vendetta della digos torinese e dei suoi Pm!).
Quel che è certo è che Cecilia rappresenta per la Questura torinese un bottino troppo ambito, ed è scoperta la volontà di farle pagare la sua determinazione e generosità in tutti gli appuntamenti di lotta – come mostrano bene alcuni passaggi del video di RepubblicaTorino che ri-postiamo qui sotto, deve si vedono ben 4 digos e un celerino avventarsi su di lei per assicurarne l’arresto!
Intanto, per chi volesse scriverle e comunicarle la solidarietà di cui ha bisogno in questo momento, questo è l’indirizzo:
Cecilia Stella
Casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno
Via Adelaide Aglietta, 35
10151 Torino (TO)
Il comunicato di solidarietà delle Cagne Sciolte:
Nella giornata di ieri, ancora una volta, lo stato ha aizzato le forze dell’ordine per difendere gli squadristi fascisti.
Questa volta è toccato alle studentesse e agli studenti dell’Università di Torino difendere il territorio che vivono nel quotidiano dalla retrograda e insulsa proaganda del fuan (so’ finiti gli anni ’70!!!).
Numerose le cariche della celere sulle centinaia di studentesse e studenti che a Palazzo Nuovo protestavano contro la presenza dei fascisti. Cariche che si sono tramutate in vera e propria caccia alle persone, fin dentro le aule universitarie. Diversi i feriti, due sono in ospedale per le gravi ferite riportate.
Durante una delle cariche un compagno, Carlos, e una compagna, Cecilia, sono stat* fermati, portati in questura, tramutando poi il fermo in arresto per Cecilia.
Alcune di noi lottano a fianco di Cecilia nelle numerose battaglie per una vita degna e libera, riconoscendo in lei la determinazione e il coraggio di ognuna di noi.Massima solidarietà a Cecilia e a tutte le detenute del carcere torinese delle Vallette, che proprio ieri hanno annunciato una giornata di protesta contro il sistema carcerario.
Cecilia libera subito!
Nessuno spazio ai fascisti in divisa e non.
Tutte libere
Tutti liberi
Delle galere solo macerie!Cagne Sciolte.
Una lettera dalle Vallette racconta il carcere di oggi. Femminile.
Purtroppo nulla di quel che ho letto in queste righe mi ha stupito.
Chi conosce il pianeta carcere, chi con lui ha la familiarità e l’odio del caso sa perfettamente che quel che raccontano queste righe è normale amministrazione, è il carcere di oggi, quello che azzitta e separa, quello dove non esiste lotta ed organizzazione,
quello dove l’abuso è tra i più squallidi e il controllo farmacologico pane quotidiano.

Carcere di Rebibbia…
Mi piacerebbe lo leggessero tutte coloro che si sono addannate per trovare delle scarpette rosse, due giorni fa.
Stralci di una lettera dalle Vallette.
04/11/2013
(…) Mi trovo tutt’oggi ancora ai Nuovi Giunti. Sono stata trasferita il 22 luglio. Io come altre detenute, siamo al livello di non ritorno dalla quasi pazzia. In teoria nei Nuovi Giunti puoi starci massimo 15 giorni.
Dopo svariati mesi da una petizione siamo riuscite a ottenere uno sgabello per cella, poter fare l’aria a uno stesso orario, e non come pecore da pascolo, o tappa-buchi quando le altre sezioni non scendono. Questo era un disagio non da poco. Una mattina alle 9, il giorno dopo alle 11 come veniva comodo a loro e quell’ora d’aria diventava una corsa per poter essere pronte all’improvviso. Questa situazione è da sempre insostenibile. Due ore d’aria e ventidue chiuse senza la possibilità di fare un’attività ricreativa. C’è una bellissima palestra inagibile. Abbiamo ottenuto di poter usufruire della doccia dalle 9 alle 11, orario in cui devi essere già pronta per la così sospirata ora d’aria. Alle 11 passa il vitto. Bene noi al nostro ritorno dall’aria alle 12 abbiamo nei piatti qualcosa di commestibile, di cui non si capisce la fattispecie, messa a giacere per un’ora fino al nostro ritorno in cella. Prima cosa non mi sembra molto corretto e igienico che io debba avere il vitto per un’ora dentro la cella senza neppur vedere cosa mi ci si mette dentro. Io personalmente ho un piccolo aiuto dall’esterno e vado avanti da più di tre mesi a yogurt e frutta. Ma chi non ha la possibilità di fare quel minimo di spesa si fa coraggio chiude gli occhi e butta giù. Le mie compagne mangiano degli alimenti con corpi estranei all’interno!
Poi c’è il lusso della doccia dalle 13 alle 15. Alle 15 bisogna essere pronte per l’aria. Quindi in una sezione dove ora siamo 25, ma spesso si è in 50, con 2 docce funzionanti e un lavabo bisogna fare coincidere tutto. Voglio puntualizzare che nelle celle non c’è proprio la predisposizione per l’acqua calda a differenza delle docce dove c’è un termostato per la temperatura a piacimento loro. Quello che potrebbe essere un piccolo ritaglio di relax diventa una vera e propria tortura per molte, direi quasi tutte. La temperatura priva di calore rende insostenibile il nostro livello di stabilità. Io personalmente faccio comunque la doccia seppur con la speranza che non mi si geli il cervello. Ma le mie compagne sono tutte comunque di un’età sulla cinquantina anche oltre puoi capire il loro disagio e impossibilità di lavarsi dignitosamente: si prendono a secchiate a vicenda prendendo l’acqua dal lavabo della doccia che è per lo meno tiepida. Potrebbero chiamarsi problematiche sorvolabili invece queste condizioni imposte rendono la nostra permanenza e sopravvivenza insostenibili a un minimo tenore dignitoso. Ho deciso di scrivere questa parte di lettera di sfogo perché vedo crollare la stabilità delle compagne sotto ai miei occhi! E mi sto quasi sentendo impotente a poter solo tendergli la mano.
Ci sono detenute che andrebbero spostate in centri che possano aiutarle e non essere imbottite di terapia per non disturbare la quiete delle lavoranti “agenti-assistenti” con il continuo urlo straziante per il loro malessere psicologico con “invalidità al 100% neurologica”. Sono già state in diverse strutture OPG ma ora giacciono qui nei Nuovi Giunti. Io non mi permetto di chiudere la bocca a nessuno. Così per non sentire queste urla assordanti ho praticamente un trapianto di cuffie alle orecchie.
