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Gli stati modificati della/nella reclusione: l’impatto con la detenzione

4 marzo 2013 13 commenti

“La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio. Chi l’attraversa non può evitare uno sfregio la cui rimarginazione non è affatto scontata.
La prima rasoiata isola il neo-recluso dai suoi mondi consueti, lo decontestualizza totalmente e in un lampo lo getta in uno stato di spaesamento radicale. Il noto, il familiare, l’abituale, scompaiono dal suo orizzonte sensoriale ed egli brancola, smarrito, nel vortice d’un risucchio che lo aspira entro un orrido di cui non percepisce altro che i pericoli.

Lo stato di spaesamento trova nella vertigine la sua forma più consueta.
Secondo Daniel Gonin, medico penitenziario e coordinatore di una ricerca condotta nelle carceri francesi per conto del Consiglio di Ricerca del Ministero della Giustizia, almeno “un quarto degli entranti in prigione soffre di vertigini (…). Quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equlibrio è piu’ precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso” [1].
La seconda rasoiata investe il flusso polimorfo degli stimoli ambientali che, improvvisamente, viene disseccato. La riduzione drastica degli stimoli ambientali riduce, in chi la subisce, un grappolo di fenomenologie riconducibili alle transe di ipostimolazione.
Arnold Ludwig nella sua celebre catalogazione degli stati di coscienza osserva che la riduzione delle stimolazioni esterne può essere considerata il dispositivo induttore portante degli stati conseguente alla reclusione [2].
Le persone soggette alla Riduzione degli Stimoli Ambientali accusano, secondo le ricerche, disfunzioni sensoriali, motorie, percettive, cognitive ed emozionali. Ed inoltre, in un estremo tentativo di difesa, esse recuperano memorie cruciali sepolte, che possono favorire un processo di adattamento come pure suscitare ansie aggiuntive le cui radici restano sfuggenti [3].
Stati di allucinazione visiva, auditiva, tattile; del gusto e dell’olfatto; difficolta’ a camminare, scrivere, leggere; distorsioni della percezione del tempo e dello spazio; sconvolgimenti dell’alimentazione, del sonno,della sessualita’ accompagnano chi vive quest’esperienza spesso anche per lunghi periodi dopo la sua fine.
Queste prime manipolazioni collocano a tutti gli effetti le torsioni relazionali esercitate dall’istituzione nell’ordine della tortura;
traducono le pene reclusive inflitte dai giudici in manipolazioni dei sensi e della coscienza le cui implicazioni sono del tutto trascurate da chi le innesca. Come pure trascurate sono pure le reazioni. Prima fra tutte, la morte [4]. Che e’ l’esito, talvolta immediato, di una dissociazione fallita; dell’incapacita’ o del rifiuto di elaborare, nel vortice della vertigine, un Senso qualsivoglia per la propria esistenza nella nuova condizione. D’altra parte, l’elaborazione, sia pur embrionale, di un Senso, se per un verso mette al riparo dalla morte, per un altro spinge una parte di se’ a vestire la divisa del carceriere e con cio’ ad avviare una dinamica penosissima di dissociazione.”

1. D.Gonin, Il corpo incarcerato, Torino 1994, Edizioni Gruppo Abele.
2. A. Ludwig “Alerated states of conscousness”, in Archives of General psychiatry, 26, 1968.
3. Anthony Suraci, Environmental Stmolus Reduction, Rew. Ment. Dis. 138, 1964, 172-180.
4. R.Curcio, S.Petrelli, N.Valentino “Nel bosco di Bistorco”, Roma, 1997, Sensibili alle foglie.

Questo uno stralcio di un testo di Renato Curcio,
per ora come assaggio del materiale che ho voglia di mettere,
perché per smontare il carcere abbiamo bisogno di iniziare a minare quello, anzi quelli, che abbiamo dentro di noi.
Quello che costruiamo, non sempre inconsapevolmente, all’interno dei rapporti nei contesti gruppali,
così come in relazione con le istituzioni che volenti o nolenti siamo costretti ad affrontare nella vita.
Perché per liberarsi dal carcere, dal fine pena mai, e da ogni dispositivo di obbedienza,
eeeeeeeh, c’è da faticà.

