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Posts Tagged ‘prigione’

Una chiacchiera tra mamme (alla mamma di Chiara,colpevole di resistere)

16 giugno 2014 Lascia un commento

Le prime righe che ho letto oggi son quelle della mamma di Chiara, una dei 4 arrestati a dicembre scorso, accusati di un assalto al cantiere dell’Alta Velocità a Chiomonte, in Val di Susa. Il carcere a loro riservato è il più duro possibile, il trattamento a loro riservato ha un accanimento privo di precedenti nella storia della lotta in Val Susa contro la Tav malgrado, oltretutto, l’azione di cui son accusati non abbia prodotto alcun ferito, ma il danneggiamento di un fottuto compressore.
Eppure si è arrivati a negare i colloqui con i conviventi, alla censura della posta,  all’Alta Sicurezza 2.
Oggi arrivano poche righe della mamma di Chiara e son belle che voglio condividerle con voi; alcune son prese in prestito da Saramago e dicono una grande verità sull’esser genitori.

Volevo ringraziare Maria Teresa allora, darle un bacio da mamma a mamma: lei ha una figlia in regime di Alta Sicurezza e quindi può abbracciare le parole di Saramago in pieno, può sentirsi in toto dentro delle righe, sentirne il calore.
Io questa catena l’ho spezzata, ho scoperto che non vale per tutti i figli, per il mio secondo figlio non valgono:
la disabilità di un figlio spezza la naturalità meravigliosa del “prestito”. Volevo un esserino in prestito per un pochino, per vederlo crescere e poi volar via libero come mi auguro che i figli di noi tutti possano fare: e invece la disabilità rende impossibile spiccare il volo ad ali aperte,
rende noi genitori compagni di vita contro natura, senza la possibilità di vivere la dolorosa gioia di “perderli” perchè alla conquista del loro mondo.
Il corso intensivo per imparare ad amare una vita diversa dalla nostra, quando c’è l’impossibilità all’autosufficienza, è estremamente diverso dal precedente: è un amore straziante e dolce, capace di fare grandi rivoluzioni e di spaccare in due il cuore, tutti i giorni, minuto per minuto.

Scrivo un accavallarsi di parole senza senso, ma volevo che arrivasse un po’ del mio calore a questa mamma la cui figlia combatte per la libertà in una cella,
un po’ del mio calore stanco, mentre cerco strumenti per imparare la mia nuova forma di amore,
e la ricerca di una libertà per mio figlio che forse sarà impossibile, ma che proverò comunque a costruire.
Un abbraccio a te grande mamma, e a tua figlia che combatte con tutte e tutti noi al suo fianco.

Sono la mamma di Chiara. Voglio ringraziare tutte le persone che ho conosciuto in Val Susa per la emozionante accoglienza. Fino ad ora non ho scritto niente da quel terribile nove dicembre. So di aver vissuto questo periodo chiedendomi tanti perché sulle scelte difficili di questa speciale e coraggiosa figlia. La risposta a queste mie domande mi è arrivata da questa poesia di Josè Saramago: “Un figlio è un essere che ci è stato prestato per un corso intensivo per imparare come si ama una persona diversa da noi stessi, cambiando i nostri peggiori difetti per dare i migliori esempi e imparare ad avere coraggio. Proprio così! Essere un genitore è il più grande atto di coraggio che si può fare, perché significa esporsi a tutti i tipi di dolore, in particolare, l’incertezza di agire correttamente e la paura di perdere qualcosa di così caro. Perdere? Come? Non è nostro, ricordi? Era solo un prestito!”
Un forte abbraccio a tutte le mamme e a tutti voi.

Maria Teresa Brazzelli

Note (dal carcere) sul processo in videoconferenza

28 Maggio 2014 Lascia un commento

Mi sarebbe piaciuto dir la mia nelle precedenti settimane, in cui questi processi in videoconferenza son comparsi anche tra noi,
e non solo per i detenuti sottoposti al regime di 41bis, ma ero anche io immersa in un altro tipo di reclusione, sempre totale, sempre maledetta.
Si sa, si sa che tutto quel che l’antimafia ha creato ha alzato il livello di totalità della già totale istituzione carcere: il 41 bis, come l’ergastolo, alzano la pena per tutti, aumentano la reclusione, l’isolamento e la sofferenza a tutto l’universo detenuto, anche a chi non ne è sottoposto,
anche alle “categorie” estranee alla criminalità organizzata.
Si sa, difendere ergastolo e 41bis “per i mafioso” è avallare tutto questo per chiunque: categoria dopo categoria ecco che il meccanismo si allarga. I “terroristi islamici” prima, gli anarchici poi (o sempre) e così via..
dobbiamo abbattere il carcere a partire dai suoi meccanismi più perversi, fino ad arrivare ad abbattere l’intera società penale.

Questo testo è evaso, è fuggito da una cella per arrivare qui,
è uscito da una prigione, è stato scritto da un prigioniero, uno di noi, uno di quelli che rivogliamo immediatamente tra le strade,
sopra le barricate, a calpestar l’asfalto verso la libertà di tutti:
buona lettura (tratto da Macerie)

Note sul processo in videoconferenza

La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.

La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’”ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.

“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,
fine aprile 2014

macerie @ Maggio 26, 2014

Appello per una campagna nazionale contro la Repressione e la Tortura di Stato

14 settembre 2013 1 commento

Un appello per una “campagna nazionale contro la repressione e la tortura di Stato” era quel che ci voleva per iniziare questa nuova stagione di lotte e mi apre il cuore, visto il solitario impegno di questo blog nel pubblicare quanto più materiale possibile a riguardo e nel far luce, durante tutto lo scorso anno sull’affaire Triaca.
Il 15 ottobre ci sarà finalmente la revisione del processo, che vedeva un torturato condannato per calunnia nel momento in cui aveva sporto denuncia ai suoi aguzzini: ora si può ristabilire un po’ di verità, ora possiamo mandare avanti una battaglia che faccia luce sulle metodologie che lo Stato ha usato per combattere “il terrorismo negli anni ’70/’80”, nient’altro che cilene.
Pubblico l’appello del Comitato “La tortura è di Stato, Rompiamo il Silenzio!”, ma prima ancora il ringraziamento di Enrico Triaca,
che il 15 ottobre avrà la possibilità di vedere i suoi aguzzini.

– Per informazioni sulla figura di De Tormentis leggi:
*Chi è De Tormentis?
* Il segreto di Pulcinella sull’identità del torturatore
– Per informazioni sulle tecniche di tortura usate contro i militanti della lotta armata, leggi:
* Ecco come mi torturò De Tormentis
* Il pene della Repubblica
* Le torture su Sandro Padula
– La tortura sulle donne, quel pizzico in più di sadismo a sfondo sessuale:
* Le torture su Paola Maturi e Emanuela Frascella
* Cercando Dozier in vagina
* Chi è Oscar Fioriolli

Approfitto di questo articolo per ringraziare tutti i compagni e compagne che in questi anni si stanno battendo per far sì che tale battaglia non sia portata avanti silenziosamente come se fosse una guerra personale, ma diventi collettiva e rumorosa, perché tale è, e tale deve essere!, perché l’uso della tortura da parte dello stato è uno strumento contro i movimenti politici di tutti i tempi e non solo del passato. Perché il tentativo di silenziare tale dibattito, la benevolenza con cui si trattano i torturatori smascherati, ci dice chiaramente che lo stato non ha nessuna intenzione di rinunciare a tale strumento, perché negli anni lo stato ha avuto buon gioco, con la complicità di buona parte della Società Civile, a negare tali pratiche, anzi, qualcuno è arrivato anche a giustificare la creazione di una “zona grigia” in periodi “eccezionali”. Una battaglia quindi che indaghi il passato non solo per ripristinare una verità VERA ma anche per capire il presente e futuro e attrezzarsi contro la propaganda infame e denigratoria di regime.

Enrico Triaca

 

1.       Il caso Triaca e la continuità della tortura negli apparati repressivi di Stato.

Lo scorso 18 giugno la Corte d’appello di Perugia ha accolto l’istanza di revisione del processo che nel 1978 vide condannato per calunnia Enrico Triaca dopo che questi, arrestato il 17 maggio dello stesso anno nel corso delle indagini sul caso Moro, denunciò di aver subito torture fisiche e psicologiche fin dalle prime ore che seguirono la sua cattura. Il prossimo 15 ottobre, dunque, saranno chiamati a testimoniare personaggi chiave che hanno ricostruito o custodito le confidenze di Nicola Ciocia, alias “Professor De Tormentis” – capo della squadra di aguzzini alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, istituita per estorcere confessioni ai militanti delle Br nel pieno della guerra civile che si combatteva in Italia alla fine degli anni ’70. In calce a queste brevi righe abbiamo selezionato una piccola bibliografia che vuole essere in grado, seppur sommariamente, di ricostruire la vicenda di Enrico Triaca: l’obiettivo che ci prefiggiamo è, infatti, anche quello di riscostruire in maniera pubblica e collettiva una storia che è stata volutamente sepolta nel dimenticatoio della storia italiana per oltre 35 anni. Ciononostante, non è solo la vicenda di Triaca in sé a spingerci a scrivere e diffondere questo appello. Crediamo infatti che oggi, nei giorni in cui si fa forte nella sinistra antagonista la discussione pubblica sull’amnistia e sull’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento penale, sia doveroso non lasciare taciute le evidenti connessioni che legano la repressione di Stato odierna alla sistematica opera di distruzione, nei decenni ’70-’80, dei tentativi rivoluzionari e di tutte le esperienze politiche che portarono a un livello senza precedenti lo scontro di classe nell’Italia postbellica. Seppur con intensità differenti e direttamente proporzionali alle forze messe in campo dal movimento di classe, lo Stato ha agito una strategia di annientamento delle forze politiche e sociali che hanno provato a invertire e sovvertire i rapporti di forza nel nostro paese. Una strategia giocata senza esclusione di colpi, ricorrendo alla violenza politica e alla tortura, andando ben oltre i limiti consentiti dalle leggi “democratiche”, con buona pace della litania che ci propinano da decenni sulla “vittoria legale” dello Stato nella “guerra contro il terrorismo”. Il caso Triaca assume quindi una forte valenza simbolica, sineddotica: da un lato grimaldello per fare opera di memoria su quanto accaduto in Italia ai militanti politici tra il ’78 e l’82, dall’altro spiraglio per aprire un dibattito storicizzante sulle lotte degli anni’70, senza tabù e rischi di astrazioni decontestualizzanti volte a perimetrarne la portata e screditare con sommario arbitrio le esperienze rivoluzionarie che ne furono avanguardie.

2.       La campagna che immaginiamo: vademecum per le lotte di oggi.

Proprio un’attenta analisi di questa linea di continuità nella repressione di Stato ci spinge oggi a prendere parola in questi termini, provando a inquadrare il fenomeno delle torture in un’ottica differente, di classe, capace di discernere il singolo episodio di sadismo delle forze dell’ordine da un disegno più ampio, studiato, calibrato sulla preoccupazione che le lotte sociali e politiche sono oggi in grado di destare nelle articolazioni nazionali del capitale. Testimone di questa nostra volontà è l’obiettivo che vediamo alla fine del processo che si sta istruendo: non una cieca volontà di risarcimento giudiziario (nonostante l’assoluzione di Triaca faccia parte del giusto risultato cui tende la campagna), ma una testimonianza politica che sia in grado di riportare alla luce del dibattito nazionale l’analisi delle strategie di Stato in termini di repressione e controrivoluzione preventiva. Le stesse sospensioni di diritto praticate nella caserma di Bolzaneto, nel 2001, sono figlie – siamo certi – di quella lunga e continua filiera repressiva che gli apparati di governo hanno messo a punto per esercitare non solo una certosina bonifica dell’insorgenza rivoluzionaria e di classe ma anche per perfezionare un sadico strumento di deterrenza preventiva. Con gli stessi scopi è stata negli anni varata una serie di provvedimenti – dai «braccetti della morte» dell’articolo 90 della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 (isolamento totale, divieto di corrispondenza, divieto di acquisto di libri e quotidiani), poi non rinnovato dalla metà degli anni ’80, al «regime di carcere duro» (un solo colloquio al mese attraverso un vetro divisore, censura della corrispondenza, una sola ora d’aria al giorno) previsto dall’articolo 41 bis della stessa legge e modificato nel 1992 – inizialmente diretti agli accusati per mafia e, in seguito, estesi ai militanti politici e ad altri detenuti. Pensati in chiave deterrente e terroristica,  oltre ad essere veri e propri strumenti di “tortura raffinata”, essi mirano ad annientare (fisicamente e psicologicamente) i detenuti sottoposti a queste condizioni. Fare luce su ciò che incombe sul nostro passato è dunque il primo passaggio per avere chiaro quale deve essere il parametro con cui decifrare l’attuale stretta repressiva che i movimenti e le opzioni politiche antagoniste stanno subendo. Assumono così un senso ancor più profondo e chiaro le dure condanne per la giornata di piazza a Roma lo scorso 15 ottobre 2011, così come crediamo siano legate alla stessa logica di repressione preventiva le numerose carte che giacciono sui tribunali chiamati a criminalizzare le lotte per il diritto all’abitare come le lotte contro l’alta velocità, le battaglie sui luoghi di lavoro e quelle per la difesa dell’istruzione pubblica. Liberare gli anni ’70, favorirne un dibattito squisitamente politico, storicizzare il ciclo di lotte per cui oggi ancora qualcuno paga nella solitudine di una cella, crediamo siano i risultati cui mirare insieme. Contestualizzare all’oggi queste rotte di riflessione e legarle alle lotte contro il 41bis e l’ergastolo che molti detenuti politici hanno lanciato nel corso degli anni sono gli obiettivi che si pone questa specifica campagna, nella convinzione che senza una presa di coscienza collettiva su ciò che sono state la repressione e la tortura di Stato nei decenni passati non si può immaginare di affrontare con determinazione e forza d’animo le lotte che vogliamo costruire domani.

  1. Verso l’udienza del 15 ottobre. Che fare?

Il tempo è galantuomo, e dopo 35 anni offre alla Corte d’appello di Perugia la possibilità di revisionare il processo che nel ’78 condannò Enrico Triaca a 1 anno e 4 mesi per calunnia. Ma il tempo è tiranno, si sa anche questo, e ci lascia un margine molto ristretto per ottimizzare le energie di tutte e tutti in questa campagna. Come primo step immaginavamo di poter sottoporre questo breve appello (i punti 1 e 2) a tutte le realtà, strutture e singolarità che vogliano impegnarsi in questa direzione; soggetti politici che condividano non solo la volontà di fare luce sul caso Triaca ma anche, e soprattutto, la necessità di chiarire quali furono le strategie di Stato che hanno oliato una macchina repressiva ancora oggi in funzione. Il Comitato “La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio!” si impegnerà a promuovere – attraverso l’autonoma condotta dei singoli aderenti – azioni, campagne di sensibilizzazione, interventi, segnalazioni e quant’altro sia utile all’implementare il dibattito in vista dell’udienza del 15 ottobre. Nella speranza e con l’auspicio di poter crescere giorno dopo giorno, firma dopo firma, valuteremo se dovessero esserci le forze per indire, nella giornata del 15 ottobre e a partire dalle ore 9, un presidio sotto la Corte d’appello di Perugia (Piazza Matteotti), in concomitanza con la prima (e forse più importante) udienza del nuovo processo, in cui verranno ascoltati i tre teste chiave (Nicola Rao, Matteo Indice e Salvatore Rino Genova. Per maggiore informazioni sui personaggi citati e il ruolo che ricoprono nella vicenda di Enrico Triaca rimandiamo alla bibliografia che segue).

COMITATO “LA TORTURA è DI STATO! ROMPIAMO IL SILENZIO!”

Settembre 2013

Prime adesioni:

Valerio Evangelisti (scrittore), Osservatorio sulla Repressione, Caterina Calia (avvocato), Cristiano Armati (Red Star Press), Collettivo Militant – Roma (Noi Saremo Tutto), Mensa Occupata – Napoli (NST), Insurgent City – Parma (NST), LP Gagarin 61 – Teramo (NST), Rete dei Comunisti, “Polvere da sparo” baruda.net (blog), Insorgenze (blog), La Scintilla – Bellinzona, Enrico Di Cola, Zaccaria Dale…

Per info e adesioni:

rompiamoilsilenzio@autistici.org

rompiamoilsilenzio.wix.com/home

www.facebook.com/latorturaedistato

***

Bibliografia sul “caso Triaca”:

Progetto Memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998.

Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le BR. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer, 2011.

http://www.militant-blog.org/?p=9311

http://insorgenze.wordpress.com/2013/06/20/non-erano-calunnie-il-tribunale-di-perugia-riapre-il-processo-sulle-torture-contro-le-br/

http://insorgenze.wordpress.com/2012/01/19/enrico-triaca/

http://insorgenze.wordpress.com/2012/01/25/enrico-triaca-dopo-la-tortura-linferno-del-carcere-seconda-parte/

http://insorgenze.wordpress.com/2013/06/18/il-processo-alle-torture-di-fara-la-corte-dappello-di-perugia-accoglie-la-richiesta-di-revisione-della-condanna-contro-il-tipografo-delle-br/

http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0482/sed0482.pdf – Resoconto stenografico delle sedute alla Camera del 22 e del 23 marzo 1982 “Interpellanze e interrogazioni sulle presunte violenze subite dai detenuti accusati di terrorismo”

http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0528/sed0528.pdf – Resoconto della seduta alla Camera del 6 luglio 1982 “Interpellanze e interrogazioni sull’arresto di cinque appartenenti alla polizia di stato”

http://alienati.org/antipsichiatria/ebooks_2009-01-05/La%20Tortura%20in%20Italia.pdf – Pdf del libro bianco sulla tortura in Italia (1982)

https://www.youtube.com/watch?v=HqI1QPSqYWg – Intervista a Triaca e a Genova (in cui ammette la tortura) a “Chi l’ha visto?”

