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San Basilio e Fabrizio Ceruso, 40 anni dopo: la lotta per il diritto alla casa. Una testimonianza
40 anni son passati da quell’assassinio,
40 anni son passati da una pagina di lotta straordinaria e mai rivissuta
40 anni da quelle giornate che per i compagni di Roma sono state lo spartiacque.
Chi ha vissuto quella campale, lunghissima, accorata battaglia c’ha lasciato brandelli di cuore mai più tornati al loro posto,
chi ha vissuto quell’esperienza la porta dentro ancora col fuoco che brucia.
Pubblico qui la testimonianza di Sandro Padula
QUI una pagina di ricordo e QUI la trasmissione di R.O.R. con una ricostruzione di quelle giornate.
San Basilio, 8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa
di Sandro Padula
Il contesto e la dinamica della battaglia determinatasi l’8 settembre 1974 a San Basilio non sono facili da spiegare. Alcuni testimoni di quegli eventi sono morti negli anni successivi, ad esempio il mio amico Roberto di cui parlerò qui; altri ricordano soprattutto la nebbia dei lacrimogeni o mettono in connessione lineare, se non addirittura mitologica, il passato col presente; certi sono diventati “pentiti” negli anni Ottanta e altri ancora hanno cercato di abiurare il proprio passato di militanza politica, ad esempio determinati ex dirigenti di Lotta Continua.
La borgata di San Basilio
Pochi fra i testimoni rimasti in vita ricordano bene gli avvenimenti dell’8 settembre 1974 a San Basilio e i motivi che ne furono alla base. Esistono però alcuni fatti che, da soli, risultano sufficienti ad aprire o a riaprire le porte di una corretta ricostruzione storica. Il 20 febbraio 1973 l’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp) indisse il concorso per l’assegnazione di alloggi a San Basilio, Pietralata e Tiburtino III, tre borgate della periferia sud orientale di Roma, per un totale di 600 appartamenti, ma fra l’estate e l’autunno di quell’anno si capì meglio che le migliaia di famiglie bisognose di un alloggio non potevano farsi molte illusioni.
Come ha correttamente ricordato Massimo Sestili in “sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974″ (saggio pubblicato in Historia magistra, Rivista di storia critica, anno I, n. 1, Franco Angeli editore, 2009) la graduatoria stilata per quel bando pubblico subì una modifica rispetto alla normale prassi seguita in precedenza. A Villa Gordiani e a Tiburtino III dovevano essere demoliti alcuni alloggi dello Iacp e agli abitanti interessati furono assegnati fuori graduatoria più della metà degli appartamenti disponibili. Per concorso furono assegnati “200 alloggi su un totale di 600″.
Il fatto che a Gordiani e a Tiburtino III alcuni alloggi dello Iacp fossero in procinto di demolizione avrebbe dovuto comportare un impegno politico preciso, da parte dello stesso Iacp e del Comune di Roma, per trovare un’alternativa abitativa agli interessati. Il concorso per l’assegnazione di alloggi avrebbe dovuto riguardare solo chi non aveva ancora acquisito il diritto alla casa. Fu invece una truffa di Stato per ottenere il consenso clientelare di 400 famiglie e, nel medesimo tempo, evitare costi aggiuntivi alle casse dello Iacp e del Comune di Roma. Si trattò di una scelta discrezionale in punto di diritto e scellerata in termini politici perché, in pari tempo, costituì una turbativa d’asta e dell’ordine pubblico.In tale scenario, aggravato da un bisogno di case che non riguardava più solo i baraccati come accadeva negli anni Sessanta ma, in modo crescente, anche le famiglie proletarie in coabitazione, 136 abitazioni dello Iacp site a San Basilio in via Montecarotto (in parte nella contigua via Sarnaro) furono occupate nell’estate del 1973. Allora e lì, nonostante l’immediato sgombero e al di là di quel che affermano alcune recenti ricostruzioni, ebbe inizio la lotta per il diritto alla casa a San Basilio.
Quelle stesse case furono poi occupate di nuovo il 5 novembre 1973, sgomberate la mattina di un paio di giorni dopo e, nonostante lo sbarramento di polizia e l’arresto di due persone, rioccupate dalle famiglie nell’immediato pomeriggio. “Le donne, che hanno portato avanti l’occupazione in prima persona, non si sono però allontanate dalle case, ma restando sul posto, hanno formato un loro comitato, che ha presto ottenuto un incontro con un dirigente dell’Iacp. L’incontro è avvenuto il giorno stesso.
Dei 136 appartamenti, ha spiegato il funzionario, 29 erano stati assegnati agli abitanti di Tiburtino III, 21 dei quali le hanno rifiutate perché vogliono andare in quelle costruite, sempre dallo Iacp, ai Monti del Pecoraro. Altre case sono state assegnate ai baraccati di Villa Gordiani. Le rimanenti dovrebbero essere assegnate, in base alla graduatoria e ai «punti», ad altre famiglie bisognose.
È stato insomma il dirigente dello Iacp a confutare, con i dati, la voce secondo la quale gli occupanti avrebbero preso la casa ad altri lavoratori, cui sarebbero state in precedenza assegnate. Dopo l’incontro c’è stata una breve assemblea, in cui gli occupanti hanno fatto le loro proposte: su 136 appartamenti, 60 devono essere assegnati a famiglie bisognose di San Basilio stessa. È la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che queste case vengono occupate. ma questa volta i proletari sono stati più decisi ed organizzati” (da pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 9 novembre 1973).
La borgata di Casal Bruciato, in un’immagine dello stesso anno
Diverse forze politiche e sindacali istituzionali, lungi dal mettere in discussione la logica clientelare dello Iacp e le ipocrisie del Comune di Roma, allora feudi della Democrazia Cristiana, “intervennero per scongiurare un’altra azione della polizia” (pag. 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio” di Gian-Giacomo Fusco, Edizioni Nuova Cultura, 2013) e proposero “di censire le famiglie occupanti al fine di trovare loro un alloggio diverso” (ibidem, pag. 118).
Il Comitato di lotta per la casa, a quel punto, dopo aver precisato di voler escludere dall’iniziativa coloro che avevano già usufruito di una casa popolare, presentò di nuovo allo Iacp una richiesta per l’assegnazione straordinaria di alloggi a tutte le famiglie bisognose di San Basilio. Denunciò le manovre di divisione portate avanti dalla locale sezione del Pci che aveva operato in nome di una “legalità” basata sulla presentazione della domanda al concorso pubblico per l’assegnazione delle case popolari. Infine portò i dati del censimento delle famiglie occupanti dai quali risultava il grado di affollamento da cui esse provenivano: 3,2 persone per vano (vedasi pag. 4 del quotidiano Lotta Continua, 21 novembre 1973).
Qualche tempo dopo il Comitato di lotta organizzò anche l’occupazione di 12 appartamenti dello Iacp a via Fabriano che inizialmente sarebbero dovuti essere utilizzati per insediare a San Basilio un Commissariato di polizia. Da 136 si passò a 148 appartamenti occupati da altrettante famiglie. A quel punto “la situazione cominciò a sedimentarsi; le famiglie ottenevano servizi – allacci sull’acqua, luce, gas e telefono – e si diffuse così l’idea che ormai quelle case erano degli occupanti” (ivi, pag 118 di “Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie. San Basilio come caso di studio”).
La storia successiva vide il 1974 come l’anno di una grande e diffusa lotta per il diritto alla casa e di una gigantesca repressione poliziesca rispetto a quel bisogno sociale. Ci furono numerosi sgomberi di case occupate – per lo più di proprietà dei pescecani dell’edilizia – tanto che nell’estate di quel medesimo anno a Roma rimasero in piedi solo due occupazioni, quella organizzata alla Magliana dal novembre 1973 e quella gestita dal Comitato di lotta di San Basilio.
