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Egitto: noto youtuber filma il suo arresto. Lo rivedremo mai?
Prosegue costante e quotidiano il lavoro delle squadracce di Al-Sisi, intento a far sparire qualunque voce dissidente, qualunque vita al di fuori degli schemi silenziosi di un regime che vuole costituirsi sul terrore e la tortura.
Raccontavamo solo due giorni fa della morte di Shadi Habash, avvenuta nel carcere di Tora, dove in un’apposita sezione sono detenuti migliaia di “dissidenti”, spesso inconsapevoli di esserlo.
Shadi, e i suoi compagni di prigionia erano in quell’inferno da due anni per la realizzazione di una canzone e un video musicale “Balaha”, che fa ironia su Al-Sisi;
Marwa Arafa, scomparsa dal suo appartamento il 20 aprile è ricomparsa ieri nelle stanze di una procura: cosa che non ci consolerà perché il meccanismo usato è noto.
Udienze a cadenza mensile (per Shadi erano 45 giorni), udienze inutili, dove un giudice a testa bassa riconfermerà -per millemila volte- altri 45 giorni: e così via, in un turbine di udienze e carcere e silenzio e tortura che spesso porta alla morte di questi giovani ragazzi, la miglior gioventù possibile per l’Egitto di ogni epoca.
Il video che invece circola in rete da qualche ora l’ha girato direttamente Mustafa Hady, egiziano anche lui, blogger e youtuber molto noto, nonchè giornalista per alcune testate del paese, che è stato prelevato dalle forze di sicurezza all’interno del suo appartamento ed è riuscito a riprendere gli ultimi secondi della sua vita da uomo libero.
Attivo già dai tempi della rivoluzione di Piazza Tahrir, anche lui uno dei ragazzi del “25 gennaio”, parlava spesso di argomenti non semplici che creavano aspri dibattiti sulle sue pagine, come la libertà sessuale.
Domenica sera, Mustafa riprende ogni cosa, fa sentire le voci che gli chiedono di aprire la porta, la sua tensione che sale, loro che entrano e gli dicono di tacere, di far silenzio e seguirli.
Ancora uno, uno dei tanti che ogni giorni scompaiono, uno dei tanti ammassati come Alaa e migliaia di ragazzi nelle carceri stalla di Tora e del resto del paese: Mustafa era perfettamente consapevole di quel che stava succedendo.
Lo rivedremo mai?
Nel frattempo ieri i familiari in visita ai prigionieri politici nel carcere di Tora hanno tentato di portare medicinali e viveri ai loro congiunti, ma di risposta hanno ottenuto: tornate tra un mese e mezzo.
Ho bisogno di supporto e ho bisogno che ricordiate che io sono ancora in prigione e che il regime si è dimenticato di me. Sto lentamente morendo perché so che sto restando solo di fronte a tutto. So che ho molti amici che mi vogliono bene e hanno paura di scrivermi pensando alla fine che io possa uscire senza il loro aiuto.
Ho bisogno del vostro supporto ora più che mai.
Shadi Habash 26 Ottobre 2019
(morto nel carcere di Tora, maggio 2020)
L’Egitto delle morti in carcere e delle continue sparizioni
Quello che urla, quando si leggono le parole di Shadi – morto solamente ieri nel famigerato carcere di Tora – è la disperazione davanti all’ingiustizia, la solitudine di chi sa di non aver reali accuse contro, la solitudine di chi sa di stare nel giusto, tra i giusti, nelle mani di un torturatore sadico, in un buco nero dal quale non si uscirà.
Raccontava, Shadi, che ogni volta meno era in grado di sostenere quell’udienza che si ripeteva ogni 45 giorni sempre uguale: non immaginiamo nemmeno come veniva portato in quell’aula per vedere che chi doveva decidere sulla sua vita, e lo faceva senza nemmeno alzare la testa e guardarlo, senza assolutamente aprire nessun fascicolo.
Confermati altri 45 giorni: e poi altri ancora.
Shadi andava avanti così da più di 700 giorni, sempre più devastato psicologicamente e fisicamente, al punto che è morto tra le richieste d’aiuto dei suoi compagni di cella, che nessuno ha ovviamente ascoltato.

