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Venezuela: italiane tra le sbarre. Un reportage
da Terrelibere, un reportage sul carcere femminile dal sudamerica …
Venezuela dietro le sbarre. La testimonianza delle detenute italiane |
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Le detenute italiane nell`Inof (Istituto Nacional de Orientacion Femenina) di Los Teques raccontano la loro esperienza: le minacce, le armi bianche, la droga. “Per star tranquille basta rimanere lontane dalle malandras”, le detenute più pericolose. La vita in carcere: una lotta per non soccombere.
LOS TEQUES – “Si dorme sempre con un occhio chiuso e un occhio aperto. Il rischio è permanente`. La vita in carcere è una lotta per non soccombere. Così racconta Enza, detenuta per tre anni nel centro femminile Inof a Los Teques e oggi in libertà condizionale. “Nel bagno ci sono i serpenti – dice la donna di Napoli e con due figli che l`aspettano in Italia -. Non c`è il water né il lavandino. Non c`è luce elettrica`. Da un anno è fuori. Quando è uscita ha lavorato come segretaria a Caracas, poi ha affittato i telefonini per la strada e oggi dà una mano nel mercato di Los Teques, cittadina limitrofa alla capitale. “Le condizioni della struttura dove dormono le detenute in libertà condizionale – che hanno l`obbligo di tornare in carcere ogni sera – sono pessime`. Arrestata all`aeroporto di Caracas, fra lei e il suo compagno trasportavano 28 kg di cocaina. Lui l`aveva invitata a farsi una vacanza in Venezuela, poi le aveva proposto di tornare in Italia con una valigia ‘molto preziosa`. ‘Carne fresca`: così chiamano le nuove arrivate in carcere. “Quando sono entrata non parlavo spagnolo ed era molto difficile difendersi. Ricevevo minacce tutti i giorni da parte delle detenute ‘malandras`, a volte anche con dei coltelli. La direttrice del carcere non ha potere. La prova è per esempio che, delle 47 donne in libertà vigilata, solo sette tornano la sera all`Inof`. E` più duro per le straniere. Non hanno la loro famiglia, un aiuto esterno, una casa quando escono dal carcere. Piccola contraddizione: devono trovare un lavoro per accedere al beneficio della libertà condizionale ma gli viene sotratto il documento d`identità. Il Consolato fortunatamente fornisce un appoggio. A dicembre c`è stato un tumulto all`interno dell`Inof. “E` stato fatto per appoggiare la ribellione in atto in un altro carcere maschile. Se non ti alzavi dal letto per scioperare le cape malandras ti obbligavano`. Così Digna ricorda i momenti difficili dell`ammutinamento durato tre giorni nel dicembre 2009 in cui è dovuta intervenire la polizia per ristabilire l`ordine. “Dopo il tumulto, sono state mandate via le persone pericolose – spiega, Digna, italo-dominicana, con la prudenza di chi ha già capito come funzionano le cose -. Adesso c`è meno rischio di essere accoltellate o derubate`. Sposata con un italiano e con due figli in Italia, era venuta in Venezuela per sottoporsi a un intervento estetico. Arrestata all`aeroporto a La Guaira con 300 gr di cocaina sei mesi fa, oggi lavora nel piccolo negozio di alimentari all`interno dell`Inof. Le grida delle detenute durante il tumulto erano state chiare. Avevano denunciato le gravi carenze nel servizio di trasporto dal carcere al tribunale. “La giustizia è lenta – afferma Liliana, italo-venezuelana, arrestata sei mesi fa per truffa -, inoltre se non andiamo al tribunale per mancanza dell`autobus, si crea un nuovo ritardo nel processo penale`. Liliana, 39 anni, ispettrice del rischio della protezione civile, è stata arrestata perché riscuoteva 400 Bs F (circa 75 €) in cambio dell`erogazione del beneficio della ‘Ley de politica habitacional`. Nella truffa era implicato un commissario della polizia che è scomparso. Come spesso succede sono arrestati