I governanti volevano portare un attacco decisivo agli ultimi baluardi della lotta per la casa. I fatti dal 5 all’8 settembre 1974 nacquero in tale contesto. Giovedì 5 settembre 1974, dopo 10 mesi di occupazione, a San Basilio ci fu uno sgombero, ma di sera gli appartamenti furono rioccupati. Venerdì 6 settembre, anche se il Comitato di lotta aveva organizzato una resistenza migliore, si ebbe un altro sgombero. Nella serata, però, le case furono rioccupate dopo una trattativa. Il Comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari avrebbero dovuto decidere dove mandare le famiglie occupanti. Sabato 7 settembre sembrava essersi determinata una sorta di tregua, ma nella mattinata di domenica 8 settembre, come seppi con parecchie ore di ritardo, la situazione precipitò.
San Basilio
Fra le 16 e le 17 di quel giorno festivo cercai vanamente la compagneria del collettivo politico nelle strade, nei muretti e nei locali pubblici del mio quartiere. Decisi allora di fare una passeggiata da solo. Andai verso uno spazio verde tagliato da una marana, una striscia d’acqua inquinata dagli scarti della Pirelli di via di Torre Spaccata. Percorsi un viottolo fino a giungere all’ombra di un fico che dava frutti anche a settembre. Volevo assaggiarne alcuni, ma un imprevisto mi bloccò.
“Ehi! Ehi!”, strillò Roberto dal bordo del prato mentre agitava la mano verso la sua faccia per farmi intendere che avrei dovuto raggiungerlo in fretta e furia. Corsi preoccupato.
“Dobbiamo andare a San Basilio”, disse Roberto che ormai avevo di fronte a me.
“Cos’è successo?”, gli chiesi.
“In mattinata c’è stato un altro sgombero delle case occupate. Poi, fino alle 14, gli scontri hanno fatto il resto”, mi rispose.
“La situazione è cambiata per l’ennesima volta”, commentai.
“Sì – riprese la parola il mio amico – e proprio per questo motivo dobbiamo partire subito con la macchina che sta qui vicino. Alle 18 c’è un appuntamento nella piazza centrale. I compagni e le compagne del nostro collettivo politico sono già lì”.Dopo venti minuti lasciammo l’autoveicolo nei pressi di via Tiburtina. I pali della luce abbattuti non permettevano l’ingresso stradale nella borgata. Vi entrammo a piedi attraversando un prato. Alle 18 molti giovani, in parte provenienti da altre zone periferiche della città, si erano concentrati alle spalle di una chiesa, nella piazza principale della borgata.
Nella parte opposta, soprattutto sulle parallele vie Corridonia e Fiuminata e più precisamente nei punti di accesso a via Montecarotto, mille fra carabinieri e poliziotti erano in assetto da guerra ma la battaglia scoppiò dopo circa un’ora, fra le 19 e le 19,30. Ad un certo punto, un plotone avanzò da via Montecarotto su via Corridonia lanciando decine di lacrimogeni ad altezza d’uomo in direzione della piazza affollata; poi, quando si accorse di non avere più altri “fiori bianchi” da regalare, si ritirò in modo caotico.
Alcuni poliziotti ad esempio, invece di tornare indietro, percorsero via Fabriano nel tratto adiacente l’ingresso della chiesa, l’oltrepassarono fino a fare capolino su via Fiuminata e lì ebbero un contatto con due o tre manifestanti che, privi di armi da fuoco, rischiavano di essere arrestati dai tutori dell’ordine. Vedendo quella scena un gruppo di giovani partì di corsa dalla piazza, imboccò via Fiuminata, giunse nei pressi della via adiacente la chiesa e divenne il bersaglio di alcuni colpi di pistola partiti da un altro plotone di poliziotti e carabinieri, distante 25-30 metri, che già operava nella stessa via Fiuminata.
I proiettili, su quella medesima strada, raggiunsero il muro di cinta della chiesa, un palo della luce, un albero e Fabrizio Ceruso. Quest’ultimo, diciannovenne del Comitato Proletario di Tivoli, un organismo dei Comitati Autonomi Operai, fu colpito al petto. Tre giovani lo presero da sotto le ascelle e dai piedi. Da via Fiuminata giunsero nella piazza e da lì ancora più lontano fino a via Corinaldo, dove c’era un piccolo pronto soccorso. In seguito, accertata la gravità delle condizioni fisiche di Ceruso, bloccarono un taxi e vi entrarono portando con sé il ferito.
“Al Policlinico! Al Policlinico!”, urlò uno di loro al tassista.
“Corri! Corri!”, disse un secondo passeggero.
“Hanno ammazzato mio fratello!”, esclamò un altro durante il tragitto verso l’ospedale.I tre giovani non erano parenti, ma compagni di lotta di Ceruso. Così lo sentivano mentre lui non dava più segni di vita. Temevano di essere ficcati nei guai dalla polizia e perciò fuggirono appena il taxi giunse al Policlinico. La notizia della morte di Ceruso si diffuse rapidamente. Venne trasmessa anche dalla televisione e dalla radio. Giunse a noi che restammo a san Basilio anche dopo il tramonto fra barricate, lacrimogeni e sparatorie.
Il giorno successivo, il 9 settembre 1974, il Consiglio della Regione Lazio varò una legge: le famiglie che avevano occupato una casa nel territorio laziale, per autentico bisogno e prima dell’8 settembre di quell’anno, avevano diritto all’assegnazione di un appartamento. Quando poi – giovedì 12 settembre – arrivò la data del funerale, il feretro partì dall’obitorio del Policlinico e fu seguito da un corteo di automobili. Doveva giungere a Tivoli, la cittadina di residenza dei parenti del giovane, ma prima passò a San Basilio. Lì, ad attenderlo, molte persone stavano sui marciapiedi delle principali vie.
Non aveva più il casco rosso che portava in testa quando lo vidi cadere. Non era più a pochi passi da via Fabriano e a dieci metri da me e Roberto che correvamo dietro di lui su via Fiuminata. Eravamo davvero matti a sfidare, in quel momento solo con qualche sasso, i lacrimogeni e le pallottole delle forze dell’ordine. Ma forse erano più matti coloro che componevano il quinto governo Rumor (14 marzo 1974 – 23 novembre 1974), cioè i massimi responsabili politici della morte di Fabrizio Ceruso.
Gettiamo invece un velo pietoso sui dirigenti del Pci e del Sunia (il sindacato inquilini e assegnatari vicino al Pci) che allora intervennero solo a livello di mediazione istituzionale ed esclusivamente a favore della presunta legalità di una miserabile truffa di stato. E che dire della magistratura? Il pubblico ministero Gugliemo Cavallari, pur avendo iniziato immediatamente le indagini, depositò la requisitoria venticinque mesi dopo: l’8 di ottobre del 1976 (vedasi: “Fatti di San Basilio: sotto accusa i metodi usati dalla polizia”, Franco Scottoni, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
Con essa, “in ordine all’omicidio di Ceruso, al ferimento di 47 militari di Ps e alle violenze a pubblico ufficiale”, si chiese che il giudice istruttore dichiarasse “con sentenza di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato”. Sul piano giuridico i fatti di San Basilio furono poi archiviati dal giudice istruttore, il dottor Capri, ma la requisitoria del pm Cavallari costituì soprattutto un’accusa politica verso i metodi usati dalla polizia e una critica incontrovertibile alla tesi della questura di Roma secondo cui le forze dell’ordine sarebbero state innocenti rispetto all’omicidio di Fabrizio Ceruso.
Sempre a San Basilio, settembre 1974
Il pm affermò che “furono concentrate presso la Direzione di Artiglieria di Roma le pistole appartenenti alla forza pubblica; fu controllato se le armi in dotazione fossero quelle effettivamente consegnate; furono controllati gli elenchi di servizio e i libretti personali degli agenti” (ibidem, L’Unità, sabato 9 ottobre 1976).
“Da tali verifiche – scrisse il pm – è emerso che la tenuta di alcuni documenti non era regolare: in particolare il registro della scuola di Ps di Caserta presentava pagine tagliate e re iscrizioni a penna su precedenti scritture a matita fatte con grafie diverse. Inoltre l’elenco del I battaglione Celere è risultato redatto dopo il rientro in caserma, sulla base di annotazioni provvisorie”.