Marwa Arafa e Khouloud Saee
Non sono i soli,
Non sono i soli ad esser stati prelevati dalla propria casa, incappucciati davanti alle loro famiglie e mai più tornati: l’Egitto del post Mubarak è questo, la generazione che ha desiderato e tentato di costruire un altro Egitto, semplicemente sparisce e muore di stenti nelle celle delle carceri.
Shadi ha smesso di combattere ieri, ma non i suoi compagni.
E nemmeno Marwa Arafa (27 anni, di Alessandria, traduttrice) e Khouloud Saee (anche lei traduttrice di Alessandria, 35enne) che son scomparse dalle loro abitazioni il 20 e il 21 aprile, per aver criticato la gestione dell’emergenza coronavirus.
Nessuna notizia di loro, quando i sei uomini incappucciati le son venute a prendere non avevano un mandato di arresto e ancora adesso non si sa dove siano detenute.
RIVOGLIAMO LA LIBERTA’ DI TUTTE E TUTTI,
RIVOGLIAMO MARWA e KHOULOUD, ALAA, PATRICK ZAKY …
Ucciso nel carcere di Tora l’artista Shadi Habash, regista del video Balaha
Il carcere di Tora è un inferno immenso, i cui meandri son tristemente famosi in tutto il territorio egiziano; una fama che varca i confini quella della prigione di Tora, una fama di luogo di segregazione e tortura che caratterizza ogni racconto, luogo che basta anche solo nominare per veder cambiare lo sguardo di chi hai davanti
La notizia con cui ci svegliamo questa mattina è la morte di Shadi Habash, proprio in una di quelle celle, colpevole di aver dato voce alla sua arte, a quella dei suoi compagni: artista, fotografo e regista, era in carcere da 791 giorni insieme a Galal El-Behari e Mustafa Gamal.
Arrestati a febbraio 2018, dopo la diffusione del video della canzone Balaha (di Ramy Essam, il cantore di Tahrir), una canzone che rivendica il desiderio di libertà dei giovani egiziani, esploso quasi un decennio fa con la rivoluzione, poi sedata e cancellate, di Piazza Tahrir.
Libertà, libertà di espressione,
libertà di vivere, libertà di critica, libertà di poter criticare.
Tante le campagne intraprese per la liberazione di questi tre ragazzi, colpevoli di una canzone che nel suo testo descrive gli scagnozzi del potere e le buie celle dove sono imprigionati tutti coloro che lottano per la libertà: carcerazioni completamente illegali, che proseguono per anni senza che ci sia condanna alcuna.
Le accuse son le solite: accusati di terrorismo e blasfemia, di essere spie e diffondere notizie false: la campagna contro il poeta Essam l’aveva iniziata direttamente il Ministro della Cultura in diretta tv, pochi giorni prima il suo arresto.
Dei tre uno già non ce l’ha fatta.
Alta deve essere l’attenzione su questa generazione,
attiva e forte la solidarietà internazionale per la liberazione dei prigionieri politici.
Leggi tutto sul BALAHA CASE
Pochi giorni fa, il 20 e il 21 aprile, sono scomparse -prelevate da 6 uomini nelle loro case- due traduttrici, ad Alessandria: LEGGI
Egitto: “revolution till infinity”

The martyr (by Ammar Abu Bakr) and the killer (by El Zeft)
I rivoluzionari in Egitto ci sono e sono ben determinati, malgrado le mazzate prese in questi tre anni ormai.
In Egitto, anche visitando con i miei occhi la gioia di Tahrir, ho avuto immediata la sensazione che a casa non si sarebbe tornati.
Non è durata tanto l’illusione di Tahrir, ma a casa non si è tornati lo stesso: questo è quel che c’hanno dimostrato le lunghe giornate di Mohammad Mahmoud due anni fa… e quel che i rivoluzionari d’Egitto non smettono di dimostrare, malgrado il livello di repressione, arrivato alle stelle.
Nonostante i passaggi di potere di questi anni, nonostante le barbe e la loro pretesa di mutar la terra in sharia,
nonostante i cingoli che avanzano e che ieri si son presi la piazza con non molta difficoltà.
“Non vogliamo i fratelli musulmani, non vogliamo lo SCAF, non vogliamo i resti del regime di Mubarak!”, chi è impegnato ad abbattere il potere, è consapevole di quante forme possa avere, e le vuole abbattere tutto: dalla radice.