Ho preso realmente coscienza che bisogna fare uscire al di fuori da queste mura la realtà vera, cruda delle carceri italiane. Perché lottando sole facciamo solo numero. Così da questa sera a un mese ognuna di noi farà da passaparola per fare girare la voce nelle carceri italiane. Il 4|12 alle ore 16 faremo una battitura. Nel giro di un mese credo che il passaparola sarà arrivato in tutte le carcere e chi ha la possibilità di mandarci giornalisti al di fuori di queste strutture da degrado, aiuterà a fare uscire oltre queste infinite sbarre il nostro grido di aiuto. Se una persona lotta da sola, resta solo un sogno, quando si lotta assieme la realtà cambia. Qualcuno dovrà pure darci ascolto!
Siamo ancora prive di un contatto con il mondo esterno, prive di tv che potrebbe aiutare a distogliere la mente dai nostri pensieri. La posta potrebbe essere un po’ di zucchero per i nostri cuori ma anche lì abbiamo il lusso che ci venga consegnata “dal martedì al venerdì”, forse non avendo contatti con il mondo esterno non siamo a conoscenza che le poste italiane ora lavorano solo quei giorni. Ma non credo sia così. Dopo un mese dal mio trasferimento a questo penitenziario nuova disposizione: tutta la posta deve essere registrata al computer “quando ne hanno tempo”. Altrimenti come oggi seppur lunedì la posta vista da altre detenute non c’è stata consegnata. In prima sezione hanno fatto la battitura, noi nuovi giunti all’aria ci mettiamo sul piede di guerra: minacciamo di non risalire dall’aria. Così per azzittirci la nostra dignitosa ispettrice ci viene a dire che stanno registrando la posta. A chiacchiere: niente posta. Io personalmente una raccomandata l’ho firmata dopo 9 giorni dal suo arrivo!
Non veniamo rifornite di niente: generi di prima necessità per l’igiene persona e quant’altro. Solo al nostro arrivo un rotolo di carta igienica, due piatti e due posate di plastica, uno spazzolino e un dentifricio con saponetta. Poi dopo aver dormito senza lenzuola coperte e cuscino se sei fortunato entro un paio di giorni dal tuo arrivo puoi ottenerle e poi niente più. E, mi ripeto, chi non ha un piccolo aiuto dall’esterno economico è privo di tutto. Non viene rifornito neppure dalla carta igienica. Ma per fortuna c’è la domenica di mezzo. Ci viene data gentilmente in regalo Famiglia Cristiana e molti giornali. E molte hanno trovato rimedio a scopo carta.
Scrivo terra-terra sdrammatizzando ma siamo nel tunnel degli orrori. Prendendo atto di ciò che è accaduto il 31 ottobre ora do il libero sfogo. Abbiamo sollecitato più volte le assistenti di sezione di tenere sotto osservazione una nostra compagna da giorni in uno stato confusionale e, preoccupate per questa visibile instabilità, abbiamo solo richiesto che venisse applicato il loro ruolo: controllarci. Bene se questo fosse stato fatto con i tempi giusti oggi non ci si troverebbe in questa condizione. Bene siamo scese all’aria alle 15 e al nostro ritorno dopo più di un’ora che eravamo rientrate notiamo un’allarmante via vai di assistenti nella cella di questa nostra compagna. L’hanno trovata priva di sensi con entrambe le braccia tagliate da ferite importanti tanto da procurarsi la sutura di 19 punti al braccio sinistro e 24 al quella destro. Ovviamente mentre era in infermeria viene fatto il cambio cella per essere poi piantonata. “Ovviamente”. Tutto ciò poteva essere evitato ascoltando le sue ragioni. Non volevano consegnarle la spesa della sua concellina uscita liberamente, che aveva fatto tanto di domandina per lasciare la sua spesa a lei. Domandina vista da vari assistenti e poi credo cestinata. Questa è stata la goccia che ha interrotto quel filo sottile della sua stabilità già offuscata. Anche qui sarebbe bastato ascoltare e controllare prima che succedesse l’accaduto.
Malgrado piantonata, la stessa notte per la seconda volta ci è andata troppo vicina: si stava soffocando con la sua maglia, e per ritardare l’accesso alla sua cella di piantonamento ha tirato su la branda facendola incastrare nelle sbarre del blindo. Allora tiriamo fuori la realtà, la verità. Non credo che bisogna aspettare che uno sia sottoterra. Questo va ben oltre. Ieri è andata bene, se così si può dire, facciamo qualcosa. Aiutateci. Aiutiamo queste donne, figlie, madri.
Per finire in bellezza la stessa notte una compagna si sente male. Soffre di gastrite nervosa. Mi dirai che non è una patologia così allarmante, sì se solo non soffrisse di problemi cardiocircolatori. Ha già avuto un arresto cardiaco provocato da questi attacchi. Continuano a farle flebo e punture di “Contramal” per alleviare il suo dolore. Ma in sostanza con i problemi che ha aggrava solo le sue condizioni. Portandola tra le mie braccia di peso sino in infermeria è passata più di un’ora e mezza per fare intervenire la guardia medica.
Bene. Io sono allibita da tutto ciò. Ma non smetterò di combattere per me e le mie compagne, il nostro grido di dolore è assordante ma non ci sente nessuno. La guardasigilli Cancellieri si sta muovendo per noi? Per la popolazione carceraria? Ma deve aiutare noi tutte, detenute dal degrado.
Un grido di aiuto e un affettuoso saluto le detenute seconda sezione Nuovi Giunti.
M.
Seguono le firme di 22 detenute
Sonja Suder e la libertà, FINALMENTE!
Una bella notizia dopo settimane di gelo.
Assaporo un po’ di libertà, ormai lontana sconosciuta, attraverso le foto del tuo volto finalmente libero.
Sono felice Sonja,

Splendida! Sonja Suder, 12 novembre 2013
Grazie a quelle immagini viste quasi per caso; nella mia nuova vita fuori dal mondo, dove lo schermo del computer è mutato in altro tipo di monitor,
dove il wi-fi è stato sostituito da milioni di cavi e tubi e fili e cavi, che circondano corpi per legarli a monitor, macchine, aghi (corpi piccolissimi)…
grazie a quelle tue rughe impegnate in un sorriso ho vissuto qualche istante di felicità intensa.
