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Carlo Picchiura, un altro ricordo (e info sui funerali)
I funerali di Picchio saranno oggi, mercoledì 28 agosto, presso la camera ardente dell’ospedale Bellaria di Bologna dalle 12.30 e non oltre le 15.
Pubblico un ricordo di Picchio, dopo il post scritto da Davide Steccanella che ricostruiva un po’ il suo percorso.
Queste righe invece tremano di un altro tipo di tensione, son righe tra fratelli e compagni di lotta e carcere,
son righe struggenti che non riesco a non leggere senza sentirle dentro,
come ci fossi stata anche io in quelle celle, a rosicchiare la libertà con le parole e gli occhi.
Scritte da Salvatore Ricciardi, che da poco ha finito di scontare i suoi ergastoli e si è potuto riappropriare totalmente della sua vita, vi consiglio di leggerle… e se non l’avete fatto andate in libreria a prendere Maelstrom,
il suo libro, che racconta lotta e galera, come pochi altri libri hanno saputo fare.
Ciao Picchio,
la terra per te sarà lieve e fresca, come brezza di mare.
Al compagno, all’amico al fratello Carlo Picchiura che ci ha lasciato in questi ultimi giorni di agosto.
Ciao Carlo, aspettiamo un po’; aspettiamo che il chiacchiericcio si plachi, che la cronaca vada oltre, per rivivere con te alcuni momenti dei tanti –non-liberi- passati insieme nelle carceri speciali. Che non succeda, come nel ricordare Prospero quando anche lui ci ha lasciati, che si innalzi uno schiamazzo malsano. Lor signori “democratici” ritengono disdicevole che noi, i sovversivi, i terroristi, i rivoluzionari, si ricordi con amore chi ci ha accompagnato in questa tratto di strada sconnesso e accidentato. Non sopportano che tra noi, “i cattivi” ci si possa scambiare ricordi affettuosi!
A te “Picchio” le cronache ti hanno ignorato. Non ti ritenevano un “capo”, un “comandante”, hanno deciso così. D’altronde eri proprio tu a ricordarmi di non rincorrere gli schiamazzi; eri tu quello che nella stessa cella, a Trani e poi –trasferimento punitivo- a Badu’ ‘e Carros, nel momento di massima durezza, o ancora nel super-carcere di Novara, mi dicevi di aspettare che i rumori di fondo si placassero e, con calma, pensare a cosa fare. Questo mi hai insegnato Carlo, ad essere paziente, anche quando tutto intorno c’era agitazione, nervosismo iperattivo, perché – si diceva- se non si interviene subito con una posizione politica chissà cosa penseranno questi o quelli! E tu dicevi, lascia che pensino quello che vogliono, tanto poi la realtà si muove per suoi tragitti, non da retta alle chiacchiere. Eccoci qui ancora a discutere: in questo io ti criticavo di essere un po’ troppo “determinista”. Ma tu la finivi lì la polemica e mi portavi alla finestra dove tra le sbarre si intravvedevano rettangoli di cielo azzurro attraversati dal saettare del volo degli uccelli, sempre tanti a Nuoro. Erano in prevalenza Falconiformi che i sardi chiamavano “poiane”, ma tu mi facevi notare le differenze tra l’uno e l’altro, l’astore, il gheppio, il falco pecchiaiolo, il capovaccaio spiegandomi che per riconoscerli bisognava osservare attentamente le “remiganti”, quelle penne al termine delle ali che ne sono il settore portante. Forse non sono esatto, faccio degli errori nei nomi e nella descrizione del volo dei rapaci, ma, caro “Picchio”, le abbiamo interrotte le lezioni, non le abbiamo potute continuare da quando ci siamo lasciati alle spalle quei luridi tuguri chiamati carceri. Tu sei tornato nel tuo Veneto per poi portarti a Bologna per lavoro, io sono tornato a Roma e le regole impedivano a ciascuno di lasciare il “comune di residenza”. Poi, improvvisa e inaspettata, la malattia. Tu!, tu che eri ritenuto una “roccia”, mai un raffreddore, un’influenza, mai un acciacco, in quei posti luridi. Io, al contrario, col mal di gola frequente e un freddo, il maledetto freddo che non riuscivo a togliermi di dosso. E te ne sei andato, così! E che cazzo!!!