Le pagine sulle lotte rivoluzionarie in Egitto: QUI
Vi lascio l’articolo di Infoaut per il verso racconto delle ultime ore in piazza:
Una giornata, quella di ieri, molto importante per un Egitto diviso tra i due poteri – militari e Fratelli Musulmani – che, con la loro guerra, sembravano aver relegato ai margini della scena politica tutti coloro che continuano a sperare in un Egitto veramente libero.
Oggi cade il secondo anniversario degli scontri di Mohamed Mahmoud. Dal 19 novembre 2011 nei pressi del ministero degli interni 47 manifestanti vennero uccisi. Da quella battaglia sorse nuova coscienza popolare: il nemico non era solo il regime di un Mubarak allora
Caino e Abele… contro gli scontri interreligiosi _Via Mohammad Mahmoud_
appena imprigionato, ma anche lo SCAF, che con il suo Capo Supremo allora governava il paese da pochi mesi. Cinque giorni di scontri, di barricate, 47 morti, 3000 feriti. Con la successiva presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani, e poi la loro spettacolare uscita di scena grazie ad un colpo di mano militare in gran stile populista, l’eredità di Mohamed Mahmoud si trova sballottata tra i palazzi del potere militare e la vittimizzazione dei Fratelli Musulmani di Rabaa e Nasser City.
Nei giorni scorsi si è assistito ad un immorale gioco mediatico. La propaganda di tutti i poteri forti che hanno cercato di rivendicare la paternità di quei morti, di volerne celebrare le gesta. I Fratelli Musulmani in questi giorni utilizzano la violenza della polizia per riabilitare la figura del “presidente di tutti” Morsi, spodestato dall’intervento dei militari. Allo stesso modo il regime militare dichiara martiri le 47 vittime e le 3 vittime registrate lo scorso anno, durante il primo anniversario. Lo stesso potere militare che prima uccide, poi onora la memoria delle vittime. Ma, mentre da giorni ormai il regime promuove, in TV e con immense gigantografie nelle strade, il raduno per questa mattina in Piazza Tahrir, tutt’altra è stata la direzione intrapresa dai giovani egiziani, scesi in piazza già da ieri pomeriggio.
Le giornate di Mohammad Mahmoud, oltre a decine di morti a terra, son passate alla memoria rivoluzionaria per “gli occhi”… tanti occhi quel giorno hanno perso la loro casa ma non la loro capacità di guardare il futuro
Ieri nelle strade c’erano i familiari delle vittime, gli amici, chi era insieme a loro sulle barricate. Ieri in piazza c’era chi non ha accettato di vivere in un paese regolato dalla Sharia o dall’Islam corrotto, ma anche chi non accetta il potere dei militari. Non l’accettavano 2 anni fa durante i 5 giorni di scontri in Mohamed Mahmoud, e non l’accettano adesso.In molti hanno marciato da piazza Abdeen, per poi dirigersi in Piazza Tahrir, dove hanno preso d’assalto un monumento, inaugurato la stessa mattina dal primo ministro Hazem El-Beblawi, su cui una grande scritta ricordava, con tutta l’ipocrisia dello stato militare, l’onore “dei martiri del 25 gennaio alla rivoluzione del 30 giugno”. L’ipocrisia di un regime che prima uccide e poi cerca di associare i valori della Piazza Tahrir del gennaio 2011 con gli eventi del 30 giugno 2013, da loro considerati una rivoluzione, ma da tanti altri visto, con senno di poi, nient’altro che come un colpo di stato.
In molti ieri sono scesi per le strade, per una giornata ribattezzata “Non dimenticare, ricorda sempre” che, riempiendo le mura del Cairo di scritte anti-militari e scandendo slogan contro i Fratelli Musulmani, si è infine diretta in Piazza Tahrir, riportandovi finalmente i contenuti rivoluzionari, e riversando la propria rabbia su quel monumento che rappresenta, ora più che mai, l’ipocrisia del regime militare. Ieri si è chiesto a gran voce giustizia per le vittime, processi per i crimini del regime e della sua polizia e fine dei processi militari ai civili. Si legge nell’appello della manifestazione: “La brutalità della polizia è rimasta la stessa… la polizia continua a torturare detenuti e arrestare arbitrariamente.. la repressione e l’impunità non sono cambiate. Mubarak, lo SCAF e i Fratelli Musulmani, sono tutte facce dello stesso regime”.
