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Una lettera da Rebibbia femminile
Carissime e carissimi,
Vi informo che da oggi, lunedì 23 fino a mercoledì 25 maggio, la sezione di alta sicurezza A1 e A2, inizierà uno sciopero del carrello e della spesa in solidarietà alle altre carceri italiane che già lo hanno iniziato da un po’ per denunciare il sovraffollamento e la situazione interna a cui le carceri devono far fronte ogni giorno.
Questa richiesta è venuta dal partito politico dei radicali, che, come ogni partito politico, non ha di certo reale interesse a mettere in evidenza il problema del carcere in sé, come struttura e istituzione, ma cerca come tutti di ammortizzare la situazione esplosiva interna, frutto di un sistema sociale malato. Sapete già il mio punto di vista riguardo questa mobilitazione… di certo non credo che uno sciopero, partito poi da un gruppo di politicanti di merda come quello dei radicali, possa risolvere i problemi interni al carcere (essendo la struttura e ciò che la mantiene il problema), semmai ci vorrebbe, a mio parere, un tipo di lotta differente, più incisivo e dannoso alla struttura, una lotta, poi, che dovrebbe nascere dai/dalle detenuti/e stessi/e.
Comunque la sezione ha voluto dare il suo contributo, in maniera simbolica con questi 3 giorni, ad un metodo che ancora lega varie carceri italiane, che fa da filo conduttore tra reclusi e recluse. In ogni caso, sappiate che le detenute della sezione comuni hanno apprezzato assai la vostra presenza sotto questo fottutissimo penitenziario! Quelle urla di supporto morale (mi è giunta voce) hanno scaldato il cuore e gli animi, rafforzando la mobilitazione partita oggi.Peccato invece che in questo bunker di cemento in cui stiamo noi della massima sicurezza non sia arrivato il suono della vostra voce! Dio cane, mannaggia a loro! Poco o niente… a me ieri mi è parso di sentire qualche cosa subito sfumato nell’idea fosse la tv di qualche ragazza… vabbuò fa piacerissimo lo stesso sapere che ci siete stati e sopratutto che si continui quotidianamente con la lotta esterna.
Queste sezioni sono veramente la riproduzione del modello attuale di controllo che c’è fuori. Pur essendoci lasciato “campo libero” per via delle celle aperte dalle 8 alle 20, con spazi come la saletta per la socialità, la biblioteca (ben fornita grazie alla gestione di una compagna), la palestra (che comunque non ha strumenti funzionanti) e l’aria decorata con giardino e alberi, vige un elevatissimo studio e controllo di ogni nostro movimento! Ci stanno telecamere ad ogni angolo dei bracci, in ogni sala almeno 2, solo all’aria se ne contano 7! Ogni cazzo di nostra abitudine, spostamento è monitorato da questo occhio elettronico, non c’è un minimo angolo d’intimità: o sei guardata, o sei ascoltata (nelle celle, almeno quelle delle A2, sicuro ci sono i microfoni)… certo il carcere è questo, sei nella tana del lupo.
D’altronde il motivo è chiaro, come fuori, anche dentro si cerca e si vuole prevenire ogni forma di ribellione e/o “disagio interno”… diciamo che questo è proprio l’esempio più vicino e lampante (rispetto le detenzioni passate) del sistema sociale che c’è fuori attualmente. Ognuna diviene controllore di se stessa, sapendo di essere controllata ad ogni minima mossa, il tutto poi rafforzato dal fatto che ti concedono certe “comodità” come contentino per zittire ed evitare che possa nascere anche un barlume di ribellione interna. Il capo posto, dalla sua minchia di saletta monitor osserva in tempo reale ogni spostamento e abitudine d’ognuna. Per questo le sbirre in sezione non si vedono quasi mai, la loro presenza serve poco o niente (anzi con il fatto che non le vedi, aiuta ad evitare possibili conflitti con “il nemico più vicino”). Inizialmente vedendo le celle aperte mi sentivo più “libera”, (non mi era mai capitato!), ma dopo soli due giorni ti rendi conto del motivo di tutto questo.