Il pm Cavallari precisò che Ceruso fu “raggiunto da un proiettile calibro 7,65 che aveva camiciatura nichelata e tracce di laccatura viola sulla godronatura, caratteristiche comuni a gran parte delle cartucce in dotazione agli agenti operanti a S. Basilio, in via Fiuminata, dove avvenne l’omicidio”. Quel proiettile, sempre secondo la requisitoria del pm, risultò “appartenere ad una fornitura di cartucce di produzione piuttosto remota (non posteriore all’anno 1965) della quale gli agenti avevano un notevolissimo quantitativo in dotazione”. Dal 1960 del governo Tambroni in poi, almeno fino al quinto governo Rumor, la polizia ebbe il monopolio nel possesso di cartucce di quel tipo perché queste ultime erano state “vendute dalla Fiocchi anche a privati ma solo fino al 1960″. I governi erano davvero coi Fiocchi.
C’è qualcuno che oggi ricorda bene queste cose? La memoria di ognuno rischia di essere fallace, altalenante com’è fra un dubbio e l’altro inculcato dai professionisti delle dietrologie e delle menzogne storiche mass-mediate. Serve perciò una memoria collettiva e critica. Fatta pure di singoli e personali ricordi o racconti, ma tutti documentati o documentabili con precisione e senza inutili mitologie.
Nel 1974 la borgata di San Basilio stava diventando un quartiere. La maggioranza degli occupati in qualche lavoro era composta da lavoratori salariati ed era solidale verso il Comitato di lotta per la casa. L’8 settembre 1974 non ci fu nessuna “guerra fra poveri” a San Basilio. Ci fu una linea della fermezza da parte del governo Rumor V – e già sperimentata il 9 maggio 1974 con la strage compiuta nel carcere di Alessandria dalla forza pubblica diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che da un lato provocò l’omicidio di Fabrizio Ceruso e dall’altro il ferimento di 47 agenti delle forze dell’ordine.
Se i governanti fossero stati a San Basilio dopo le ore 19 e 30 dell’8 settembre 1974 avrebbero potuto vedere coi propri occhi una rivolta armata di massa. Decine di abitanti facevano sporgere dalle finestre i fucili da caccia o a canne mozze e le pistole. Molti nelle strade avevano con sé biglie, fionde, sassi, bulloni e bottiglie molotov. Un ragazzo si proteggeva la testa con un casco rosso. Somigliava a Fabrizio ma era soltanto un suo fratello di lotta.
Fuori i torturati dalle galere: ORA!
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
Dal blog CONTROMAELSTROM
A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».
Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:
«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».
Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.
La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».
Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.
Da Il carcere immateriale di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, Edizioni Sonda, 1989, pagg. 103-137.
LINK:
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Basta: Triaca,torturato da “De Tormentis”, richiede la revisione del processo. Ora non possono più far finta di niente
Dal blog Insorgenze
Dopo le ammissioni di Nicola Ciocia, il funzionario di polizia che lo torturò, e la testimonianza dell’allora commissario Salvatore Genova, Enrico Triaca chiede la revisione del processo che portò alla sua condanna per calunnia. L’istanza depositata dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo davanti alla corte d’appello di Perugia non mira soltanto all’annullamento del processo farsa che finì con una condanna per calunnia ad un anno e quattro mesi di carcere, che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse ed in un primo momento anche per il sequestro Moro. L’obiettivo è quello di fare luce sull’esistenza di un apparato di polizia parallelo che con il mandato del governo venne messo in piedi per condurre le indagini sulle organizzazioni rivoluzionarie armate ricorrendo alla tortura
di Marco Grasso e Matteo Indice
Il Secolo XIX 12 dicembre 2012
Per piegare il terrorismo lo Stato italiano fece ricorso alla tortura. Un’accusa che allora, quando a lanciarla era Enrico Triaca, tipografo delle Br coinvolto nel sequestro Moro, finì con una condanna per calunnia. Era il 1978. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, l’ex brigatista chiede la revisione del processo: «Era tutto vero». Un atto che potrebbe riaprire una delle pagine più oscure degli anni di Piombo: l’attività di alcuni corpi speciali, che agivano sotto copertura, conosciuti come “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”.
A confermare l’esistenza di un nucleo “parallelo” all’interno della polizia, nel corso degli anni, sono stati alcuni ex funzionari. Ne parlò Salvatore Genova, superinvestigatore che nel gennaio del 1982 liberò il generale americano James Lee Dozier, prigioniero delle Brigate Rosse. Poi anche Nicola Ciocia, anche lui ex poliziotto, che in quelle missioni speciali si celava dietro allo pseudonimo “Professor De Tormentis”. Ciocia, convinto che il fine giustificasse in mezzi («era per il bene dell’Italia»), raccontò la sua verità in un’intervista al Secolo XIX. Tra le rivelazioni anche quella di aver praticato ciò che allora veniva chiamato il «trattamento dell’acqua e sale». Una forma di interrogatorio divenuta famosa in tutto il mondo dopo la guerra in Iraq come waterboarding, tortura che simula l’annegamento del detenuto.
Quelli che fino a ieri erano frammenti sconnessi, adesso sono i pezzi di un mosaico coerente. A rimetterli insieme è una corposa indagine difensiva condotta da Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo, avvocati di Triaca, e presentata alla Corte d’Appello di Perugia. In gioco non c’è solo l’annullamento di un processo, finito con una condanna a un anno e quattro mesi di carcere, arrivata dopo quella per banda armata.
L’obiettivo dichiarato del ricorso è quello di far luce su una delle pagine più oscure del dopoguerra italiano: «È molto facile indignarsi e criticare la tortura quando viene praticata in altri paesi – spiegano – È molto facile zittire con una condanna per calunnia, chi ha denunciato di essere torturato. È difficile, anzi, impossibile, affrontare la propria cattiva coscienza anche se appartiene al passato».
A descrivere il waterboarding è lo stesso Triaca, al blog Insorgenze, punto di riferimento della sinistra più estrema: «Fui prelevato dalla questura, bendato e caricato su un furgone. Mi introdussero in una stanza, mi spogliarono e mi legarono alle quattro estremità di un tavolo, con la testa fuori. Qui, accesa la radio al massimo, iniziò il “trattamento”. L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria, ma riesco solo a ingoiare acqua. “De Tormentis” dava gli ordini. Dopo un po’ che tieni la testa a penzoloni i muscoli cominciano a farti male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne».
L’esistenza di una «struttura organizzata» emerse già in un’inchiesta della Procura di Padova degli anni Ottanta, che indagò sulle sevizie commesse ad alcuni membri delle Br, senza riuscire a individuarne gli autori. A colmare quel vuoto, nel 2007, è il capo della squadra, Nicola Ciocia: «I metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo in alcuni casi».
La vicenda è stata anche oggetto di un’interpellanza parlamentare, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini. A rispondere a nome del governo, notano però i difensori di Triaca, si è presentato Carlo De Stefano, sottosegretario agli Interni, all’epoca dei fatti «uno dei poliziotti che parteciparono al suo arresto».
Per più informazioni a riguardo (su De Tormentis ed Enrico Triaca), da questo blog:
– Il pene della Repubblica
– Ma chi è il professor “De Tormentis”?
– Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
– De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
– Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
– Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
– La sentenza esistente
–Seconda parte del testo di Triaca
– L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
– ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
– Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
– L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
Strage di Bologna: Pifano smentisce i deliri di Raisi
Daniele Pifano risponde ai deliri di Enzo Raisi, che da tempo ormai tenta di gettare ombra sui compagni per quanto riguarda la bomba a Bologna, di cui domani ricorrerà l’anniversario.