Non è stato facile, ma sembra che la coscienza popolare nata 2 anni fa negli scontri di Mohamed Mahmoud rinasca quest’oggi, guidata da tutti coloro che hanno perso un amico o un compagno in questi lunghi anni di lotta.
In queste ore manifestazioni contrapposte stanno nascendo nelle vicinanze di Piazza Tahrir. Le opposte fazioni si avvicinano e iniziano a scontrarsi. Seguiremo gli sviluppi da Infoaut. In serata aggiornamenti
Aggiornamenti:
In un clima di estrema tensione, con uccisioni e instabilità in tutta l’area desertica del Sinai, fin da ieri molta era la paura di nuovi morti e di una nuova, ennesima, repressione. Fino a questa mattina non si erano registrati grandi scontri, con l’esercito che ha preferito dispiegare le proprie forze a difesa delle istituzioni e dei palazzi del potere, non attaccando i manifestanti.
Diversa è stata invece la giornata di oggi, con l’apparato militare presente in forze nelle strade egiziane. Scontri si sono registrati al Cairo, a Alessandria e a Mansoura, (tra manifestanti e forze dell’ordine, tra sostenitori dei Fratelli Musulmani e polizia, tra pro-Morsi e familiari delle vittime), con un bilancio di una ventina di feriti.
Una nuova giornata di lotta, ma soprattutto una ritrovata contrapposizione di piazza tra i diversi schieramenti. Del regime e della sua propaganda, dei giovani Fratelli Musulmani – concentrati soprattutto nelle università – e dei giovani rivoluzionari, nelle strade della capitale. Tutti a commemorare un massacro i cui colpevoli sono da ricercare all’interno del regime, in tutte le forme che ha assunto dalla caduta di Mubarak.
Idea racchiusa in semplici parole, scritte a caratteri cubitali su un grande striscione all’entrata di piazza Mohamed Mahmoud [luogo simbolo dove in decine sono periti, 2 anni fa, sotto i colpi dello SCAF] “vietato l’ingresso ai Fratelli Musulmani, ai militari e ai resti del regime di Mubarak”.
Dai “compagni di Tahrir”, passando per Rio e Taksim
Fonte in inglese: Jadaliyya
Quella in italiano: FreePalestine (shukran)
[Grazie davvero a Stephanie per la traduzione veloce, buona lotta anche a te.]
A voi, al cui fianco lottiamo,
Il 30 giugno segnerà per noi una nuova fase di ribellione, basata su ciò che è iniziato il 25 e il 28 gennaio del 2011. Questa volta ci ribelliamo contro il regime dei Fratelli Musulmani che ha rafforzato le stesse forme di sfruttamento economico, violenza della polizia, torture e uccisioni.
I riferimenti alla venuta della “democrazia” non hanno alcuna rilevanza quando non c’è la possibilità di vivere una vita decente con dignità e mezzi di sostentamento decorosi. Le rivendicazioni di legittimità, attraverso un processo elettorale, distraggono dalla realtà che in Egitto la nostra lotta continua perché siamo di fronte al perpetuarsi di un regime oppressivo che ha cambiato il suo volto sì, ma mantiene la stessa logica di repressione, austerità e brutalità della polizia. Le autorità mantengono la stessa mancanza di una qualsiasi responsabilità nei confronti del pubblico e posizioni di potere si traducono in opportunità per aumentare il potere e la ricchezza personali.

Alessandria, ieri
Il 30 giugno si rinnova l’urlo della Rivoluzione: “Il popolo vuole la caduta del sistema”. Vogliamo un futuro né governato dall’autoritarismo meschino e dal capitalismo clientelare dei Fratelli Musulmani, né da un apparato militare che mantiene una stretta mortale sulla vita politica ed economica, né da un ritorno alle vecchie strutture dell’era Mubarak. Gli schieramenti dei manifestanti che scenderanno in piazza il 30 giugno non saranno tutti uniti, ma questo deve essere il nostro appello, deve essere la nostra posizione, perché non accetteremo un ritorno ai sanguinosi tempi del passato.