Il gioco non vale la candela. I pochi metri in cui ti concedono di circolare stufano subito! Questo è un carcere dentro il carcere. Per chi conosce i penitenziari sa bene che le sale in comune: quella dell’avvocato, quella dei colloqui, matricola e via discorrendo, per raggiungerle se tu detenuto/a a doverti spostare; qua invece no, avvocati, colloqui, infermeria sono tutte all’interno di queste due piccole sezioni (in tutto le celle sono 8 contando pure le nostre 3 dell’A2) da questo spazio non ti muovi! Pure la matricola se deve notificare qualche cosa viene da te e non tu al suo cazzo di ufficio! Insomma veramente un mini carcere dentro al carcere.
La sezione spesso viene mostrata a consiglieri regionali e minchioni vari, presentata da sbirri e giornali come esempio di inserimento e integrazione del detenuto; come sezione modello per il fatto che dimostra come il carcere serva e funzioni, appunto, a reinserire… perchè in effetti è quello che fa, farti tornare un buon ingranaggio (grazie proprio all’accettazione conscia o inconscia della routine carceraria). Vabbè ragà quello che volevo fare era descrivere la sezione della massima qua a Rebibbia date che io, come molte altre persone fuori, ne sapeva ben poco.
Per il momento vi saluto.
Vi abbraccio con il cuore sempre per la completa libertà!
Saluto tutti/e i/le miei/e compagni/e, sia quelli/e con obblighi imposti e indagati/e a piede libero, sia quelli/e trasferiti/e ultimamente in altre carceri del nord. Al di là della distanza, quello che ci lega è molto più forte!
Abbraccio i compagni e la compagna detenuti in Svizzera e chiunque fuori continua la lotta contro uno stato di mega controllo sociale, che è appunto lo stato capitalista.
Forte nell’animo e nel core!
Con i detenuti e le detenute in lotta!
Madda,
Rebibbia 23 maggio 2011
A Luigi Fallico “è scoppiato il cuore”
Mammagialla uccide ancora: a Fallico è “scoppiato” il cuore
di Paolo Persichetti, Liberazione 25 Maggio 2011
Indagini per omicidio colposo«Aveva il cuore spaccato». Circostanza compatibile con un infarto e una emorragia in corso da alcuni giorni, secondo quanto affermato all’avvocato, Caterina Calia, dal consulente nominato dalla famiglia.
E’ morto così Luigi Fallico, “Gigi il corniciaio”, personaggio conosciuto nel popolare quartiere romano di Casal Bruciato, dove aveva la sua bottega che secondo la digos sarebbe stata la base operativa di un progetto di rilancio della sigla Brigate rosse. Una proiezione investigativa che l’aveva portato in carcere nel giugno di due anni fa, insieme ad altre quattro persone. Sono stati proprio loro, vicini di cella, ad accorgersi lunedì mattina che qualcosa non andava ed a prestare i primi soccorsi nel repartino As 2, ricavato al quarto piano del reparto D2 del carcere Mammagialla di Viterbo. Il medico è arrivato solo dopo un quarto d’ora per constatare la morte avvenuta da almeno 3-4 ore.
Prima di coricarsi aveva detto ai suoi compagni di non sentirsi bene, «mi sembra di avere la febbre». Per questo aveva anche chiamato l’infermiere. Il 19 maggio scorso, durante l’udienza del processo nell’aula bunker di Rebibbia, aveva raccontato al suo legale del grave malore subito il giorno precedente. Un «dolore fortissimo» che gli aveva lacerato il petto. In infermeria gli avevano riscontrato un picco di pressione arteriosa a 190, ma invece di portarlo in ospedale per accertamenti urgenti (all’ospedale Belcolle esiste un reparto per detenuti) l’hanno rimandato in cella con un diuretico e una tachipirina. Accertamenti più approfonditi erano stati fissati per martedì (ieri, ndr). Indifferente, disattenta fino allo spregio della vita di chi è detenuto: questa è la burocrazia carceraria, con in più il contesto pesante che da sempre segna la vita carceraria in una struttura come quella del Mammagialla e le restrizioni aggiuntive che gravano sui regimi di detenzione differenziata speciale As 2 (ex Eiv), come quello previsto per i detenuti politici. La salute di Fallico era precaria, negli ultimi tempi aveva subito un intervento alle corde vocali e soffriva dei postumi di una violenta otite, oltre all’ipertensione. La procura ha avviato un procedimento per omicidio colposo contro ignoti. Entro 60 giorni il perito dovrà depositare i risultati dell’esame autoptico. Accertamenti specifici sono stati disposti sul cuore. L’inchiesta che l’aveva portato agli arresti sembrava una farsa, il carcere l’ha trasformata in tragedia.
