Ferragosto tra le sbarre…
ALMENO QUEST’ANNO NON FA IL SOLITO CALDO, E PER VOI E’ SICURAMENTE UN SOLLIEVO.
MA E’ UN PO’ STUPIDO PARLARE DI SOLLIEVO, ME SA.
UN PENSIERO A CHI E’ RECLUSO, UN PENSIERO A CHI HA DAVANTI UN FUTURO DI RECLUSIONE,
UN PENSIERO A CHI E’ PRIVATO DELLA PROPRIA LIBERTA’ PERCHE’ HA SFIDATO IL MEDITERRANEO E QUESTA E’ LA SUA SOLA COLPA.
UN PENSIERO A CORPI RECLUSI, AI CINQUE SENSI CHE SCOPPIANO, CHE SI ALIENANO, CHE SI LACERANO…
le parole che seguiranno sono tutte tratte da “Il Bosco di Bistorco” , un libro che vi consiglio di leggere per capire cos’è la reclusione…
Quell’impossibilità di rispondere alla domanda: quando si spalancherà il Grande Cancello?
Quell’impossibilità di credere che resterà chiuso per sempre.
Impossibilità per chiunque – non solo per chi è schiacciato dalla parola MAI vergata da un burocrate anonimo sulla sua cartella.
Ed allora, giorno dopo giorno, nel corpo torchiato da queste ed altre impossibilità, scorre il film della vita passata.
Proprio come, fotogramma dopo fotogramma, negli stati di morte imminente, in un attimo denso di tempo, il vissuto ricapitola tutta la sua trama.
Quella necessità di crearsi forti attese per ristrutturare l’impossibile.
Quell’angoscia di restar reclusi tra le sbarre del loro mancato inveramento.
L’ETERNITA’ PROBABILMENTE NON NACQUE COME CONCETTO,
MA COME PAROLA CHE DESCRIVEVA UN’ESPERIENZA DI ASSENZA DI TEMPO.
UNA REALTA’ ESPERIENZALE IMMEDIATA PIUTTOSTO CHE UN CONCETTO
DI DURATA TEMPORALE INFINITA
_CHARLES TART: Stati di coscienza, Roma 1977_
Il suo “fine pena” era: MAI.
Le parole di un compagno uscito dopo vent’anni riaffiorarono, senza che sapesse perché, tra i suoi pensieri: “Lasci la libertà che è giovane e la ritrovi come una vecchia signora”.
Pensò: “Quindi anche la libertà muore!”
Ci fu subito un’ondeggiamento inatteso: il gruppo barcollò.
Poi, dopo il primo stupore, ognuno cercò l’altro e, tutti insieme, si rannicchiarono in un angolo del campo.
Rimasero vicini, fianco a fianco. Quasi a volersi vicendevolmente proteggere dall’aggressione di quel grande spazio.
Da anni i loro piedi misuravano soltanto i quattro passi e dietro front delle celle o i nove passi e dietrofront dei passeggi.
Ora, il primo muro era a sessanta metri. Ses-san-ta-me-tri!
Ripresero un po’ di fiato, con l’ardore di tanti ragazzini si cercarono in una partita di pallone. Ma fu un’ecatombe.
Cadute rovinose, strappi muscolari, stiramenti, slogature: come in una danza folle ogni gesto mancava il suo scopo e si perdeva fuori luogo e fuori tempo.
Divenne presto chiaro: la programmazione psicomotoria di ogni giocatore restituiva le misure dello spazio interiorizzato negli anni di restrizione precedente. E nelle dismisure del nuovo spazio carcerario il corpo annaspava spaesato.
Per resistere alla reclusione si era appassionato alla cultura indiana e alla meditazione orientale.
Nel concentrarsi, però, incontrava ogni volta una difficoltà: la puzza di galera. Sì, quell’odore insopportabile gli impediva la meditazione.
“Non è un caso -disse- che tutti in carcere usino fiumi di profumo, guardie e detenuti.
E lavino per terra e disinfettino i muri: ma non c’è niente da fare. Hai presente l’odore delle bestie in gabbia?
Al mattino presto, al momento della conta, quando si aprono i blindati, ti arriva in faccia quel fetore di chiuso, di sofferenza notturna.
Ti colpisce come uno schiaffo.
[Aprì la busta e una soave fragranza lo rapì. Rapì il suo cuore. Sui fogli della lettera, come sempre, lei aveva lasciato cadere lacrime discrete di profumo]
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