Categorie:ANNI '70 / MEMORIA, Torture in Italia Tag:, , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Carceri: accenno di rivolta a Cagliari e un appello per l’amnistia sociale! DIFFONDETELO!

10 luglio 2013 4 commenti

Un blog che continua ad avere zaino in spalla (più piccolo del pancione che mi porto dietro comunque) e che per ancora una settimana sarà dormiente e poco vigile;
un blog che proprio ora che l’Egitto necessita di esser raccontato non ha modo di farlo, di analizzare insieme, tradurre materiale, capire collettivamente: mi dispiace, ma ci voleva cavolo un po’ di pausa vera e propria dalla rete.

Quando il carcere si rivolta

Torno eh, non vi agitate 🙂

Intanto, proprio perché la terra che ora mi ospita è questa,
proprio perché anche quest’estate è iniziata con un viaggio “Liberante”, che cerca di liberare spazi almeno dal “fine pena mai” dell’ergastolo, vi allego una notizia dal carcere Buoncammino di Cagliari, a pochi chilometri da qui, dove la rivolta era nell’aria da tempo e sembra esser scoppiata, almeno nel suo accenno iniziale.

DA ARREXINI:
Da questa sera è nuovamente in fermento il carcere di Cagliari, Buoncammino, dopo la protesta di qualche settimana fa che aveva visto la stesura di una lettera firmata da numerosi detenuti e dato vita ad uno sciopero del carrello. La protesta è partita dall’ala sinistra dove i detenuti hanno deciso di barricarsi dentro le celle e bruciare suppellettili. Sono spuntati anche degli striscioni contro il sovraffollamento e le condizioni precarie del carcere, ma soprattutto contro le vessazioni che sono costretti a subire oltre alla privazione della libertà. Tra questi chi era sul posto ha potuto leggere solo la fine di uno striscione che recitava così “…e uno finisce in isolamento”, un trattamento probabilmente riservato a chi si lamenta delle condizioni in cui si vive a Buoncammino. Per tutta risposta le guardie del penitenziario hanno spento loro le luci. Le testimonianze sono state raccolte da una ventina di solidali che hanno raggiunto le mura del carcere per portare loro sostegno e capire quali erano le richieste. Questi ultimi sono poi stati fermati da agenti della DIGOS per il controllo delle le generalità. Mentre scriviamo pare che la protesta sia terminata ma e’ indubbio che le condizioni sempre più disperate dei detenuti porteranno a nuove clamorose proteste.

AMNISTIA PER I REATI SOCIALI, LIBERTA’ PER TUTTI E TUTTE

Rivolta, che per la situazione delle carceri attuali è un po’ un parolone…
Adriano Sofri scriveva poche righe, che aiutano a capire come una vera lotta di detenuti per detenuti sia oggi molto difficile senza una spinta esterna che non sia solo soldarietà di imprenditori e professionisti della compassione, proprio a causa della compagine sociale presente nelle nostre prigioni, e della dimensione di sudditanza anche chimica che vivono.

“Non ci saranno rivolte e grandi scioperi delle carceri perché il loro oggi è un popolo di vinti e di divisi, di schiacciati,
in pochissimi hanno la forza di rivendicare un diritto, fosse anche solo una branda al posto di un materasso lurido sul suolo.
Intanto chiederanno qualche goccia in più di psicofarmaco o si tagliuzzeranno le braccia o la pancia.
Non c’è da preoccuparsene dunque, per il momento”

Per questo non dobbiamo guardare al carcere come ad una realtà che può autoliberarsi ora, senza il nostro aiuto:
noi da fuori abbiamo il grande compito di occuparci di loro, di lottare per farli uscire, per fargli assumere consapevolezza della condizione di reclusione e isolamento (ripeto, anche farmacologico) che vivono.
Qui l’appello per l’AMNISTIA SOCIALE che sta girando in questi giorni e che a breve sarà lanciato in larga scala:
leggetelo e diffondetelo, perché partire dalla richiesta di un’amnistia che si occupi (per la prima volta, visto che sono i reati da sempre esclusi da ogni forma di indulto o amnistia) di reati sociali vuol dire far partire una campagna liberante per tutti i reclusi,
spesso inconsapevoli della loro stessa condizione.

Negli ultimi mesi, fra alcune realtà sociali, politiche e di movimento, ma anche singoli compagni e avvocati, è nato un dibattito sulla necessità di lanciare una campagna politica sull’amnistia sociale e per l’abrogazione del Codice Rocco. Da tempo l’Osservatorio sulla repressione ha iniziato a effettuare un censimento sulle denuncie penali contro militanti politici e attivisti di lotte sociali. Ora abbiamo la necessità, per costruire la campagna, di un quadro quanto più possibile completo, che porterà alla creazione di un database consultabile on-line. Ad oggi sono state censite 17 mila denuncie.
Il nuovo clima di effervescenza sociale degli ultimi anni, che non ha coinvolto solo i tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale ma anche ampie realtà popolari, ha portato a una pesante rappresaglia repressiva, come già era accaduto nei precedenti cicli di lotte. Migliaia di persone che si trovavano a combattere con la mancanza di case, la disoccupazione, l’assenza di adeguate strutture sanitarie, la decadenza della scuola, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il saccheggio e la devastazione di interi territori in nome del profitto, sono state sottoposte a procedimenti penali o colpite da misure di polizia. Così come sono stati condannati e denunciati militanti politici che hanno partecipato alle mobilitazioni di Napoli e Genova 2001 e alle manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma.
Il conflitto sociale viene ridotto a mera questione di ordine pubblico. Cittadini e militanti che lottano contro le discariche, le basi militari, le grandi opere di ferro e di cemento, come terremotati, pastori, disoccupati, studenti, lavoratori, sindacalisti, occupanti di case, si trovano a fare i conti con pestaggi, denuncie e schedature di massa. Un “dispositivo” di governo che è stato portato all’estremo con l’occupazione militare della Val di Susa. Una delle conseguenze di questa gestione dell’ordine pubblico, applicato non solo alle lotte sociali ma anche ai comportamenti devianti, è il sovraffollamento delle carceri, additate dalla comunità internazionale come luoghi di afflizione dove i detenuti vivono privi delle più elementari garanzie civili e umane. Ad esse si affiancano i CIE, dove sono recluse persone private della libertà e di ogni diritto solo perché senza lavoro o permesso di permanenza in quanto migranti, e gli OPG, gli ospedali di reclusione psichiatrica più volte destinati alla chiusura, che rimangono a baluardo della volontà istituzionale di esclusione totale e emarginazione dei soggetti sociali più deboli.
Sempre più spesso dunque i magistrati dalle aule dei tribunali italiani motivano le loro accuse sulla base della pericolosità sociale dell’individuo che protesta: un diverso, un disadattato, un ribelle, a cui di volta in volta si applicano misure giuridiche straordinarie. Accentuando la funzione repressivo-preventiva (fogli di via, DASPO, domicilio coatto), oppure sospendendo alcuni principi di garanzia (leggi di emergenza), fino a prevederne l’annientamento attraverso la negazione di diritti inderogabili. È ciò che alcuni giuristi denunciano come spostamento, sul piano del diritto penale, da un sistema giuridico basato sui diritti della persona a un sistema fondato prevalentemente sulla ragion di Stato.
Non è quindi un caso che dal 2001 a oggi, con l’avanzare della crisi economica e l’aumento delle lotte, si contano 11 sentenze definitive per i reati di devastazione e saccheggio, compresa quella per i fatti di Genova 2001, a cui vanno aggiunte 7 persone condannate in primo grado a 6 anni di reclusione per i fatti accaduti il 15 ottobre 2011 a Roma, mentre per la stessa manifestazione altre 18 sono ora imputate ed è in corso il processo.
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future urtando quelle presenti. Le organizzazioni della classe operaia, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alle campagne per l’amnistia per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Oggi sollevare il problema politico della legittimità delle lotte, anche nelle loro forme di resistenza, condurre una battaglia per la difesa e l’allargamento degli spazi di agibilità politica, può contribuire a sviluppare la solidarietà fra le varie lotte, a costruire la garanzia che possano riprodursi in futuro. Le amnistie sono un corollario del diritto di resistenza. Lanciare una campagna per l’amnistia sociale vuole dire salvaguardare l’azione collettiva e rilanciare una teoria della trasformazione, dove il conflitto, l’azione dal basso, anche nelle sue forme di rottura, di opposizione più dura, riveste una valenza positiva quale forza motrice del cambiamento.
In un’ottica riformatrice le amnistie politiche sono sempre state strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Sono servite a ridurre la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento, incidendo sulle politiche penali e rappresentando passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità. È stato così per oltre un secolo, ma in Italia le ultime amnistie politiche risalgono al 1968 e al 1970.
Aprire un percorso di lotta e una vertenza per l’amnistia sociale – che copra reati, denuncie e condanne utilizzati per reprimere le lotte sociali, le manifestazioni, le battaglie sui territori, gli scontri di piazza – e per un indulto che incida anche su altre tipologie di reato, associativi per esempio, può contribuire a mettere in discussione la legittimità dell’arsenale emergenziale e fungere da vettore per un percorso verso una amnistia generale slegata da quegli atteggiamenti compassionevoli e paternalisti che muovono le campagne delegate agli specialisti dell’assistenzialismo carcerario, all’associazionismo di settore, agli imprenditori della politica. Riportando l’attenzione dei movimenti verso l’esercizio di una critica radicale della società penale che preveda anche l’abolizione dell’ergastolo e della tortura dell’art. 41 bis.
Chiediamo a tutti e tutte i singoli, le realtà sociali e politiche l’adesione a questo manifesto, per iniziare un percorso comune per l’avvio della campagna per l’amnistia sociale.
A coloro che hanno a disposizione dati per il censimento chiediamo di compilare
la scheda che può anche essere scaricata dal sito www.osservatoriorepressione.org
Schede e adesioni vanno inviate a: osservatorio.repressione@hotmail.it oppure amnistiasociale@gmail.com

Giugno 2013

Puoi scaricare la scheda qui

il 7 aprile, una data tutta da leggere

7 aprile 2013 Lascia un commento

disegno_graffiti_baloonCi son date in cui la memoria si accavalla, con stratificazioni di anni e di capitoli importanti della storia del movimento operaio e rivoluzionario, come della resistenza romana.
Il 7 aprile è una data che dal 1944, con l’eccidio delle donne di Ponte di Ferro,
al 1976  quando l’agente penitenziario Velluto uccise Mario Salvi, compagno del Comitato Proletario di Primavalle,
al 1979 con l’ondata di arresti causati dalla delirante inchiesta Calogero, dal suo “teorema”.
E allora non faccio altro che mettervi una carrellata di link di materiale già presente in questo blog,
perché la memoria, tutta, sia un arma di formazione e approfondimento, e non uno sterile e trasversale delirio commemorativo e vittimistico.

 7 aprile 1944:
Le donne di Ponte di Ferro
7 aprile 1976:
A Mario Salvi, ucciso da un agente penitenziario
7 aprile 1979:
Processo all’autonomia
Franco Fortini sul 7 aprile
Quando lo Stato si scatenò contro i movimenti
Il 7 aprile 30 anni dopo
Scalzone risponde a Gasparri sul 7 aprile

Categorie:ANNI '70 / MEMORIA, L'Italia e il movimento, Per i compagni uccisi..., resistenza Tag:, , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

L’ergastolo e le farfalle

2 marzo 2013 11 commenti

“Una farfalla si posò sul polpastrello del mio dito medio,
vi adagiò l’addome,
e mi portò all’orgasmo.”

“L’ergastolo io lo penso come la maggioranza di quelli che sono come me: non è una pena indefinita.
Prima o poi finirà, devono capire.”

Mio caro,
ho sognato che venivo a Rebibbia per il nostro consueto colloquio,
ma tu non c’eri, non è che eri stato trasferito in un altro carcere, non c’eri proprio più.
Al risveglio mi son chiesta se esisti veamente.
Questo nostro rapporto è difficile e mi sento vecchia anzitempo.
Preferirei lasciar passare un po’ di tempo prima di venire nuovamente a colloquio.

TU PUOI CONTARE I GIORNI, PER ME E’ SEMPRE 1,1,1,1 …

[Tratto da Ergastolo, di Nicola Valentino, edizioni Sensibili alle Foglie]
ADOTTA IL LOGO CONTRO L’ERGASTOLO: Qui il sito Liberidallergastolo;libera i tuoi spazi, reali e virtuali, dall’aberrazione del FINE PENA MAI

CIE: banane ed evasioni …

11 dicembre 2012 2 commenti

La mattina dopo stiracchiamenti vari,  cappuccino,  e  necessari passaggi igienico-sanitari consiglio a tutte e tutti coloro che mi leggono,
di aprire il sito Macerie,
occhio attento e vigile sull’universo dei lager della nostra splendida, democraticissima, civile società: i Centri di Identificazione ed Espulsione.
Un occhio vigile sopratutto su chi riesce a fuggire, evadere, riappropriarsi della propria libertà…
per quello ve lo consiglio,
perché non c’è cosa più bella di “una bella” , quindi diffondiamone la voce, quando accade…

O quando ci si prova…
W le lime, W la libertà,
W i complici di ogni evasione.
Il post che leggerete qui sotto è tratto da QUI

Un bel cesto di Banane. Banane di Porta Palazzo, s’intende, banane ripiene di lime. Non un lime nel senso di frutto tropicale, ma proprio cinque seghetti da ferro, di quelli buoni per segare le sbarre. Le banane in questione erano in un pacco che un anarchico di Torino ha portato mercoledì pomeriggio all’ingresso del Cie di corso Brunelleschi, ma purtroppo le lime sono state beccate.

«Che faccia tosta! – esclama la guardia dopo la scoperta – immaginare che a consegnare nelle mani di un prigioniero gli strumenti per riguadagnarsi la libertà fosse proprio un ignaro poliziotto.» «Questo ha letto troppi fumetti!» ridacchiano in questura e nelle redazioni dei giornali. «Che ingenuo! – sentenzia il saggio – non sa che esistono i metal detector?» «E che stolto! – gli fa eco il prudente – non poteva farle portare da qualcuno meno in vista che passasse inosservato?»

Se a poliziotti e giornalisti è buona usanza non rispondere, a tutti gli altri vale forse la pena di dir qualcosa. Ai saggi, basta ricordare tutte le volte che nel recente passato i prigionieri del Cie di Torino (e non solo) le sbarre le han segate per davvero, e che quindi dei seghetti in qualche modo saranno pur entrati, anche se chi sia riuscito a gabbare i controlli, e in che modo, non è dato sapere. Ai prudenti, diciamo semplicemente che non si può aspettare che un altro faccia quel che va fatto, che non si può delegare agli altri quel che la coscienza detta di fare.

Forse le banane non sono il posto migliore per imboscarle, ma l’unica domanda da porsi riguardo alle lime da ferro, dunque, non è tanto se sia possibile farle entrare o chi possa farlo, ma per l’appunto il come riuscirci. Per scoprirlo, occorrerà semplicemente provarci e riprovarci ancora, e sempre, o fino a quando non ci saranno più sbarre da segare.

Un anno e mezzo di lime (senza banane)

Nell’aprile 2011 una ventina di reclusi tentano di evadere dal Cie di Bologna. Si sono aperti un varco tagliando una sbarra di ferro e poi hanno scavalcato la seconda recinzione: in quindici guadagnano la libertà, altri vengono fermati dalla polizia. Soltanto il giorno dopo, durante una perqusizione, verranno ritrovati alcuni seghetti artigianali usati per l’evasione.

Nel settembre 2011, in due differenti evasioni, più di trenta reclusi scappano dal Cie di Torino. Il 9 settembre ce la fanno in dodici: lavorando con dei seghetti da ferro per più di un mese, i reclusi dell’area viola si erano preparti un varco nella rete e si erano costruiti pezzi di metallo affilati per tenere lontane le guardie durante la fuga. Durante le perquisizioni effettuate nei giorni successivi, la polizia non troverà traccia dei seghetti, rimasti forse ben nascosti in qualche angolo segreto del Centro. Non passano neanche due settimane e il 22 settembre scoppia una sommossa nel Centro. Le serrature delle gabbie, danneggiate di nascosto nei giorni precedenti, vengono scardinate e si aprono nuovi varchi nelle reti. La polizia riesce a fermare e arrestare dieci fuggitivi, ma in ventidue riescondo ad evadere.

Nel dicembre 2011, sempre dal Cie di Torino, evadono ventisei reclusi. La notte di Natale, approfittando della carenza di personale e del mancato intervento del fabbro per riparare i danni alle gabbie, i reclusi di tutte le sezioni maschili inziano una sommossa. Quasi contemporaneamente escono dalle gabbie, attraverso varchi aperti nelle reti o forzando le porte. Molti vengono fermati, ma in ventuno riescono ad evadere. Nei giorni successivi la Polizia alza il livello di guardia e in una delle tante perquisizioni viene ritrovato un seghetto. I reclusi non si perdono d’animo e la notte di Capodanno ci riprovano. Nonostante la Questura avesse riempito il centro di carabinieri in antisommossa, i ragazzi dell’area blu escono dopo aver forzato la porta, si scontrano con le guardie, e iniziano a scavalcare il muro di cinta. Le volanti che controllavano il perimetro esterno del Centro riescono a catturare un solo evaso, altri cinque invece sono liberi.