Dopo il tentativo di coinvolgere le formazioni combattenti palestinesi,
Ora ci si prova con l’autonomia operaia e con l’infamante metodologia di tirare in ballo, per di più, un ragazzo che in quella stazione saltò in aria…
Qui per info più dettagliate e comprensibili : LEGGI
RISPOSTA AL COMUNICATO STAMPA DI RAISI DEL 30 LUGLIO ‘12
Ancora una volta l’onorevole Enzo Raisi, personaggio assai equivoco già membro della Commissione Mitrokhin ed attuale ” responsabile immagine di FLI”,spara notizie sensazionali, di grande effetto mediatico…..ma di nessuna rispondenza reale!
Questa volta ha tirato fuori che una delle vittime della bomba alla stazione di Bologna, Mauro Di Vittorio faceva parte dell’Autonomia Operaia, quindi la stessa di Daniele Pifano, quello dei missili dei palestinesi, quindi possibile trasportatore della bomba assassina che avrebbe fatto esplodere per sbaglio o volontariamente .Peccato che né il sottoscritto né gli altri responsabili a suo tempo del Collettivo del Policlinico o dei Comitati Autonomi Operai di via dei Volsci lo abbiano mai saputo o o abbiano mai avuto notizia dell’esistenza di un compagno dell’autonomia tra le vittime dell’orribile strage di Bologna!
Ancora una volta questa gente senza scrupoli usa le vittime di quella terribile strage fascista per tentare a tutti i costi di rifarsi una nuova verginità.
Per quanto mi riguarda ho dato mandato ai miei avvocati di sporgere denuncia contro quest’individuo pur sapendo che si farà scudo dell’immunità parlamentare per non rispondere di calunnie come questa!
31 – 07 – ’12
Daniele Pifano
De Tormentis e le torture: l’interrogazione parlamentare cade nel vuoto. Strano eh?
Si torna, e sarà dura smettere di farlo, a parlare di torture.
Di scientifiche sevizie di stato compiute sui corpi dei prigionieri politici italiani degli anni ’70 e ’80.
Dopo il libro di Nicola Rao questo blog, insieme al puntiglioso lavoro di Paolo Persichetti sul suo e sulle pagine dell’allora esistente quotidiano Liberazione, non abbiamo mai smesso di parlare del misterioso uomo che avrebbe scelto per se stesso lo pseudonimo di De Tormentis. Al punto che anche la Rai e la redazione di “Chi l’ha visto?” si sono accorti di tutto ciò …
Se si è iniziata questa battaglia non era certo per arrivare solo al nome di Nicola Ciocia,
ma per capire da chi e in che modo era partito l’ordine, la carta bianca sulla tortura, sul waterboarding, sugli elettrodi, sulle finte esecuzioni,
sui veri e propri rapimenti degli arrestati.
La parlamentare Rita Bernardini s’è subito mobilitata con i suoi strumenti, chiedendo risposte direttamente al ministero con una interrogazione parlamentare…eheheh, la risposta è appena arrivata e parla da sola sia per le parole usate, sia proprio per il personaggio che s’è adoperato nella risposta,
o “presa per il culo” che dir si voglia.
Vi lascio quindi alle parole di Paolo, nella sua puntigliosa descrizione delle ridicole novità di questa storia che si sono affacciate sui banchi del parlamento italiane: De Tormentis, il fantasma del Viminale
Torture, la risposta evasiva del ministero dell’Interno all’interrogazione presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini
di Paolo Persichetti
Il governo, per voce del sottosegretario agli Interni prefetto Carlo De Stefano, ex direttore centrale della Polizia di prevenzione (l’ex Ucigos, quella del “professor De Tormentis” per intenderci) dal 2001 al 2009 e dove ha anche presieduto il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, ha liquidato l’interrogazione parlamentare presentata lo scorso dicembre dalla deputata del partito radicale Rita Bernardini sostenendo che dei fatti in questione se ne è già discusso ampiamente durante l’ottava legislatura con «ampi e circostanziati dibattiti parlamentari nonché inchieste giudiziarie».
Inutile tornarci sospra, dunque. «Su tali fatti, pertanto, – ha affermato De Stefano – non è necessario che io indugi anche se una serie di inchieste giornalistiche e iniziative culturali ne stanno riproponendo l’attualità. Un’attualità che mantiene il collegamento con i fatti di allora, in relazione all’operato delle Forze dell’ordine, ora oggetto di uno specifico questito degli On. interroganti».
Peccato che dall’ottava legislatuta ad oggi siano emerse nuove circostanze grazie ad una inchiesta giornalistica condotta nel 2007 da Matteo Indice sul Secolo XIX, poi rilanciate dal libro di Nicola Rao, riprese in una inchiesta apparsa su Liberazione del 13 dicembre 2011 nella quale si tracciava dettagliatamente il profilo professionale e culturale del professor De Tormentis, lasciando chiaramente intendere chi fosse il personaggio che si nascondeva sotto quello pseudonimo e che al momento delle torture era un funzionario di grado elevato dell’Ucigos. Un dirigente delle Forse di polizia perfettamente conosciuto dai vertici politici dell’epoca, come riconobbe Francesco Cossiga (una foto lo ritrae alle spalle del ministro dell’Interno in via Caetani, davanti alla Renault 4 nella quale le Brigate rosse fecero ritrovare il corpo di Aldo Moro). Novità riproposte in una puntata della trasmissione di Rai tre, Chi l’ha visto, dell’8 febbraio scorso che spinsero il Corriere della sera e poi il Corriere del Mezzogiorno ad intervistare nuovamente il “professor De Tormentis” nella sua casa sulle colline del Vomero a Napoli, senza omettere questa volta il nome che ormai cicrolava da tempo sul web: Nicola Ciocia.Il prefetto De Stefano ha pensato di caversela a poco prezzo rivendendo merce scaduta
Il primo dei quesiti posti da Rita Bernardini ai rispettivi ministeri di competenza, Interno e Giustizia, chiedeva di «verificare l’identità e il ruolo svolto all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos conosciuto come “professor De Tormentis”» ed ancora se non si ritenesse opportuno «promuovere, anche mediante la costituzione di una specifica commissione d’inchiesta», ogni utile approfondimento «sull’esistenza, i componenti e l’operato dei due gruppi addetti alla sevizie, ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della polizia di Stato citati nelle interviste».
Il sottosegretario De Stefano non solo ha completamente evaso ogni risposta su queste nuove circostanze ma ha addirittura preso in giro la parlamentare radicale, e con essa quei milioni di citadini che si recano regolarmente alle urne confermando la propria fiducia nell’istituzione parlamentare, spacciando per un gesto di cortesia istituzionale la consegna agli atti della Comissione di una scheda riepilogativa, elaborata «in base alle risultanze istruttorie nella disponibilità del Dipartimento della pubblica sicurezza», nella quale si ripropone una sintesi succinta dell’arci-nota inchiesta avviata nel 1982 dal pm di Padova Vittorio Borraccetti e conclusa con il rinvio a giudizio firmato dal giudice istruttore Giovanni Palombarini dell’allora commissario Salvatore Rino Genova (guarda caso unico nome citato dal sottosegretario), di tre agenti dei Nocs e di un ufficiale del reparto Celere, tutti condannati a brevi pene per le torture inflitte a Cesare Di Lenardo.Nel 2004 l’ex commissario Salvatore Genova aveva scritto al capo della polizia chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta sulle torture
E’ davvero singolare che negli armadi del Dipartimento della pubblica sicurezza il prefetto De Stefano non abbia trovato traccia delle denunce presentate dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, divenuto nelfrattempo primo dirigente. In una intervista alSecolo XIX del 17 giugno 2007, Genova denunciava che «nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza, lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati dall’avviare i doverosi accertamenti». Sul tavolo della sua scrivania – annotava l’intervistatore – «ci sono i carteggi degli ultimi quindici anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero uno, Gianni De Gennaro. Informative “personali”, “strettamente riservate” nelle quali Salvatore Genova chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione».