Chi era Carlo? Voi non lo sapete! Non lo sapete perché non sapete nulla di noi. Per voi travet dell’ordine esistente non era un “ideologo” e non gli avete dedicato nemmeno una riga in cronaca. Bravi! Ma voi che ne sapete di noi? Voi uomini e donne accondiscendenti ad ogni desiderio del potere e dei grandi media non lo potete sapere perché non avete voluto sapere nulla, di chi vi ha messo in discussione e, forse, vi ha messo anche una grande paura. Non lo sapete perché non avete voluto conoscere la nostra storia né i nostri percorsi politici e umani. Men che meno avete voluto conoscere i motivi del perché parti grandi o piccole di quelle generazioni vi si sono rivoltate contro per spazzare via il vostro sistema di sfruttamento e anche la vostra boria e le vostre malversazioni. Vi siete inventati schemi organizzativi, cattivi maestri, ideologie, leader e “comandanti”. Vi siete inventati tutto perché avevate e avete paura di guardarci da vicino, di guardarci negli occhi.
Ci avete giudicato secondo il codice penale per seppellirci sotto secoli, millenni di galera sperando che di noi non restasse nemmeno il ricordo. Noi, quelle donne e quegli uomini che avevano urlato che bisognava cambiare tutto e avevano cominciato a farlo! Poi, anche se abbiamo sbagliato molto o poco, il grido si è dimostrato puntuale e la realtà di oggi e di domani lo sbatte in faccia a tutti. Ora che i potenti hanno di nuovo acceso i motori dei loro strumenti di morte. Come dicevi tu Carlo, tanto la realtà non dà mica retta a giudici e imbrattacarte!
Ciao “Picchio” lo so, lo sappiamo tutti e due che non c’è un posto né un tempo dove rincontrarci. Dove riprendere le nostre discussioni accese sullo Sceptulin (io continuo a non essere d’accordo, lo sai! eheh”); dove ripercorrere le ore convulse della rivolta nel carcere speciale di Trani e i momenti del massacro; dove ricordare quando nel super-carcere di Novara, con mezzi di fortuna e in barba alle guardie, siamo riusciti a distillare quello schifo di vino che ci facevano comprare alla “spesa” per tirarne fuori una grappa, certamente tossica, ma che godemmo prendendo una sbronza clamorosa; dove prenderti in giro per la tua voglia di correre anche nel più angusto”passeggio” del carcere speciale, quei vasconi di cemento di pochi metri quadrati. Non volevi accettare che lo stato un giorno
ti avesse legato i piedi che amavano correre sulle colline e sulle montagne venete, e tu continuavi caparbiamente ad andar su e giù su quel cemento guardando in alto gli uccelli volare. Se fossi un indiano-nativo americano ti immaginerei a correre a perdifiato per le “verdi praterie”, però nessuno mi vieta di immaginarti spiccare il volo e rincorrere quell’astore per sapere se quel rapace vola ancora sui cieli della Sardegna.
Ciao compagno “picchio” è stato bello conoscerti!
salvatore
A Carlo Picchiura
In queste giornate di corse e di reparti d’ospedale, non si riesce nemmeno a salutare i compagni che se ne vanno:
le notizie dal mondo arrivano sconnesse e in ritardo, e queste pagine vivono un sonno frenetico, dal quale spero di uscire al più presto.
Ringrazio quindi Davide Steccanella, autore del libro “Gli anni della lotta armata -Cronologia di una rivoluzione mancata” (Ed. Bietti, 2013) e caro amico, che ha scritto questo ricordo.
Carlo Picchiura
Era da tempo malato, di una di quelle malattie che non danno scampo, Carlo Picchiura, morto ieri, come hanno subito riferito sui vari network alcuni suoi antichi “compagni di lotta”, ricordandone, con immenso affetto, e come è giusto che sia in questi casi, le qualità umane e di amico di “Picchi”, come lo chiamavano tutti loro.
Salvatore Ricciardi, che lo conobbe solo in carcere, e del quale parla lungamente nel proprio libro Maelstrom editato nel 2009 da Deriveapprodi pur chiamandolo sempre C., ricorda “i tanti anni condividendo la stessa cella e la sua passione per la montagna, gli uccelli e per la natura tutta” e Barbara Balzerani ha riferito su FB di una recente e bella giornata trascorsa insieme a sorseggiare quel vino che amava e collezionava, altri hanno scritto “per noi Picchi era come Prospero (riferendosi alla morte avvenuta nel gennaio di quest’anno di Gallinari)”, Mariella Altomare, sempre su Fb, oggi scrive “Conserverò sempre il ricordo della sua intelligenza illuminante e mai esibita. Ciao Carlo Picchiura rivoluzionario (Gigi)”, e così via…
Ma Carlo Picchiura, nato a Brescia, è stato per la storia di quegli anni, i “suoi” anni, un combattente comunista tra i più tosti, anche se la narrativa di maniera, che da sempre si ferma ai soliti noti, ben poco di lui ci ha tramandato.