i pesci piccoli, ma mancano all`appello in carcere i pesci grossi. Alle detenute dell`Inof vengono serviti tre pasti, ma oltre a quelli devono comprare tutto: dall`acqua, alle medicine, alla carta e ai prodotti per l`igiene. I prezzi inoltre sono più alti che fuori: una banana costa un euro quando in un supermercato costa 50 centesimi. “Questo è un carcere di lusso rispetto a quello degli uomini – racconta Daniela arrestata tre anni fa sempre all`aeroporto dopo aver passato la valigia contenente 1,5 Kg di cocaina sotto i raggi x -. Qui c`è l`asilo per i bambini figli di detenute nati in carcere, la scuola, i corsi di artigianato e di musica. Ma, come tutti sanno, non manca la droga: cocaina, crack e marijuana. E non mancano neanche le armi bianche: coltelli e lamette`. Nella disperazione della cella e nel cammino difficile che comincia all`uscita dal carcere, senza un lavoro, senza un documento, con il marchio dell`antecedente penale, in un paese in cui la droga ha costi bassissimi e quindi il rischio di ricadervi è alto, le detenute hanno l`appoggio di Renata Mascitti, la vice-console onoraria di Los Teques. “Meno male che lei c`è sempre` dicono. Le iniziative: bambole e pantofole
“Hanno svolto tre lavori manuali nell`ultimo anno – così racconta Mascitti della sua iniziativa -. Ho comprato i materiali e le detenute hanno fatto con le loro mani delle bambole di plastica, dei portasciugamani e delle pantafole in stile natalizio. Sono riuscite a venderle e con i ricavi hanno comprato i nuovi materiali`. Non sarà il lavoro a dare dignità alle donne? Alle detenute dà l`incentivo per poter costruire una vita diversa all`uscita dalla cella. L`ammutinamento nel penitenziario dell`Inof
Il secondo giorno di ribellione, le recluse avevano minacciato di morte Gonzalez, avevano il controllo della struttura, avevano bruciato dei materassi e avevano chiesto l`accesso nell`Inof dei media affinché riportassero le presunte irregolarità che denunciavano. Cinque detenute avevano cercato di scappare dall`ingresso principale del carcere e molte altre erano in possesso di oggetti taglienti. Il terzo giorno, le forze dell`ordine erano entrate nel carcere e avevano lanciato delle bombe lacrimogene attraverso le finestre. Il saldo dell`ammutinamento: molteplici donne si erano tagliate le vene e venti erano rimaste ferite. Non solo Venezuela: l`incubo delle carceri messicaneCITTÀ DEL MESSICO – Al termine di una vacanza nel febbraio 2007, il giovane Simone Renda – oltre a subire il furto di contanti, carte di credito, documenti ed altri effetti personali – fu arbitrariamente arrestato. E, nonostante il parere di un medico (che prescrisse l`immediato ricovero in ospedale, a causa di precarissime condizioni di salute), fu dimenticato in cella d`isolamento, senza acqua, né cibo. Come se non bastasse, sia il certificato di morte del Messico, che l`autopsia eseguita a Lecce, evidenziarono segni di percosse (una ferita in fronte e lividi sulle braccia). Né la famiglia, né il Consolato, furono tempestivamente avvisati dell`abusiva detenzione. Non gli venne messo a disposizione né un interprete, né un legale. Insomma, fu trattato alla stregua di un oggetto. L`anno scorso la svolta: gli inquirenti hanno emesso un mandato di cattura per sei funzionari delle forze dell`ordine messicane. L`Interpol condurrà in Italia i poliziotti indagati per rispondere all`accusa di omicidio volontario commesso con l`aggravante della crudeltà. È la prima volta che si applica in Italia la Convenzione contro la tortura a degli stranieri che hanno commesso il delitto contro un connazionale all`estero. Speriamo che in caso di condanna, facendo giurisprudenza, la sentenza funzioni come una tutela per gli italiani detenuti all`estero. |
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