Adottate il logo contro l’ergastolo, è un modo per sancire che nei vostri luoghi, fisici o virtuali, non esiste l’aberrazione della reclusione perpetua.

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Polsi e caviglie di Francesco Mastrogiovanni

14 dicembre 2009 4 commenti

Prendo quest’articolo da “Il Mattino” di oggi.
La verità sulla morte di Francesco Mastrogiovanni, maestro di una scuola di un comune del cilento, morto dopo un TSO e quasi 4 giorni di agonia su un letto di contenzione, sembra venire fuori. I segni sul suo corpo sono chiari.

Polsi e caviglie sfregiati. Segni di ferite profonde anche quattro centimetri. La testimonianza di un calvario. Lo strazio prima della fine. È quel che resta di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di Castelnuovo Cilento, 58 anni, morto il 4 agosto all’ospedale San Luca di Vallo della Lucania.
Dopo tre giorni e mezzo di ricovero. In trattamento sanitario obbligatorio. Ottanta ore legato mani e piedi ad un letto di contenzione. Senza cibo: lo alimentavano con soluzioni fisiologiche. Senza nessuno che raccogliesse la sua disperata voglia di libertà. Lui ha tentato di strapparsi quelle funi che lo inchiodavano al letto della follia. Così si è procurato le lesioni. Prima di morire per un edema polmonare acuto. Le immagini del corpo segnato del ”maestro più alto del mondo” – così lo chiamavano gli alunni cilentani in omaggio al suo metro e novanta di statura – sono le foto scattate al momento dell’autopsia. Un album dell’orrore a corredo della consulenza medico-legale chiesta dalla Procura di Vallo. Che indaga sulla fine di Mastrogiovanni. Omicidio colposo, l’ipotesi di reato. Diciannove persone, sette medici e dodici infermieri, i destinatari dell’avviso di conclusione indagini firmato dal pm Francesco Rotondo. Sotto inchiesta l’intero reparto di psichiatria del San Luca, guidato da Michele Di Genio, sospeso a ottobre dall’incarico per volere del commissario dell’ex Asl Salerno 3. Il dubbio dei magistrati è se Mastrogiovanni sia stato trattato in ospedale come medicina – oltre che pietà – impone. «Il trattamento di contenzione è stato rispettoso dei protocolli», dicono i sanitari interrogati in settimana in Procura. «I segni marcati rinvenuti sul corpo non si spiegano con una logica medico-curativa», ribatte la famiglia attraverso i suoi legali. Per ora ci sono le foto dello scempio. Testimoni di una morte dolente. Dopo una vita tribolata. Border line. Segnata dall’accusa di un delitto politico. Negli anni settanta Francesco Mastrogiovanni, l’anarchico, fu processato per l’omicidio di Carlo Falvella, il giovane fascista ucciso a Salerno nel ’72. Venne assolto. Poi, nel ’99, un nuovo processo per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Condannato a tre anni, poi assolto in appello e pure risarcito per ingiusta detenzione. Storie che restano impresse nell’animo e nel carattere di Mastrogiovanni. Un carattere difficile. Irregolare. Eccentrico. Ma «gentile, premuroso soprattutto verso i bambini», come raccontano gli amici della sua nuova vita, quella da maestro in un borgo cilentano. Amici impegnati, oggi, a chiedere «verità per Francesco», come urlano i tatsebao issati dinanzi al Tribunale di Vallo nel giorno dei primi interrogatori dei medici indagati. Gli amici vogliono verità sul tunnel in cui Mastrogiovanni è finito. I giorni del ricovero. E prima, il trattamento sanitario obbligatorio disposto dal comune di Pollica perchè il maestro avrebbe «dato in escandescenze» 

di Carla Errico Salerno

Su Francesco Mastrogiovanni

22 agosto 2009 6 commenti

dal sito Filiarmonici: INTOLLERANTE AI CARABINIERI

Abbiamo deciso di occuparci di questa storia.