SEI LIBERA!
Posso pensare che a breve sentirò il tuo abbraccio, fortissimo e vibrante che tanto mi aveva colpito.
Mi hai parlato subito come una sorella, hai pianto tra le mie braccia chiedendomi di portare la carrellata di emozioni che mi passavi al di là del confine, sulle labbra di un uomo che aveva finito il suo esilio tra le sbarre, nuovamente.
E’ toccato a te poco dopo, in un arresto surreale che ci ha lasciati tutti basiti, non solo per la follia giudiziaria ma anche per la tua età (ora sono 81), e quella di Christian.

Tra i tuoi compagni…
Sei libera cavolo, la montatura si è sbriciolata, la libertà è di nuovo infilata tra le pieghe del tuo viso.
Qui, anche se la felicità non sappiamo più da che lettere è composta, sentiamo il brivido di chi sa che tra un po’ ci si riabbraccia tutti.
Alla faccia dei confini, delle galere, dei tribunali …
Qui un po’ di link sulla storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione
Mobilitazione internazionale per Sonja Suder: LA VOGLIAMO LIBERA!
Ho seguito la loro vicenda dal primo istante,
e non solo perché ho lo sguardo e il sorriso di questi due compagni ancora nel cuore,
non solo perché ricordo il vino bevuto assieme attorno ad un tavolo di rifugiati che lottava per bloccare la loro imminente estradizione. Una battaglia andata male, perché poche settimane dopo son stati catturati,

Manifesto ad Amburgo: “_Oggi come allora – mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l’accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _”
malgrado gli 80 anni di Sonja (ora sono 81) e le non buone condizioni di salute di Christian, che infatti ha avuto un arresto cardiaco poco dopo il suo arresto.
Scopro solo ora, provbabilmente con infinito ritardo (come tutto in questi giorni) di questa mobilitazione internazionale per loro, e soprattutto per la liberazione IMMEDIATA di Sonja.
Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione
14 Settembre 2013 – Mobilitiamoci ovunque per protestare contro la legittimazione della tortura nel processo a Sonja Suder e per la sua liberazione.
Il 14 Settembre 2011, Sonja ed il suo amico Christian sono stati estradati dalla Francia e consegnati agli sbirri tedeschi per poi essere incarcerati. Christian è stato liberato, ma Sonja resta ancora dentro.
Hanno lasciato la Germania nel 1978 quando, dopo una dura repressione contro i movimenti rivoluzionari, ogni persona coinvolta nelle proteste radicali doveva temere di essere il bersaglio della vendetta di stato.Per due anni, Sonja è rimasta in custodia nella prigione di alta sicurezza di Francoforte-Preungesheim; per un anno è stata sotto processo in base a due testimonianze: una di un pentito e l’altra fornita sotto tortura nel 1978 da un uomo sospettato di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Se il pentito (infame) Hans-Joachim Klein ha testimoniato senza vergogna nel tribunale di Francoforte dando l’ennesima versione piena di contraddizioni (che comunque il giudice crede di accettare), Hermann F., al contrario, ha sempre contestato il contenuto della sua testimonianza: ciò che ha detto fu solo il risultato di quattro mesi di torture al di fuori di ogni procedura legale.
Dopo un gravissimo incidente venne interrogato poco dopo l’amputazione delle gambe e l’essere rimasto totalmente cieco. Dolore, trauma, droghe, isolamento, confusione, disorientamento lo hanno costretto a riempire 1300 pagine di dichiarazioni forzate. Detenuto illegalmente in una stazione di polizia senza contattare un avvocato, senza aiuto, in oltre cieco e gravemente invalido, ciò che ha subito può essere definito solo tortura.
Il 13 Agosto 2013, il tribunale di Francoforte ha iniziato la lettura di queste testimonianze date da Hermann nel 1978. La lettura continuerà nelle prossime udienze. L’ottantenne Sonja, dopo più di 35 anni dai fatti che le vengono contestati, potrebbe essere condannata in base a delle dichiarazioni il cui uso significa legittimare legalmente la tortura
poliziesca.Sonja è stata accusata dalla polizia e dalla giustizia tedesca fin dalla fine degli anni 70. Sospettata di aver fatto parte delle Cellule Rivoluzionarie, il suo processo riguarda tre attacchi che hanno causato solo limitati danni materiali nel 1977 e 1978: Contro M.A.N. che contribuiva all’armamento atomico per il Sud Africa (durante l’apartheid), contro KSB che costruiva impianti per le centrali nucleari; contro il castello Heidelberg per protestare contro la gentrificazione; è inoltre sospettata di aver preso parte all’organizzazione logistica dell’attacco al OPEC a Vienna nel 1975.
Oggi, tenendola sotto processo e prigioniera, la minaccia di farla morire in carcere, lo stato federale non mira solo a Sonja. Lo stato vuole vendicarsi di una storia rivoluzionaria e far capire alla gente che non si protesta impunemente.
La condanna di Sonja sarà la condanna alla ribellione: rifiutandosi di collaborare e parlare lei continua ad accusare lo stato e il suo carnevale giuridico. La prigionia di Sonja sarà uno spauracchio usato per spaventare tutti quelli che lottano oggi. Non è una donna ottantenne il bersaglio della vendetta, lo sono tutti quelli che, come lei, non vogliono sottomettersi.Sonja deve tornare libera! Per una mobilitazione internazionale il 14 Settembre 2013!
La luna non è dei carcerieri!
Come te la racconto la luna?
E le stelle che cadono? Quanti anni sono che non ne vedi una?
Abbiamo conquistato la notte, l’abbiamo conquistata a morsi senza aver nemmeno il tempo di respirare,
ed ora che riusciamo minimamente a guardarci indietro scopriamo un passato lungo,
stretto stretto anche se diviso,

Dalle pagine di Walter Siti, fotografate da Maysa
che c’ha permesso di non dimenticarla, di viverla insieme comunque, anche se lo Stato non voleva.
E non vuole ancora. Fa di tutto per convincerci che non esiste più, che è proprietà dei vincitori, che loro ne dispongono la luce e la vista.
Perchè le nuvole che corrono al buio, le stelle che si rincorrono nei cieli estivi, i temporali che improvvisamente spazzano via tutto: ancora niente di tutto ciò ci è concesso.
