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Euskal Herria: “non abbiamo altra opzione”

31 luglio 2009 1 commento

Un annuncio pubblico per dichiarare il proprio ingresso in una organizzazione armata. È successo nei Paesi baschi. Quattro persone a volto scoperto hanno spiegato la decisione di un gruppo di dieci: dal momento che nel corso degli ultimi mesi sono state accusate e inseguite con l’accusa di far parte dell’organizzazione armata basca Eta, pur non essendone militanti, alla fine hanno deciso che vale la pena entrare nell’organizzazione, piuttosto che vivere da braccati e senza la possibilità di partecipare a una normale vita in casa propria e nella propria comunità. La notizia è stata diramata dai quotidiani baschi Gara e Berria. 
3665I dieci si presentano come militanti della sinistra indipendentista che in diverse maniere hanno preso parte alla lotta a favore di Euskal Herria. Affermano: “Abbiamo lavorato in diverse organizzazioni del movimento di liberazione nazionale basco fino a quando poliziotti armati fino ai denti sono venuti a torturarci, a incarcerarci e ci siamo visti obbligati a fuggire”. “Di fronte all’impossibilità di continuare a lavorare nei nostri paesi, nelle nostre organizzazioni, noi qui firmanti non abbiamo nessuna intenzione di arrestare o di presentarci all’Audiencia Nacional. Se il nemico ci voleva neutralizzare, si è sbagliato di grosso”. Per questo scrivono: “Non abbiamo altra opzione possibile . Ci rimane solo il far fronte alla ragione spagnola delle armi, come le armi a nostra volta in pugno e lo faremo con determinazione”. 
Pare un paradosso, e sicuramente lo è. Ma il paradosso, leggendo le dichiarazioni degli aspiranti etarras pone più di un dubbio su dove si sia verificato il corto circuito. Se nella loro percezione della realtà, che li porta a un passo anacronistico, a quel ‘impugneremo le armi’ che non avevano mai preso in considerazione prima. Oppure se il vizio stia nella criminalizzazione che da anni la magistratura amica e governata dal governo spagnolo sta portando avanti con esplicite lesioni dei diritti personali e di associazione in nome della ‘lotta al terrorismo’.

I nomi dei dieci nuovi militanti non sono stati resi pubblici. Ma il modo prescelto per comunicare questa decisione è un segnale preoccupante. Perché dieci persone scelgono un’opzione armata. E perché non lo fanno deliberatamente. Nelle loro parole c’è la disperazione di una condizione di vita che in centinaia provano e hanno provato negli ultimi decenni nelle provincie basche. Spesso, al momento di una retata, si svuotano le case degli amici degli arrestati. E molto spesso questi giovani non hanno nulla a che vedere con le armi, o con manifestazioni di guerriglia. 3664Semplicemente scappano, perché la pratica della tortura nei commissariati spagnoli e le denunce dettagliate, come quella che racconteremo qui sotto, hanno un effetto ‘terroristico’ sui più giovani, anche i più coraggiosi. La curiosità, come tale una notizia del genere può passare sui mezzi di veloce lettura, è in realtà un microcosmo di nodi e piani intersecati che si sovrappongono, ma che difficilmente si potranno sciogliere senza un ritorno ai pilastri dello stato di diritto, che prevedono la sacralità della vita, leggi per impedire la violenza armata, ma anche l’inviolabilità dell’accusato o del sospettato. I racconti che si susseguono, dopo i cinque giorni di isolamento, hanno sedimentato ormai una vasta letteratura. Sono racconti ripetitivi, tanto quanto i metodi utilizzati dai torturatori. Amnesty international denuncia da anni, il Governo di Madrid si ostina a negare, la politica della sicurezza ha una soluzione anche per questi monologhi di sofferenza: “sono una strategia di Eta”. 

Il direttore di un quotidiano basco, chiuso dalla magistratura non si sa bene ormai perché, fu arrestato e sottoposto a torture. I guardia civil che lo trasportavano a Madrid gli dissero subito, colpendolo: “Dimenticati la Costituzione del cazzo! Questa è la Guardia civil”. Un mondo a parte, evidentemente.

Gli arresti si susseguono, gli interrogatori non cambiano di violenza, stando ai racconti, Nel caso del presunto ‘numero uno’, come nel caso del giovane sospettato e basta. L’ultimo esempio. È il sedici dicembre. Le agenzie spagnole battono l’arresto di due uomini e due donne, accusati di essere un commando incaricato da Eta, l’organizzazione armata basca, di raccogliere informazioni sui bersagli. Il nome dei quattro: Arkaitz Landaberea Torremocha, June Villarrubia Mitxelena, Julen Etxaniz García e Saioa Urbistazu Arrieta. Cinque giorni dopo, il quotidiano basco Gara pubblica ‘i giorni da ingerno’ vissuti dagli accusati negi cinque giorni di incomuinicacion, cinque giorni di torture e vessazioni psicologiche e fisiche. 

I due giovani, ora in prigione per appartenenza a banda armata, e le due giovani hanno denunciato l’applicazione della bolsa, una specie di guaina che aderisce a bocca e narici e che causa il soffocamento. Cazzotti, schiaffi, flessioni fino a dover ricorrere a medicazioni, vessazioni sessuali, minacce di applicare gli elettrodi.
di Angelo Miotto, Peacereporter 

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