Non é una scelta corrente per Filiarmonici, che non usa pubblicare testi propri e tanto meno condurre inchieste. Non l’ha mai fatto e, allo stato, non é prevedibile che lo faccia in futuro. Precisiamo questo per non doverci ritrovare domani, tirati per la giacchetta per non aver seguito questa o quell’altra delle mille ingiustizie che l’Italia (e perché solo l’Italia poi?) sforna con prevedibile regolarità. Questa nostra é un’eccezione, e probabilmente tale rimarrà.
Perché, dunque, ci siamo orientati a tralignare da una condotta consolidata in parecchi anni? Non perché le vittima fosse un anarchico: semmai coltiviamo la speranza che questo elemento ci consenta di arrivare con minori difficoltà a scoprire quanto ci preme. Ma perché ci sono almeno due aspetti che questa vicenda può portare all’attenzione di molti, di quei molti che intuiscono che degli strumenti di controllo dei comportamenti é il caso di diffidare, ma che non hanno mai avuto il tempo e l’occasione per indagarne un po’ più a fondo i processi, le finalità, gli strumenti.

Foto di Valentina Perniciaro _le testuggini di Genova 2001_

Foto di Valentina Perniciaro _le testuggini di Genova 2001_

Il primo é il TSO, il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Come tutto ciò che deriva da un obbligo, é immediato comprendere che si tratta di uno strumento esposto per natura agli abusi. Alcuni tra noi pensano addirittura che un obbligo socialmente imposto sia di per sé un abuso. Tuttavia, un po’ tutti, specie i moltissimi che non hanno esperienza personale e diretta di casi simili, sono portati a ritenere che, in fin dei conti, il TSO colpisca ossessi e furiosi, temporaneamente o stabilmente pericolosi. Che si tratti di una violenza, magari eccessivamente brutale, ma in qualche modo non del tutto evitabile.
Poiché noi (anche perché alcuni di noi operano in maniera approfondita per denunciare questo strumento) sappiamo che non é così, ecco una buona occasione per mettere in evidenza la realtà. Il TSO è un abuso in sé, non é uno strumento medico, ma di controllo e repressione sociale, che mira alla psichiatrizzazione totalitaria dei comportamenti. E che, in quanto tale, si presta poi ad ulteriori abusi, facendo rientare nella propria casistica anche molti che, in base ai protocolli, oggi come oggi non vi rientrerebbero. La nostra ipotesi é che la vicenda di cui ci occupiamo sia di questo tipo. Ma, in ogni caso, l’esito tragico ci dimostra quanto il TSO, lungi dal difendere da una pericolosità ipotetica e tutta da dimostrare, costituisca un pericolo, frequentemente un pericolo mortale. Di TSO si muore abbastanza spesso, e si ha la vita rovinata il più delle volte. Questo, se il TSO è stato deciso secondo tutti i crismi della legge. Ma, e qui veniamo alla seconda questione, noi dalle cronache abbiamo tratto l’impressione che forse, o magari probabilmente, questo particolare TSO abbia corrisposto a una volontà persecutoria specifica, ad opera di qualcuno che aveva il potere di attivare la procedura, e che covava un odio di antica data nei confronti di Francesco Mastrogiovanni. Tutti i dati confermano che lui si sentiva perseguitato e sussiste l’ipotesi che sia questo suo terrore ad avergli resa fatale la contenzione (che non fa bene a nessuno, ma che in genere non uccide in soli quattro giorni). Ora, considerando che da ragazzo era stato arrestato per essersi difeso da un’aggressione omicida, che una seconda volta era stato arrestato per aver protestato “per una multa”, può darsi che gli si fosse formata quella che le persone superficiali e i mentitori professionali chiamano “mania di persecuzione”.