Così la luna rimane là, ci osserva sorniona senza potersi far abbracciare, ci guarda malinconica sapendo che arriveremo,
ci aiuta ogni notte a spernacchiare uno Stato che pensa di vendicarsi così,
tenendo fino all’ultimo il tuo corpo per sè, cercando di appropriarsene, invano.
Ma poveracci i tuoi carcerieri,
i magistrati, i secondini, i direttori di sbarre: pensa a quante lune hanno avuto, libere, a disposizione,
nel tronfio esser convinti che lei stia lì per loro.
Non sanno che lei ha un cuore immenso ma libertario, non sanno che la luna è dalla parte di chi strappa la vita alle sbarre, non sanno che è nostra, che ogni notte in tutti questi anni ha dormito accanto a te e ai tuoi compagni.
Che quella che vediamo è come il cuscino sotto al lenzuolo che cerca di fingersi corpo,
mentre il corpo è scappato altrove:
quella che vedono i carcerieri non è una luna, è una grande pernacchia, è la finzione di se stessa,
perchè non vi vuole.
LA LUNA E’ CON NOI, CON CHI LA LIBERTA’ L’HA DENTRO,
CON CHI EVADE, CON CHI NON CREDE AI CONFINI, CON CHI SA AMARE.
Testi sul carcere: QUI
Adotta il logo per l’abolizione dell’ergastolo: QUI
Testi sull’ergastolo: QUI
Il manifesto per l’amnistia sociale: LEGGI e spamma
L’accanimento su Paolo Persichetti: QUI
Migranti in rivolta nei CIE di tutta Italia: buona libertà a chi è riuscito a fuggire
Una detenzione non giustificabile, quella dei migranti all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione:
corpi prigionieri senza aver commesso reato alcuno.
Corpi privati della libertà perché hanno osato muoversi, scavalcare frontiere, varcare mari spesso letali.
Nessun reato gli è contestato se non quello di esistere in quanto fantasmi del pianeta, considerati dalla legislazione internazionale meno di un numero di matricola, privi anche di quei diritti minimi che hanno conquistato a fatica i detenuti reclusi nelle normali carceri italiane.
Nessun reato: ma un presente e un futuro non breve in un lager, che altro modo di definire i CIE non esiste.
Dannati della terra che si ribellano, dannati della terra che spesso son stati qui decenni, che hanno messo al mondo figli nati qui, che hanno lavorato, sono stati sfruttati dal primo all’ultimo giorno in posti di lavoro che non sembrano aver fretta di adeguarsi alla “legalità” di cui tanto si riempiono la bocca.
Nelle ultime ore è stata una rivolta dietro l’altra: il desiderio di riconquistare una libertà smarrita senza nemmeno capirne il motivo permette focolai di rivolta continui.
Torino, Trapani, Caltanissetta, Modena: il grido di libertà alza la testa.
A Trapani sono 4 i reclusi che son riusciti a darsi alla macchia, riabbracciando la libertà,
con la gioia di chi la strappa a morsi, senza nulla da perdere e con tutto da conquistare.
Che la vostra fuga non abbia fine.
CHIUDERE I C.I.E.
ORA!
[per altro materiale sui CIE: qui]
I passi dei detenuti: il cerchio e la linea retta

Vincent Van Gogh _ la ronda dei carcerati_
Rinchiusi in prigione si lasciano morire: così viene detto dei Masai, dei Fulani, degli Aborigeni australiani ed anche di certe altre popolazioni amerinde ed esquimesi.
Vivendo pienamente nel presente, i membri di queste etnie, non appena reclusi, immaginerebbero che tutti i giorni a venire saranno nient’altro che una ripetizione del giorno che li sta facendo soffrire. E quest’idea insopportabile li stroncherebbe spingendoli alla morte.
Proviamo a punteggiare in altro modo. Perché non dire, ad esempio, che per una creatura felicemente integrata col suo ecosistema, la recisione dei legami relazionali con l’ambiente è condizione più che sufficiente per morire?
In tal caso non sarebbero i Masai, i Fulani, gli Aborigeni, gli amerindi o gli esquimesi a non sapersi adattare alla prigione poiché incapaci di ristrutturare le loro rappresentazioni del tempo. Sarebbe invece proprio la prigione che non si adatta a loro, alla loro vita e alla loro cultura.
Ed allora l’accento potrebbe essere spostato dalla “incapacità a vivere recluse”, attribuita a queste popolazioni, alla scelta di chi le reclude come scelta omicida.
Era stato appena arrestato. Di fronte alla porta blindata della sua cella, quella di un passeggio.
Dal buco dello spioncino riusciva a scorgere i reclusi che lo popolavano: tutti in isolamento, come lui.
Non sapeva spiegarsi perché alcuni camminassero in modo da descrivere un cerchio, mentre altri sempre e solo tracciando una linea:
avanti e indietro, come movimento macchinico, gli occhi puntati a terra e la testa china.
Anni dopo comprese: quelli che descrivevano un cerchio erano “dentro” per la prima volta.
Ecco: smettere di “circolare” è il primo modo in cui la reclusione entra nella carne.
Ma essere “tolto dalla circolazione” sarà mai l’inizio della retta via?
— Entrambi i testi son tratti da “IL BOSCO DI BISTORCO”, di Curcio, Petrelli e Valentino
PERCHE’ L’ERGASTOLO NON E’ UNA PENA ACCETTABILE,
PERCHE’ NON ESISTA PIU’ IL FINE PENA MAI, L’ISOLAMENTO, E IL CONCETTO STESSO DI RECLUSIONE.
Testi sull’ergastolo:
– Adotta il logo contro l’ergastolo!!
– L’ergastolo e le farfalle
– Un fiore ai 47 corpi
– Aboliamo l’ergastolo
– Gli stati modificati della/nella reclusione
– Il cantore della prigionia
– Piccoli passi nel carcere di Santo Stefano, contro l’ergastolo
– La lettera scarlatta e la libertà condizionale
– Perpetuitè
Iniziativa a Milano il 27 Maggio: Qui le info

http://liberidall’ergastolo.wordpress.com : vai sul sito e adotta il logo!