Di tutto questo nella risposta del sottosegretario non c’è traccia! Singolare omissione, come singolare appare il fatto che l’unico nome citato sia solo quello di Salvatore Genova, che guarda caso è l’unico funzionario che in questi anni ha vuotato il sacco raccontando per filo e per segno quanto i restroscena delle torture, mentre si mantiene il massimo riserbo sugli altri e non si risponde sulla identità di “De Tormentis”. Circostanza che, anche a non voler pensar male, lascia trasparire inevitabilmente l’esistenza di un forte fastidio per le sue rivelazioni di Genova, quasi si trattasse di uno dispetto, per non dire una rappresaglia.
Tutto ciò ha un nome ben preciso: omertà!Se il lupo dice di non aver mai visto l’agnello
A questo punto non si può non ricordare come Carlo De Stefano non sia affatto una figura neutra o di secondo piano. Si tratta di un funzionario che ha realizzato per intero la sua carriera nell’antiterrorismo. Nel 1978, quando era alla digos, fu lui ad arrestare Enrico Triaca, torturato da Nicola Ciocia che lo racconta nel libro di Nicola Rao, e perquisire la tipografia delle Br di via Pio Foa’ a Roma. Si tratta dunque di un personaggio che inevitabilmente è stato a conoscenza di molti dei segreti conservati nelle stanze del Viminale, in quegli uffici che si sono occupati delle inchieste contro la lotta armata. Non foss’altro perché è stato fianco a fianco di tutti i funzionari coinvolti nelle torture.
Vederlo rispondere all’interrogazione depositata dalla deputata Rita Bernardini è stato come sentire il lupo dare spiegazioni sulla scomparsa dell’agnello….
Fino al 1984 le convenzioni internazionali non ponevano limiti alla ricorso alla tortura morale, in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica
Nonostante l’atteggiamento evasivo e omertoso, nella risposta del sottosegretario De Stefano agli altri questiti posti nell’interrogazione parlamentare sono emersi alcuni dettagli interessanti. Alla domanda se il governo non intendesse «adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede Onu» e se non vi fosse l’intenzione di «assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura o violenza da parte di funzionari dello Stato, e per i loro familiari», l’esponente del governo ha ricordato i diversi disegni di legge pendenti in Parlamento e aventi per oggetto l’introduzione nel codice penale civile e militare del reato specifico di tortura. Nulla sulla creazione di una commissione d’inchiesta.
Rivelatore è stato invece l’excursus storico fornito dagli uffici del ministero della Giustizia che hanno ricordato come fino al 1984 a livello internazionale, sia la Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 non ponevano divieti all’uso della tortura «morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica». In sostanza queste convenzioni internazionali vietavano l’uso della tortura contro il nemico esterno, in caso di guerre tra Stati, ma tacevano sul ricorso a torture contro il nemico interno (i cosiddetti “terroristi”) a meno che non si trattasse di Paesi sotto regime dittatoriali. Una logica che se condotta fino alla sue estreme conseguenze sanciva il divieto per le dittature, ritenute una forma di governo illegittimo, di torturare mentre lasciava alle democrazie, ritenute forme di governo legittimo, la possibilità di farlo tranquillamente.
Se ne evince che nel 1982, quando Nicola Ciocia, alias De Tormentis, insieme alla sua squadra di “acquaiuoli”, supportato dagli altri dirigenti dell’Ucigos, Gaspare De Francisci, Umberto Improta & c., sotto l’ordine e la tutela del ministro dell’Interno Virginio Rognoni, torturava durante gli interrogatori le persone sospettate di appartenere a gruppi armati, lo faceva senza violare la normativa interna e internazionale.
E’ quindi questo il messaggio indicibile che tra le righe il sottosegertario De Stefano ha voluto inviare agli interroganti e a chi da mesi sta portando avanti una campagna su questi fatti.
Tuttavia, sul piano strettamente giuridico, dal 1984 prima l’assemblea generale delle Nazioni unite, poi dal 1987 anche il Consiglio d’Europa, adottavano una Convenzione per la prevensione specifica della tortura e dei trattamenti degradanti, in vigore in Italia dall’11 febbraio 1989. In tale ambito, «la tortura al pari del genocidio – ricorda sempre la nota del ministero della Giustiza citata dal De Stefano – è considerata un crimine contro l’umanità dal diritto internazionale», dunque imprescrittibile.
Anche se la nozione di imprescrittibilità non ci ha mai convinto per la sua facilità a prestarsi a regolamenti di conti che fanno del ricorso alla giustizia penale internazionale una forma di prolungamento della guerra e/o della lotta polica con altri mezzi, ci domandiamo come mai i solerti magistrati italiani teorici dell’interventismo più sfrenato, della supplenza e dell’interferenza senza limiti, siano così restii e disattenti.
Ma della complicità della magistratura che con la sua sistematica azione di copertura, che trovò un’unica eccezione nella citata inchiesta di Padova, svolse un decisivo ruolo di ausilio alle torture parleremo in un prossimo articolo.
Per una visione un po’ più completa ecco un po’ di link a riguardo:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
Enrico Triaca scrive ancora al suo torturatore: l’avvocato Nicola Ciocia, conosciuto come professor De Tormentis, uomo di Stato
Da INSORGENZE, il blog di Paolo Persichetti.
Da un «combattente» come lei mi sarei aspettato un gesto “Etico” dell’ultim’ora: «Eccomi qua sono io», e invece niente, ha aspettato fino alla fine nascosto nella sua tana, ha aspettato che la stanassero come un coniglio tremolante ed ora ci racconta che nulla è vero. Dottor Jekyll e Mister Hyde, da latitante rivendica le sue «eroiche gesta» e ora che la sua identità è evidente piagnucola la sua innocenza, la sua correttezza, ci vuole impietosire con la sua cagionevole salute.
Non è dignitoso per funzionario dimostrare che solo in anonimato sa assumersi le proprie responsabilità, che sa solo vivere nell’ombra. Purtroppo nessuno le ha imposto nulla «Professore»; tutto questo casino lo ha combinato lei di sua spontanea volontà rilasciando interviste.
Stia tranquillo «Professore» non le succederà nulla, i reati sono tutti prescritti, il suo Stato continuerà a difenderla. Lo faccia un gesto dignitoso per una volta nella sua vita giunta agli sgoccioli, non ha nulla da perdere, non la sua carriera ormai conclusa, non il suo nome ormai noto.
Io da parte mia le assicuro che non la morderò, non la guarderò con rancore, «Professore», lei mi è del tutto indifferente. Qui non si tratta di trovare un colpevole, di capire chi è il macellaio e chi la vittima, ma di ripristinare una verità Storica, e questo, caro «Professore», dovrebbe essere il suo imperativo come funzionario di Stato che ha giurato sulla Costituzione. Non lasci questa terra da vigliacco. Sono altri i silenzi che fanno rumore, sono quelli di chi le ha dato gli ordini, sono quelli di chi in silenzio, aqquattati nell’ombra aspettano che passi la bufera parlando di Democrazia, Costituzioni e Stato di Diritto.
Il Terroristà sarò sempre io, comunque vada.
“Noi ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
(E i culi di pietra del potere sono pesanti da scalzare N.d R.)
13 febbraio 2012
Saluti, Enrico Triaca
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
La Rai si accorge della tortura in Italia e di De Tormentis
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Anche la Rai si accorge che la lotta alle Brigate Rosse non è stata certo quella di uno stato democratico, ma di uno stato di polizia.
Torturatore.
La trasmissione “Chi l’ha visto?” ieri sera ha avviato un’inchiesta sul professor De Tormentis e la sua squadretta speciale che su mandato del governo Spadolini, agì tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni alle persone arrestate durante le operazioni contro le Brigate rosse ed altre organizzazioni armate, ricorrendo al waterboarding e ad altre tecniche di tortura e sevizie.
Vedremo come la trasmissione manderà avanti quest’inchiesta visto che nell’intervista a Salvatore Genova (allora Commissario della Digos, oggi questore) sono stati fatti molti nomi poi coperti dai Bip del montaggio.