Anche se le nostre reti sono ancora deboli, traiamo speranza e ispirazione dalle recenti rivolte, in particolare in Turchia e Brasile. Ognuna di queste nasce da diverse realtà politiche ed economiche, ma noi tutte e tutti siamo stat* governat* da circoli ristretti il cui desiderio di avere sempre di più ha protratto la mancanza di visione di un qualsiasi bene per il popolo. Traiamo ispirazione dall’organizzazione orizzontale del Free Fare Movement fondato a Bahia, in Brasile nel 2003 e le assemblee pubbliche che si stanno diffondendo in tutta la Turchia.
In Egitto, i Fratelli Musulmani hanno aggiunto solo una patina religiosa al processo, mentre la logica di un neoliberismo contestualizzato schiaccia il popolo. In Turchia una strategia di crescita aggressiva del settore privato si traduce altresì in un regime autoritario, la stessa logica della brutalità della polizia come arma primaria per opprimere l’opposizione e tutti i tentativi di immaginari alternativi. In Brasile un governo radicato in una legittimità rivoluzionaria ha dimostrato che il suo passato è solo una maschera che indossa mentre si schiera con lo stesso ordine capitalista a sfruttare sia le persone che la natura.
Queste recenti lotte condividono le lotte più vecchie in corso, come quelle dei curdi e dei popoli indigeni dell’America Latina. Per decenni, il governo turco e brasiliano hanno provato, ma senza riuscirci, a cancellare la lotta per la vita di questi movimenti. La loro resistenza alla repressione dello Stato ha fatto da precursore alla nuova ondata di proteste che si sono diffuse in tutta la Turchia e il Brasile. Noi vediamo l’urgenza di riconoscere la profondità di ognuna di queste lotte e cercare forme di ribellione in modo da espandersi in nuovi spazi, quartieri e comunità.
Le nostre lotte condividono il potenziale per opporsi al regime globale degli Stati nazionali. Sia in tempi di crisi che di prosperità, lo Stato – in Egitto sotto il governo di Mubarak, la giunta militare o i Fratelli musulmani – continua ad espropriare e privare al fine di preservare ed aumentare la ricchezza e il privilegio di chi è al potere.
Nessuno di noi sta combattendo in isolamento. Siamo di fronte a nemici comuni in Bahrain, Brasile, Bosnia, Cile, Palestina, Siria, Turchia, Kurdistan, Tunisia, Sudan, Sahara occidentale e in Egitto. La lista è lunga. Ovunque ci chiamano teppisti, vandali, saccheggiatori e terroristi. Stiamo lottando per qualcosa che è più dello sfruttamento economico, della violenza della polizia o di un sistema giuridico illegittimo. Non è per una riforma dei diritti o della cittadinanza che lottiamo.
Ci opponiamo allo stato-nazione come strumento centralizzato di repressione, che consente ad una élite locale di succhiarci la vita e alle potenze mondiali di conservare il loro dominio sulle nostre vite quotidiane. I due lavorano all’unisono, facendo uso di mezzi diversi, dai proiettili ai media e quant’altro c’è nel mezzo. Non stiamo chiedendo di unificare o equiparare le nostre diverse battaglie, ma è la stessa struttura di autorità e di potere che dobbiamo combattere, smantellare e abbattere. Insieme, la nostra lotta è più forte.
Vogliamo la caduta del sistema.
Compagn* del Cairo
In Egitto si incoraggiano i cittadini all’arresto dei “vandali”
Che è complicato anche scriverle due righe di commento a quest’articolo…le parole di Talaat Abdullah, praticamente un appello alla manetta libera, sembrano parlare direttamente a quel che nei tempi di Mubarak si chiamava la Baltagheyya, e che non credo proprio abbia cambiato nome. I fedelissimi, le squadracce pronte a difendere l’ordine costituito e il potere, quelle della battaglia dei cammelli, delle violenze, degli omicidi durante gli attacchi, dei ripetuti stupri degli ultimi mesi alle attiviste e militanti delle piazze del paese.
Con lo scontro tra polizia e esercito che s’è palesato a Port Said al suon dei proiettili che volavano, ci mancava anche un’ufficiale deligittimazione delle forze armate e d’ordine pubblico per “armare i fedelissimi”.E’ la risposta alla risposta popolare di queste settimane, la risposta alle sentenze, le grandi lotte operaie che iniziano a conoscere oltre allo sciopero e all’autorganizzazione anche l’autogestione dei posti di lavoro.