Nel maggio 2012 è il turno dei reclusi del Cie di Modena. Il 12 la Questura ordina una perquisizione a sorpresa nel blocco 6 e scoppia una sommossa. Poliziotti e militari vengono aggrediti da una sessantina di reclusi armati di sbarre di ferro e sono costretti a rimandare la perquisizione. Aluni giorni dopo gli agenti riescono a fare irruzione nel blocco e trovano dieci metri di lenzuola di carta annodate e quattro seghetti nascosti in un bocchettone dell’impianto di aerazione. La Polizia, forse convinta di aver sventato il piano dell’evasione, abbassa la guardia e canta vittoria sui giornali. Evidentemente i seghetti avevano già fatto il loro lavoro, e infatti un paio di giorni dopo una dozzina di reclusi riesce ad evadere dal Centro.

macerie @ Dicembre 9, 2012

Compra Scarceranda, ODIA il carcere!

27 novembre 2012 2 commenti

E’ già possibile acquistare Scarceranda, l’agenda di Radio Onda Rossa contro il carcere,

Disegno tratto da Scarceranda 2013

che viene inviata gratuitamente a chiunque sia privato della propria libertà.
Ancora una volta un agenda che vada a scandire giorno dopo giorno l’
ODIO per il carcere, e il desiderio,
semplice e così facile da capire,
di distruggerlo, abbatterlo, ridurre il carcere in macerie.
Il carcere, in ogni sua forma.

E domani avremo il piacere di presentarla a Roma, al Forte Prenestino,
in una bella serata contro il carcere, per gli amanti della libertà

ore 20,30 presentazione dell’AGENDA 2013 e cena contro il carcere
ore 22 proiezione di “CESARE DEVE MORIRE”
di Paolo e Vittorio Taviani (Ita 2012) 76′

Qui invece potete trovare l’elenco dei testi presenti sul quaderno allegato all’agenda:
testi di Salvatore, Paolo, Nicola Valentino, Vincenzo Ruggero, un mio brano, i testi della campagna 10×100 e molte lettere, poesie e ricette provenienti direttamente dal carcere, così come i tanti disegni.

Scarceranda 2013 + Quaderno 08

SENZA IL CARCERE
Dal carcere un grido: Amnistia! – S. Ricciardi
L’abolizionismo penale è possibile ora e qui – V. Ruggiero
Porta un fiore per l’abolizione dell’ergastolo – N. Valentino
L’ideologia vittimaria – P. Persichetti

IL CARCERE DENTRO
Pillole carcerarie – P. Persichetti

IL CARCERE FUORI
Perugia: La strategia della paura – Info404
G8 Genova 2001 non è finita – Campagna 10×100

POESIE
Marco Cinque, Fabio Costanzo, Valentina Perniciaro, Emidio Paolucci, Manuela Fedeli, K.H., Sergio Gaggiotti “Rossomalpelo”, Daniela Del Gaizo

LETTERE

INDIRIZZI DELLE CARCERI ITALIANE

COMPRA SCARCERANDA! Per ogni copia venduta un’altra verrà inviata ad un detenuto.
ODIA IL CARCERE!

Una lettera per chiedere solidarietà, dalle carceri greche…

28 Maggio 2012 Lascia un commento

Lettera di Andrè Mazurek, detenuto da 3 anni e mezzo a Larissa (Grecia) dopo la rivolta del dicembre 2008.
Condannato a 11 anni.
Dal sito OccupiedLondon

Sono ormai più di tre anni che mi trovo rinchiuso nelle prigioni greche, più precisamente dall’ 11/12/2008 e gli scontri che seguirono all’assassinio di Alexandros Grigoropoulos ad Exarchia, Atene.
Mi chiamo Andrea Mazourek e vivo in Grecia dal 2007, più precisamente da maggio 2007. Io sono polacco e non conoscendo bene la lingua, ho lavorato qui in diversi posti di lavoro precari. Mentre vivevo qui da 1 anno e mezzo ho saputo dell’assassinio di Alexis e insieme agli altri ho manifestato per le strade di Atene tutta la mia rabbia.

Foto di Valentina Perniciaro _ Le notti in cui i MAT assediavano il Politecnico, dicembre 2008_

L’11 dicembre 2008, all’angolo tra via Solonos e via Sturnari, mentre camminavo con gli altri verso il Politecnico, siamo stati circondati dai maiali del MAT (squadre anti-sommossa della polizia) e poliziotti in borghese che hanno iniziato a picchiarci, ci hanno arrestato e portato nella questura di Atene, dove, dopo essere stato trasformato per un altro paio di volte in un sacco da boxe, ci hanno portato alle celle di detenzione del 7° piano.
La mattina successiva un dipendente dell’ambasciata polacca è venuto ad aiutare i poliziotti nei loro interrogatori.
L’ambasciata polacca ha falsamente riferito ai media che sono venuto in Grecia per partecipare all’insurrezione … Poi, il giorno dopo, mi hanno portato davanti al giudice che  mi ha contestato i reati di tentato omicidio, esplosione, fabbricazione e possesso di esplosivi ; e mi ha messo in custodia cautelare senza nemmeno avere la possibilità di discolparmi, dal momento che il traduttore che mi avevano assegnato era un arabo che conosceva poco sia il greco che il polacco, e non era stato mandato dall’ambasciata.
Gli stati cooperano perfettamente di fronte al “nemico interno” … Il giudice ha richiesto di mandarmi in un ospedale dopo la conclusione del procedimento ma questo non è successo. Dopo il mio arrivo nella prigione di Korydallos, le guardie carcerarie si sono scagliate su di me gridando che avevo bruciato le loro auto e mi hanno messo in un reparto dove nessuno parlava polacco, e invece di mandarmi in ospedale mi hanno dato un analgesico. Una settimana dopo, mi annunciano che c’è un altro mandato di arresto per me in Polonia …
Di settimana in settimana il tempo passa e le ferite sono guarite, ma la rabbia cha continuato a vivere dentro di me per tutti questi 3 anni e mezzo in cui  sono tenuto prigioniero nelle celle  della prigione democratica. L’11 giugno la Corte d’Appello mi ha condannato a 11 anni di prigione ed è per questo che vi chiedo solidarietà, se e in qualsiasi modo lo riterrete adeguato …
Dichiaro inoltre che non ho dimenticato nessuno di quelli che mi hanno picchiato, mi hanno messo in carcere e continuano a privarmi della mia libertà, mentre l’ assassino Saraliotis [uno dei poliziotti che ha sparato ad Alexis] è stato rilasciato dopo un anno e ora va in giro libero.
Ci ritroveremo nelle strade, ancora una volta, con tutti coloro che non hanno dimenticato, che hanno rotto e bruciato le vetrine che coprono l’ ipocrisia di questo vecchio mondo, che hanno combattuto e continuano a combattere. Possono impedirmi di essere lì con voi, ma voi potete continuare per tutti coloro che sono nelle carceri e non sulle strade, e proseguire per Alexandros Grigoropoulos.

La solidarietà è l’arma del popolo,
GUERRA CONTRO LA GUERRA DEI PADRONI
Andre Mazurek, detenuto nel carcere di Larissa

Altro sulla Grecia QUI, dalla rivolta per Alexis in poi…

Nei CIE ci si rivolta: la libertà chiama!

28 Maggio 2012 Lascia un commento

Son riusciti ad attraversare il cimitero liquido che è ormai il nostro Mar Mediterraneo,
son riusciti da mille martoriati punti di questa terra ad arrivare in quest’illusione europea di una vita diversa,
o comunque di una fonte di reddito che potesse magari sfamarla tutta, la casa da dove si è partiti.

Foto di “Medici per i Diritti Umani”

Sanno bene quindi, i giovani migranti che arrivano a colorare questo paese delle loro storie, cosa sia la libertà,
e quanto sia costosa, faticosa, pericolosa, spesso irraggiungibile.
I meccanismi infernali dei CIE, i centri di identificazione ed espulsione per i migranti irregolari che si azzardano a calpestare suolo italico, li abbiamo raccontati tante volte; lo scempio di finire tra delle maledette recinzioni solo per aver osato tentare,
solo per aver camminato senza un documento in un’Europa che difende i suoi confini come oro (forse perché gli è rimasto solo quello) è una delle pagine più vergognose di questa sventolante bandiera blu dalle tante stelline.

Pensavo l’altro giorno a come sarà bello spiegar la geografia a mio figlio, spiegargli i fiumi e i monti, i mari e i laghi come confini naturali tra popoli e lingue, usanze e sapori… poi? Come gliela spiego la terra dov’è nato?
Poi bho, sapessi disegnare farei una prigione, tutta circondata da filo spinato, muri, telecamere, barriere, soldati, radar …
Altro che il ponte levatoio, i coccodrilli, gli arcieri sulle torri, è tutto un po’ meno romantico, tutto surreale e di una violenza incalcolabile.
Deliro, lo so…ma la lucidità in queste settimane vola via appena accenno anche solo da lontano a qualcosa che abbia a che fare con la privazione di libertà.

Il sito Macerie ci racconta la sommossa e la fuga dal Cie di Modena, ci racconta come bastoni alla mano alcune decine di persone hanno provato a riprendere la via della propria fuga, pochi giorni fa.
Solo da poco si viene a sapere che più o meno nelle stesse ore, nel CIE di Ponte Galeria c’è stata una rivolta di grossa portata, tanto che il “povero” Maurizio Improta (capo dell’ufficio immigrazione della questura di roma) s’è dovuto svegliare alle 4 del mattino per andare a trattare e cercar di far tornare la calma. Tutto questo dopo un tentativo di evasione che, ci raccontano, è partito spranghe alla mano, e con l’uso di 27 lacrimogeni da parte della polizia di Stato, che per ore ha ricacciato nelle gabbie tutti coloro che tentavano di scappare.
Al contrario di Modena, nessuno è riuscito a fuggire e non si contano nemmeno feriti.

Lascia un po’ sconcertati la dichiarazione consigliere comunale del Pd Maurizio Dori dopo la rivolta nel lager per migranti di Modena: “E’ un episodio gravissimo, la vita di chi è deputato al controllo del Cie è stata messa a rischio. Questi uomini, tra l’altro, eseguono i loro compiti senza essere armati.
Questo brav’uomo vorrebbe le pistole nei reparti dei CIE e delle prigioni addosso a polizia e secondini?
Io inviterei il signor Maurizio Dori a una settimanella di camera di sicurezza, un soggiorno brevissimo in 41 bis…
poi, dopo, ne riparliamo eh!?!

NOCIE
NOJAIL
TUTT@LIBER@ 

Ancora su De Tormentis: il commento di Enrico Triaca, tipografo delle Br, torturato e poi denunciato per calunnia

10 gennaio 2012 15 commenti

Dopo aver letto nel libro di Rao la testimonianza di “De Tormentis” Enrico Triaca ha postato questo commento sul blog INSORGENZE
Enrico Triaca venne arrestato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro.
Appena catturato scomparve per riemergere soltanto il 9 giugno
. Nei giorni in cui fu ostaggio delle forze di polizia venne torturato. Appena fu in grado denunciò le violenze ma non venne creduto. La magistratura lo condannò per calunnia.

Oggi il suo torturatore, un funzionario dell’Ucigos in pensione che esercita la professione di avvocato presso il foro di Napoli, nascondendosi dietro l’eteronimo di “professor De Tormentis” ha ammesso in un libro (scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer 2011) che Triaca aveva detto il vero.

Alcune doverose precisazioni sul “caso de tormentis”

Dopo aver letto alcuni articoli sparsi qua e la nella rete ho comprato il libro, “Colpo al cuore”, e ritengo di dover fare alcune precisazioni e considerazioni.
Precisazioni e considerazioni sul libro del giornalista Nicola Rao, e considerazioni sul “Nobile Servo dello Stato” denominato “professor De Tormentis” .
Inizio con il “Professor De Tormentis” che in quanto “Nobile Servo dello Stato” credo meriti la precedenza.
Esso tenta di nobilitarsi e giustificarsi dichiarando: “Io sono stato un combattente perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra. Una vera e propria guerra.” Un combattente???????
“Professor De Tormentis” se lo lasci dire, Lei è solo un vigliacco, al servizio dello Stato, ma un vigliacco che ha la necessità di nascondersi dietro l’anonimato e come le Blatte ha vissuto negli interstizi della Storia. Ha ragione quando dice che è stata una guerra ma una guerra rivendicata dalle Brigate Rosse e sempre negata dai suoi Padroni. Quando una guerra è fatta da “combattenti” ci sono regole e codici di comportamento da rispettare tutte cose che Lei, da NON combattente ma da vigliacco, non ha fatto.
Anche le Brigate Rosse hanno fatto dei prigionieri, ed il suo Stato ha tentato in tutti i modo di accreditare l’idea che tali prigionieri venivano maltrattati e torturati, lampanti sono state le lettere dell’Onorevole Aldo Moro che erano diventate le lettere di un pazzo, un drogato. Poi con il prigioniero Dozier avete dovuto ammettere che facevano colazione con i Corn Flakes. Ecco questa è la differenza tra un COMBATTENTE e uno squallido mercenario al soldo dello Stato. Combattente uno che a 30 anni di distanza deve tentare di darsi un tono con le spalle spiaccicate al muro, nascosto nell’ombra?……………………… Sia serio Professore!.

Ancora il “Professor” dice: “E lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due degli ufficiali della CIA che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mano nei capelli: “Non credevamo, davvero, che gli italiani arrivassero a un livello di “pressione” tale”. Suvvia “professor” si rilassi, tenga a bada la sua boria, la CIA ha una lunga storia e tradizione di “metodi speciali” conosciuta in mezzo mondo e non credo proprio che devono imparare da Lei!
P.S. Caro “Professor De Tormentis” Sicuramente qualcuno Le riconoscerà lo Status di combattente ma io posso affermare, senza possibilità di essere smentito, che Lei oggi entra a pieno titolo e con encomio nel Club degli infami, perchè con le sue (spontanee) dichiarazione chiama direttamente in causa il suo collega Domenico Spinella, allora capo della DIGOS, che in quanto responsabile della mia detenzione non può non sapere a chi mi ha consegnato la notte del 17 maggio 1978.
Cordiali saluti “Prof”

Ora veniamo al libro
Il Sig. Rao fa un breve resoconto del processo contro di me per calunnia che evidentemente è stato estrapolato da qualche articolo di giornale, quindi molto parziale che non rende bene il clima nel quale si è svolto il processo.
Provo a chiarire meglio. Il giornalista Nicola Rao scrive: “La denuncia di Triaca fu formalizzata e si aprì un’inchiesta contro ignoti. Ma, non potendo riconoscere nessuno dei suoi torturatori, il 7 novembre 1982 il tipografo si beccò anche una condanna per calunnia dal tribunale di roma.”
Come precisato nel libro io denunciai le torture il 17 giugno, e il giorno dopo, non dopo un mese, un anno, ma il GIORNO DOPO, mi arrivò un mandato di cattura per calunnia, ora può anche essere possibile che la bravura del giudice istruttore Gallucci fosse così eccezionale che gli bastò una notte per “risolvere il Caso”, ma io un dubbio ce lo avrei.
Al processo a confutare la mia versione dei fatti fu chiamato Domenico Spinella allora capo della DIGOS che mi aveva in custodia, ebbene, le carte presentate in dibattimento e non le chiacchiere degli avvocati, hanno smentito la sua ricostruzione e non la mia, inoltre il giudice chiese a Spinella di dirgli i nomi degli agenti di guardia alle celle di sicurezza la notte che fui portato in questura, Spinella rispose che avrebbe portato il giorno dopo il registro dei turni, ma il giorno dopo si presentò in tribunale un agente che dichiarò che il registro era sparito Sic! tralascio altri episodi per non troppo tediare, ma su questi fatti si basa la mia condanna.

L'unità, 8 novembre 1978

Questo per precisare che forse, come spesso succede in Italia, è vero che “certi colpevoli” non si sarebbero trovati, ma di sicuro non ce stata la volontà di cercarli, in quanto inutile visto che il colpevole dovevo essere io e, che le coperture a certi “metodi speciali” sono state a tutti i livelli, Politici, Giudiziari, Mediatici.
Queste “piccole” verità non posso essere offuscate neanche dalle roboanti parole che il giornalista Rao usa nel descrivere le “atrocità” delle Brigate Rosse, ce stata una guerra ed è vero, ma purtroppo voi “democratici” vi siete troppo specializzati nel fare la conta dei morti altrui dimenticando sempre le vostre di atrocità. Potrebbe magari Sig. Rao un giorno provare a contare i morti fatti dallo Stato Repubblicano prima durante e dopo le Brigate Rosse? Sarebbe interessante!
Io nel mio piccolo provo a citarne qualcuno magari le apro la strada, come ad esempio le stragi di stato.
Negli ultimi 20 anni lo Stato repubblicano tradendo la propria Costituzione ha fatto 4 guerre, una ancora in corso d’opera, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Missioni di Pace”.
Da 20 anni in queste guerre vengono trucidati migliaia MIGLIAIA di CIVILI innocenti, Bambini, Donne, Anziani, e non è che voi potete ritenervi innocenti perché le chiamate “Effetti Collaterali”.
Come può notare Sig. Rao Ce una continuità storica impressionante di mistificazione e bugia non trova?
In questo io ritengo responsabili tutti, perché se è vero che il “bello” della democrazia è che “noi possiamo sceglierci chi ci governa” a differenza delle dittature che pugnalate alle spalle quando non vi servono più come amiche, tutti non possono che essere correi, perché in guerra ci sono andati tutti Centro Centro, Centro Destra, Centro Sinistra.
Le va comunque riconosciuto il merito Sig. Nicola Rao di aver riportato, e non insabbiato, fatti che erano rimasti nelle “Tenebre della Repubblica” e per questo la ringrazio. Ora ci sono tutti gli elementi per identificare il Marrano, a noi non resta che aspettare, e vedere, quanto interessata sia la Repubblica alla verità e giustizia.