Ma, e l’ultima vicenda lo conferma anche ai più scettici, lui era effettivamente perseguitato. Tanto più che le ragioni dell’ultimo TSO appaiono totalmente nebulose, e verosimilmente false. Quindi, appare ragionevole l’ipotesi che fosse in atto, forse da molto tempo, una precisa macchinazione nei suoi confronti ad opera delle autorità. I motivi esatti, i protagonisti precisi, vorremmo scoprirli e indicarli al giudizio di ciascuno. Tanto più che ci appare urgente portare alla luce un aspetto dell’Italia poco noto a chi vive nelle grandi città, all’ombra dell’anonimato che ci regalano le moltitudini: nella provincia, nei piccoli paesi, esiste sovente una sproporzione fra soggetti da controllare e controllori. Questo innesca molte volte una capillarità ossessiva dell’osservazione dello stato. In pratica un’intera stazione dei carabinieri, o un intero ufficio Digos si occupa stabilmente di un unico minimo gruppetto di tipi strani o addirittura di un unico individuo con la “fobia per i carabinieri”. Questa é una vessazione in sé, anche quando non conduce né a TSO né a procedimenti penali. Ma di solito vi conduce. Sono cose che non si sanno. O cui non si pensa. Noi vogliamo che si sappiano, e vogliamo che tutti ci riflettano e possano giudicare se si sentano sicuri grazie a ciò che si fa in nome della sicurezza. E della sicurezza di chi si stia parlando: perché Francesco Mastrogiovanni stava in vacanza e dopo quattro giorni era morto, perché le forze dell’ordine erano andate a prenderlo. Questa é l’unica cosa indiscutibile da cui partiamo. A questo fine intendiamo raccogliere, pubblicare e diffondere tutti gli elementi che emergeranno. Invitando ciascuno a ricavarne le opportune riflessioni. Già che ci siamo, ne avanziamo subito una: gli stessi carabinieri che avevano fatto il blitz contro Mastrogiovanni che passeggiava in ciabatte da mare, adesso portano avvisi di garanzia a medici e infermieri. Lo stesso stato che ha determinato il danno, ora pretende di giudicarlo e di distribuire assoluzioni e forse anche condanne. Nei riguardi tutti, salvo che di sé stesso e delle sue leggi. Ecco, nella ricerca che vorremmo avviare, lo stato non dovrà essere al di sopra delle parti, ma essere chiamato precisamente in giudizio. Già ora infatti, con i soli dati di cui disponiamo, é evidente che Mastrogiovanni é morto a causa dello stato. E che quindi, come sempre d’altro canto, non é dallo stato che possiamo attenderci verità e giustizia.

POI, DI SANDRO PADULA, pubblicato su L’Altro, questo articolo molto bello…

Giustizia: Francesco Mastrogiovanni; basta anarchici “suicidi”
di Sandro Padula, L’Altro, 18 agosto 2009