Un laboratorio di repressione si struttura, per rispondere all’immenso laboratorio rivoluzionario che è l’Egitto
Sta suscitando un ampio dibattito sulla stampa la dichiarazione rilasciata domenica dal Procuratore generale egiziano, Talaat Abdullah, per il quale i cittadini hanno il diritto di arrestare chi trasgredisce la legge.

Port Said, 7 marzo 2013
“Il Procuratore generale incoraggia tutti i cittadini ad esercitare il diritto assegnato loro dall’articolo 37 della legge di procedura penale dell’Egitto emesso nel 1950 – si legge nel comunicato diffuso dalla Procura – di arrestare chiunque sia trovato a commettere un crimine e consegnarli al personale delle forze di sicurezza”.
In una precisazione diffusa ieri, la Procura ha aggiunto che il procuratore generale non intendeva estendere ai civili i poteri d’arresto giudiziario, ma piuttosto circoscriverli al solo personale di polizia. Entrambe le dichiarazioni hanno però acceso numerose critiche, soprattutto da parte degli esponenti dell’opposizione laica e liberale al governo guidato dal presidente Mohamed Morsi, secondo i quali questa misura sarebbe il preludio alla sostituzione della polizia da parte di milizie appartenenti al movimento della Fratellanza musulmana o a gruppi ad esso vicini.
Numerosi membri di gruppi politici islamici hanno infatti immediatamente accolto con dichiarazioni positive la proposta di Abdullah.
“La decisione è un primo passo per porre fine alla sistematica violenza in corso in Egitto – ha detto per esempio all’agenzia di stampa nazionale MENA il segretario del partito ultra-conservatore Al-Gamaa Al-Islamiya, Alaa Abu El-Nasr – Il potere politico ha il diritto di avere una propria forza di polizia, capace di combattere i crimini per le strade”.
Nazer Gharab, membro dello stesso partito, ha specificato in un’intervista concessa alla televisione di voler istituire al più presto “una forza di polizia islamica per ristabilire l’ordine”.
Il timore che si diffondano milizie politiche armate nel paese, esacerbando ulteriormente il livello dello scontro, ha portato diversi esponenti militari, che hanno preferito parlare sotto condizione dell’anonimato, a suggerire la possibilità di un intervento dell’esercito.
Una fonte militare citata dal quotidiano governativo Al-Ahram ha infatti detto che “questa decisione aprirebbe la strada alla creazione di milizie private, garantendo una copertura politica alla violenza che significherebbe semplicemente la fine dello stato di diritto e l’avvio sulla strada di una guerra civile: in quel caso l’esercito non potrebbe restare a guardare”.
Michele Vollaro, InfoAfrica
a piazza Tahrir, sul corpo delle donne
Come dicevo nel precedente post in questi giorni son riuscita solo a seguire da lontano il susseguirsi degli eventi egiziani,
prendo e ripubblico con piacere invece, un articolo comparso su Sguardisuigeneris che analizza a caldo gli stupri avvenuti a tonnellate in piazza Tahrir e nei vicoli circostanti.
Stupri che parlano chiaro.
I corpi della rivoluzione. Appunti sulle violenze di piazza Tahrir
Non è facile prendere parola, con le notizie che arrivano rapide, numerose e confuse. Vogliamo provare a farlo comunque, denunciando sin d’ora la provvisorietà di queste note. Più che un’analisi, forse, si tratta di un segnale di vicinanza alle donne di piazza Tahrir. Donne i cui volti ci sono diventati familiari, soprattutto attraverso la mediatizzazione massiccia della cosiddetta Primavera Araba e di tutto ciò che ne è conseguito sino ad oggi. Volti sui quali, sin dall’inizio, si sono costruiti significati ambigui, sempre ed eternamente eurocentrici. Volti facilmente traducibili in icone pop del cosiddetto “protagonismo femminile” che trasforma la politica in mero civismo. Per noi, quei volti, sono sempre stati qualcosa più di questo. Quei volti, oggi, sono anche quelli di corpi straziati da una repressione che – come sempre – passa prima di tutto sul corpo delle donne.