Roma 10/01/2012 Enrico Triaca

Capodanno di suicidi in carcere…che il 2012 sia l’anno dell’AMNISTIA !

1 gennaio 2012 2 commenti

Foto di Valentina Perniciaro _AMNISTIA_

Due suicidi in carcere in queste ore…a cavallo tra i due anni, uno a Trani (che ha il doppio dei detenuti previsti) e l’altro -in attesa di giudizio- alle Vallette di Torino (un terzo a Vigevano è stato sventato per un soffio).
I primi due dell’anno, o forse gli ultimi dei tantissimi di quello appena concluso:
chi muore in carcere, anche coloro che si tolgono la vita, sono assassinati dallo stato, omicidi compiuti giorno dopo giorno da chi continua a legittimare questo stato di cose e queste condizioni di detenzione.
Quasi ogni istituto italiano ospita un po’ più del doppio dei detenuti possibili: vuol dire 22 ore in branda, vuol dire che per poter stare in piedi in cella devi fare i turni, vuol dire assenza di cure, vuol dire condizioni igieniche intollerabili, vuol dire tortura a casa mia.
Il sistema carcere, non reintegra, non cura, non rispetta i minimi diritti umani; eppure tiene quasi 70.000 persone, di cui 30.000 in attesa di giudizio.
Per non parlare dei migliaia tossicodipendenti, che invece di esser curati vengono lasciati su una branda sudicia, a terminare la propria devastazione.
E così…con gli ultimi della terra apriamo le pagine di questo blog nel nuovo anno:
lo iniziamo come l’abbiamo finito. Davanti ad un carcere, a portare solidarietà a chi è recluso,  invocando non il cambiamento del carcere ma la sua abolizione. Perché l’unico carcere, CIE, ospedale psichiatrico  che dovremmo accettare è quello ridotto in macerie.

Qui il volantino distribuito ieri da Radio Onda Rossa, davanti al carcere di Rebibbia, nel presidio che ogni anno vien fatto il 31 dicembre,
per cercar di portare un po’ di musica e colori a chi è rinchiuso in una cella.

SE NON TI OCCUPI DI CARCERE È IL CARCERE CHE SI OCCUPA DI TE

Non voltarti dall’altra parte quando ascolti delle brutture del carcere!
Non far finta di nulla!
Il carcere è lì, e ti insegue nella tua vita quotidiana.
Non puoi sottrarti. La forme di controllo, le istituzioni totali si moltiplicano.
Alcuni anni fa il carcere ha partorito i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsioni), per controllare e sottomettere la forza lavoro migrante.

Ogni comportamento è sottoposto a controllo e sanzione, e così, dopo 33 anni dalla chiusura dei manicomi, si attua sempre più il Trattamento Sanitario Obbligatorio(Tso), con effetti devastanti, spesso omicidi, come il caso di Franco Mastrogiovanni, ucciso il 4 agosto 2009 dopo aver trascorso 90 ore legato al letto del reparto psichiatria  all’ospedale San Luca a Vallo della Lucania.

foto di Valentina Perniciaro _la garitta di Rebibbia_

Negli Opg (Ospedali Pscichiatrici Giudiziari) vi sono rinchiuse oltre 1500 persone ancora oggi, nonostante il gridare allo scandalo dei benpensanti, dopo che la TV ha mostrato le sevizie e i trattamenti degradanti cui sono sottoposte le persone incatenate in quei lager.
Si intensificano i controlli per chi lavora attraverso normative restrittive sullo scioperodisciplina interna; mentre per chi non lavora oltre al controllo “economico”, dovuto alla necessità, vengono predisposti controlli da parte delle agenzie interinali.
I controllo su chi va allo stadio si moltiplicano, è stato introdotto il Daspo (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) e la “tessera del tifoso”; controlli per chi va in discoteca e per chi viaggia sulle strade; divieto di bere una birra dopo una certa ora in alcuni quartieri delle città.
Lo stesso carcere, ormai vecchio di 4 secoli, si rinnova differenziandosi sempre più per colpire comportamenti diversi. Oltre ai reparti a Elevato indice di Vigilanza (Eiv) e quelli strettissimi del 41 bis, fino all’ergastolo ostativo (obbligo di restare in carcere fino alle ultime ore di vita), una vera e propria condanna morte differita e altre differenziazioni vengono predisposte.
Nella scuola e nella famiglia il controllo e la disciplina assumono la forma di un bieco moralismo. Perfino nel momento della morte, lo Stato si arroga il diritto di decidere i tempi e le modalità di ogni intervento sul morente.

Restrizioni e controlli all’insegna dell’“emergenza” e della “sicurezza”. Capisaldi dell’ideologia dominante con cui si cerca di azzerare i problemi sociali, riducendoli a problemi di ordine pubblico. Isolando ogni volontà di lotta per farla passare come fatto patologico, malattia, malanno, disturbo, morbo, da curare e isolare perché può infettare.
Quindi “emarginazione” ed “espulsione” dal consesso sociale sono le azioni di controllo sociale verso tutti quei soggetti portatori di un qualsiasi problema: che sia una manifestazione di piazza, lo sbarco di persone senza documenti, l’opposizione alla costruzione di una nuova discarica e dell’Alta Velocità, l’occupazione di uno stabile da parte di chi non ha una casa, la lotta contro la disoccupazione, ecc.

Occuparci di carcere, oggi non è un optional, è una necessità per ciascuna e ciascuno di noi, se vogliamo liberare la nostra vita e non diventare passive propaggini di un sistema di potere sempre più totale.

PROSSIMI ANNI SENZA GALERE !!!                                            RadiOndaRossa

Torture in Italia, atto I : quando si torturavano i tipografi…

5 dicembre 2011 25 commenti

AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

L’anno delle torture argentine nelle celle di sicurezza e nei furgoni bianchi, compiute sui corpi dei prigionieri politici italiani è il 1982.
Abbiamo parlato spesso di quell’anno nero della nostra storia recentissima: anno in cui i “5 dell’Ave Maria”, guidati dal loro Dott. De Tormentis (di cui ci piacerebbe tanto scoprire il nome…ma siamo nel paese dei maniaci del “mistero”… siamo certi che un Lucarelli, un Fasanella, e compagnia bella si faranno in quattro per metter luce su questo NON mistero facilmente scoperchiabile) torturavano con tecniche precise e meticolosamente studiate i brigatisti catturati.

La storia che leggerete poche righe più sotto è un po’ l’apri pista delle torture, del waterboarding e di tutte le privazione compiute successivamente:
Enrico Triaca viene arrestato molto prima dell’anno argentino, nel maggio del 1978, ed oltretutto non è un uomo sospettato di esser parte di un “gruppo di fuoco”, è un tipografo e quella è la funzione che svolge all’interno dell’organizzazione armata.
Il tipografo.
Che può “vantare” d’esser stato il primo torturato delle Brigate Rosse…oltretutto denunciato e condannato per calunnia quando ha avuto il coraggio di raccontare quel che il suo corpo aveva subito. (Mi piace specificare la parola “corpo”, perché in questi anni di studi, racconti e letture sulla tortura la sola cosa che ho capito è che la testa non la torturano, che quella è capace di resistere… che è anche in grado di contare, per razionalizzare ciò che avviene sul proprio corpo, per discostarsene, per gaurdarsi da lontano, per dare un tempo a quel che accade e sapere che poi la sessione di tortura finirà, come quella precedente.La tortura ti vuole vivo, la tortura non vuole ucciderti: c’è chi è stato più forte di lei, chi ce l’ha fatta, chi neanche in quel modo ha aperto la sua bocca…per quello parlo di corpi…solo di corpi…solo quello è torturabile).
Ma ora…facciamo parlare Enrico Triaca, tipografo torturato

RICOSTRUZIONE GIORNALISTICA DELL’ESPERIENZA DI ENRICO TRIACA, Il Manifesto, 20 maggio 1982

“Esiste la tortura in Italia? Credo purtroppo che bisogna rispondere positivamente e non da oggi. Un caso, estremamente interessante, anche perché può essere ricostruito nei dettagli, essendo ormai gli atti tutti pubblici, è quello di Enrico Triaca, il tipografo delle BR che il 7 Novembre 1982 è stato condannato dalla 8° sezione del Tribunale di Roma, quale responsabile del delitto di calunnia “perché nell’interrogatorio reso al consigliere istruttore presso il tribunale di Roma il 19 Giugno 1982 quale imputato di partecipazione a banda armata e di altri reati, incolpava ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di PS, sapendoli innocenti, di averlo costretto con torture fisiche a rendere dichiarazioni ammissione di responsabilità proprie ed altrui, il 17-18 maggio 1978”.
Triaca venne arrestato il 17 Maggio 1978 nella tipografia di Pio Foà a Roma. Nominò immediatamente l’avvocato Alfonso Cascone.
Dagli atti risulta:
1) che il Triaca venne interrogato il 17 maggio ore 17,50 nei locali della Digos da due ufficiali di Pg. Il verbale consta di sei facciate dattiloscritte a spazio uno. In esso non vi è alcun cenno al fatto che il Triaca è imputato, né al suo difensore.
2) che in data 18 maggio 1978 Triaca ha rilasciato “spontaneamente e personalmente ” una dichiarazione dattiloscritta davanti ad altro ufficiale di polizia giudiziaria, connettente affermazioni accusatorie nei confronti di terzi;
3) che in pari data il Triaca rilasciò altra dichiarazione accusatoria
4) che alle ore 22 di quello stesso giorno Triaca fu interrogato nel palazzo di giustizia dal consigliere istruttore su mandato di cattura dello stesso, in presenza del difensore Luigi De Cervo, del foro di Roma, nominato d’ufficio. Presente in quanto il Triaca revoca quello da lui nominato in precedenza
5) che il 19 maggio negli uffici della questura di Roma (non è indicata l’ora) Triaca viene interrogato da altro GI, in assenza di qualsiasi difensore. Dal verbale risulta avv. Maria Caurasano con revoca di ogni altra nomina.
Ma la Causarano non risulta presente, né vi è alcuna annotazione riguardante la urgenza di procedere senza aver avvisato il difensore. A questo punto, secondo i difensori attuali, del Triaca si perdono le tracce: né loro, né i parenti del detenuto riescono a sapere alcunché, sino a quando il 9 giugno nel carcere di Rebibbia il consigliere istruttore interroga il Triaca in presenza dell’avv. Cascone, suo difensore originario di fiducia. Nel verbale risulta che Triaca a domanda risponde di aver scritto una dichiarazione dettagliata da una persona della Questura, il cui contenuto però corrispondeva alle sue dichiarazioni.
In un successivo interrogatorio del 19 giugno, Triaca puntualizza: “Ritratto tutto quello che ho detto perché mi è stato estorto con la tortura”.
Domandato risponde: “Potevano essere le 23 e 30 quando fui portato giù e fatto salire su un furgone ove si trovavano due uomini con casco e giubbotto antiproiettile. Fui bendato e steso per terra. Il furgone partì. Ad un certo punto fui fatto scendere e sempre bendato salii dei gradini. Sempre bendato venni legato su un tavolaccio. Qualcuno mi tappò il naso con le mani e mi versò dell’acqua in bocca.
Ritengo che mi versò l’acqua in bocca per non farmi respirare. Inoltre per due volti qualcuno mi gettò in bocca della polverina.
Non so indicare il sapore di questa polverina. Rimasi legato per circa 30 minuti, mentre le persone che mi erano accanto che io non vedevo, perché ero bendato, mi incitavano a parlare. Quindi fui slegato, fui massaggiato e venni rivestito (infatti prima di legarmi mi avevano denudato). Fui portato fuori sempre bendato.
In questura mi tolsero le bende, dico meglio, dentro il furgone mi tolsero le bende, e mi consegnarono in questura, a due agenti che mi portarono in camera di sicurezza. il giorno dopo mi portarono in un ufficio della questura e mi fecero scrivere a macchina una dichiarazione in due fogli. Preciso che la prima dichiarazione la battei a macchina da me la mattina, e l’altra dichiarazione su altro foglio fu scritta da me a macchina in pomeriggio”.
L’imputato ha appena finito di rendere le sue dichiarazioni che il consigliere istruttore  gli contesta di essere indiziato del delitto di calunnia.

Il 4 luglio 1978 il Pm ordina la cattura per calunnia. Triaca, interrogato il girno dopo dichiara: “Confermo quanto ho dichiarato il 19 giugno 1978 al consigliere istruttore Gallucci; preciso che non ho visto particolarmente in faccia, nella semioscurità del furgone, i due agenti che mi ci fecero salire, il cui viso era oltretutto occultato dal casco. Non ho nemmeno badato ai connotati degli agenti che in questura mi portarono in camera di sicurezza, dopo la tortura, né a quelli che, dopo avermi tolto le bende, mi consegnarono ai suddetti agenti. Il fatto che io nei giorni successivi abbia confermato ai magistrati inquirenti tutto quanto avevo in precedenza dichiarato, fornendo anche ulteriori particolari, si spiega col fatto che per vari giorni ho agito nella sfera di intimidazione derivante dalla tortura subita, anche quando mi trovavo in ambiente del tutto estraneo a quello della questura.”

Gli ufficiali o agenti di PG che presero in consegna il 17 maggio Enrico Triaca, dopo che fu interrogato dai due funzionari di PS, non sono mai stati individuati. Durante il processo, celebrato col rito direttissimo, lo stesso Spinella dirigente della Digos, dichiarava che era impossibile identificare gli agenti che erano addetti alla camera di sicurezza sulla scorta di appositi registri.
Senonché, avendo il tribunale disposto che i registri venissero esibiti in visione, la questura rispondeva che non esistevano. Il tribunale, subito acquietato, emetteva la sentenza di condanna ad anni 1 e mesi 4 di reclusione.
Nella motivazione sostiene che non ci sono state torture in quanto già nell’interrogatorio regolarmente verbalizzato il 17 maggio (il primo) l’imputato aveva parlato.
Perciò non vi era ragione perché gli agenti gli usassero violenza. Dimentica però il tribunale che in un caso Triaca aveva parlato di sue responsabilità e nell’altro di responsabilità di terzi (il che per un appartenente ad un’organizzazione non è cosa di poco conto).
[…]
I metodi usati per Triaca (emarginare e se possibile far revocare i difensori scomodi – custodire gli arrestati in luoghi speciali, difficilmente controllabili) pare siano serviti poi da modello per i pentiti o per ottenere i pentimenti.

Risvolto di poco rilievo dell’uso distorto delle procedure e poi l’acquiescenza quasi generale degli organi di informazione.
L‘Unità dell’8 novembre 1978 per esempio arrivò a pubblicare la notizia della sentenza di condanna con commenti di questo genere: “il caso Triaca, dunque, è chiuso, anche perché persino uno dei difensori, ieri ha lasciato capire che il truculento racconto del brigatista è stato un bluff“.
Gli avvocati difensori hanno proposto querela per diffamazione, ma la querela è già stata archiviata.

I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

Franca Salerno e la copertina con la stella

14 ottobre 2011 7 commenti

Mi son venuti i brividi quando ho letto queste righe.
Perché ho nostalgia degli occhi di Franca Salerno, non sapete quanta.

Franca e Antonio

Ed è indescrivibile quella per Antonio, suo figlio, di cui si parla in questo racconto dalle celle del carcere speciale di Badu’ e Carros, nel non così lontano 1977. La loro storia l’ho raccontata tante volte sulle pagine di questo blog.

“(…) L’estate mi portò a conoscere tante persone coinvolte nella politica rivoluzionaria allora in piena attività. Al femminile c’era F.S. (*), appartenente ai Nuclei Armati Proletari. Con lei, dopo qualche giorno dal suo arrivo a Nuoro ho avuto modo di sviluppare un buon rapporto amichevole. I colloqui avvenivano via finestra, ma riuscivamo ugualmente a dirci molte cose. Il direttore aveva consentito che ci scrivessimo usufruendo della posta interna. L’intensità del nostro rapporto ci portò a vivere quasi una specie di innamoramoento anche se nessuno dei due manifestò il sentimento che ci aveva presi.
All’arrivo a Nuoro non stava bene perché era stata ferita al momento della cattura. Mi raccontò come andarono i fatti e certe sue affermazioni mi sbalordirono, perché da noi nessun carabiniere si permetteva di mettere le mani addosso ad una donna.
Nello scontro a fuoco cadde ucciso un suo compagno, lei ferita e immobilizzata, venne malmenata con calci allo stomaco e alla pancia.
“Vedi”, mi disse “ora sono preoccupata perché dopo queste botte perderò mio figlio. Ho delle fitte tutti i giorni e altro non possono essere che un principio d’aborto.”
Fortuna che la sua fibra forte le fece superare ogni difficoltà.
Le mie attenzioni per lei si fecero ogni giorno più intense. Il suo pancione aumentava regolarmente, pure lei si era ripresa in salute.
Pensai al regalo che potevo farle in vista della nasacita del figlio. Scelsi un passeggino adatto anche in caso di trasferimento da un carcere all’altro, e chiesi di poter inserire tutto quello che occorreva per un neonato. Una mia sorella, abile in lavori a maglia, preparò una copertina dove spiccava una grossa stella a cinque punte.
Quando tutto fu pronto, i miei familiari portarono il dono al colloquio ma venne respinto immediatamente dalle guardie e ci vollero diverse udienze col direttore per convincerlo ad autorizzare questo mio regalo. Dopo qualche settimana venne finalmente il permesso.
La felicità di F. era tale che dalla sua cella ogni tanto faceva sventolare la copertina per far notare con orgoglio la stella a cinque punte.”
[Annino Mele, Il passo del disprezzo]

LINK:
Una vecchia intervista con Franca Salerno
Ciao Anto’
L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale
Ciao Franca, cuore nostro
I funerali di Franca Salerno

Ferragosto tra le sbarre…

14 agosto 2011 3 commenti

ALMENO QUEST’ANNO NON FA IL SOLITO CALDO, E PER VOI E’ SICURAMENTE UN SOLLIEVO.
MA E’ UN PO’ STUPIDO PARLARE DI SOLLIEVO, ME SA.
UN PENSIERO A CHI E’ RECLUSO, UN PENSIERO A CHI HA DAVANTI UN FUTURO DI RECLUSIONE,
UN PENSIERO A CHI E’ PRIVATO DELLA PROPRIA LIBERTA’ PERCHE’ HA SFIDATO IL MEDITERRANEO E QUESTA E’ LA SUA SOLA COLPA.
UN PENSIERO A CORPI RECLUSI, AI CINQUE SENSI CHE SCOPPIANO, CHE SI ALIENANO, CHE SI LACERANO…
le parole che seguiranno sono tutte tratte da “Il Bosco di Bistorco” , un libro che vi consiglio di leggere per capire cos’è la reclusione…

Quell’impossibilità di rispondere alla domanda: quando si spalancherà il Grande Cancello?
Quell’impossibilità di credere che resterà chiuso per sempre.