Per ricordare Prospero Gallinari, un’iniziativa a Roma
Il 14 gennaio, a Reggio Emilia, moriva Prospero Gallinari. La sua scomparsa ha suscitato profonda
impressione nella sinistra antagonista, perché la coerenza etica e la trasparenza politica
della sua vicenda umana erano note a tutti, e avevano conquistato il rispetto delle vecchie e
delle nuove generazioni. Ciononostante, l’imbarazzo delle classi dominanti verso questa ondata
spontanea di cordoglio, si è presto mutato in aperto fastidio. Le polemiche seguite al funerale
di Coviolo hanno parso confermare che in Italia non solo la riflessione sulla storia, ma
nemmeno i sentimenti collettivi possono esprimersi in libertà.
Per questi motivi, abbiamo pensato di costruire una nuova occasione di ricordo per Prospero
Gallinari. Abbiamo pensato che presentare il suo libro, ascoltare le sue parole, ragionare sulla
sua vita, possa costituire non solo un contributo alla memoria delle classi subalterne, ma anche,
e semplicemente, un atto politico di libertà.
Si tratta di dire basta all’appetito insaziabile della storia dei vincitori. E di riconsegnare a ciascuno
di noi l’autonomia dei giudizi, contro i ricatti che comprimono i ricordi e le speranze,
inquinando le immagini e i pensieri.
Pasquale Abatangelo, Renato Arreni, Paolo Cassetta, Geraldina Colotti, Natalia Ligas, Maurizio
Locusta, Remo Pancelli, Bruno Seghetti

Foto di Valentina Perniciaro _Il funerale di Prospero_
Mercoledì 27 marzo alle 17:30
il Festival di Storia del Nuovo Cinema Palazzo
presenta il libro di Prospero Gallinari:
Un contadino nella metropoli.
Ricordi di un militante delle Brigate Rosse (Bompiani 2006).

Fotografia di Stefano Montesi
Letture, proiezione di inediti, ricordi e riflessioni
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Partiamo dall’analisi dell’autobiografia di Prospero Gallinari per cominciare a ragionare sull’autobiografia come fonte. Una serie di analisi condotte sui testi autobiografici di persone che, a vario titolo, hanno caratterizzato il Novecento: storici, scrittori, politici e militanti in organizzazioni armate, Brigate rosse in particolare. Questa breve carrellata, rende già evidenti le differenze sottese a ciascuna autobiografia, specchio di diverse esperienze di vita. Un primo elemento di analisi applicabile a tutti i testi e, attinente in realtà al genere autobiografico in generale, è il problema della memoria.
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«Un’origine, un percorso, una storia: quelli della mia vita. Superati i cinquant’anni, un viaggio nel proprio passato è anche un attraversamento di ricordi. Ricordi personali che però si intrecciano, si mischiano e spesso si confondono con fatti e avvenimenti che hanno avuto un peso nella vita collettiva. Di qui un problema? Usare il senno di poi? Raccontare attingendo a critiche, autocritiche, scomuniche, valutazioni o giudizi maturati a posteriori? Ho scelto un’altra strada».
«Ricordi personali – scrive Gallinari analizzando i contenuti della propria autobiografia – che però si intrecciano, si mischiano e spesso si confondono con fatti e avvenimenti che hanno avuto un peso nella vita collettiva. «Di qui un problema? Usare il senno di poi? Raccontare attingendo a critiche,
autocritiche, scomuniche, valutazioni o giudizi maturati a posteriori? Ho scelto un’altra strada. Quella di far riemergere il filo dei pensieri e degli atti compiuti nel modo in cui, effettivamente questi hanno attraversato e poi portato ad agire di conseguenza».
Intervengono:
– Marco Clementi, storico;
– Erri De Luca, scrittore;
– Valerio Evangelisti, scrittore;
– Sante Notarnicola, scrittore;
– Caterina Calia, avvocato.
UN PO’ DI LINK:
La cerimonia di saluto
Il funerale che andava fatto!
Tutti a Coviolo per salutare Prospero Gallinari la cerimonia si terrà domani 19 gennaio alle-14-30
Ciao Prospero
In diretta da Coviolo immagini e parole della cerimonia di saluto a Prospero Gallinari/1
In diretta da Coviolo in migliaia per salutare Prospero Gallinari/2
La diretta twitter dai funerali
Ciao Prospero
Gli assenti
Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”
Fine di UNA storia, LA storia continua
Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero
Testimonianze
In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara
Su Prospero Gallinari
Gallinari e il funerale che andava fatto anche per gli altri
La storia
Quadruppani – Mort d’un combattant
Bianconi – I parenti delle vittime convocati via posta per perdonare Gallinari
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
Gallinari è morto in esecuzione pena dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari un uomo del 900
Chi era Prospero Gallinari?
Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
Gallinari, Gotor e le lettere di Moro
Caselli Prospero Gallinari e i cattivi maestri
In risposta a Caselli su Gallinari
Uh Maro’, che risate!
Praticamente prelevati con la forza, che poverini non se l’aspettavano.
“Le famiglie passano dall’euforia allo sconcerto”, uh poverini: la latitanza autorizzata direttamente dal Ministro Terzi per i due Marò, unici accusati dell’omicidio di due pescatori indiani, è terminata.
Sono in volo verso l’India, per rientrare in una prigionia che probabilmente non sarà comoda, protetta e ricca di permessi premio come era stata fino alla loro fuga,
su tappeto rosso ministeriale.
una figura di merda colossale, quasi da scompisciarsi dalle risate:
“Hanno ricevuto garanzie dal governo indiano”, come se prima non ce ne fossero state, visti i due permessi premio in Italia (uno per festeggiare il Natale in famiglia (!!) e l’altro per votare),
come se avessero passato il loro periodo di detenzione come dei cittadini indiani,
come se non ci fossero già state tutte le garanzie possibile, quelle che sull’attenti scattano immediatamente quando alla sbarra degli imputati siedono, o rischiano di sedersi, degli uomini in divisa,
anfibi e fucile.
L’ambasciatore italiano in India, colui che di suo pugno aveva firmato la promessa di rientro dopo la licenza premio per permettere il voto (ma non potevano vota’ come tutti gli italiani all’estero????) e che quindi ora si trovava privo della sua immunità e del suo passaporto, è tornato libero.
Loro in volo, verso cella e tribunale.
Terzi non si dimette eh, sia mai:
d’altronde non l’ha votato mai nessuno, è stato messo lì in quanto “tecnico” bravo bravo esperto esperto,
ha fatto una delle più colossali figure di merda della storia della diplomazia internazionale,
ma no, non si dimette. Che siete matti?!