Qui il comunicato dei suoi coimputati: LEGGI
Ancora equazioni investigative. Arrestati a Milano Morlacchi e Virgilio, per banda armata
In carcere a Milano Manolo Morlacchi, figlio di Pierino, fondatore delle Br. Accusato dalla Digos di banda armata
di Paolo Persichetti, Liberazione 19 Gennaio 2010
Smantellata nel corso del 2003 la fragile struttura che in occasione degli attentati mortali contro Massimo D’Antona e Marco Biagi aveva riesumato la sigla delle Brigate rosse-partito comunista combattente, gli apparati investigativi, in particolare quelli della Digos romana guidata da Lamberto Giannini, hanno da allora deciso di portare avanti una strategia investigativa improntata essenzialmente all’azione preventiva contro gli ambienti ritenuti, a torto o a ragione, contigui alle aree politiche antisistema.
Per gli uomini dell’antiterrorismo le azioni del 1999 e del 2001 sono la conseguenza dell’affrettata convinzione che il fenomeno lotta armata avesse trovato termine alla fin degli anni 80, con il conseguente abbandono delle indagini sui superstiti. Gli arresti di Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, realizzati ieri mattina a Milano, sono la diretta conseguenza di questa filosofia. Una concezione del lavoro d’indagine che si avvicina molto di più alle tecniche di rastrellamento che a quelle dell’inchiesta mirata. Impostazione che ormai non trova più oppositori davanti a se. La cultura garantista si è liquefatta e l’idea dell’arresto preventivo, cioè prima che un fatto-reato sia stato effettivamente commesso, in questo caso la costituzione di una banda armata, la realizzazione di un reticolo associativo illegale e clandestino, è una circostanza che non contesta più nessuno.
Lunghe custodie cautelari in regime di carcere duro anticipano condanne che forse nemmeno verrano. Giustizia dissuasiva.
Gli arresti di ieri sono lo sviluppo dell’operazione realizzata nel giugno scorso e che aveva portato alla perquisizione dell’abitazione dello stesso Manolo, del fratello Ernesto e di un cugino. In quel caso erano state arrestate cinque persone, ancora oggi detenute nel carcere di Catanzaro dove sono stati raggruppati in regime di elevata vigilanza (circuito As 2) tutti i prigionieri politici. In possesso di alcuni degli arrestati venne trovata della documentazione ideologica che teorizzava la ripresa della lotta armata e alcune armi arrugginite buone solo per la rottamazione.
A Morlacchi e Virgilio, invece, è stato contestato il rinvenimento di un manuale d’istruzioni per criptare documenti informatici e non lasciarsi tracciare in rete. Materiale in possesso di hacker e militanti per i diritti civili e la libertà di espressione di mezzo occidente. E una serie d’incontri definiti dalla Digos «strategici», cioè con cadenza fissa. Modalità che gli inquirenti ritengono “sospette”, insieme ad alcune telefonate con Luigi Fallico, il cinquantasettenne corniciaio romano attorno al quale ruota tutta l’inchiesta. Si tratta, in effetti, di un’equazione investigativa. Secondo l’accusa Fallico avrebbe tentato di costituire una formazione denominata “per il comunismo Brigate Rosse”, la stessa che rivendicò un piccolo attentato contro una caserma dei Parà di Livorno nel 2006. Incontrandolo, Virgilio e Morlacchi, per una sorta di proprietà transitiva sarebbero divenuti essi stessi membri della fantomatica organizzazione che nei documenti ideologici ritrovati veniva solo ipotizzata. Poco, anzi niente, ma quanto basta per qualche annetto di custodia cautelare.
La vera colpa di Morlacchi sembra un’altra: quella di avere un nome che pesa. Suo padre Pierino fu, infatti, uno dei fondatori delle Brigate rosse e Manolo recentemente si è laureato con una tesi sulle Br ed ha pubblicato un bel libro sulla storia del padre, La fuga in avanti. «Non è giusto essere svenduti come terroristi soltanto per il cognome che portiamo», aveva detto dopo la perquisizione di giugno. L’arresto di ieri dimostra il contrario. I fantasmi della lotta armata sembrano destinati ad avere lunga vita. Chi li teme non ha capito che il problema sta nella mancata chiusura politica degli anni 70. Così un’altra storia non è mai cominciata.