Già nei primi anni settanta è tra i principali militanti della “sezione” veneta di Potere Operaio dalle cui ceneri, come noto, nasceranno, dopo lo scioglimento del 1973, molti dei più significativi movimenti autonomi di una delle regioni più attive in quella successiva e generale insurrezione che avrebbe attraversato l’Italia nel finale del secolo scorso, ma lui decide, a differenza di altri, di entrare quasi subito nella più importante organizzazione armata, che aveva già posto in essere alcune eclatanti azioni di guerriglia urbana.
Alessandro Naccarato, deputato PD ed autore del libro “Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a padova” (ed. il Mulino, 2008), nel corso di una intervista rilasciata al Mattino di Padova del 30 novembre 2008 afferma che “Il primo v di qualità nella strategia eversiva è il patto tra i Gap di Feltrinelli, le Br e Pot Op, con la nascita del Gruppo Ferretto a Mestre. Là, secondo la testimonianza di un dirigente della colonna veneta delle Br, Michele Galati, militarono Carlo Picchiura, Susanna Ronconi, Pietro Despali, Ivo De Rossi, Giuseppe Zambon, Massimo Pavan, Roberto Ferrari e un tale di Verona soprannominato Sherif, poi identificato per Martino Serafini. Esaurita la prima fase, il gruppo entra nelle Br e rafforza la colonna veneta costituita nel 1974, la cui direzione comprendeva Giorgio Semeria, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli. Il Gruppo Ferretto fu quindi la prima esperienza di cooperazione tra militanti di Pot Op e militanti Br sul terreno della lotta armata”.
Secondo il pentito Fioroni invece avrebbe anche fatto parte del commando di brigatisti che il 17 giugno 1974 uccise i missini Mazzola e Giralucci nella sede padovana di Via Zabarella, ma sarà una delle tante “inesattezze” del “professorino”, giacchè in sede giudiziaria verrà appurato che il padovano presente (oltre a Ognibene, Pelli, Ronconi e Semeria) era Martino Serafini, e non lui.
Arrestato a Ponte di Brenta (insieme allo studente Pietro Despali) il 4 settembre del 1975, nel corso di un conflitto a fuoco seguito ad un posto di blocco, dove muore l’agente Antonio Niedda, in tasca gli vengono trovate due banconote relative ad una precedente rapina commessa alla banca di Lonigo insieme ad uno dei principali dirigenti delle BR Rocco Micaletto, ai tempi già ricercato e latitante. Condannato a 26 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Padova il 1 giugno 1977, affronta quella lunghissima trafila degli speciali di quegli anni, da dove tuttavia continua imperterrito, unitamente ai detenuti del nucleo storico delle BR, la sua battaglia rivoluzionaria, che in quegli anni, come noto, si faceva anche dentro le carceri e non solo fuori.
Nel dicembre del 1980 infatti è tra i principali organizzatori della celebre rivolta di Trani scaturita dal sequestro D’Urso, che fu l’ultimo episodio significativo delle Brigate Rosse ancora unite prima delle definitive spaccature interne degli anni successivi, ma ancora nel 1985, e quindi dopo oltre 10 anni di dura prigionia, è tra i più convinti sostenitori della perdurante necessità della lotta armata contro lo Stato, rivendicando, dalle gabbie del processo alla colonna veneta arrestata parecchi anni dopo di lui, l’omicidio Tarantelli.
Su un sito dedicato ai “caduti della Polizia di Stato” viene definito da Gianmarco Calore “una gran brutta bestia, uno che fin dagli esordi ha aderito all’ala “dura” delle brigate rosse mettendosi in evidenza per la sua violenza e per la sua spietatezza.” ma oggi, sul sito Contropiano, si legge che: “Una malattia cattiva, la sla, se l’è portato via in pochi mesi. Schivo, quasi timido nei modi, tanto che non sembra possibile trovare una sua foto in Rete, ma dotato di grande determinazione, appassionato naturalista ed etologo, aveva dato un grande contributo al libro Politica e rivoluzione, uscito nel 1983 dal processo di Torino, firmato – come si usava allora – dai militanti presenti nel processo (Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Andrea Coi), ma opera collettiva con cui le Br prendevano le distanze teoriche dalle teorie del “Partito Guerriglia”.
Una vita in carcere, anche per lui, che lo aveva visto tornare in libertà solo negli anni ’90, quando una classe politica incapace di chiudere quella stagione con l’unico strumento giuridico all’altezza dello scontro – l’amnistia – scelse di aprire le porte ai prigionieri politici con la “legge Gozzini”; ovvero uno alla volta, in tempi quasi individualizzati, senza alcuna riflessione pubblica
Ciao Carlo, che la terra ti sia lieve.”
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