Anzi, nel leggere le sue dichiarazioni sembra sia stato proprio un genio della diplomazia, un gioco delle tre carte che avrebbe permesso di strappare condizioni ottime, ampie assicurazioni. *
I giornali nel frattempo ci raccontano che ci son volute più di 5 ore a convincere i du’ soldatini a salire a bordo,
eh sì, il “torni a bordo, cazzo” continua a esser presente sulle nostre cronache.
Tanto inchiostro ci racconta il dolore e lo strazio di mogli e figli,
senza vergogna alcuna. Furente (!!!) il sindaco di Bari, tengono a dirci
Hanno moglie e figli, mariti e figlie, anche i quasi 70.000 detenuti nelle carceri italiane (senza diritto di voto in buona parte),
quelli per cui nessuno chiede “garanzie”, ammassati disumanamente e di cui una percentuale vomitevole in attesa di giudizio,
o in carcere per qualche furto, o smercio di sostanze stupefacenti.
Chi può provare ad accedere alle misure alternative, alle licenze premio, sono pochi, pochissimi,
un numero praticamente insignificante.
Insomma, non 70.000 persone che hanno scaricato l’intero caricatore dei loro supermegafantastici fucili,
contro due lavoratori in mezzo al mare.
Abbiate almeno il coraggio di vergognarvi un po’.
* ORE 12.30: LEGGO CHE “I militari risiederanno nell’ambasciata italiana a New Delhi. “‘
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Hai capito questi, quando parlano di garanzie tocca fidarsi. Niente sbarre, niente cemento,
avranno anche le famiglie accanto quando lo desiderano.
Un paese proprio libertario st’India: mortaccidetutti
Abbattiamo le carceri, a partire da quelle per minori! 14 aprile TUTT@ A CASAL DEL MARMO
Un’iniziativa importantissima, bella, che mi rende felice.
Perché anche chi si occupa di carcere, chi si adopera per organizzare iniziative fuori le maledette mura che privano della libertà donne e uomini, spesso ci si dimentica delle carceri minorili,
come degli altri centri di privazione di libertà che possono essere i CIE, gli ospedali psichiatrici giudiziari e certi tipi di “case di cura”.
Istituzioni totali, già: quelle che ci abituano a pensare “sempre esistite”, quando non è così,
quelle che nell’immaginario che ci costruiscono davanti e dentro dalla nascita sembrano immutabili ed eterne, ma che in realtà hanno una storia breve, che possiamo collegare alla proprietà privata dei mezzi di produzione, e alla successiva necessità di mostrificare, denigrare e quindi internare alcune figure sociali davanti ad un cambiamento della struttura economica della società.
Ora viviamo nella società della “sicurezza”, del panpenalismo che tutto fagocita, soprattutto la capacità di molti di comprendere i meccanismi dell’abolizionismo, quelli capaci di minare il dispositivo dell’internamento, del controllo, quindi del concetto di “sicurezza” e “rieducazione”.
Penso sempre all’isolotto di Santo Stefano, primo vero carcere d’Italia costruito dai Borboni nel lontano 1796 e in funzione fino al vicinissimo 1965. Ci penso perchè scesi alla Marinella, da barchini traballanti, appena iniziata la salita verso l’ergastulum, i detenuti si trovavano davanti questa scritta scolpita su roccia:
“Fintanto che la santa giustizia tiene tanti mostri di scelleratezza in catene sta salda la tua proprietà, rimane protetta la tua casa”
… erano avanti, il mito della sicurezza, effimero carceriere del presente, si faceva largo, tra i rumori di catene e cancelli e il canto dei gabbiani che osservavano liberi.
Marò: latitanza autorizzata dal Ministro in persona!
Che se non provassi un senso di repellenza totale ne avrei scritto da tempo,
perché sarebbe da sottolineare mille cose sulla storia dei Marò,
sarebbe da archiviare e riportare continuamene tonnellate di dichiarazioni (a partire dal presidente della Repubblica, Napolitano) in difesa di due fucilieri della Marina,
assassini di pescatori indiani, categoria umana che a quanto pare non rientra in quelle prese in considerazione non solo dalle forze armate di questo paese,
ma anche da quelle politiche.
Ora la provocazione totale, che sinceramente non mi lascia di stucco, anzi era più che prevedibile:il ministro Terzi (ministro scelto da non so chi per altro) ha dichiarato poco fa che
NO, i nostri bravi ragazzi dalla mira ineccepibile non tornano in cella.
No no, la licenza di un mese per votare (son lentissimi a votare i Marò, voi ci mettete meno di cinque minuti loro ben quattro settimane) si trasforma in una latitanza legalizzata:
in India non ci tornano, se ne fottono proprio.
Eppure proprio Terzi poche settimane fa aveva detto che la concessione di questa seconda licenza premio (poverini i due traumatizzatissimi assassini avevano anche passato Natale in casa, cosa non concessa a 70.000 detenuti nelle carceri italiane che vivono anche in 12 a cella) era uno “sviluppo molto positivo che consentirà ai nostri due ragazzi di esercitare il loro diritto di voto e di trascorrere quattro settimane con i loro familiari in Italia, ma anche perchè la decisione di oggi conferma il clima di fiducia e collaborazione con le autorità indiane e lascia ben sperare per un positivo esito della vicenda».
E invece pernacchie,
pernacchie italiane ai pescatori morti ammazzati,
alla giustizia indiana, ai rapporti internazionali, alle promesse di Stato:
NOI GARANTIAMO L’IMPUNITA’ A CHIUNQUE INDOSSI UNA DIVISA E IMBRACCI UN ARMA,
è la sola cosa chiara di questa vicenda.
Siamo un paese di assassini, di sbirri soldati marinati piloti ministri ASSASSINI
A Giorgio Frau, da Oreste
In morte di Giorgio Frau, di Oreste Scalzone
Succede ormai, sempre più spesso – cadenza accelerata di un addìo dopo l’altro, un mondo che ogni volta finisce, « gli occhî d’un uomo che muore ».
Ogni morte è una fine-di-mondo, fine del mondo in senso proprio, che si consuma per chi muore. E ogni persona morta, è uno squilibrarsi del resto, resto-del-mondo, sbilanciamento del paradigma, mutazione irreversibile dello ‘stato delle cose’, buco di vuoto che si produce, e conseguente effetto-vuoto d’aria, tutto ciò che vi si precipita…
Così come avviene per la pietra lanciata in uno stagno, o il battito d’ali di una farfalla in Amazzonia dei due esempî celebri, l’onda d’urto si propaga come per cerchî che si allargano de-centricamente nell’acqua « fino ai confini dell’universo ». ”Storicamente”.