Foto di Valentina Perniciaro _blindato e ruggine_

Impossibilità per chiunque – non solo per chi è schiacciato dalla parola MAI vergata da un burocrate anonimo sulla sua cartella.
Ed allora, giorno dopo giorno, nel corpo torchiato da queste ed altre impossibilità, scorre il film della vita passata.
Proprio come, fotogramma dopo fotogramma, negli stati di morte imminente, in un attimo denso di tempo, il vissuto ricapitola tutta la sua trama.
Quella necessità di crearsi forti attese per ristrutturare l’impossibile.
Quell’angoscia di restar reclusi tra le sbarre del loro mancato inveramento.

L’ETERNITA’ PROBABILMENTE NON NACQUE COME CONCETTO,
MA COME PAROLA CHE DESCRIVEVA UN’ESPERIENZA DI ASSENZA DI TEMPO.
UNA REALTA’ ESPERIENZALE IMMEDIATA PIUTTOSTO CHE UN CONCETTO
DI DURATA TEMPORALE INFINITA
_CHARLES TART: Stati di coscienza, Roma 1977_

Il suo “fine pena” era: MAI.
Le parole di un compagno uscito dopo vent’anni riaffiorarono, senza che sapesse perché, tra i suoi pensieri: “Lasci la libertà che è giovane e la ritrovi come una vecchia signora”.
Pensò: “Quindi anche la libertà muore!”

Ci fu subito un’ondeggiamento inatteso: il gruppo barcollò.
Poi, dopo il primo stupore, ognuno cercò l’altro e, tutti insieme, si rannicchiarono in un angolo del campo.
Rimasero vicini, fianco a fianco. Quasi a volersi vicendevolmente proteggere dall’aggressione di quel grande spazio.
Da anni i loro piedi misuravano soltanto i quattro passi e dietro front delle celle o i nove passi e dietrofront dei passeggi.
Ora, il primo muro era a sessanta metri. Ses-san-ta-me-tri!
Ripresero un po’ di fiato, con l’ardore di tanti ragazzini si cercarono in una partita di pallone. Ma fu un’ecatombe.
Cadute rovinose, strappi muscolari, stiramenti, slogature: come in una danza folle ogni gesto mancava il suo scopo e si perdeva fuori luogo e fuori tempo.
Divenne presto chiaro: la programmazione psicomotoria di ogni giocatore restituiva le misure dello spazio interiorizzato negli anni di restrizione precedente. E nelle dismisure del nuovo spazio carcerario il corpo annaspava spaesato.

Per resistere alla reclusione si era appassionato alla cultura indiana e alla meditazione orientale.
Nel concentrarsi, però, incontrava ogni volta una difficoltà: la puzza di galera. Sì, quell’odore insopportabile gli impediva la meditazione.
“Non è un caso -disse- che tutti in carcere usino fiumi di profumo, guardie e detenuti.
E lavino per terra e disinfettino i muri: ma non c’è niente da fare. Hai presente l’odore delle bestie in gabbia?
Al mattino presto, al momento della conta, quando si aprono i blindati, ti arriva in faccia quel fetore di chiuso, di sofferenza notturna.
Ti colpisce come uno schiaffo.
[Aprì la busta e una soave fragranza lo rapì. Rapì il suo cuore. Sui fogli della lettera, come sempre, lei aveva lasciato cadere lacrime discrete di profumo] 

Comunicato dalle carceri greche

12 luglio 2011 Lascia un commento

Il paese è impantanato nella crisi del debito e lo Stato greco è al collasso. Tale debito è stato creato dalla politica europea attuata da tutti i governi negli ultimi tre decenni, dai fondi dei capitalisti per lo “sviluppo” per cui ingenti somme si muovevano tra i fattori politici ed economici; ora vogliono costringere noi a pagare , i diseredati di questa società.

tratto da Scarceranda 2009

Il memorandum e i contratti firmati dal governo greco hanno legato un cappio intorno al collo del suo popolo che si stringe ogni giorno di più, hanno ipotecato il futuro di almeno due generazioni per la convenienza dei creditori della Grecia, stanno svendendo tutto il paese e la sua ricchezza ai grandi capitali internazionali.
Nonostante il fatto che la politica attuata dalla giunta parlamentare del PASOK, per volere della troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione europea, Banca centrale europea) non solo non risolve il problema del debito, ma sta gettando sempre più profondamente la società greca verso il fallimento e la distruzione, un nuovo protocollo chiamato “medio termine” è stato votato il 28 / 6 dalla Camera sferrando un nuovo, più feroce e più spietato attacco contro il popolo. L’accordo, con la svendita e la subordinazione del Paese alle grandi multinazionali, è la condizione per assicurare a governo greco un nuovo prestito che darebbe un’ulteriore proroga fino alla proclamazione del definitivo collasso economico.

Sappiamo tutti che i  responsabili sono i nostri governanti. Sono i banchieri, i giocatori d’azzardo nel mercato azionario, i ricchi. Sono loro che possiedono i mezzi di produzione e sfruttano la forza-lavoro per il profitto.
Sappiamo che la crisi del debito greco fa parte della crisi economica globale. Sappiamo che l’umanità ha raggiunto questa situazione di stallo a causa dello sfruttamento degli esseri umani e della natura, a causa di oppressione e di ingiustizia. Si è arrivati a questo punto perché ci sono pochi ricchi a privilegiati contro la maggioranza delle persone. Perché i poveri di tutto il mondo sono in crescita mentre la ricchezza globale, anche se è abbondante, rimane nelle mani del potere economico.

L’umanità ha raggiunto un punto morto, perché un vicolo cieco è il sistema stesso del capitalismo ad essere un vicolo cieco, è in fase di stallo nello stesso sistema dei mercati, è in fase di stallo nel sistema politico della democrazia rappresentativa.
La gente, gli oppressi di tutto il mondo, hanno capito la causa di questa impasse.
Nella maggior parte dei paesi del mondo, ribolle la base sociale.
Tutta la società greca si ribella contro le politiche del regime.  E ‘disgustata da 300 parlamentari che continuano spudoratamente ad arricchirsi con il sangue del popolo greco in mezzo alla crisi economica. E ‘disgustata dalle tangenti e “regali” che passano di mano tra potere economico e politico. E ‘disgustata dallo stesso sistema politico ed economico. E ‘disgustata dalle menzogne ​​e dal terrorismo del governo che ci impone di pagare un debito per il quale non siamo responsabili per non perdere i profitti di banchieri, industriali, capitalisti. L’intera società greca è riunito intorno a due posizioni comuni:

Noi non pagheremo il debito
Noi non pagheremo per la crisi economica.

Tratto da Scarceranda 2010

L’intera comunità greca dei diseredati è ora apertamente rivoltato contro l’intero sistema politico, contro il sistema economico di sfruttamento e di ingiustizia contro l’Unione europea e le sue politiche dettate dalle grandi imprese. Tutto il paese è nelle strade, chiedendo profonda sconvolgimenti economici e politici.

La lotta può essere solo una in prigione e fuori. Siamo prigionieri e detenuti di tutte le nazionalità del sistema carcerario in cui viviamo il doppio fardello della crisi economica. Uno stato greco in bancarotta non è in grado di coprire le più elementari esigenze delle carceri in tutto il paese. Molti prigionieri provengono da famiglie indigenti a cui lo stato non è in grado di assicurare il minimo vitale. Quindi non solo viviamo il costo della crisi economica, ma come prigionieri dietro le sbarre non abbiamo alcuna possibilità di cercare il modo di risolvere i problemi della sopravvivenza  nostra e delle nostre famiglie che sono in un vicolo cieco.

La prigione è un meccanismo basato sulla povertà e riproduce le disuguaglianze e le ingiustizie. La prigione è un depravato meccanismo ingiusto e inumano. Si tratta di un meccanismo di classe e antisociale che dovrebbe essere abolito.
Sappiamo che esiste la possibilità di risolvere i notevoli problemi fondamentali della vita in carcere perché, come detto prima, la vita nella crisi diventa più difficile dietro le sbarre. Di qui lo slogan dei detenuti nelle carceri greche oggi è “rilascio immediato di tutti i prigionieri”.
La nostra lotta di oggi non può che essere condivisa. Comune tra tutti i prigionieri, comune tra tutti gli oppressi di tutte le nazionalità che sono nelle strade e nelle piazze delle città greche.  Cominciamo qui e ora una vera lotta conflittuale che impedisca il passaggio dell’accordo. E l’unico modo per farlo è quello di minacciare di fatto il funzionamento del sistema politico ed economico .
E’ ora di cacciare tutto i politici. Rifiutiamo di pagare un euro in più per il debito. Facciamola finita con la democrazia rappresentativa, come annunciano le assemblee popolari in tutto il paese.

Buttiamo fuori dalle piazze quelli che si sono infiltrati e stanno cercando di mettere un freno alla lotta per impedire la ribellione, per preservare il sistema stesso.

Buttiamo fuori del nostro paese i ricchi corvi per tornare alla proprietà pubblica che i governi stanno svendendo alle grandi imprese e impadroniamoci di tutte le ricchezze di questa terra per gestirle noi stessi. Non abbiamo bisogno di padroni, non abbiamo bisogno di governanti. Possiamo prenderci la nostra vita. Per porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, per prendere la nostra vita nelle nostre mani, aprendo la strada a una società di eguaglianza economica, di solidarietà, giustizia e libertà per tutti. Per una società senza ricchi e poveri. Per la rivoluzione sociale. Non lasciare nulla immutato.

Per cambiare tutto.
Per la libertà.

 

Questo testo è co-firmato da un totale di 468 donne e uomini detenuti delle carceri: Koridallos (anche ala F maschile), Ioannina, Avlona, ​​Nafplio e Corfù. Almeno 789 donne e uomini prigionieri hanno deciso di rimanere al di fuori delle celle della prigione durante la chiusura di mezzogiorno a: Koridallos (anche A, D, F ali maschile), Diavata, Amfissa, ala D1 maschile di Grevena. Un totale di 1.508 detenuti protesteranno attraverso l’astensione dal pasto in: Grevena, ala B maschio di Larissa, Ioannina, Avlona, ​​Malandrino, Diavata, Cassandra e Salonicco.

Ancora tortura, quel rimosso tutto italiano

26 giugno 2011 1 commento

Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato.

Se c’è stato un motivo per cui ho aperto questo blog è stato pubblicare materiale sulle torture compiute in questo paese, sui corpi dei militanti della lotta armata che nell’ “anno argentino” italiano, il 1982,  sono stati catturati e torturati con le più classiche tecniche di tortura usate nel mondo.
Donne e uomini che, privati della loro libertà, bendati e storditi, sono stati torturati da uomini di Stato per ottenere nomi, luoghi, dettagli.
Torture documentate, torture per cui ci son state anche condanne, torture però completamente rimosse dalla tanto brava “società civile”.
Alcuni dei torturati nel 1982 continuano ad essere in carcere, dopo 30 anni, dopo quello che hanno subito, senza aver mai potuto accedere a nessuna cura o conversazione capace di lenire i traumi che la tortura lascia perenni sul corpo e la mente di chi l’ha subita.
Dimenticati dal mondo, torturati nelle nostre caserme, chiusi ancora giorno e notte nella stessa cella.
Non c’è altro da dire, se non che dovrebbero esser liberi. PUNTO.
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni

Gigi Fallico: il comunicato dei suoi coimputati

25 Maggio 2011 6 commenti

Ci troviamo oggi a celebrare l’ennesima udienza di questo processo, senza uno degli imputati.

Foto di Valentina Perniciaro _TUTT@ LIBER@_

Lunedì mattina, il nostro compagno Gigi è stato trovato morto in cella.
Da giorni lamentava tutti i sintomi di un infarto: violenti dolori al petto e pressione arteriosa alle stelle.
Nonostante le segnalazioni e le richieste di cure è stato abbandonato letteralmente al suo destino.
Una tachipirina, un diuretico e poi di nuovo in cella da solo.
I primi riscontri dell’autopsia confermano che Gigi da ormai qualche giorno aveva un infarto in corso.
La notte in cui è morto il cuore gli si è letteralmente spaccato in due.
Questo processo ha già emesso la sua prima sentenza. E purtroppo è una sentenza che non prevede appelli.
Gigi non è morto per cause naturali, nè per una fatalità.
Gigi è stato ucciso.
Fosse stato libero, anche indagato ma libero, non sarebbe morto.
Invece, Gigi ha avuto l’imprudenza di ammalarsi in carcere.
Un luogo incivile, medievale, un luogo dove ogni conquista dell’umanità smette di esistere.
Un luogo popolato da decine di migliaia di proletari, dalla classe pezzente, dai “dannati della terra”, semplicemente dai poveri.
Ogni anno sono centinaia le persone che muoiono in carcere per le violenze subite.
Centinaia di omicidi che sappiamo resteranno impuniti per la giustizia di questo stato.
Non potrebbe d’altronde essere altrimenti: lo stato non processa se stesso.
Ma noi sappiamo che esiste una giustizia che va oltre la aule di tribunale e che trova
la sua forza nell’eguaglianza sociale, nel progresso umano, nel superamento del capitalismo che ogni giorno mostra il suo volto
sui posti di lavoro, nel bombardamento di civili, nelle stragi dei migranti in fuga.
A questa giustizia guardava Gigi.
Era un comunista.
E noi sappiamo ciò che si perde quando muore un comunista.

Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio

I FUNERALI DI LUIGI SARANNO SABATO MATTINA ALLE 9.30 NELLA CHIESA ADIACENTE ALLA SUA BOTTEGA, IN VIA SANDRO SANDRI, A CASAL BRUCIATO.

A QUESTO LINK POTETE ASCOLTARE IL BREVE SPAZIO FATTO OGGI A RADIO ONDA ROSSA, CON MANOLO E COSTANTINO.

I medici lo rimandano in carcere: muore dopo 2 ore

19 Maggio 2011 3 commenti

Mario Santini, 60 anni, è morto ieri pomeriggio verso le 16 in cella, nel carcere “Don Bosco” di Pisa. Questo il tragico epilogo di una vicenda che ha dell’incredibile.
Santini era considerato un detenuto a “bassa pericolosità”: assegnato alla Sezione di custodia attenuata “Prometeo”, aveva già fruito di diversi permessi-premio, dai quali era sempre rientrato regolarmente. Ma era anche un uomo gravemente ammalato, debilitato dalla tossicodipendenza e dall’Aids. A marzo, solo dopo che ha cominciato a “sputare sangue”, ottiene degli esami clinici approfonditi e gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni, ormai allo stadio avanzato.
Francesco Ceraudo, già responsabile sanitario del “Bon Bosco” e attualmente direttore del Centro Regionale per la Salute in carcere della Toscana, che conosceva bene Mario Santini, si adopera subito perché ottenga una misura alternativa, o quantomeno il ricovero ospedaliero senza piantonamento, in modo da potersi curare in maniera adeguata.
Passano due mesi e Mario rimane in carcere. Una settimana fa ha una grave crisi respiratoria e solo allora lo trasportano all’Ospedale “Santa Chiara”, piantonato dagli agenti di polizia penitenziaria. Ieri mattina i sanitari lo dimettono e lo rispediscono in carcere. Alle 14.00 rientra in cella, alle 16.00 ha una nuova crisi respiratoria e muore. Nessuno se ne accorge, il suo corpo senza vita, già freddo, viene ritrovato alle 18.00.