Le cronache di oggi, ancora incalzanti e parziali, raccontano di stupri di gruppo ad opera dei contro-rivoluzionari egiziani: gruppetti di uomini che accerchiano una donna in piazza, la molestano, aggrediscono, stuprano. Queste violenze non sono effetti collaterali del caos. Queste violenze non colpiscono le donne perché sono più deboli. Queste violenze non nascono dal nulla.
Queste violenze testimoniano, ancora una volta, che il corpo delle donne viene usato/abusato come terreno politico. Testimoniano che “decidere” delle donne e sulle donne è un atto di violenza politica. Può esserlo a vari livelli. A livello fisico e personale con aggressioni e stupri; a livello fisico e generalizzato con norme che violano la libertà delle donne; a livello verbale con ingiurie e insulti; a livello simbolico con immagini e immaginari e così via. La lista è infinita e non fa che definire gli attributi dello spazio politico in cui le donne si muovono. La violenza del patriarcato non esplode come una tempesta, ma si radica nella società, in Egitto come altrove.
Questi stupri sono parte di quella violenza e come tali vanno combattuti al fianco delle donne. Pare che molti uomini si stiano organizzando per far fronte, insieme alle donne, alle aggressioni di gruppo. Non direi che proteggono le donne – come se la rivoluzione fosse una contesa tra uomini giocata, guarda caso, sul corpo delle donne. Direi che continuano la loro rivoluzione, uomini e donne insieme. Dove le donne sono più colpite, perché sul loro ruolo si gioca la tenuta di un sistema sociale vecchio e marcio o la costruzione di uno nuovo. Questo vale a sud e a nord del mediterraneo.
Laboratorio Sguardi Sui Generis
Di seguito riportiamo la traduzione di un comunicato diffuso da alcune donne sul sito ‘The uprising of women in the Arab world‘:
I nostri corpi non sono campi di battaglia
Con le proteste di questi giorni in Egitto contro i Fratelli Musulmani, stiamo assistendo con grande sdegno al fatto che le donne che protestano vengono picchiate e umiliate nelle strade. Lo stesso identico fenomeno avvenne durante le proteste contro Mubarak e contro l’esercito egiziano.
È interessante osservare come nelle fasi di conflitto politico il ruolo della donna venga ridotto da cittadina attiva a ‘corpo femminile’ aggredito dal regime in carica. Il suo corpo diventa campo di battaglia: una testimonianza della brutalità del regime e dello sfruttamento di quanti vogliono rovesciarlo. La retorica suona così: il regime sta attaccando anche i più deboli, dobbiamo proteggerli!
Comunque è altrettanto interessante notare come la maggior parte di quelli che sono shockati dalla brutalità usata contro le donne durante le proteste non sembrino curarsi della violenza fisica, sessuale e psicologica con cui le donne del mondo arabo si ritrovano a fare i conti ogni singolo giorno della loro vita.
Essere scandalizzati per la brutalità di un regime contro i suoi cittadini e cittadine è fondamentale; è irrilevante che la vittima sia un uomo o una donna, dovremmo denunciarla allo stesso modo. Ma dov’è lo stesso sdegno per quanto riguarda le leggi nazionali che tollerano i crimini ‘d’onore’, lo stupro, le molestie sessuali, la violenza domestica e la mutilazione degli organi genitali femminili?
Queste leggi stanno sopravvivendo ai cambi di regime politico, sono avallate dai precetti religiosi e trascurate da quelli laici.
La secca conclusione è che le donne vengono continuamente sfruttate per le cause politiche ma quando si tratta dei loro diritti vengono lasciate indietro. Stiamo assistendo al ripetersi di questo fenomeno continuamente in tutto il mondo arabo e oltre.
Donne e uomini dovrebbero avere gli stessi diritti e doveri, nel bene e nel male. La lotta per avere più giustizia e più libertà non fa distinzione tra i generi. È tempo per noi donne di prendere in mano il nostro destino, di imporci come cittadine allo stesso modo degli uomini, senza distinzione.
Nessuna distinzione quando si tratta di prendere parte ad una rivoluzione, nessuna distinzione quando si tratta di mettere in pratica i nostri diritti e le nostre libertà pubbliche e private in ogni giorno della nostra vita.