Materialmente. Realmente.
‘Stavolta : eravamo rimasti folgorati Lucia ed io, dalla notizia – data dai telegionali di un mezzogiorno di qualche giorno fa – di una di quelle tragedie che avvengono periodicamente, che si sono ripetute in questi anni e che hanno riguardato come ‘comunità di destino’ questa nostra detta « generazione degli anni di piombo ».
Dove le morti, d’ogni tipo e per cause diverse, vanno cadendo con ritmo assai più accelerato che la statistica ”media sociale” (così come per l’ « aspettativa di vita », o « speranza », talmente censitaria che lì si vede (e si potrebbe sbattere in faccia a tutti i decerebrati e decerebranti pifferaî dello spirito del tempo), cosa vuol dire «classe » e che cos’è, ‘bio/tanato-politicamente’…).
Un primo pomeriggio di qualche giorno fa – stavamo dicendo – dicono dunque ”dalla regìa” che la mattina, a Roma, dopo uno scontro a fuoco avvenuto nel corso di un tentativo di rapina di un furgone di trasporto di fondi, un uomo é rimaso a terra , morto.
Ci risuona nella testa il nome, Giorgio Frau. Lo abbiamo conosciuto, fa parte come tanti e tante della tessitura della nostra vita – se la vita è in gran misura fatta d’altri, in una tessitura continua di una trama comune.
Penso, a caldo, a un « vecchio ragazzo » – e in effetti, ha 56 anni appena, dieci meno di me.
Compagno, « nato » durante gli anni settanta in Lotta continua, proseguitosi poi in gruppi ”dell’ autonomia”, più tardi, dopo ‘avventure’ diverse, fughe, ”esilî”, aderente ad un degli ultimi frammenti delle Brigate Rosse.
E poi, vita dentro o sul limitare della galera, scelte e necessità…
Ne avevamo incrociato il destino trent’anni fa. Nei primi anni ’80, con due altri suoi compagni/amici (potevano dirsi ”ragazzini”, allora…) anche loro inquisiti e braccati dall’apparato penale dello Stato Italiano, come tant’altri uomini e donne era riparato in Francia. Pur non puntando a utilizzare la definizione di « terre d’asile », avevano cercato un momentaneo rifugio, quantomeno per ‘tirare il fiato’.
Arrestati dopo qualche tempo per lievi reati, difesi dai nostri avvocati e sostenuti dalla solidarità di noialtri
della divisa, e ”morale provvisoria”, del « per tutti e ciascuno!», linea di condotta, punto di vista e traccia etica di base, con le correlate ‘pratiche di solidarietà concreta’, dopo qualche mese di detenzione erano usciti e avevano potuto restare, precariamente come tutti, in Francia, in condizione di ”accoglienza”, rifugio e asilo di fatto, presenza ‘tollerata’. A poco a poco erano usciti dal ‘giro’, dalle frequentazioni quotidiane della ”rifugiaterìa”.
Un giorno della fine anni 80/inizio 90, il pugno nello nstomaco anche allora a mezzo mass-mediatico della ‘caduta’ di Giorgio in Spagna. Quello che è seguito è noto : gli anni di galera lì, poi ancora la prigione in Italia ; e poi semi-libertà, ri-‘cadute’… ancora anni di galera …, e poi di nuovo semi-libertà (ossia, come per il bicchiere mezzo pieno mezzo vuoto, semi-prigionìa), con i corollarî di lavoro precario, vita difficile, che non sfugge ad una cappa di ulteriore durezza, infelicità a oltranza. Sempre – con tutta evidenza – una silenziosa fedeltà alle passioni, sogni, affetti, necessità e scelte dei suoi anni verdi.
Incontrandolo di recente a una manifestazione – non so più dove…, anzi ora sì, ma non é tanto importante qui data luogo situazione – e abbracciandolo, avevo notato ancora (non voglio toccare corde sentimentali, è che é così) gli occhi tristi
ridenti, occhi ”ossimori” di sorriso e allegrìa tristi. Non spiaccia ad alcuno/o (ma…, siamo ribelli e sovversivi, critici radicali, mica ”cattivisti”, più di quanto non siamo ”buonisti”…) l’immagine che segue : « il gh’aveva deu oecc’ de bun » (si perdoni l’ortografia…), ”aveva due occhî da buono”, come dice « Il purtava ‘i scarp’ de tenis »,la canzone di Jannacci.
Occhî, potrei dire, come tra il sognante, l’estenuato e un fondo di spavento – forse uno legge ciò che proietta lui, ma mi sembrava una specie di sgomento per questo mondo in cui si oscilla tra la prospettiva di « una fine spaventosa », « uno spavento senza fine » o entrambi gli scenarî in sequenza. Mondo, dove l’inerziale risultante delle dinamiche sistemiche, nonché l’insieme di ”quelli che comandano, utilizzano, capitalizzano, hanno potere di vita e di morte, decretano, decidono ‘passati presenti futuri’; quelli che ”vampirizzano” la potenza, « potenza di persistere nel proprio essere », forza-lavoro intelligenza cooperante, energia, « disperata vitalità » ;
quelli che presuppongono e icessantemente riproducono a-nomia, base di eteronomizzazione e a-tomizzazione, inibendo in radice (e comunque confiscandone ogni tentativo) capacità di comunanza, comune autonomia, interazione di singolarità differenti, tessitura di una trama comune di libera convivenza”, riducono schiaccianti maggioranze a pensare più facilmente « la fine del mondo che la fine del capitalismo », della Cosmo-macchina risultante, oggi esistente e in corso d’opera…
Of course, tutta la « sciacallerìa » (dal significato, in metafora, della parola ”sciacallo” nel linguaggio corrente), saremmo indotti a dire, più ancora che degli stessi « inquirenti/inquisitori », della propaganda di guerra per via mass-mediatica, dominata da lettura « conspirazionista » dei fatti e delle cose – della vita intera – , si era gia messa a ”macinare”…
Bisognerà – ancora una volta e forse un’ultima, chee valga come se ‘una volta per tutte–, mettere i piedi nel piatto, contrapporre, rispondere, introdurre dei ragionamenti in rapporto a questa ferocia, a questa, più ancora che « violenza », stolida crudeltà…
Stigmatizzano l’inimicizia (quando essa incarna la parte, il fronte di guerra sociale ”dal basso verso gli alti”, e quello che mettono al posto e chiamano « pace civile » &ccetera &ccetera… mettono, se è per questo, una nuvola di malanimo, risentimento, sprezzo misantropo e altre passioni tristi, invidia [della vita], tutto quanto insomma intesse il paradosso che qualcuno ha detto « della rivolta dei ricchi contro i poveri » (nonché, ovviamente, l’esser rotti ad ogni crimine
nella concorrenza [mimetica] a morte all’interno del ”loro mondo»…).
