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A Gianfranco Faina, sangue nostro
-Gianfranco Faina nasce a Genova il 6 Agosto 1935
-milita nel PCI dal 1953 al 1961
-dal 1961 lavora come assistente volontario nell’Istituto di Storia moderna all’università di Genova dove nel 1967 diventa assistente ordinario
-dal 1970 lavora come professore incaricato di “Storia dei Partiti Politici”
-ha due figli
-milita in Azione Rivoluzionaria dal 1977
– viene arrestato a Bologna il 10 giugno 1979
-in carcere i medici gli riscontrano un “carcinoma polmonare con metastasi osse diffusa” e viene ricoverato a Milano
-l’8 dicembre 1980 gli viene concessa la libertà provvisoria
-muore nella sua casa l’11 febbraio 1981
“Il compagno Gianfranco Faina è morto.
Lo hanno accompagnato fino in fondo la violenza e la disumanità dei suoi nemici, dei nostri nemici: le forze dello Stato e di coloro che aspirano a farsi Stato.
Ma noi compagni che abbiamo condiviso con lui lotte politiche e passioni rivoluzionarie riconosciamo la sua vita, la sua storia come patrimonio delle vittorie e degli errori della lotta rivoluzionaria per la libertà”
11 febbraio 1981:
muore per una grave forma tumorale nella abitazione di Pontremoli dove si trovava in libertà provvisoria da 2 mesi, il Prof. Gianfranco Faina, la cui liberazione era stata richiesta nel corso della rivolta del carcere di Trani di due mesi prima. Professore di lettere alla università di Genova, era stato lui a presentare al collega Prof. Enrico Fenzi il dirigente della colonna genovese delle BR Micaletto ed era stato tra i fondatori di Azione Rivoluzionaria, definita da Mario Moretti «organizzazione vicina a posizioni anarchiche e contraria a tutte le ideologie», e per la quale verranno inquisite 86 persone. La storia di AR inizia nel 1977 quando alcuni militanti dell’area anarco-libertaria, prendendo atto dei “caratteri di forza” espressi in particolare dal Movimento del ’77 e facendo riferimento alle elaborazioni culturali del situazionismo e della Rote Armee Fraktion (RAF), danno vita all’organizzazione armata Azione Rivoluzionaria. Le tesi politiche generali di questo raggruppamento sono esposte in “Primo documento teorico”, gennaio 1978.
L’impostazione organizzativa fondante di Azione Rivoluzionaria è quella dei “gruppi di affinità”: “dove i legami tradizionali sono rimpiazzati da rapporti profondamente simpatetici, contraddistinti da un massimo di intimità, conoscenza, fiducia reciproca fra i loro membri”. In tale impostazione s’inquadra anche la costituzione di “gruppi d’affinità femministi”, con una propria produzione teorica ed una propria autonomia operativa. Uno dei primi interventi di Azione Rivoluzionaria è il ferimento del medico del carcere di Pisa, Alberto Mammoli (Pisa 30-3-77), ritenuto colpevole della morte a Pisa dell’anarchico Franco Serantini (Pisa 5-5-72) a seguito delle percosse subite in Questura al momento dell’arresto e non curate dai dirigenti sanitari del carcere.