Vi allego la parte di trasmissione in cui c’è l’intervista ad Enrico Triaca (tipografo delle BR, torturato da De Tormentis) e quella a Genova…
Sotto al video troverete i link, numerosissimi, a tutta quest’inchiesta (solo quelli di questo blog, ma ce ne sarebbero molti altri): come vedete i nomi esistono, e son facilissimi da trovare!
ELENCO DEI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
La seconda parte del racconto di Enrico Triaca, tappezziere tipografo torturato
Prosegue (dal blog Insorgenze) la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011.
«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon
Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.
Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.
L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri.
Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».
Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.
2/fine
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
Le torture su Sandro Padula,ancora detenuto, 29 anni fa…
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
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PROSEGUE LA SERIE SULLA TORTURA, DAL BLOG INSORGENZE
Sandro Padula viene arrestato il 14 novembre 1982 a Castel Madama, in provincia di Roma. L’appartamento che faceva da base-rifugio per alcuni militanti latitanti delle Brigate rosse – partito comunista combattente era stato individuato da alcuni giorni dalla Digos che vi aveva fatto irruzione arrestando i presenti. Alcuni dei quali, Romeo Gatti in particolare, furono sottoposti a tortura. La polizia si istalla nella base e attende l’arrivo di Padula che appena entrato viene bloccato e avvolto in un tappeto per essere trasportato via all’insaputa dei vicini che in questo modo non si accorgono dell’arresto. Caricato all’interno di un furgone civile da finti facchini viene condotto con gli occhi bendati in un luogo imprecisato, forse una caserma della zona. Lì inizia il “trattamento”: spogliato viene appeso per le braccia alla parete e sottoposto ad una infinità di colpi su tutto il corpo e sulla testa fino al punto da non sentire più nulla. «Ad un certo punto – racconta quelle poche volte che riesco a strappargli qualche ricordo dalla bocca – il dolore si anestetizza». I seviziatori non hanno alcun ritegno. Il pestaggio condito dal solito florilegio di minacce non sortisce alcun effetto.
A quel punto gli aguzzini passano alla fase due: quella raccontata decine e decine di volte dagli altri torturati sottoposti all’acqua e sale, testimoniata da Salvatore Genova nelle interviste del 1997 a Matteo Indice e nel libro recente scritto da Nicola Rao, tutti materiali che potete trovare in questo blog. Torture ammesse dallo stesso “professor De Tormentis”, il grande maestro dell’acqua e sale, sempre in una intervista a Matteo Indice e nel libro di Rao.
Sandro viene disteso su un tavolo posto accanto ad un lavandino con una parte del corpo, dalla vita in sù, sospesa all’esterno. In bocca gli viene introdotto un tubo ma prima le labbra vengono cosparse di sale. Uno degli aguzzini gli tiene il naso chiuso. Sandro che non è un eroe e tantomeno un campione di apnea (non sa nemmeno nuotare) tuttavia resiste. «Conta che ti passa», gli aveva detto un compagno pochi mesi prima, Umberto Catabiani, membro dell’esecutivo dell’organizzazione ucciso il 24 maggio precedente dopo un lungo inseguimento, mentre ferito aveva guadato un fiume per tentare di fuggire all’arresto. L’acqua e sale nonostante la sua bestialità non sortisce risultati. Un medico, presente, monitorava il cuore. Alla fine i seviziatori di Stato desistono. Uno di loro dirà con disappunto: «Ma questo conta. Ci sta fregando. E’ esperto di apnea».
Arrivati a quel punto il problema era quello di rendere presentabile Padula, che imputato nel processo Moro in corso avrebbe dovuto comparire immediatamente in aula. Sandro viene “preso in cura” da uno strano personaggio che si qualifica come «massaggiatore di una squadra di calcio» che allevia gli ematomi e le contusioni di cui è pieno il suo corpo con massaggi a base di vegetallumina.
Per tre volte le udienze del processo vengono rinviate tra le proteste degli imputati che denunciano le torture in corso e ricordano al presidente di essere complice di quel che stava accadendo. In aperta violazione della legge Sandro Padula resta nelle mani della polizia anche durante l’interrogatorio del 19 novembre, quando Domenico Sica lo va ad ascoltare in questura. Arriverà in aula solo il 19 novembre. Le cronche deformate delle udienze, raccotate con grande disonestà carica di livore in particolare dall’Unità, le potete trovare qui sotto.
Alessandro Padula è ancora in carcere sottoposto a regime di semilibertà. Dal suo arresto e dalle torture sono passati 29 anni e due mesi.
Assente l’imputato Padula, rinviato il processo Moro
L’Unità venerdì 19 novembre 1982
ROMA — È durata tre minuti l’udienza di Ieri del processo Moro. La Corte è entrata e il presidente Santiapichi ha annunciato che nessuno poteva prendere la parola mancando un imputato che invece aveva diritto ad assistere al processo: il br in questione è Sandro Padula, arrestato nei giorni scorsi vicino Roma e accusato di almeno 7 tra I più efferati delitti delle Brigate rosse. La procedura prevede infatti che se un Imputato appena arrestato non fa pervenire l’esplicita rinuncia ad essere presente, il processo non può andare avanti. E infatti il dibattimento è stato aggiornato a lunedì prossimo. La comunicazione del presidente ha dato il via a una serie di proteste e di pesanti minacce dei brigatisti in gabbia. «Lo stanno torturando – hanno gridato i br – avete chiesto perché Padula non è venuto?». Poi una minaccia diretta al presidente della Corte da parte di Pancelli: «Lei si sta rendendo complice delle torture», ma il giudice Santiapichi ha replicato seccamente. «Non sono complice di nessuno, la legge prevede che non si può fare udienza mancando un imputato». Poi sono arrivate anche le minacce ai giornalisti. Lunedì si dovrebbe quindi riprendere con le audizioni dei collaboratori di Moro Rana e Freato, rinviati da alcune udienze per la discussione sulle richieste (tutte respinte) dì alcune parti civili per l’approfondimento in aula di alcuni scottanti retroscena del caso Moro. L’interrogatorio di Nicola Rana era già iniziato e il teste era stato sentito su alcune registrazioni telefoniche. Con queste deposizioni, a seguito della decisione della Corte di rimandare ogni altro approfondimento a una nuova inchiesta della Procura, il processo entra nella fase finale.
Il Br Padula si rifiuta di rispondere al giudice. Lunedì sarà presente al processo per via Fani
La Stampa Anno 116 Numero 251 – Pagina 6 – Sabato 20 Novembre 1982
DALLA REDAZIONE ROMANA ROMA – Sandro Padula, il brigatista rosso arrestato nel corso dell’ultima operazione della Digos, si è rifiutato di rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica, dichiarandosi «militante comunista». Al magistrato, che lo ha interrogato in questura, Padula ha denunciato di essere stato maltrattato dagli agenti che l’avevano arrestato. Il suo difensore, avvocato Giuseppe Mattina, ha fatto mettere a verbale le accuse formulate dall’imputato, preannunciando una denuncia, che verrà presentata probabilmente oggi alla procura della Repubblica. Il magistrato, prima di chiedergli se volesse rispondere alle domande, ha contestato a Padula le accuse di partecipazione a banda armata e di violazione della legge sulle armi. Al momento dell’arresto gli è stata infatti, sequestrata una pistola. A conclusione dell’interrogatorio, Padula avrebbe mostrato al magistrato, a sostegno della sua denuncia, diversi ematomi sul corpo e sugli arti. Ha inoltre sostenuto di essere stato portato in un luogo di cui non sa indicare l’ubicazione e, una volta bendato, di essere stato steso supino su di un tavolo, legato, e costretto a bere acqua e sale. Padula sostiene anche di aver ricevuto pugni sulla testa e sulle orecchie, e di essere stato trattenuto nella casa in cui venne arrestato per un’intera giornata, ammanettato e bendato. Padula ha poi dichiarato al magistrato che, dopo le percosse, ha ricevuto qualche cura dagli agenti che l’avevano in consegna prima di essere trasferito, nelle celle di sicurezza della questura. L’imputato ha quindi sostenuto che, in cambio di un’ampia confessione e dei nomi di suoi compagni di clandestinità, gli è stato anche offerto un passaporto per espatriare e somme di danaro.