Il dottor Ceraudo è furibondo: “Provo rabbia e indignazione per questo caso di gravissima malagiustizia e gravissima malasanità”. E prosegue: “Da quattro mesi (da quando ha lasciato l’incarico per il pensionamento – ndr) il carcere di Pisa è senza direttore sanitario e, in attesa del concorso per la nomina del nuovo funzionario, il servizio medico è precipitato nel caos”. Ceraudo è fermamente intenzionato a fare quanto in suo potere perché siano accertate le responsabilità sulla morte di Santini e conclude: “Se fossi stato nei panni del medico SIAS che prestava servizio ieri pomeriggio al carcere Don Bosco non avrei accettato il ‘paziente Santini’, avrei dichiarato la sua totale incompatibilità con il regime detentivo e l’avrei rimandato all’ospedale”.
Con la morte di Mario Santini salgono a 65 i decessi in carcere dall’inizio del 2010. Nella Casa Circondariale di Pisa l’ultimo decesso risaliva al 5 settembre 2010, vittima il 33enne Moez Ajadi, sulla cui morte fu aperta un’inchiesta che ne identificò la causa in una overdose da farmaci.

Siria: leggi antiterrorismo in costruzione e rivolte carcerarie…

5 aprile 2011 Lascia un commento

Giornate di fuoco, che non mi lasciano tempo nemmeno di capire cosa accade nella mia amata Siria, così scombussolata dagli eventi da quando alcune città sono scoppiate in movimenti di insorgenza popolare repressi immediatamente nel sangue dalle forze di sicurezza siriane.

Foto di Valentina Perniciaro _La Siria e i suoi cacciatori di monete antiche_

Il presidente sembrava aver giocato di fino, con le dimissioni del governo e la proposta di cancellare le leggi speciali che da 43 anni dominano la scena politica e sociale di quel paese; ha puntato sulla retorica della resistenza al nemico sionista, ha puntato sul carisma di presidente giovane e capace di tenere le redini anche in anni bui e sotto attacco internazionale. Sembrava aver giocato di fino, forte anche di grandi manifestazioni di consenso popolare…
poi di nuovo il piombo, venerdì scorso.  Il venerdì dei martiri, dove la rabbia per i propri morti aveva riempito le strade in modo prettamente pacifico, i cortei sono stati attaccati inaspettatamente, in diverse città, da colpi d’arma da fuoco che hanno lasciato più di venti persone a terra. Altre venti, a cancellare la retorica del giorno prima di Assad… il governo poi comunica a chiare lettere che entro venerdì (altra giornata in cui sono chiamate alla mobilitazione migliaia di persone) sarà pronta una nuova legge terrorismo ispirata ai modelli legislativi di USA, Francia e Gran Bretagna “per assicurare dignità e sicurezza ai cittadini”.

Una delle celle del carcere di Lattakia

Insomma, si tolgono le leggi speciali peggiorandele con una legge antiterrorismo tutta occidentale (nel frattempo è stato anche sospeso il campionato di calcio, per evitare qualunque rassembramento).

A Lattakia, città costiera che dopo la meridionale Daraa ha visto gli scontri più duri con le forze di sicurezza, ieri è scoppiata una rivolta all’interno del carcere. L’agenzia siriana Sana parla di venticinque prigionieri ricoverati, di cui otto morti a seguito delle gravi ustioni riportate a causa dell’incendio appiccato ad alcuni materassi. Da un carcere di cui probabilmente non sapremo mai molto, è stata rilasciata l’attivista Suhair Atassi, che si trovava in regime di detenzione dal 16 marzo, mentre manifestava sotto la sede del ministero degli Interni per il rilascio di altri prigionieri.

 

La detenzione interminabile: storie di donne di Palestina

3 aprile 2011 1 commento

Le autorità giudiziarie israeliane hanno deciso di prorogare la detenzione amministrativa (senz’accusa e rinnovabile ad oltranza) per la prigioniera palestinese Hana Yahya Saber ash-Shalabi, proveniente da Jenin. Per Hana non è il primo episodio di questo tipo: la donna è stata arrestata il 14/09/2009 e, da allora, le autorità israeliane hanno proceduto allo stesso modo. Puntualmente, alla scadenza dei sei mesi, hanno esteso la detenzione amministrativa nei suoi confronti. Attualmente, le prigioniere palestinesi in detenzione amministrativa sono tre: Hana, Kifah ‘Awni Qatash, ‘Aliya’ al-Ja’bari. Decisioni come l’ultima ai danni dei diritti di Hana ash-Shalabi rientrano tra quelle pratiche “legali” di Israele che le prigioniere palestinesi hanno annunciato di voler denunciare attraverso forme di protesta. L’appello è stato lanciato dalle prigioni israeliane di Hasharon e Damon e le azioni si svolgeranno nei prossimi mesi.

Riportiamo dal sito Infopal:

Di fronte al caso di Hana e per ribadire la loro protesta per il rispetto di propri diritti, le detenute palestinesi hanno scritto al ministero palestinese dei Prigionieri chiedendo di intervenire affinché le autorità d’occupazione israeliane sulle quali ricade la competenza per gli affari carcerari garantiscano le visite mediche e forniscano le cure richieste necessarie e permettano alle prigioniere i cui coniugi sono a loro volta detenuti da Israele di incontrarsi. Inoltre richiedono di consentire  alle prigioniere palestinesi di proseguire all’interno delle carceri gli studi universitari, di svolgere gli esami e ricevere regolarmente i libri di testo. Le prigioniere palestinesi chiedono anche il rispetto e una maggiore attenzione per esigenze personali come quella di avere i ricambi di vestiario e calzature. Le richieste continuano per porre fine ai divieti sulle visite dei loro familiari e per pretendere che i militari non assaltino regolarmente le loro celle con ispezioni umilianti. Infine, le prigioniere hanno chiesto al proprio ministero di seguire con particolare attenzione il caso delle compagne detenute nella sezione “Nahshon”, dove le aggressioni da parte degli ufficiali carcerari israeliani e i metodi di umiliazione sono frequenti e si consumano in vari contesti, anche durante il loro trasferimento verso i tribunali.

Fabrizia Falcione,dirigente dei progetti di Unifem, agenzia Onu per i diritti delle donne, intervistata da Infopal racconta che…
La situazione di donne e minori palestinesi nei centri di detenzione israeliani è davvero critica, in termini numerici, perché di fronte alle centinaia di migliaia di prigionieri politici palestinesi maschi, sembrano inesistenti. Tuttavia, la condizione delle prigioniere è peggiore degli uomini: la situazione delle violazioni nei loro confronti, infatti, va affrontata nel complesso e in una prospettiva di genere. Sebbene inferiori numericamente, donne e ragazze continuano ad essere arrestate, tra necessità ignorate e diritti violati.
Sia ex le detenute che sono rimaste incarcerate in quelle strutture sia i familiari di quanti restano in prigione, hanno raccontato di celle infestate da insetti, scarafaggi e ratti.
Le detenute incinte vengono ammanettate durante il parto e lasciate così nel periodo successivo. C’è una assoluta assenza di cure e trattamenti, in particolare nel periodo di gravidanza. Una volta compiuti due anni, i bambini vengono allontanati dalle madri.

Le donne patiscono oltraggi e offese al proprio retaggio culturale e ai diritti religiosi. Un’ex detenuta ha raccontato: “Mi hanno privata del velo dandomi un’uniforme di colore marrone, a maniche corte e quando ho chiesto di avere una maglia a maniche lunghe da poter indossare di sotto, me l’hanno negata. Costretta a spostarmi tra le celle tra gli occhi di guardie uomini…mi sono sentita umiliata e sono stata insultata”.

La privacy nei confronti delle donne è violata anche nel corso delle perquisizioni all’interno delle celle, condotte da guardie uomini. Non viene preso in considerazione alcun rispetto per l’aspetto religioso. Ogni giorno, anche al mattino presto, si fa la conta delle detenute e, tra le forme di punizione vi è anche quella svegliare bruscamente le detenute che, dal sonno, non rispondono al momento. Inoltre, a prigioniere e detenute palestinesi vengono vietati la detenzione e l’utilizzo di oggetti come le penne: non possono leggere e non viene loro riconosciuto il diritto ad alcuna pausa ricreativa.

Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof: 3° parte

3 marzo 2011 3 commenti

Questo blog ha dedicato spesso dello spazio ad Ulrike Meinhof e alla storia della RAF.
Da secoli dovevo proseguire con il rendere fruibile alla rete, le altre parti del Rapporto della Commissione internazionale di Inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, così maledettamente identica a quella dei suoi compagni.
Vi lascio i link delle precedenti pagine, comunicandovi che proseguiremo con l’analisi degli accessi al piano delle celle e dei reparti presenti nell’Istituto di pena in quella nottata…
PRIMA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA con riferimento alle condizioni di detenzione
SECONDA PARTE COMMISSIONE INCHIESTA e perizie mediche

Inchiesta criminologica

Le perizie mediche, conseguenti all’autopsia del corpo di Ulrike Meinhof, dimostrano che gli elementi a disposizione assolutamente non provano -come pretende la tesi ufficiale- che si tratti di un suicidio per tipica impiccagione. L’ipotesi del suicidio, al contrario, rivela contraddizioni insolubili che si ripetono anche nell’inchiesta criminologica e che il governo e la giustizia, da parte loro, non sono evidentemente in grado di spiegare.
Proprio queste contraddizioni rafforzano il sospetto dell’intervento di terzi.
Oltre alle contraddizioni riscontrate dal dott. Meyer nei suoi accertamenti e confermate dai detenuti di Stammheim (posizione del cadavere, genere dell’oggetto servito allo strangolamento etc..), debbono essere inclusi nell’inchiesta i seguenti dati:

A. L’ASCIUGAMANO E L’OGGETTO TAGLIENTE

La striscia ritagliata da un asciugamano, adoperato per lo strangolamento, non poteva essere fissata alla rete della finestra senza un adeguato strumento ausiliare. “La rete metallica ha quadrati di mm 9×9: senza uno strumento adeguato -una piccola pinza, ad esempio- è impossibile far passare una striscia tale nella maglia della rete e reintrodurla in un’altra maglia tirandola verso l’interno. Una pinza del genere non è stata trovata. Ogni altro mezzo (cucchiaio, forchetta…) è inutilizzabile per una simile operazione poiché le maglie sono troppo piccole” ( dichiarazione dei detenuti di Stammheim)  […]

B. SEDIA / MATERASSO

Per quanto riguarda la posizione del corpo, esistono versioni che si escludono reciprocamente.

  • Scheritmuller (funzionario della prigione): “Non c’era sgabello. Non ho visto sedie”
  • Henck (medico della prigione) : “I piedi erano a 20 cm dal suolo”
  • I funzionari di polizia non citano mai sedia o materasso
  • La sedia appare per la prima volta in Rauschke, nel suo rapporto di medicina legale e nel rapporto della polizia criminale. Rauschke parla di un materasso; la polizia criminale di un materasso e parecchie coperte. Nel rapporto destinato a Jansenn, Rauschke non parla del materasso; in tal modo Jansenn è costretto a partire da indicazioni inesatte
  • “Una sedia posta su una base così instabile si sarebbe immediatamente rovesciata per gli sgambettamenti – di cui si è parlato- che sarebbero stati così forti da provocare le ferite, numerose e profonde, che sono state accertate alle gambe” (dichiarazione dei prigionieri)

C. COPERTA

“Ulrike Meinhof ha sempre dormito con una coperta di pelo di cammello che portava, ricamato, il nome di Andreas Baader. Questa coperta mancava al momento in cui furono consegnati gli effetti personali all’esecutore testamentario. La coperta era ancora nel carcere poco tempo prima. Non è citata nella lista di oggetti presi in consegna dai funzionari della Sicurezza di Stato. Dal registro dell’Istituto di pena risulta che la coperta è stata registrata e quando. Una coperta non poteva lasciare la prigione” [documenti dell’IVK]

D. LAMPADINA ELETTRICA

“Ho aperto ieri sera, alle 22, secondo il regolamento vigente nell’istituto di pena di Stammheim, la cella della signora Ensslin e quella della signora Meinhof, per farmi consegnare, come ogni sera, i tubi al neon e le lampadine elettriche delle celle”. Ecco quanto dichiarava una guardiana ausiliaria, la signora Frede, nel corso del primo interrogatorio della polizia criminale il 9 maggio 1976.
Tuttavia, nel corso dell’inventario ufficiale, il 10 maggio, una lampadina elettrica che recava impronte digitali e che si trovava nella lampada da scrittoio è stata requisita e inviata all’istituto tecnico di criminologia dell’Ufficio federale della polizia criminale. L’istituto rende noti i risultati della perizia dattiloscopica: “Le tracce dattiloscopiche che si trovavano sulla parte esterna della lampadina, rese già visibili dalla polvere nera, sono state fotografate, qui, più di una volta. In ogni caso, si tratta di frammenti di impronte digitali che sono inutilizzabili a scopo di identificazione. Il confronto di questi frammenti con le impronte di Ulrike Meinhof, nata a Oldenburg il 7.10.34, non ha permesso di rilevare alcuna somiglianza.

E. VESTITI

Scaturisce dai verbali, come dalle dichiarazioni di Gudrun Ensslin, che Ulrike indossava la sera dell’8 maggio un jeans slavato e una camicetta rossa. Alla scoperta del cadavere, portava un pantalone di velluto nero e una camicetta di cotone grigia a maniche lunghe. Rimangono dunque due interrogativi: 1. Perchè qualcuno che vuole impiccarsi si cambia d’abito? 2. Perchè la polizia criminale e la Procura non hanno chiesto dove si trovavano i vestiti indossati dalla Meinhof la sera dell’8 maggio? [ Jurgen Saupe, settembre ’76]

F. CONTRADDIZIONI NELLE DEPOSIZIONI Di RENATE FREDE

Durante la sua prima deposizione dinanzi alla Polizia criminale, la guardiana ausiliaria Frede dichiara di aver aperto la porta della cella della Meinhof per farsi consegnare le lampadine elettriche. Senza darne spiegazione, la procura l’ascolta una seconda volta l’11 maggio. La Frede dichiara: “Nel corso della mia prima deposizione, ho dichiarato per errore che avevo aperto la porta della cella della Meinhof; non è del tutto esatto. Non ho aperto la porta della cella, ma lo sportello attraverso il quale vengono passati i pasti. In quel momento, anche i funzionari Walz e Egenberger erano presenti. Lo sportello è chiuso da un catenaccio”.

 

 

    Amnistia in Tunisia

    2 marzo 2011 Lascia un commento

    E’ quello che chiede a gran voce anche tutto il popolo egiziano! Fuori tutti, liberi tutti!
    Oggi la Tunisia, attraverso la voce dell’avvocato Samir Ben Amor (attivista dell’Associazione internazionale per il sostegno dei prigionieri politici):
    «Gli ultimi prigionieri politici in Tunisia sono stati liberati oggi» ha detto , aggiungendo che «in totale, a partire da lunedì sera, sono 800 i prigionieri politici liberati in gruppi e tra i 300 e 400 sono stati liberati oggi». L’amnistia generale decretata il 20 gennaio scorso dal governo provvisorio, sei giorni dopo la caduta di Ben Ali, è entrata in vigore in questi giorni. «Restano tuttavia una decina di detenuti, condannati per terrorismo durante il regime – ha detto ancora Ben Amor – sui quali continueremo ad insistere con le autorità».
    E poi ci ostiniamo a voler dire che questi due popoli non voglion fare la rivoluzione! Mi sembra che ce la stanno mettendo tutta: intanto aprendo le gabbie delle proprie prigioni. In Egitto, durante i giorni di rivolta, si sono contati circa 17.000 detenuti evasi, ed ora tutte le piazze e le organizzazioni chiedono la liberazione di TUTTI i prigionieri politici ancora privati della propria libertà.

    Si lotta anche in cielo! Costretto a tornare indietro un aereo “con deportato” a bordo!

    24 gennaio 2011 1 commento

    Ringrazio la pagina di Scarceranda per questa notizia! E la posto immediatamente, perchè non si può non farlo!
    🙂

    Dopo una protesta spontanea scoppiata a bordo contro una deportazione in corso, ieri Air France ha ordinato il ritorno indietro del volo decollato da Parigi con destinazione Bamako, in Mali. Otto attivisti e attiviste della “carovana per la libertà di movimento e lo sviluppo sostenibile” così come altri passeggeri e passeggere che avevano partecipato alla protesta, sono stati/e arrestati/e e ora stanno aspettando il prossimo volo.
    Parigi/Berlino, 20 gennaio 2011.

    Il primo gruppo di attivisti e attiviste della “carovana per la libertà di movimento e lo sviluppo sostenibile” sono saliti/e a bordo dell’aereo per Bamako questo giovedì a Parigi. Sullo stesso aereo c’era un uomo in catene, accompagnato dalla polizia, che stava per essere deportato in Mali. Subito dopo la partenza, 17 tra passeggeri e passeggere si sono alzati/e dai loro sedili e si sono rifiutati/e di sedersi in solidarietà con l’uomo, che stava resistendo alla deportazione!
    Come conseguenza della loro azione congiunta, il pilota è tornato all’aeroporto Charles-de-Gaulle, e otto tra attivisti/e e passeggeri/e sono stati/e arrestati/e. Gli ufficiali della sicurezza hanno attaccato l’uomo, un padre di famiglia che ha documentato lo svolgimento dei fatti con la telecamera del suo telefono cellulare. Secondo gli attivisti e le attiviste maliani/e, anche un secondo tentativo di deportare con la forza lo stesso uomo è fallito successivamente nel corso della stessa giornata.
    Invece di trasportare i passeggeri e le passeggere, Air France ovviamente preferisce diventare uno “scagnozzo” della polizia di frontiera francese, deportando inesorabilmente le persone contro la loro volontà. Nel corso di questa settimana altre due partenze da Parigi erano già state rimandate a causa delle proteste contro le deportazioni: venerdì scorso, i passeggeri e le passeggere avevano protestato contro un volo diretto a Douala, in Camerun, e quattro di loro erano stati/e rimossi/e dall’aereo e identitificati/e dalla polizia. Mercoledì alcuni passeggeri/e si erano rifiutati/e di sedersi su un volo Royal Air Maroc, fino a che l’aereo è decollato con un’ora e mezzo di ritardo senza i due prigionieri che avrebbero dovuto essere deportati.
    Gli impiegati e le impiegate della Air France hanno preso posizione con risolutezza contro i voli delle deportazioni della compagnia aerea fin dal 2007, ma finora senza successo. Gli attivisti e le attiviste sono stati/e rilasciati/e in piena notte, molto tempo dopo il decollo del loro aereo. Mentre gli attivisti e le attiviste dovranno aspettarsi di subire le conseguenze giudiziarie della loro coraggiosa azione contro la brutalità dei voli delle deportazioni, è certo che riceveranno un entusiastico benvenuto dagli attivisti e le attiviste maliani/e a Bamako. 
    Dopo il rilascio a tarda notte, tutte e tutti alla fine hanno ottenuto di partire con dei nuovi voli Air France per Bamako, nel tardo pomeriggio di oggi. Dobbiamo ringraziare tutti gli attivisti e le attiviste che hanno sostenuto quest’azione! Abbiamo fatto delle esperienze utili: abbiamo imparato quanto forte può essere la resistenza quotidiana contro le deportazioni in Francia e abbiamo imparato quanto questa mailinglist funzioni velocemente: ci sono voluti meno di cinque minuti per ottenere un sostegno!