Tra marzo e settembre del 1977 Azione Rivoluzionaria sviluppa la sua presenza in Lombardia, Piemonte, Toscana e Liguria. Con un ordigno esplosivo contro la sede torinese del quotidiano La Stampa (17-9-77) ed il ferimento intenzionale di Nino Ferrero, giornalista del quotidiano L’Unità (18 9-77), Azione Rivoluzionaria dà avvio ad una campagna nazionale contro “le tecniche di manipolazione finalizzate al consenso” messe in atto dai grandi media. In particolare il quotidiano La Stampa viene colpito per la gestione che ha fatto delle notizie relative alla morte, avvenuta a Torino il 4 agosto 1977, di Aldo Marin Pinones ed Attilio Di Napoli, due militanti dell’organizzazione. Questa campagna prosegue nel 1978 con l’attentato agli uffici amministrativi del Corriere della Sera (Milano 24-2-78) e alla redazione di Aosta della Gazzetta dei Popolo (Aosta 29-7-78). Il 19 ottobre 1977, a Livorno, un gruppo di Azione Rivoluzionaria tenta di sequestrare l’armatore Tito Neri. Il sequestro fallisce e i militanti vengono arrestati. Nell’aprile del 1978 AR fa la sua comparsa anche a Roma, collocando tre ordigni esplosivi contro la sede del Banco di Roma, il concessionario della Ferrari e un autosalone di via Togliatti.Nel giugno del 1978 Azione Rivoluzionaria firma, ad Aosta, un attentato contro la sede della Democrazia Cristiana. Nella rivendicazione essa chiede che venga “revocato il permesso concesso al Movimento Sociale Italiano di continuare a parlare nella piazza di Aosta” (18 e 19-6-78). Le tesi generali di AR vengono ampiamente esposte nel documento “Appunti per una discussione interna ed esterna”, redatto nell’estate del 1978. Al processo che si tiene a Livorno fra il giugno del 1979 ed il luglio del 1981 alcuni militanti di Azione Rivoluzionaria presentano un documento in cui viene ufficialmente annunciato l’autodissolvimento della loro organizzazione. Il 4 ottobre 1979, nel corso di un processo a Torino era stato ricordano in un documento il militante di AR Salvatore Cinieri, ucciso nel carcere di Torino il 27 del mese precedente da quel detenuto Fugueras che nell’ 81 presso il carcere di Cuneo aggredirà a coltellate Moretti e Fenzi.
( di Davide Steccanella)
Ancora equazioni investigative. Arrestati a Milano Morlacchi e Virgilio, per banda armata
In carcere a Milano Manolo Morlacchi, figlio di Pierino, fondatore delle Br. Accusato dalla Digos di banda armata
di Paolo Persichetti, Liberazione 19 Gennaio 2010
Smantellata nel corso del 2003 la fragile struttura che in occasione degli attentati mortali contro Massimo D’Antona e Marco Biagi aveva riesumato la sigla delle Brigate rosse-partito comunista combattente, gli apparati investigativi, in particolare quelli della Digos romana guidata da Lamberto Giannini, hanno da allora deciso di portare avanti una strategia investigativa improntata essenzialmente all’azione preventiva contro gli ambienti ritenuti, a torto o a ragione, contigui alle aree politiche antisistema.
Per gli uomini dell’antiterrorismo le azioni del 1999 e del 2001 sono la conseguenza dell’affrettata convinzione che il fenomeno lotta armata avesse trovato termine alla fin degli anni 80, con il conseguente abbandono delle indagini sui superstiti. Gli arresti di Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio, realizzati ieri mattina a Milano, sono la diretta conseguenza di questa filosofia. Una concezione del lavoro d’indagine che si avvicina molto di più alle tecniche di rastrellamento che a quelle dell’inchiesta mirata. Impostazione che ormai non trova più oppositori davanti a se. La cultura garantista si è liquefatta e l’idea dell’arresto preventivo, cioè prima che un fatto-reato sia stato effettivamente commesso, in questo caso la costituzione di una banda armata, la realizzazione di un reticolo associativo illegale e clandestino, è una circostanza che non contesta più nessuno.
Lunghe custodie cautelari in regime di carcere duro anticipano condanne che forse nemmeno verrano. Giustizia dissuasiva.
Gli arresti di ieri sono lo sviluppo dell’operazione realizzata nel giugno scorso e che aveva portato alla perquisizione dell’abitazione dello stesso Manolo, del fratello Ernesto e di un cugino. In quel caso erano state arrestate cinque persone, ancora oggi detenute nel carcere di Catanzaro dove sono stati raggruppati in regime di elevata vigilanza (circuito As 2) tutti i prigionieri politici. In possesso di alcuni degli arrestati venne trovata della documentazione ideologica che teorizzava la ripresa della lotta armata e alcune armi arrugginite buone solo per la rottamazione.