Morire in cella, a 79 anni. Un saluto a Khaled Husseini, combattente palestinese
Pensare un uomo di 79 anni chiuso in una cella fino al giorno della sua morte è già cosa difficile. Ancora più difficile e lacerante è pensarlo in un reparto ad Elevato Indice di Vigilanza, in un braccetto speciale di un carcere meridionale. Khaled Husseini, palestinese di 79 anni è morto nel carcere di Benevento lunedì scorso. Il medico legale ha parlato di un probabile infarto ma soltanto l’autopsia fornirà le cause esatte del decesso, forse legate alla malattia che il carcere gli aveva sempre impedito di curare in modo adeguato.
Malgrado fosse stato condannato per un fatto che poco aveva a che fare con reati di matrice islamica, Khaled Husseini era rinchiuso in un reparto appositamente ideato per detenuti del genere. Singolare paradosso, discordanza di tempi per un militante laico e rivoluzionario impegnato nel tortuoso percorso che segna da molti decenni la lotta per la liberazione della terra e del popolo di Palestina.
Era stato condannato per il dirottamento della nave da crociera Achille Lauro, realizzato nel 1985 da un commando di quattro palestinesi appartenenti al Fronte di Liberazione della Palestina. In realtà l’azione era stata concepita in modo diverso: l’obiettivo non era il sequestro dei passeggeri ma lo sbarco nel porto di Ishdud, dove il commando doveva catturare dei soldati israeliani e chiedere in cambio la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi. Ma a largo delle coste egiziane qualcosa andò storto e il commando, vistosi scoperto, si impadronì della nave. Fu un gesto improvvisato durante il quale un passeggero, Leon Klinghoffer, venne ucciso e gettato in mare. La vicenda si trasformò nel più grosso incidente diplomatico tra Italia e Usa. Ottenuto un salvacondotto da parte italiana, la nave fu lasciata libera e i quattro palestinesi fatti salire a bordo di un aereo egiziano diretto verso Tunisi, dove l’OLP aveva il suo quartier generale in esilio. Ma gli Stati uniti intercettarono il velivolo costringendolo ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Il capo del governo Craxi rifiutò di consegnare il commando agli americani. La polizia italiana prese in consegna i palestinesi facendo valere la sovranità nazionale. Khaled Husseini non era tra loro. Dopo una prima condanna a 15 anni, in appello verrà condannato all’ergastolo in contumacia, nel 1989, sulla base delle parole di un appartenente al gruppo che scelse di iniziare a collaborare con la magistratura italiana, designandolo come il responsabile operativo del commando, anche se Hussein non aveva ideato il sequestro e l’uccisione dell’ostaggio. Aveva accompagnato il gruppo a bordo dell’Achille Lauro nel porto di Genova, per scendere durante lo scalo ad Alessandria, poco prima del dirottamento.
Con lui prenderà l’ergastolo, sempre in contumacia, anche Abu al-Abbas, responsabile politico dell’organizzazione (catturato dagli americani nel 2003 in Iraq, subito dopo l´inizio dell’occupazione militare, per morire dopo appena 2 mesi in circostanze più che sospette nel carcere di Abu Grahib).
Per Khaled Husseini il calvario nelle carceri italiane inizia invece nel 1996, quando l’Italia riesce ad ottenere l’estradizione dalla Grecia, dove era stato arrestato 5 anni prima. Khaled ha scontato la sua pena fino alla morte nel peggiore dei modi, in condizioni estremamente pesanti e in un isolamento quasi totale: gli è stato sempre negato il diritto ad un tutore e per anni è rimasto privo di colloqui.
Il trasferimento nel braccetto speciale di Benevento è stato fatale per le sue condizioni di salute. In quella sezione, oltre alle bocche di lupo che non fanno filtrare la luce e non permettono di vedere all’esterno, c’è anche un pannello di plexiglas a dividere la cella dal resto del mondo mentre nel cortile del passeggio una volta metallica sostituisce il cielo. Il trattamento riservato ai detenuti è rigido e la burocrazia per accedere a cure e permessi, lenta e ostacolata. Pochi giorni prima di morire aveva chiesto un permesso per iniziare le cure all’esterno, ma gli era stato negato.
Khaled se n’è andato senza nemmeno il diritto di vedere il colore del cielo nell’ultimo giorno. È morto con la sua terra nel cuore, la terra che aveva sempre infinitamente amato e che aveva sognato di liberare. Ma non è un mondo per sognatori, questo qui.
di VALENTINA PERNICIARO, L’ALTRO -24 giugno 2009-
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