1972. Su via Velia a Salerno, in un pomeriggio di luglio, muore accoltellato il giovane militante del Msi Carlo Falvella. In carcere finisce l’anarchico Giovanni Marini e ci resta svariati anni. Qui, e lo diciamo con rispetto verso i parenti della vittima, non è importante ricostruire la dinamica del fatto. A quel tempo il clima politico era pieno di odio e bastava poco perché nascessero delle risse o delle forme di violenza sanguinaria fra giovani di opposte idee politiche.giIPOL00050820090813 Qui si vuole ricordare un’altra cosa. Da quel giorno cambia anche la vita dell’anarchico salernitano Francesco Mastrogiovanni.
Lui vive con dolore quella tragedia la cui eco, proprio come succede in ogni piccolo centro urbano nel quale tutti si conoscono, è moltiplicata all’ennesima potenza e la cui radice storica affonda nelle secolari guerre fra i poveri conosciute dal sud d’Italia. Come se non bastasse, è schedato dai carabinieri perché, proprio come Giovanni Marini, ha idee anarchiche.
1999. Francesco viene arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale. Trascorre diversi mesi in carcere. Alla fine si scopre che è innocente e riceve un risarcimento per ingiusta detenzione.
2009. Il 31 luglio Francesco viene ricoverato all’ospedale San Luca in seguito ad una crisi di nervi e conseguente certificato di trattamento sanitario obbligatorio. Muore dopo quattro giorni di degenza. L’autopsia attesta che Francesco è morto per un edema polmonare provocato da un’insufficienza ventricolare sinistra. Inoltre si scopre che il suo corpo presenta profonde lesioni a polsi e caviglie.
Lacci e lacciuoli di ferro o di plastica? Questo sospettano in procura. La pratica della contenzione è ammessa per legge solo in stato di necessità e soltanto poche ore, fino alla terapia chimica. Invece, secondo la procura di Vallo della Lucania, le lesioni dimostrerebbero l’allettamento forzato e prolungato del paziente. Non si sa ancora se Francesco sia morto dopo quattro giorni interi di letto di contenzione. In ogni caso è morto in un letto di contenzione e il matto, statene certi, non era lui.
Venerdì 31 luglio le forze dell’ordine, con un dispiegamento da guerra di terra e mare, circondano il bungalow dove Francesco è ospite. La notte precedente, secondo la versione ufficiale, “avrebbe tamponato quattro autovetture”.
Non ci sono le prove. L’automobile di Francesco è normalmente parcheggiata sotto la sua abitazione di Castelnuovo Cilento e non mostra segni di alcun danno. Francesco, sempre per nulla o poco fiducioso nelle istituzioni dello Stato, scappa verso il lido. Prende l’ultimo caffè e fuma l’ultima sigaretta. Viene acciuffato e spedito nell’ospedale psichiatrico San Luca, il posto in cui non avrebbe mai voluto finire perché temeva di morirci dentro. “Hanno ucciso un uomo in letto di contenzione”, dice il pm nel suo atto d’accusa.
Che dire a tale riguardo? Conoscendo il carattere torturante delle carceri in quanto tali, non possiamo auspicare il carcere a nessuno. Sappiamo solo che l’ospedale San Luca dovrebbe essere posto sotto inchiesta amministrativa da parte della Regione Campania e invece quest’ultima finge che nulla sia successo. Sappiamo inoltre che a piangere la morte di Francesco, Franco per gli amici, sono stati i partecipanti al funerale svoltosi il 13 agosto, i suoi alunni della scuola elementare e l’intera popolazione, nessuno escluso, di Castelnuovo Cilento.
In un paese come l’Italia, in questo strano impero del bene, non dovremmo meravigliarci se gli attuali indagati per la morte di Francesco fossero assolti dall’accusa di omicidio colposo.
Nessuno però ci venga a dire che Franco, amico della vita, dei suoi giovani studenti, dei suoi concittadini e di tutti i libertari del mondo, si sarebbe suicidato. È da secoli che si racconta la favoletta secondo cui gli anarchici amerebbero suicidarsi. Adesso basta.

Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2009

Comunicato dell’Associazione Italiana Psichiatri – AipsiMed – sulla morte del prof. Franco Mastrogiovanni, nel Spdc di Vallo della Lucania. Vorrei aggiungere ai tanti pervenuti in questi giorni anche un commento altro, il mio, condito di qualche riflessione riguardante la tragica e disperata morte del maestro, insegnante, Franco Mastrogiovanni, avvenuta all’interno del Servizio di Diagnosi e Cura Psichiatrico di Vallo della Lucania (Sa).
Dei drammatici eventi tutti coloro che sono addentro alle cose dell’assistenza psichiatrica, anche perché puntualmente aggiornati da AipsiMed, sono oramai al corrente, ragion per cui non vi tornerò. Ma certamente è bene fare anche un po’ l’avvocato del diavolo in questo che pare già esser connotato come un processo scontatamente sommario ai sette dirigenti medici.
Stavolta, contrariamente all’iconografia ufficiale, questo Diavolo vuol essere anche un buon diavolo, provando a essere persino equilibrato in un dibattito processuale che appare senza un contenzioso dibattimentale di tipo etico e culturale. Ma il Diavolo oggi parlerà da un angolo visuale un po’ spostato, magari defilato, provando tuttavia ad allargare maggiormente orizzonti pur di andare a rintracciare cause anche remote che possono stare dietro e aver persino causato la morte di Mastrogiovanni.