A Morlacchi e Virgilio, invece, è stato contestato il rinvenimento di un manuale d’istruzioni per criptare documenti informatici e non lasciarsi tracciare in rete. Materiale in possesso di hacker e militanti per i diritti civili e la libertà di espressione di mezzo occidente. E una serie d’incontri definiti dalla Digos «strategici», cioè con cadenza fissa. Modalità che gli inquirenti ritengono “sospette”, insieme ad alcune telefonate con Luigi Fallico, il cinquantasettenne corniciaio romano attorno al quale ruota tutta l’inchiesta. Si tratta, in effetti, di un’equazione investigativa. Secondo l’accusa Fallico avrebbe tentato di costituire una formazione denominata “per il comunismo Brigate Rosse”, la stessa che rivendicò un piccolo attentato contro una caserma dei Parà di Livorno nel 2006. Incontrandolo, Virgilio e Morlacchi, per una sorta di proprietà transitiva sarebbero divenuti essi stessi membri della fantomatica organizzazione che nei documenti ideologici ritrovati veniva solo ipotizzata. Poco, anzi niente, ma quanto basta per qualche annetto di custodia cautelare.
La vera colpa di Morlacchi sembra un’altra: quella di avere un nome che pesa. Suo padre Pierino fu, infatti, uno dei fondatori delle Brigate rosse e Manolo recentemente si è laureato con una tesi sulle Br ed ha pubblicato un bel libro sulla storia del padre, La fuga in avanti. «Non è giusto essere svenduti come terroristi soltanto per il cognome che portiamo», aveva detto dopo la perquisizione di giugno. L’arresto di ieri dimostra il contrario. I fantasmi della lotta armata sembrano destinati ad avere lunga vita. Chi li teme non ha capito che il problema sta nella mancata chiusura politica degli anni 70. Così un’altra storia non è mai cominciata.
una vecchia intervista a Franca Salerno
“Sono stata arrestata ed ero incinta, ma mi hanno picchiata”
Franca Salerno, Arrestata il 9 luglio 1975, condannata a quattro anni e mezzo per appartenenza ai Nap, Nuclei armati proletari, evasa insieme a Maria Pia Vianale dal carcere di Pozzuoli e riarrestata il primo luglio 1977 in piazza San Pietro in Vincoli a Roma…“In un conflitto a fuoco dove Antonio Lo Muscio è morto ammazzato”.
Ricordo le foto sui giornali, la tua all’ospedale… “Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte. Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia e eccitazione; erano fuori di sè perché eravamo donne. Averci prese, per loro, era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.
Al processo, a quanti anni ti hanno condannata? “A 18, per banda armata”.
Sapevi di essere incinta al momento dell’arresto? “Sì, avevo questo bambino in pancia e volevo salvaguardare la sua vita. Antonio era morto, Pia era stata portata via con l’autoambulanza ferita, io ero sul selciato e gridavo: “Sono incinta”, ma da ogni autocivetta uscivano uomini e picchiavano. Sino a quando è arrivato anche per me il momento di andare in ospedale”.
Cosa vuol dire fare un figlio in carcere? “Guarda che io il figlio l’ho fatto fuori, in carcere l’ho partorito.
Ma non mi sono sentita mamma da subito, all’inizio mi vergognavo. Quasi che il mio essere gravida fosse un tradimento alla rivoluzione”.
Ed è rimasto con te in carcere? “Sino ai tre anni andava e veniva, perché in carcere i bambini non stanno bene. E poi ho fatto molto carcere da sola, come a Nuoro, dove in sezione c’eravamo solo io e lui. Forse dalle lettere avevano capito che vivevo la maternità in modo confittuale e mi hanno messo alla prova”.
Come si chiama? “Antonio”.
Poi cosa è successo? “Compiuti i tre anni, i bambini in carcere non ci possono più stare. È stato un grosso dolore, ma esistevano i compagni e le compagne. E lui esisteva, esisteva come cosa viva, non solo come perdita. Poi ci sono stati le carceri speciali, i vetri divisori nella sala colloquio che per anni ci hanno impedito di toccarci, e tutte le altre difficoltà che “loro” mettevano in mezzo. Ma a me non fregava niente. Mio figlio esiste, mi dicevo, e anche se va via troverò un modo per costruirci qualcosa assieme, per crescerci assieme”.
Chi lo ha tenuto? “Mia madre, mia sorella, l’altra nonna”.
Lui ti ha mai chiesto perché stavi in carcere? “Si, aveva cinque anni e voleva dare risposte alla sua vita di bambino nato dietro le sbarre. Potevo spiegargli la rivoluzione? E poi non mi piace la retorica gloriosa. Così gli ho detto: la mamma ha rubato. Poi, piano piano, ho cercato di spiegare. Ma il racconto vero dei percorsi che mi avevano portato in carcere c’è stato quando sono uscita e lui aveva 16 anni”.