    Fonte: http://www.afrique-europe-interact.net/

    ECCO IL VIDEO

     

    Il sesso tra le sbarre nell’era del bunga bunga, e altre storie dal carcere di Opera

    21 gennaio 2011 4 commenti

    Dal Blog Urladalsilenzio, dove prendono voce molti detenuti e molti ergastolani, arriva un’interessante lettera dal carcere di Opera.
    Una lettera di un detenuto che spesso scrive alla redazione di quel sito per informare e aggiornare sulla quotidianità tra quelle mura invalicabili e che ora ci racconta cosa significa un irrigidimento del clima all’interno di un penitenziario.

    Filippine_ uno sguardo in cella

    Cosa significa la privazione di piccole cose o il diverso atteggiamento dei secondini: insomma, dalle parole riportate sul sito, stralci di quella lettera, si capisce come le prigioni italiane stiano diventando ogni giorno di più una polveriera.
    Una polveriera che se pure non scoppierà, perchè non ci sono le consapevolezze politiche necessarie per gestire una rivolta reale, rende irrespirabile l’aria che respirano quasi 70.000 persone nel nostro paese.
    Vi lascio alle parole di Alfredo Sole, che parlano da sole… che parlano anche di sessualità tra le sbarre, argomento tabù nel nostro paese…
    il diritto a scopare è dei potenti ormai.

    Per quanto riguarda il nuovo clima di “estrema sicurezza”, cinicamente sto sperando che esagerino ancora, in modo che anche i più “pacati” -che poi non si tratta di essere “pacati”, ma è la paura di essere trasferiti e di prendere rapporti- si diano una svegliata e capiscano che non si può stare 20 ore chiusi sempre in cella e che quella volta che esci per andare  in doccia la guardia non può starti dietro, e, prima ancora che esci dalla doccia, hai già la cella aperta perché devi rientrare e se attendi un pò, ecco che la voce del padrone si fa dura. DEVI ENTRARE!
    Ho fatto la proposta ai lavoranti, tra cui ero anche io, di chiuderci dal lavoro, creandogli così non pochi problemi. Ma a quanto pare nessuno è ancora pronto.. Mi sono chiuso dal lavoro solo io, ma l’ho fatto con la scusa che devo studiare. Non potevo stare fuori a lavorare. Prima che succedesse che cambiasse il loro modo di trattarci, il lavorante aveva la cella aperta dalle 9:00 di mattina fino alle 18:00 di sera. Tutto sommato era anche piacevole. Adesso rispettano gli orari..

    Regina Coeli

    TI APRONO TRE ORE AL GIORNO DISTRIBUITE NELLA GIORNATA.
    Per ciò significa che quando esci dalla cella è solo per fare un lavoro, ma poi devi rientrare subito.
    Bene, io non ci sto, e visto che gli altri non vogliono venirmi dietro (per il momento), mi sono chiuso per motivi di studio. Se rimanessi a lavorare, rischierei di mandare a fare in culo qualcuno… Per adessso preferisco aspettare che i miei compagni si rendano conto che non è possibile farsi la galera in questo modo. Che non siamo in un carcere giudiziario, ma bensì in un penale dove scontare una pena definitiva, e quello tra noi che deve scontare “meno galera” ha 30 anni di carcere; e tutti più o meno abbiamo scontato già almeno 20 anni di carcere.
    Poco fa, dalla mia pstazioni di stuidio, la mia cella, ho assistito a una “scaramuccia”. La guardia con la cella aperta di un detenuto e la chiave già inserita pronto a chiudere. Il detenuto che si ferma un attimo a parlare con un compagno e immancabilemnte la guardia.. “deve rientrare, è mezzora che parla!”. Bhè, il mio compagno si è incazzato.. “Ora basta, state esagerando, va bene?!” Sono i primi segnali che a lungo porterano a non far sopportare più questa situazione.

    C’è un altro aspetto del carcere che voglio farti conoscere. E’ un aspetto da non sottovalutare, anche se, magari per vergogna, nessuno ne parla. Ma se viene analizzato, nella sua parte “scientifica”, allora si comprende che è qualcosa di importante. Ma putroppo in questo carcere ignorano l’importanza dello sfogo ormonale dei maschi. La notte non c’è detenuto in questo Paese che non si faccia uno zapping in tv per scovare qualche donnina nuda. Oppure, non c’è carceere che non ti permetta di acquistare riviste per adulti. TRANNE OPERA!
    Prima dell’avvento del digitale, era possibile la notte trovare in tv qualche programma del genere. Adesso non è più possibile. Così come non è possibile comprare riviste del genere. Anche questa privazione non può che potare a un nervosismo crescente. E’ scientificamente provato che la produzione di ormoni porta alla aggressività.. specialmente in carcere, dove non esiste il sesso, come in molti altri paesi che invece danno questa possibilità.
    Il detenuto italiano sfoga questa mancanza con l’autoerotismo che diventa una necessità per controllare la propria aggressività. Ma, come ti ho detto, questo carcere è diretto da persone che pensano che la pena da scontare sia anche questo tipo di privazione. Nonostante ci siano sentenze di Cassazione che dimostrano il contrario. Ma, essendo un argomento delicato, loro fanno affidamento sul fatto che nessuno si ribelli per la vergogna che ne scaturirebbe. Ma quella aggressività di cui ti parlo, comincia a farsi strada. I detenuti sono più nerosi, e gran parte di questo nervosismo è proprio dovuto all’impossibilità di “deliziare la vista”. E’ risaputo che è la donna a usare l’immaginazione, l’uomo ha bisogno della vista. Qui a Opera ci hanno accecati.

    Vedi, caro Alfredo, questi sono argomenti di cui nessuno parla. Per molti, compresi la maggior parte dei miei compagni, sono tabù. Ma è un aspetto importante della carcerazione. Se in Italia non esiste il vis a vi come in Spagna la colpa è anche dei detenuti che ritengono questo argomento un verò tabù. Qualcosa di cui vergognarsi al solo pensarlo.
    Quando un pò di anni fa qualche parlamentare accenò alla possibilità di fare entrare la sessualità in carcere, i primi a indignarsi furono i detenuti. Beh, una parte dei detenuti. Mi ricordo ciò che dicevano: “Ma stiamo scherzando? Io dovrei fare venire qui la mia donna e tutti sapranno che sto andando a fare quella cosa?”.

    EMERITO TESTA DI CAZZO.. avrei voluto dirgli, quello che tu chiami “QUELLA COSA” è il motore del mondo. Sei stato condannato a perdere la libertà, ma non a cessare di essere uomo.
    Poi non se ne parlò più. Tipico dell’Italia. Si fa una proposta, si dannno delle speranze ai detenuti, e poi si accantona tutto nel dimenticatoio. Poi ti imbatti in un carcere come questo, e cercano di uccidere anche la tua fantasia… Ma come ti ho detto, io, nel mio cinismo, dico “bene!” Che tolgano sempre di più. Voglio che i miei compagni escano dal letargo, voglio che si sveglino più incazzati di prima che si addormentassero…

    Leggi:
    Dal letame nascono i fior?

    Tunisia (5): Carceri in rivolta ed evasioni di massa

    15 gennaio 2011 2 commenti

     

    Queste sono le notizie che vorrei dare quotidianamente, quelle che emozionano parola dopo parola e rendono difficile la scrittura.

    Un paese che sta provando a liberarsi, la Tunisia, e passo passo sta tentando di mettere su strada quelli che sono i percorsi normali di un processo non dico rivoluzionario ma sovversivo e “liberatorio”.

    E allora non si può passare che da lì…la liberazione di un popolo non può che passare per le celle delle proprie galere, non può che tranciare sbarre e abbatter blindati, non può che liberare i corpi reclusi e donare a loro nuova vita. E così la lista di nomi è lunga: sono circa mille i detenuti evasi solo dal carcere del Kasserine (una delle zone più calde della rivolta). Al-Jazira racconta che il direttore del centro ha deciso di aprire le celle, dopo una rivolta così violenta da non poter essre fronteggiata. Ma si è scappati ovunque nel paese e ovviamente qualche detenuto c’ha pure lasciato la pelle.
    Nelle fiamme a Monastir, tra le pallottole della polizia a Madhia, a Sfax e Kairouan, a Biserta e Kram, a Cartagine e a Tunisi, nel carcere del centro città. Si parla di un centinaio morti tra i detenuti in rivolta di tutte le carceri tunisine e di migliaia di detenuti, ma poi arrivano conferme che sessanta morti sarebbero solo quelli contati nel carcere di Monastir, dove la tragedia è stata pesante. La rivolta ha portato i detenuti ad incendiare i propri materassi all’interno di uno dei bracci della prigione, dopo che dall’esterno si era provato ad abbattere i muri di recinzione con dei trattori, ed ora gli ospedali sono pieni di corpi devastati dalle fiamme.

    Nel frattempo scende la sera e le strade, soprattutto dei sobborghi di Tunisi, si svuotano della popolazione a causa del coprifuoco; la voce diffusa è che le bande di cui si parla che starebbero saccheggiando e terrorizzando un po’ tutti sono uomini fedeli all’ex presidente Ben Ali, tanto che in molti quartieri la popolazione si sta autorganizzando e creando barricate per rendere più difficile la circolazione ai “razziatori”.

     

    A Mario, dai muri della terra di Palestina

    9 gennaio 2011 Lascia un commento

    I muri della Palestina sanno cos’è la prigionia…
    I muri della terra di Palestina sanno guardare al di là di quello che rinchiudono…
    I muri della Palestina stringono con calore tutti i reclusi, tutti i combattenti per la libertà…
    I muri della Palestina questa volta salutano Mario…
    e i compagni lasciati dall’altra parte della frontiera.

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    Rebibbia, Capodanno 2011: ODIO IL CARCERE

    30 dicembre 2010 2 commenti

    Capodanno 2011 con Radio Onda Rossa

    COME OGNI ANNO SAREMO ALL’INCROCIO TRA VIA BARTOLO LONGO E VIA RAFFAELE MAJETTI, SOTTO LA GARITTA DEL MURO DI CINTA DEL CARCERE ROMANO DI REBIBBIA, UN PIANETA MASTODONTICO DI RECLUSIONE DI UOMINI E DONNE.
    DALLE ORE 11 ALLE ORE 15, SAREMO SOTTO QUELLE MURA PER PORTARE UN PO’ DI MUSICA E COLORE, PER FAR ARRIVARE UN PO’ DI CALORE AI DETENUTI, PERCHE’ ODIAMO IL CARCERE E CI PIACE RIBADIRLO. GIORNO DOPO GIORNO.
    IO, PERSONALMENTE, LO MALEDICO OGNI GIORNO DELLA VITA MIA.
    PER LA LIBERTA’ DI TUTTE E TUTTI, INCONDIZIONATAMENTE.

    SOSTIENI E DIFFONDI SCARCERANDA
    SOSTIENI E ASCOLTA RADIO ONDA ROSSA
    ODIA IL CARCERE

    Dal carcere di Rebibbia, per Radio Onda Rossa

    30 dicembre 2010 1 commento

    REBIBBIA, 29 Dicembre 2010

    Cari compagni/e di Radio Onda Rossa,
    vi scriviamo dal “tepore” natalizio delle nostre celle. Rendendo grazie all’amministrazione penitenziaria ed a tutti quei benpensanti cristiani, anche questo Natale ci è stato fatto dono del loro alberello e dell’immancabile presepe, ricordandoci che la “grazia” del buon Dio e la gloria della nascita di Cristo coinvolge tutti, persino noi carcerati.
    Ovviamente solo se da buoni cristiani ci si incammina sulla via del “PENTIMENTO” e della “redenzione”. Il messaggio “sotto-traccia” è sempre quello: cercare di convincerci della bontà dell’Istituzione, la millenaria trinità: LAVORO-FAMIGLIA-CONSUMO/ISMO, i quali, ragionandoci bene sono proprio le “necessità” che, per poter colmare, ci hanno indirizzato verso la strada dell’illegalità (il capitalismo ossessivo necessita di una dose sempre maggiore di fondi al fine di rimpinzare il cosiddetto benessere familiare, di sempre nuove ed inutili “necessità”). Ci troviamo ad osservare quel presepe e quell’albero scintillanti di luci, simulacri di un benessere di plastica, ma voltandoci verso la cruda realtà delle cose, quotidianamente ci vengono negati perfino i diritti fondamentali dell’uomo e dato che “alla sorte non manca ironia” sono proprio quelle luci che scintillano nella grotta del presepe ad essere invece negate a noi detenuti, insieme “ovviamente” ai rudimenti dell’igiene, l’acqua calda e lo spazio vitale (siamo in SEI in un buco di cella… tipo mucche da macello, no?); senza poi tener conto di privazioni ben più gravi: l’assistenza medica, psicologica e culturale insufficienti, ma che dovrebbero essere, almeno sulla carta, basilari al fine del reinserimento sociale così tanto decantato dalle leggi “svuota-carceri”, utili esclusivamente all’imbonimento dell’opinione pubblica…

    OVVIAMENTE LA REALTA’ E’ BEN DIVERSA!!!

    Da qui non si esce e fin troppo spesso si muore e, se si è così fortunati da giungere fino al fine pena illesi, ci sono poche o nulle possibilità di migliorare il nostro futuro, se non quella di incontrarci nuovamente ospiti dei tanti “Hotel Millesbarre” che il nostro “Belpaese” ci offre… in fondo la maggior parte di noi è considerata feccia, e per molti va bene così: QUALCUNO IN GALERA DEVE PURE ANDARCI per conservare la pia illusione che nessuno rubi più!…
    Ci viene spontaneo far sapere che anche noi siamo a fianco di tutti/e gli studenti ed i lavoratori (o aspiranti tali!) che si stanno battendo per un futuro migliore e che vengono anch’essi criminalizzati in ogni modo. “Se non fossimo rinchiusi saremmo TUTTI AL VOSTRO FIANCO!”.

    SOLIDARIETA’ A COLORO CHE NONOSTANTE TUTTO NON SMETTONO DI SOGNARE, LOTTARE E CREDERE IN UN FUTURO MIGLIORE… “CON OGNI MEZZO NECESSARIO”
    SOLIDARIETA’ CON TUTTI/E I DENUNCIATI DEL 14 DICEMBRE
    SOLIDARIETA’ PER MARIO MILIUCCI
    LIBERTA’ PER TUTTI/E I PRIGIONIERI FUORI E DENTRO I CARCERI!

    PS: MANNATECE SCARCERANDA!

    Seguono firme

    “… Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame!” Fabrizio De Andrè

    Che si sia d’accordo o meno, che si abbia o meno il “coraggio” e la forza di presentarlo, vi prego di far conoscere questo modulo e l’indirizzo al quale inviarlo. Serve per veder riconosciuti i propri diritti di essere umano e per denunciare le sempre peggiori situazioni abitative/igieniche/sanitarie ecc., ed ultimo, ma non per importanza, per avere anche qualche somma di denaro come rimborso… potrebbe aiutare qualcuno, no?

    Saluti

    Al difensore civico delle persone private della libertà
    c/o Antigone
    Via Principe Eugenio, 31 – 00185 – Roma

    Il sottoscritto ___________________________ nato a ______________________ il _________ attualmente detenuto presso la Casa di reclusione di _______________ intende presentare ricorso alla CEDU per il risarcimento della detenzione disumana espiata in riferimento al sovraffollamento (e/o mancanza di servizi sanitari/riscaldamento/ rispetto dei diritti fondamentali, ecc.) nelle celle.

    Vorrei ricevere l’atto di Procura per la nomina del legale che Voi mettete a disposizione allo scopo di seguire la pratica alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

    COGNOME-NOME-INDIRIZZO

    Ringrazio per l’attenzione

    FIRMA

    E DOMANI, COME OGNI ANNO, APPUNTAMENTO AL CARCERE DI REBIBBIA con RADIO ONDA ROSSA.
    PERCHE’ DI CARCERE NON SI MUOIA, MA NEMMENO SI VIVA

    GIOCHIAMO AI CARCERIERI?