Lunedì, Padula sarà nell’aula del Foro Italico dove si celebra il processo per l’uccisione di Aldo Moro
Processo Moro: Padula dice di essere stato «torturato». I brigatisti lanciano accuse alla DIGOS e lasciano l’aula
L’Unità, lunedì 23 novembre 1982
ROMA — Quasi tutta a porte chiuse la sessantacinquesi-ma udienza del processo Moro. Fuori il pubblico, i giornalisti, i fotografi, i cineoperatori, tutti, insomma, tranne gli «addetti ai lavori» muniti di toga: la corte, il pubblico ministero e gli avvocati. Non perché si dovesse parlare di chissà quali segreti (un processo serve proprio per verificare ogni cosa alla luce del sole) ma semplicemente per poter ascoltare in aula le registrazioni delle telefonate intercettate durante Il rapimento, senza violare la «privacy» di nessuno. L’ascolto di queste intercettazioni ha fatto da base per le domande rivolte a Nicola Rana e a Sereno Freato, che furono – assieme a Corrado Guerzoni – I più stretti collaboratori del presidente democristiano. Freato, ascoltato In serata« ha tra l’altro ricostruito la storia di un incontro tra il sottosegretario agli interni Lettieri e l’avvocato svizzero Payot, il quale aveva promesso, facendosi pagare cinque milioni, un Interessamento risolutore, mediante i suoi supposti agganci con I terroristi tedeschi della RAF. Ma la cosa si sarebbe rivelata un volgare «bidone».
Alle deposizioni dei due testimoni non erano presenti neppure gli imputati, che pure ne avrebbero avuto facoltà: nella tarda mattinata hanno abbandonato le gabbie in segno di protesta, dopo che era scoppiato In aula un nuovo «caso», legato al nome di Alessandro Padula, il brigatista accusato di otto omicidi arrestato dalla polizia nove giorni fa a Roma e comparso ieri per la prima volta al processo. Padula ha dichiarato di essere stato «torturato» dagli agenti della DIGOS ed ha inoltre accusato la polizia di avergli impedito di partecipare alle tre udienze della scorsa settimana (com’era suo diritto) attraverso un «falso». La corte ha passato la denuncia di Padula al pubblico ministero, affinché la procura romana possa vagliare le accuse alla DIGOS con una regolare inchiesta.
Il «caso Padula» non è stato aperto dall’interessato ma dal brigatista Prospero Gallinari, imputato di essere stato il boia di Aldo Moro. Appena la corte si é seduta, in apertura d’udienza. Gallinari si è fatto passare il microfono ed ha affermato che Padula é stato tenuto lontano dall’aula del processo per otto giorni ed è stato lasciato nelle mani dei «torturatori di Stato». Il portavoce dell’ala «militarista» delle Br è stato interrotto dal presidente Santiapichi, ma a questo punto ha incalzato lo stesso Padula, ribadendo le stesse accuse alla polizia e aggiungendo una sequela di slogan brigatisti. L’imputato ha mostrato al giornalisti un livido al polso destro ed ha sostenuto di essere stato appeso per le braccia e di aver ricevuto «il trattamento acqua e sale».
Il legale di Padula, l’avvocato Attillo Baccioli, del foro di Grosseto, ha eccepito la nullità delle ultime tre udienze del processo celebrate in assenza dell’imputato e dopo il suo arresto. Tutti gli altri legali si sono opposti, il Pm pure, e la corte – dopo mezz’ora di camera di consiglio – ha respinto l’eccezione di nullità passando, come si è detto, il verbale dell’udienza al rappresentante dell’accusa, per l’apertura di un’inchiesta da parte della procura. il presidente Santiapichi ha inoltre spiegato l’assenza dell’imputato la settimana scorsa, dichiarando che la DIGOS aveva comunicato di aver Identificato il brigatista per Alessandro Padula soltanto il 17 novembre (aveva in tasca documenti falsi). L’interessato ha smentito, accusando di «falso» la polizia, e anche su questo indagherà la procura.
GLI ALTRI LINK SULLA TORTURA IN ITALIA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
La strage di Bologna del 1980 e l’infondatezza della pista palestinese
[leggi anche: Pifano smentisce Raisi]
Condivido con piacere questo pezzo di Sandro Padula, ex militante delle Brigate Rosse e attualmente in regime di semilibertà.
Sono parole doverose le sue, sia per la gravità e l’infondatezza di questa nuova delirante tesi accusatoria sulla strage di Bologna,
sia come risposta all’articolo di Andrea Colombo uscito il 2 settembre su “Gli Altri”, settimanale diretto da Piero Sansonetti: un articolo vergognoso, al quale non si può non dare una risposta.
La strage di Bologna del 1980 e l’infondatezza della pista palestinese.
di Sandro Padula
Verso la metà di agosto, quando si è saputo che due cittadini tedeschi, Thomas Kram e Christa Frohlich, erano stati iscritti sul registro degli indagati per la strage di Bologna del 1980, alcuni vecchi depistatori si sono ubriacati a suon di champagne e, fra un bicchiere e l’altro, non hanno potuto far altro che scambiare lucciole per lanterne.
Dopo un lungo periodo di raccolta di informazioni sui due tedeschi in relazione alla pista palestinese,la Procuradi Bologna doveva iscriverli nel registro degli indagati come condizione preliminare per poter decidere, cosa che avverrà in futuro, se riscrivere o meno la vicenda del più grave crimine politico compiuto durantela Prima Repubblica.
Per questo motivo, a differenza di quanto ritiene Andrea Colombo sul settimanale “Gli Altri” del 2 settembre, non è affatto vero che “l’indagine su Thomas Kram e Christa Frohlich” renderebbe “più fragile la sentenza contro i Nar”. Se furono deboli le prove d’accusa contro i neofascisti dei Nar (e indiscutibili, preziosissime e fondamentali le prove contro i ben più pericolosi e criminali depistatori di Stato interni al Sismi), quelle contro i due tedeschi sono del tutto inesistenti.
L’iscrizione di questi ultimi sul registro degli indagati non significa di per sé chela Procuradi Bologna possieda qualcosa in più rispetto alle ipotesi fatte in questi anni sulla pista palestinese e di “sufficiente per avviare ufficialmente l’indagine”. Lo stesso Andrea Colombo sa benissimo che la pista palestinese “non è solida come hanno cercato di spacciarla i commissari di centrodestra della Mitrokhin”. Auspica, di conseguenza, che le indagini abbiano “qualcosina in più”, ad esempio a proposito di un incontro che sarebbe avvenuto nell’ottobre 1980, aBudapest, fra Carlos e i due tedeschi, ma così facendo si rivela più maldestro di quei commissari. Quella eventuale riunione non rende affatto “più corposa” la pista palestinese rispetto ad una strage di Bologna avvenuta …. due mesi prima!
Colombo non è nuovo a queste confusioni sui tempi.
Alcuni anni fa scrisse un libro in cui ipotizzava che la strage del 2 agosto 1980 sarebbe stata organizzata per far uscire subito di galera il palestinese Saleh, arrestato a Ortona nel 1979 mentre stava trasportando un missile. Colombo pensava che Saleh fosse uscito di prigione poco tempo dopo l’eccidio. Adesso, sapendo che quella sua ipotesi era del tutto falsa, cambia versione. Secondo il suo attuale approccio, la strage del 2 agosto 1980 sarebbe stata organizzata da un gruppo collegato al Fplp diretto dal dottor George Habbash e avallata da quest’ultimo allo scopo di vendicare l’arresto di Saleh. Ma pure questo movente non regge.