E dopo sedici anni di galera come si riprende a vivere fuori? “Per un anno avevo i piedi fuori e la testa da detenuta. Cercavo emozioni passate, fili, ed ero comunque e sempre sulla difensiva. Poi, un po’ alla volta, ho iniziato a misurarmi con la realtà. Col lavoro necessario, con mio figlio. Era una presenza intensa, ma io da sedici anni non ero abituata alle presenze, ad avere persone attorno, all’interesse di qualcuno su di me. Ero disabituata alla materialità degli affetti, ai corpi da toccare. Ho dovuto imparare a non vivere di continue elaborazioni del cervello, a mettere in comunicazione corpo e mente”.
E il carcere, lo hai dimenticato? “Lo sogno continuamente. E per me sognare non è una seconda vita. Per me il carcere è presente, come sono presenti i compagni e le compagne che sono ancora dentro, a scontare una pena che non ha fine. In nessun modo disposti però a barattare dignità e rispetto di se stessi in cambio di libertà. Abbiamo rincorso l’utopia di un mondo migliore e mai l’interesse personale. Non lo faremo adesso”.
È stato facile trovare lavoro? “È stato necessario. Ma tutt’altro che facile. Mi sono state fatte offerte di lavoro da qualche parlamentare in cambio di un mio intervento sul dibattito della dissociazione. Ho rifiutato e mi sono affidata alla gente del quartiere e ho trovato lavoro in un’impresa di pulizie”.
Dell’esperienza del carcere cosa rimane addosso? “Dei vizi. Dentro la borsetta metto di tutto: spazzolino, penna, fogli bianchi, insomma quello che può servire per i cambiamenti improvvisi. Le cose che una detenuta inserisce nello zaino quando c’è aria di trasferimento e sa che, quando avverrà, non le sarà concesso nemmeno il tempo di prepararsi la borsa. E quando mangio lascio sempre qualcosa nel piatto, per dopo, perché non si sa mai”.
Lascia l’amaro in bocca quest’intervista, più di quanto le parole di Franca non lo lascino già.
Perchè quel bimbo di cui si parla, Antonio, non smette di mancare ad ognuno di noi.
Perchè la storia di quella vita nata tra le sbarre di un carcere di massima sicurezza non doveva finire spezzata sul lavoro, come troppe persone ogni giorno.
Solo oggi tra la lista dei morti spunta un ragazzo di 20 anni, morto accanto al fratello, rimasto gravemente ferito….non se ne può più. QUESTA PAGINA E’ QUINDI CONTRO IL CARCERE, CONTRO LA PRESENZA DI BAMBINI DA 0 A 3 ANNI, MA
ANCHE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO, PER FERMARE LA QUOTIDIANA SEQUELA DI ASSASSINII
Il giorno in cui è morto quel 17 Gennaio del 2006, Antonio Salerno Piccinino stava lavorando e faceva una consegna straordinaria, un favore personale ad uno dei suoi dirigenti, un viaggio fino ad Ostia improvvisato probabilmente per la voglia di dimostrare affidabilità.
Antonio è morto perchè andava troppo veloce a causa dei ritmi inarrestabili e delle pressioni emotive costanti che ci vogliono disponibili, sorridenti e veloci, sempre.
Antonio era un pony express, il contratto di lavoro era scaduto a fine dicembre e formalmente, quando è morto sulla Cristoforo Colombo non gli era ancora stato rinnovato.
Antonio era in nero. Il suo lavoro era quello di corriere addetto ai ritiri presso gli ambulatori veterinari, percorreva sulle strade di Roma 130Km al giorno. 14 ritiri al giorno, 3 euro per ogni ritiro in città, 5 euro per ogni ritiro oltre il Grande Raccordo Anulare e 6 euro per ogni ritiro nella zona mare comprendente Ostia, Torvajanica e Fiumicino.
E’ Indispensabile andare veloce perché l’equazione è semplice: aumentare il numero di ritiri per aumentare la propria busta paga.
E’ così che è morto Antonio. Ma Antonio non era affatto il suo lavoro, anzi. Era un ragazzo pieno di vita e di sogni. Antonio era un ragazzo di ventinove anni consapevole dei meccanismi di sfruttamento che era costretto a subire, era un precario che lottava quotidianemente contro la precarietà del lavoro e della vita.
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