I nostri corpi non sono campi di battaglia.
NOTAV verso il 15 ottobre: Que se vayan todos!
Scriviamo queste righe dalle nostre montagne, sperando che dalle Alpi possano arrivare a tutto lo stivale, da Cortina a Lampedusa. La nostra valle vive un momento di lotta intensa, di resistenza: ogni giorno è qui, ormai, un giorno decisivo. Dai nostri presidi, dalle nostre baite, dai nostri paesi, dalle strade e dai sentieri che li collegano, attorno al fortino militarizzato creato dal governo a difesa del non-cantiere dell’Alta Velocità, stiamo resistendo. Ed è da resistenti che ci rivolgiamo a voi, che ci rivolgiamo all’Italia. La lotta No Tav è una lotta per la difesa della salute e del territorio, ma non solo: è una lotta contro la consegna della ricchezza prodotta collettivamente, in tutto il paese, nelle mani di pochi. È una battaglia contro l’alleanza strategica tra stato e mafia, ma è anche l’idea di un mondo diverso, costruito insieme attraverso nuove pratiche di decisione dal basso. È un movimento in difesa della nostra valle, che amiamo ora come non avevamo mai amato, ma è anzitutto un grido che si leva da un luogo nel mondo, rivolto a tutto il mondo.
Il 15 ottobre, in Europa e non solo, migliaia di persone risponderanno all’appello che giunge dagli indignados spagnoli: da coloro che, a partire dal marzo scorso, hanno deciso di trasformare, a modo loro, la vita politica del loro paese. Persone comuni – non eroi! – proprio come noi e voi, che hanno invaso le piazze delle loro città, parlando alla Spagna della società che vorrebbero costruire, sulle ceneri della classe politica che governa il loro paese. Come la Val Susa non può vincere senza l’Italia – e, lo diciamo con convinzione, un’Italia migliore non può nascere senza la vittoria della Val di Susa – così i ragazzi spagnoli non possono vincere senza l’Europa. Che cosa vogliono? Una politica e un’economia al servizio di tutte e tutti, il rispetto per l’essere umano e per l’ambiente, la morte definitiva dell’accentramento del potere mediatico, dell’abuso sistematico di quello politico, della corruzione, del commissariamento globale da parte della grande finanza. Ogni volta che ripetiamo questi stessi, identici concetti nelle nostre assemblee popolari, ogni volta che li gridiamo lungo le vigne o sotto le reti della militarizzazione, sentiamo di portare avanti una lotta che è la loro stessa; ma è la stessa degli studenti greci e tunisini, dei ragazzi che vengono arrestati sul ponte di Brooklyn e di quelli che cambiano la storia in piazza Tahirir.
Allora che aspettiamo? Il tiranno che ci governa è a Roma! A Roma è il mandante politico dell’invasione militare della Valle, a Roma è il mandante politico del Tav: decrepito, vergognoso e trasversale, proprio come in Spagna, proprio come in Grecia. A Roma sono i palazzi che hanno partorito una manovra di assassinio di due o tre generazioni, e mentre con una mano rapinano gli italiani di 20 miliardi di euro, con l’altra firmano gli accordi con la Francia per regalarne 22 al malaffare, distruggendo con il Tav le nostre vite e la nostra vallata. Mentre già discutono la necessità di una manovra bis per attaccare ancora più a fondo, in nome dei diktat della BCE, la società italiana, spendono 90.000 euro al giorno per gasarci al CS e reprimere in ogni forma il nostro dissenso, per la sola colpa di esserci ribellati al loro decennale strapotere. Questo è ormai la Val di Susa, del resto: un pericoloso esempio per tutte e tutti, da sradicare con la forza. Cosa aspettate? Cosa aspettiamo? Se vogliamo un futuro, un futuro qualsiasi, non abbiamo scelta: dobbiamo sfidare la casta – tutta la casta! – e dobbiamo vincere. A Roma ci saremo per sentire ancora il vostro abbraccio, dopo mesi difficili in cui abbiamo sofferto, ma anche sognato; e tra i nostri sogni ci sarà sempre quello in cui vi vediamo marciare fin sotto i palazzi del potere, e lanciare tutti insieme il grido che arriva, forte e chiaro, dalla Spagna: Que se vayan todos!
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