    1 novembre 2010 4 commenti

    Siamo alla frutta e non da poco, ma queste cose, soprattutto al mattino di un giorno di festa mi fanno salire una strana rabbia.
    Va bene che il mondo ha il proprio orticello virtuale su Facebook, va bene la città milionaria da tirar su, va bene che costruisci il tuo supermercato, va bene che costruisci una casa di pupazzi di lusso….va bene un po’ tutto per me.
    Infondo so’ nata nel 1982, son cresciuta con i videogiochi pre-era “manageriale” (mo’ vanno di moda così, non mi scandalizzo per questo!)…
    ma GESTIRE UN PENITENZIARIO????
    Ma come gli viene in mente?
    Nuova applicazione per IPhone…a meno di 3 euro puoi diventare il secondino del secolo.
    Basta scaricare l’applicazione e poi potrai portare sempre nella tua tasca il tuo personale penitenziario!
    “Il nostro compito sarà quello di sorvegliare i detenuti della prigione stando attenti che nessuno dei carcerati sviluppi troppa aggressività o troppa stanchezza.” OH MY GOD!Dobbiamo farli mangiare, lavare, allenare, divertire, dobbiamo anche carpire del reddito grazie al loro lavoro: si supera il livello quando arrivano nuovi detenuti, alla faccia del sovraffollamento!
    “L’unica pecca sta nel fatto che dopo un po’ che si gioca le azioni diventano ripetitive e col passere dei livelli e delle prigioni si rischia di cadere nella monotonia.” CAPITO SI? Potreste annoiarvi a fare i secondini, nel carcere la vita è monotona!

    BELLO SCHIFO! 

    Le “donne” dei prigionieri e la storia rimossa, la nostra storia

    1 settembre 2010 20 commenti

    AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
    IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
    LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI

    Quest’articolo lo lessi che ero poco più di una bambina, a tredici anni, riportato tra le note di un libro che cambiò la mia vita (regalatomi da una mano completamente inconsapevole):
    Dall’altra parte”  – l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici- di Prospero Gallinari e Linda Santilli.
    Un articolo, un “reportage”, una testimonianza scossa di una giornata passata con le “donne dei detenuti” br e non, reclusi nel carcere speciale di Trani dopo appena un mese dalla rivolta. Le compagne di uomini fatti a pezzettini dai GIS, uomini con dita denti schiene e costole spezzate: detenuti politici che avevano messo a ferro e fuoco un carcere e che ora scontavano sulla loro pelle e quella dei loro cari la repressione dello stato.
    Uno stato che doveva dimostrare la sua forza: uno stato che aveva mandato i GIS a sedare la rivolta …e c’era riuscito, ovvio!, peccato che al rientro dell’operazione – nei festeggiamenti per il capodanno- il generale che aveva guidato il masssacro è stato ucciso sul pianerottolo di casa.
    Quest’articolo racconta il mai raccontato, quello vissuto da chi ha avuto la vita sventrata dal carcere, dalle leggi speciali, dall’ergastolo solo perchè madre, figlio, amore di un compagno prigioniero.

    La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia.
    Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i familiari. Perlopiù sono donne, madri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora , questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani.
    Qui il femminismo non avrebbe ragione d’esistere.
    Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro […].
    Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi.  Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’ufficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano.
    Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancello. Per ogni nome chiamato passa un’ora. I colloqui dovranno essere con i vetri. NO, prigionieri e donne dicono no. […]

    Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. […]
    Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa.
    I carabinieri si schierano a pochi passi dalle donne, faccia a faccia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un film. Comparse che non conoscono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.
    Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica.[…]
    Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta di onda d’urto che spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano per nome i detenuti, e a mano a mano che uno viene crocifisso dalla luce dei fari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colleghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti.
    Il policlinico di Bari si lascia portari via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di poche radio libere e qualche stralcio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la passano, all’opinione pubblica non arriva niente.
    Altre notizie, sassi in faccia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la “guerra batteriologica”, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell’e meglio subito dopo la rivolta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole.
    Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. […]
    Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole,  anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia.
    Notte e nebbia. Nacht und Nebel sulle carceri speciali.
    Notte e nebbia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che accade o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.

    Laura Grimaldi
    Il Manifesto

    29 Gennaio 1981

    [A mamma Clara, a suo figlio Bruno]

    I LINK SULLA TORTURA
    breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
    Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
    Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
    Arresto del giornalista Buffa
    Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
    Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
    Il pene della Repubblica
    Ma chi è il professor “De Tormentis”?
    Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
    De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
    Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
    Le torture su Alberto Buonoconto
    La sentenza esistente
    Le torture su Sandro Padula
    Intervista a Pier Vittorio Buffa
    Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis

    “Dal letame nascono i fior”?? …sul carcere di Bollate

    5 marzo 2010 Lascia un commento

    1969 _ Carceri in rivolta_

    Pubblico con molto piacere una lettera di Carmelo Musumeci, a cui spesso do spazio in questo blog; ergastolano rinchiuso nel carcere di Spoleto.
    Carmelo giustamente, nel leggere il Corriere della sera di martedì rimane un po’ sconcertato dello spazio dato alla notizia (ottima) di una gravidanza tra le sbarre. Come è potuto accadere? Due detenuti che hanno rapporti sessuali dentro il carcere! Il miracolo? Finalmente il diritto all’affettività per i detenuti anche nel nostro paese di merda?
    No. Assolutamente !!
    I due hanno avuto rapporti clandestini (pensa che palle, tutto estremamente di corsa e con qualche tonnellata di ansia)nell’aula scolastica :
    i giornalisti, palesemente invidiosi del fatto che anche i detenuti hanno più orgasmi di loro, sono corsi ad urlare allo scandalo.
    In prigione si sta meglio che in vacanza: si mangia, si riposa e si tromba pure!!!
    In realtà il carcere di Bollate è un esperimento, unico nel nostro paese.
    Quando parliamo di carcere sperimentale parliamo anche di un certo tipo di detenuti, di percorso rieducativo etc. etc. ,
    insomma col cavolo che un detenuto “normale” finisce a Bollate!
    Noi comuni mortali, noi che non ci venderemmo mai nessuno, noi che non ce piace chiacchierà … noi si finisce in 9 in cella a far l’amore con la claustrofobia e i blindati chiusi.

    Perché nelle carceri italiane ci si può togliere la vita ma non si può fare l’amore?
    di Carmelo Musumeci dal Carcere di Spoleto, marzo 2010

    Nel Corriere della Sera di martedì 2 marzo 2010 ho letto che nel carcere di Bollate una detenuta è rimasta incinta da un detenuto.
    Radio carcere sostiene che erano fidanzati e che si potessero vedere solo nell’aula scolastica dell’istituto.
    La cosa mi ha fatto sorridere, perché fa tenerezza che in un luogo di sofferenza e dolore nasca l’amore e la vita.
    Ho continuato a leggere l’articolo, ad un tratto ho smesso di sorridere.
    -Il segretario del sindacato di polizia penitenziaria SAPPE, che ha denunciato l’accaduto, chiede che il ministro Alfano predisponga approfondimenti.
    Incredibile!
    Il carcere di Bollate, l’unico che in Italia funzioni e che applichi il principio rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, fa scandalo perché i detenuti invece di ammazzarsi fanno l’amore.
    Pazzesco!
    Il segretario del sindacato di polizia penitenziaria invece di chiedere approfondimenti nei carceri dove si muore come mosche, (da gennaio dodici suicidi dietro le sbarre, al 26/02/2010) chiede approfondimenti nell’unico carcere dove non si è suicidato nessuno, ma è stata concepita una vita.
    Tutti parlano e scrivono dei morti in zone di guerra in Afghanistan o in Iraq, ma nessuno ormai parla e scrive più dei morti in carcere in Italia.
    Che strano paese è l’Italia: fa notizia che due detenuti invece di ammazzarsi fanno l’amore, ma nessuno scrive e parla del fatto che le persone che si sono tolte la vita nel nostro paese in carcere sono superiori ai soldati americani morti in Afghanistan o in Iraq.
    Ricordo ai politici di questo nostro strano Paese che il desiderio d’amore è naturale e istintivo; che l’affettività è da sempre considerata un diritto fondamentale;
    che la pena dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà;
    che sono ormai tantissimi i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, persino paesi come l’Albania, considerato fanalino di coda dell’Europa;
    che è disumano il divieto di dare e ricevere una carezza o un bacio dalla persona che ami;
    che la mancanza di contatti intimi reca danni alla psiche e alla sfera emozionale;
    che un individuo in carcere non perde il diritto di avere diritto;
    che un carcerato resta un membro della famiglia umana: anche i detenuti, piangono, sorridono, si nutrono, respirano e pensano, eppure molti di noi non hanno rapporti intimi con le loro compagne da decenni.
    Non è naturale questo modo di vivere: in carcere i detenuti non dovrebbero perdere il diritto di amare e di essere amati.

    Perché nelle carceri italiane ci si può togliere la vita ma non si può fare l’amore?

    Leggi anche
    Il sesso tra le sbarre nell’era del Bungabunga

    Con Joy ed Hellen. Basta Deportazioni

    6 febbraio 2010 Lascia un commento

    Il 04/02/2010 l’avvocato Massimiliano D’Alessio chiama in carcere a Como, per l’istanza depositata nel tribunale di Milano il 2 febbraio scorso, che gli autorizza l’ingresso in carcere insieme all’interprete nigeriana per incontrare in colloquio la sua assistita Joy.
    Dall’ufficio colloqui del carcere rispondono che è tutto a posto per la suddetta visita.
    Il giorno seguente, venerdì 5 febbraio 2010, l’avvocato insieme all’interprete si presenta all’ufficio colloqui del carcere di Como per incontrare la sua assistita e gli viene detto che Joy il 4 febbraio 2010 ha revocato la nomina al suo avvocato di fiducia, Massimiliano d’Alessio, nominando l’avvocata d’ufficio che le avevano assegnato in precedenza e con la quale non ha mai avuto un colloquio né un contatto.
    Non avendo potuto incontrarla non ci spieghiamo come Joy abbia potuto scegliere di cambiare l’avvocato che la seguiva fino a quel momento nel processo di appello per la rivolta dello scorso agosto nel Cie di via Corelli a Milano e nella denuncia per tentata violenza sessuale nei confronti dell’ispettore capo dello stesso Cie, Vittorio Addesso, mettendosi così nelle mani di un’emerita sconosciuta.
    Allora ci chiediamo: ma ha fatto la richiesta veramente Joy? Quale ‘forza oscura’ l’ha indotta a farlo? In questo modo non ha potuto parlare con il suo avvocato e la interprete nigeriana. Perchè succedono queste cose improvvise? C’è qualcuno o qualcosa che non vuole che si sappia come è andata la vicenda?
    Non abbiamo potuto vedere Joy, non abbiamo potuto parlare con Joy, non sappiamo come stia, non sappiamo cosa pensi, non abbiamo potuto dirle che il 12 febbraio, giorno della sua scarcerazione, saremo lì fuori ad aspettarla.
    Lei continua a lottare, ma purtroppo è in carcere dove non possiamo comunicare con lei perché loro non vogliono.
    Dobbiamo far sapere a tutti che non possono zittirla perchè siamo noi la sua voce!

    Appuntamento 12 febbraio ore 6.30 di mattina davanti alla stazione di Albate Camerlata Fs. Dalle ore 7 in poi davanti al carcere di Como – in via Bassone 11 – per aspettare Joy!
    Invitiamo chi non può venire a Como a costruire iniziative a supporto del presidio nel territorio in cui vive.

    Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione

    3 gennaio 2010 Lascia un commento

    I responsabili del sistema penitenziario chiedono poteri speciali
    di Paolo Persichetti, Liberazione 3 gennaio 2010

    Il capo del Dap Franco Ionta ha chiesto lo scorso novembre l’apertura dello stato d’emergenza per le carceri. Secondo l’ex pm antiterrorismo, salito ai vertici dell’amministrazione penitenziaria nel luglio 2008, i «poteri straordinari» conferitigli all’inizio del 2009, in qualità di «commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria», non sarebbero più sufficienti per fronteggiare la gravità della situazione carceraria. In una lettera inviata a Settembrino Nebbioso, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Angelino Alfano, il massimo responsabile del carceri ha chiesto poteri speciali da «commissario delegato».
    Un ampliamento delle competenze simile a quelle attribuite a Guido Bertolaso nel campo della protezione civile. Un potere d’eccezione che gli consentirebbe di aggirare le normali procedure in materia di edilizia penitenziaria prospettati, a più riprese, nel piano carceri annunciato dal governo. Ionta chiede di fare a meno delle gare pubbliche di appalto per l’attribuzione dei lavori alle ditte costruttrici e di avere in cambio la facoltà di affidare in via riservata, con modalità arbitrarie e discrezionali, i contratti per la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti, e per i quali la finanziaria ha stanziato 500 milioni di euro (in buona parte presi dalla “cassa ammende”, circa 350 milioni, in precedenza utilizzati per finanziare programmi di trattamento e rieducazione che in questo modo verranno meno). Il piano indica anche la costruzione di 24 nuovi penitenziari a struttura modulare, di cui 9 «flessibili» (vale a dire carceri di “prima accoglienza” destinati a governare l’enorme flusso di ingressi/uscite rappresentato da quella fascia di persone arrestate, o detenute con pene lievi, che soggiornano in prigione per pochi giorni), da costruire nelle grandi aree metropolitane o in aree considerate “strategiche”, e di altre 7 strutture “pesanti”, a pianta architettonica tradizionale; progetti per i quali manca la copertura finanziaria.
    Il project financing si è infatti arenato di fronte all’indisponibilità dei costruttori privati ad anticipare il costo dei lavori in cambio di contratti di lising poco remunerativi a breve termine. Un emendamento alla finanziaria, che consentiva la permuta di aree demaniali e delle sedi di vecchie carceri situati nei centri storici urbani, molto appetiti dagli speculatori del cemento, in cambio di nuove carceri da costruire nelle periferie, è stato fortunatamente bocciato. La richiesta del capo del Dap ha un precedente pericoloso, estremamente evocativo delle mire speculative che si nascondono dietro il piano carceri. Si tratta dei poteri speciali attribuiti nel maggio del 1977 al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
    Con un decreto interministeriale ripetutamente prorogato, il responsabile dei nuclei speciali antiterrorismo venne nominato Comandante dell’ufficio di coordinamento per la sicurezza esterna degli stabilimenti penitenziari. A Dalla Chiesa fu affidato il compito di individuare i penitenziari destinati alla creazione di un nuovo circuito di massima sicurezza: le famose “carceri speciali”. In soli due giorni, con l’ausilio anche di elicotteri bimotore, vennero trasferiti sulle isole e da un capo all’altro del Paese circa 600 detenuti. Ma i poteri eccezionali conferiti al generale non si limitavano solo a questo. Dalla Chiesa aveva assunto anche competenze di intelligence che gli consentivano di entrare senza problemi all’interno degli istituti ed esercitare un forte potere gerarchico sui direttori. Nell’ambito di questi poteri d’eccezione, il Parlamento approvò, sempre nel dicembre del 1977, una legge recante «disposizioni relative a procedure eccezionali per lavori urgenti ed indifferibili negli istituti penitenziari».
    Si tratta del precedente legislativo a cui si ispirano le pretese dell’attuale capo del Dap. Questa legge attribuiva al ministero della Giustizia ampi poteri discrezionali in materia di lavori pubblici e di appalti per la realizzazione di interventi che andavano ben oltre l’ordinaria manutenzione. Da quella operazione prese origine uno dei più importanti episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato. Scandalo scoperto nel febbraio 1988 e che travolse un ministro, il socialdemocratico Nicolazzi. La chiamata nominativa delle imprese di costruzione e l’opacizzazione dei protocolli, oltre all’avvio di un vasto programma di nuova edilizia penitenziaria basato su impressionanti colate di calcestruzzo e ferro in poco tempo divenute fatiscenti, diede origine allo scandalo delle carceri d’oro. Ogni “posto detenuto” venne a costare circa 250 milioni di lire, il prezzo di un appartamento in una grande città dell’epoca. Come allora, la banda del calcestruzzo, sponsor di questo governo, sarà il vero fruitore del piano carceri. Cemento e castigo

    Pedagogia carceraria…

    1 gennaio 2010 1 commento

    Sarà colpa della maternità, ma certe cose che sarebbero sfuggite al mio sguardo, ora ci si impigliano.
    Ecco come ci abituano a questo bel mondo, ecco come ci chiedono di far le madri.

    Da un sito per neo-aspiranti-future mamme ecco una bel consiglio su come educare e far giocare i nostri figli,
    per garantirci un futuro di silenzio, controllo, coercizione,  gestione dei corpi e delle persone:
    Una volta si chiamavano box oppure recinti, ma se volessimo usare una parola più forte ma assai efficace diremmo che sono piccole prigioni. In inglese, tuttavia, suona meno crudo: jail, così le chiamano su Amazon, dove sono veri e propri bestseller. A differenza del box sono più spaziosi, si possono spostare facilmente in qualunque parte della casa e anche in giardino e possono ospitare più bambini insieme, anche quando sono un po’ troppo cresciuti per stare dentro un classico box. Nonostante all’apparenza siano piuttosto brutti, specialmente per l’idea di reclusione che portano con sé, risultano molto comodi per tenere sotto controllo i bambini quando si è all’aperto o per evitare che gattonino qua e là per casa rischiando di farsi male mentre noi siamo impegnate a cucinare o riordinare o lavorare al pc. I bambini mantengono, comunque, una certa libertà d’azione perché lo spazio è abbastanza esteso. Quello in foto si può acquistare online a circa 60 dollari, è smontabile e richiudibile per non occupare spazio inutile quando non si usa e si può rimontare modificando spazi e forma secondo quanti bambini dovrà ospitare. Vi convince?

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