Ci sarebbe molto da dire (anche a certi Soloni che avvelenano i dibattiti nella rete, prendendosi per detentori della ”verità vera”, dello ‘spirito della Giusta Linea…). Come si usa dire, un po’ consentendosi il sogno, ”dormi, vola, riposa…, che la terra ti sia lieve…”.
Riscritto (potuto riscrivere, forse fuori tempo massimo,nella ‘dannazione’, anche, dell’ intempestivo)
oggi, 8 marzo 2013, a Parigi,
da Oreste (Scalzone)
Gli stati modificati della/nella reclusione: l’impatto con la detenzione
“La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio. Chi l’attraversa non può evitare uno sfregio la cui rimarginazione non è affatto scontata.
La prima rasoiata isola il neo-recluso dai suoi mondi consueti, lo decontestualizza totalmente e in un lampo lo getta in uno stato di spaesamento radicale. Il noto, il familiare, l’abituale, scompaiono dal suo orizzonte sensoriale ed egli brancola, smarrito, nel vortice d’un risucchio che lo aspira entro un orrido di cui non percepisce altro che i pericoli.
Lo stato di spaesamento trova nella vertigine la sua forma più consueta.
Secondo Daniel Gonin, medico penitenziario e coordinatore di una ricerca condotta nelle carceri francesi per conto del Consiglio di Ricerca del Ministero della Giustizia, almeno “un quarto degli entranti in prigione soffre di vertigini (…). Quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equlibrio è piu’ precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso” [1].
La seconda rasoiata investe il flusso polimorfo degli stimoli ambientali che, improvvisamente, viene disseccato. La riduzione drastica degli stimoli ambientali riduce, in chi la subisce, un grappolo di fenomenologie riconducibili alle transe di ipostimolazione.
Arnold Ludwig nella sua celebre catalogazione degli stati di coscienza osserva che la riduzione delle stimolazioni esterne può essere considerata il dispositivo induttore portante degli stati conseguente alla reclusione [2].
Le persone soggette alla Riduzione degli Stimoli Ambientali accusano, secondo le ricerche, disfunzioni sensoriali, motorie, percettive, cognitive ed emozionali. Ed inoltre, in un estremo tentativo di difesa, esse recuperano memorie cruciali sepolte, che possono favorire un processo di adattamento come pure suscitare ansie aggiuntive le cui radici restano sfuggenti [3].
Stati di allucinazione visiva, auditiva, tattile; del gusto e dell’olfatto; difficolta’ a camminare, scrivere, leggere; distorsioni della percezione del tempo e dello spazio; sconvolgimenti dell’alimentazione, del sonno,della sessualita’ accompagnano chi vive quest’esperienza spesso anche per lunghi periodi dopo la sua fine.
Queste prime manipolazioni collocano a tutti gli effetti le torsioni relazionali esercitate dall’istituzione nell’ordine della tortura;
traducono le pene reclusive inflitte dai giudici in manipolazioni dei sensi e della coscienza le cui implicazioni sono del tutto trascurate da chi le innesca. Come pure trascurate sono pure le reazioni. Prima fra tutte, la morte [4]. Che e’ l’esito, talvolta immediato, di una dissociazione fallita; dell’incapacita’ o del rifiuto di elaborare, nel vortice della vertigine, un Senso qualsivoglia per la propria esistenza nella nuova condizione. D’altra parte, l’elaborazione, sia pur embrionale, di un Senso, se per un verso mette al riparo dalla morte, per un altro spinge una parte di se’ a vestire la divisa del carceriere e con cio’ ad avviare una dinamica penosissima di dissociazione.”
1. D.Gonin, Il corpo incarcerato, Torino 1994, Edizioni Gruppo Abele.
2. A. Ludwig “Alerated states of conscousness”, in Archives of General psychiatry, 26, 1968.
3. Anthony Suraci, Environmental Stmolus Reduction, Rew. Ment. Dis. 138, 1964, 172-180.
4. R.Curcio, S.Petrelli, N.Valentino “Nel bosco di Bistorco”, Roma, 1997, Sensibili alle foglie.
Questo uno stralcio di un testo di Renato Curcio,
per ora come assaggio del materiale che ho voglia di mettere,
perché per smontare il carcere abbiamo bisogno di iniziare a minare quello, anzi quelli, che abbiamo dentro di noi.
Quello che costruiamo, non sempre inconsapevolmente, all’interno dei rapporti nei contesti gruppali,
così come in relazione con le istituzioni che volenti o nolenti siamo costretti ad affrontare nella vita.
Perché per liberarsi dal carcere, dal fine pena mai, e da ogni dispositivo di obbedienza,
eeeeeeeh, c’è da faticà.
Adottate il logo contro l’ergastolo, è un modo per sancire che nei vostri luoghi, fisici o virtuali, non esiste l’aberrazione della reclusione perpetua.

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L’ergastolo e le farfalle
“Una farfalla si posò sul polpastrello del mio dito medio,
vi adagiò l’addome,
e mi portò all’orgasmo.”
“L’ergastolo io lo penso come la maggioranza di quelli che sono come me: non è una pena indefinita.
Prima o poi finirà, devono capire.”
Mio caro,
ho sognato che venivo a Rebibbia per il nostro consueto colloquio,
ma tu non c’eri, non è che eri stato trasferito in un altro carcere, non c’eri proprio più.
Al risveglio mi son chiesta se esisti veamente.
Questo nostro rapporto è difficile e mi sento vecchia anzitempo.
Preferirei lasciar passare un po’ di tempo prima di venire nuovamente a colloquio.
TU PUOI CONTARE I GIORNI, PER ME E’ SEMPRE 1,1,1,1 …
[Tratto da Ergastolo, di Nicola Valentino, edizioni Sensibili alle Foglie]
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