Il piduista e faccendiere del Sismi Francesco Pazienza, condannato con sentenza definita per depistaggi sulla strage di Bologna, in una intervista pubblicata sul quotidianoLa Repubblicadel 30 gennaio 2009 dichiarò che durante la campagna presidenziale statunitense del 1980 aveva contribuito alla vittoria di Reagan (insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981) perché diede ai reaganiani l’informazione secondo cui il fratello del presidente in carica Jimmy Carter aveva dei buoni rapporti con George Habbash.
In altre parole, traducendo il significato implicito delle parole di Pazienza, nell’agosto del 1980 George Habbash non era per nulla interessato a far compiere o ad avallare degli attentati in Italia perché, oltre a ai tradizionali rapporti diplomatici con il nostro paese, aveva delle buone relazioni tattiche con gli Usa di Carter.
Su questo punto non insiste neppure il deputato di Fli Enzo Raisi, cioè l’ex commissario di centrodestra della Mitrokhin che alcuni anni or sono depositò nella Procura di Bologna i documenti che stanno all’origine dell’attuale iscrizione dei due tedeschi sul registro degli indagati.
Raisi ritiene che per dimostrare la validità della pista palestinese bisognerebbe puntare solo ed esclusivamente sull’ipotesi dello “scoppio accidentale”: “loro stavano trasportando l’esplosivo, come facevano sempre, che scoppiò per caso” (intervista a Raisi del 20 agosto pubblicata su “Il Resto del Carlino”). L’unica spiegazione rimasta alla pista palestinese sarebbe quindi quella relativa allo scoppio accidentale. Questa ipotesi, d’altra parte, risulta antitetica rispetto ad ogni minima valutazione di carattere tecnico-scientifico. Vediamo perché.
La strage di Bologna del 2 agosto 1980 fu causata dalla deflagrazione di una valigia piena di circa20 chilogrammidi “Compound B”, un esplosivo di fabbricazione militare, per altro in dotazione ad istituzioni comela NATO, che non scoppia da solo o per un “incidente”.
Il “Compound B” ha bisogno di un innesco per poter scoppiare, cioè di un qualche tipo di marchingegno meccanico o elettronico per la detonazione, e di qualcuno che lo abbia inserito preventivamente. Infine, tanto per dimostrare la totale infondatezza della pista palestinese rispetto alla strage di Bologna, è necessario ricordare che nella storia della Prima Repubblica l’uso criminale del “Compound B” ha sempre avuto una precisa matrice politica reazionaria.
Come si è saputo alla fine del 1995 grazie ad una perizia ordinata dalla Procura di Pavia, il “Compound B” fu l’esplosivo che, collegato in precedenza ad un congegno meccanico da alcuni esperti dei servizi segreti militari italiani, il 27 ottobre 1962 uccise il dirigente dell’Eni Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mc Hale.
In sintesi: l’arma, il movente e la matrice politica della strage di Bologna non hanno letteralmente nulla a che fare con i palestinesi.
Ultima settimana dello sciopero della fame contro l’ergastolo
Giustizia: uno sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo
di Sandro Padula Liberazione, 7 marzo 2009
Il 16 marzo sciopero della fame in tutta Italia, di ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari. L’ergastolo, residuo monarchico delle pene detentive italiane, fa discutere e lottare dentro e fuori le mura delle carceri della penisola. Continua infatti lo sciopero della fame degli ergastolani iniziato il primo dicembre, a staffetta e per gruppi di regioni, e proseguono le iniziative dei solidali, all’esterno delle carceri, nell’ambito della campagna per l’abolizione del “fine pena mai”. Il bollettino “Mai dire mai” del mese di febbraio, pubblicato dall’Associazione Liberarsi, e numerosi siti Internet fanno capire che la lotta è proseguita a gennaio e febbraio, trovando anche la solidarietà dentro e fuori dalle mura delle galere in Germania, Spagna, Grecia, Svizzera, Francia e Cile. In diverse città italiane si sono svolti presidi nelle vicinanze delle carceri: il 14 gennaio a Montorio (Verona), il 18 gennaio a Biella; il 24 gennaio ad Alessandria; il 29 gennaio nel borgo S. Nicola di Lecce; il 31 gennaio in via Speziale a Taranto, al quale è seguito un concerto con tre gruppi musicali (SFC, Sick Boy e No Thanx); il 14 febbraio vicino al carcere Dozza di Bologna; il 15 febbraio in via Burla 59 a Parma. Si sono altresì avuti diversi incontri e dibatti: ad esempio, il 17 gennaio presso il laboratorio sociale “La città di sotto” di Biella e il 27 gennaio nella sede di un circolo anarchico di Lecce, dove è stato proiettato il film Filaki – Una rivolta nelle carceri greche, aprile 2007. Alcuni consiglieri regionali hanno espresso la propria solidarietà alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo anche nei mesi di gennaio e febbraio: a metà gennaio i consiglieri regionali del Frilui Venezia Giulia Stefano Pustetto e Roberto Antonaz hanno fatto visita al carcere di Tolmezzo, accompagnati da Christian De Vito e da Giuliano Capecchi dell’associazione Liberarsi, per incontrare i detenuti delle sezioni a 41 bis e i detenuti ergastolani della sezione A.S. (Alta Sorveglianza); il 3 febbraio inoltre il Consigliere regionale del Molise Michelangelo Bonomolo, accompagnato da Giuliano Capecchi, ha incontrato i detenuti ergastolani del carcere di Larino. I grandi organi di informazione, complici come sono della produzione dell’”emergenza criminalità” e della caccia al Girolimoni di turno, hanno continuato per lo più a disinteressarsi del fatto che da oltre 60 anni, come dimostra l’esistenza dell’ergastolo, l’articolo 27 della Costituzione repubblicana non è applicato in maniera effettiva. Solo da parte di alcuni giornali locali si è avuto il coraggio di fornire qualche indiretto riferimento alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo. Domenica 25 gennaio, ad esempio, il quotidiano “Gazzetta del Sud” ha pubblicato un articolo, riguardante il carcere calabrese di Rossano, che terminava in questo modo: “in vista della protesta di carattere nazionale degli ergastolani che partirà domani e che consisterà proprio nel rifiuto del vitto… tutto il cibo cotto e pronto per la consumazione, anziché essere buttato nella spazzatura, sarà consegnato gratuitamente alla mensa della Caritas”. Qui ovviamente riportiamo fatti che ognuno è libero di considerare come meglio ritiene. Il dramma è che spesso i fatti connessi alla lotta contro l’ergastolo neanche si conoscono. Per questo non solo è utile riportarli nudi e crudi ma anche comunicare subito le scadenze previste per l’immediato futuro. Prima di tutto bisogna ricordare che, dopo il turno della Sicilia (2-8 marzo), lo sciopero della fame riguarderà gli ergastolani e i detenuti del Lazio (9-15 marzo). Il 15 marzo, contemporaneamente all’ultimo giorno di lotta nel Lazio, alle ore 11 avrà inizio un incontro nazionale con all’ordine del giorno due punti: un primo bilancio generale dello sciopero della fame iniziato il 1° dicembre 2008 e le iniziative future per giungere all’abolizione dell’ergastolo e all’attuazione dell’art. 27 della Costituzione. L’Associazione Liberarsi ha chiesto al csoa Forte Prenestino (via Federico Delpino – Centocelle – Roma tel. 0621807855 mail: forte@ecn.org) di poter organizzare al suo interno questo momento di scambio e discussione anche perché già da tempo segue le tematiche del carcere. È prevista la chiusura alle ore 18.00. Last but not least, lunedì 16 marzo ci sarà, a livello nazionale, lo sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo e per l’attuazione dell’art. 27 della Costituzione italiana. Si mobiliteranno ergastolani, detenuti, parenti, amici, volontari e persone che ritengono giusta la lotta per l’abolizione del “fine pena mai”!
QUESTA SERA AL VOLTURNO OCCUPATO DALLE ORE 18.30
INIZIATIVA SULLA DETENZIONE FEMMINILE, CON PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ANGELA DAVIS,
CENA CON LE RICETTE EVASIVE TRATTE DI SCARCERANDA.
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