Foto di Valentina Perniciaro _senza casa al Campidoglio, circondati dai servi di Stato_

Foto di Valentina Perniciaro _senza casa al Campidoglio, circondati dai servi di Stato_

I colleghi quando si laurearono in medicina e chirurgia pensavano che “da grandi” avrebbero fatto i medici. I colleghi dopo la specializzazione in psichiatria hanno affinato la loro preparazione anche intima, effettuando complessi e complicati percorsi formativi pensando che da grandi avrebbero fatto gli psichiatri. Nulla di tutto questo. Sono stati sì assunti dall’azienda sanitaria locale, ma arruolati con i compiti di psico-polizia, quella funzione che dai manicomi in poi identifica ancora oggi la tipologia dell’intervento psichiatrico in specie per le psicosi maggiori.
Di questo sono al corrente anche i tutori dell’ordine che ben volentieri si fanno affiancare dagli psichiatri territoriali nella “cattura” delle persone che appaiono di pubblico scandalo e demandano solo agli psichiatri dei reparti psichiatrici la custodia di quelle stesse persone e prima ancora che sia stata effettuata una diagnosi precisa sulle loro vere condizioni clinico-psicopatologiche.
Non solo, ma quegli stessi psichiatri devono anche far passare nel più breve tempo possibile lo stato psichico che potrebbe aver sotteso condotte antisociali. E con che? Con gli psicofarmaci in primis, con il controllo costante da parte di loro stessi e degli infermieri collaboratori e, estrema ratio, con la contenzione.
Insomma gli psichiatri vanno in guerra all’attacco e non in difesa, combattendo una battaglia che mai avrebbero voluto condividere e, soprattutto, vanno in campo con armi giocattolo finendo per tradire ogni giuramento di Ippocrate. Ma si può?
Uno psichiatra è oggi messo nelle condizioni di non potere attendere la trasformazione, anche assai favorevole, di uno stato psichico, ma dev’essere un leguleio conoscitore di quanti minuti bastano per tenere contenuta una persona. Deve servire, obbedire e combattere senza disporre neppure di un test sull’alcolemia di cui è portatore la persona a loro “affidata”, ma deve subito sedare con i gravissimi effetti in termini di interazione\potenziamento dell’alchimia alcool\psicofarmaci. Non può subito effettuare un elettrocardiogramma alla persona che gli portano, visto che per la trafelatezza e la concitazione dell’intervento, che la persona sia affetta da ipertrofia del ventricolo sinistro (come in Mastrogiovanni) al mandante del ricovero pare essere l’ultimo dei suoi problemi.
Si dirà: ma per un medico questo è essenziale! È vero. Ma quanti collaborano a che la persona agitata se ne stia buona buona su un lettino a praticare tutte le indispensabili analisi emato-cliniche e gli accertamenti diagnostici strumentali? Bisogna trovarcisi in quelle bolge dantesche chiamate pronti soccorso all’interno dei quali afferisce tutta un’umanità dolente (non solo nel corpo) ed uno sparuto di medici annichiliti dall’angoscia relativa all’improbo compito tenta di rendersi utile nella sofferenza senza finire sotto inchiesta.
Non ci si vuole dilungare troppo e, si sa, l’unica soluzione per i medici, per gli psichiatri, consiste nell’attenersi rigidamente a ciò che attiene all’intervento sanitario delegando ad altre figure ed istituzioni il controllo del male sociale.
Pare che Mastrogiovanni prima di entrare in Spdc abbia urlato che se finiva in psichiatria sarebbe morto. Non sarebbe stato meglio per lui, oltre che per la sua storia anche politica, una permanenza breve e solo per accertamenti in una struttura solo investigativa e non sanitaria e rimandare ad altri momenti l’acquisizione psicodiagnostica delle cause delle sue angosce di sempre, magari con la costante presenza di uno psichiatra chiamato in consulenza e solo per proteggerlo e non per fargli da Caronte o da suo persecutore più o meno occulto?
La risposta solo è rintracciabile negli intestini d’una legge di assistenza psichiatrica che non s’è mai voluta interrogare sul suo mandato e sulla sua vera funzione. Che Dio ci perdoni. Tutti.

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