DELLA TORTURA

IN QUESTA PAGINA CI SONO I VARI ARTICOLI COMPARSI SU QUESTO BLOG CHE RIPORTANO TESTI, ANALISI, TESTIMONIANZE, STRALCI DI PROCESSI, COMUNICATI DEI SINDACATI DI POLIZIA RIGUARDO LE TORTURE COMPIUTE DAGLI APPARATI DELLO STATO ITALIANO SUI CORPI DEI PRIGIONIERI POLITICI, INQUISITI PER REATI LEGATI ALLA LOTTA ARMATA NEGLI ANNI ’70.
QUESTA PAGINA E’ IN COSTANTE AGGIORNAMENTO ED HO SCELTO DI APRIRLA CON UN LUNGO TESTO DI JEAN-PAUL SARTRE, SCRITTO NEL 1958 COME INTRODUZIONE AL LIBRO/TESTIMONIANZA DI HENRI ALLEG, ALGERINO TORTURATO DAI FRANCESI DURANTE L’OCCUPAZIONE E LA GUERRA D’ALGERIA.

1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2)
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
 3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4)  
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5)
Arresto del giornalista Buffa
6)
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7)
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 )
Il pene della Repubblica
9)
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10)
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11)
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17)
La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20)
” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21)
Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista 
26) Intervista al medico Massimo Germani
27) Oscar Fioriolli: biografia di un torturatore

JEAN-PAUL SARTRE SULLA TORTURA

Nel 1943, in via Lauriston, erano dei francesi a gridare d’angoscia e di dolore.
La Francia intera li udiva. L’esito della guerra non era certo, e non si voleva neppure pensare al futuro; ma una sola cosa ci pareva comunque impossibile: che si sarebbero fatti urlare altri uomini, un giorno, in nostro nome.

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Ma impossibile non è francese: nel 1958, ad Algeri, si tortura abitualmente, sistematicamente; tutti lo sanno, da Lacoste ai contadini dell’Aveyron. Nessuno ne parla, o quasi: fili di voce si estinguono, nel silenzio. La Francia non era più muta di oggi sotto l’occupazione; ma aveva almeno la scusa di essere imbavagliata. All’estero, il caso nostro è già giudicato: la Francia continua a degradarsi: dal ‘39 secondo alcuni, dal ‘18 secondo altri.
Io non credo però così facilmente alla degradazione di un popolo; credo ai suoi marasmi e alle sue ottusità. Durante la guerra, quando la radio inglese o la stampa clandestina ci parlavano dei massacri di Ouradour, guardavamo i soldati tedeschi che passeggiavano per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare tra noi: “Eppure sono uomini che ci rassomigliano: come possono fare quello che fanno?” Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli.

Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro se stessa -né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi,- se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento.

Felici quelli che sono morti senza aver mai dovuto domandarsi: “Se mi strappano le unghie, parlerò?” Ma più felici quelli che non sono stati costretti, usciti appena dall’infanzia, a porsi l‘altra domanda: “Se i miei amici, i miei compagni d’armi, i miei capi strappano le unghie a un nemico dinanzi ai miei occhi, cosa farò?”

Che sanno di loro stessi questi giovani messi con le spalle al muro dalle circostanze? Essi indovinano che qualsiasi decisione possano prendere qui, sembrerà loro astratta e vuota nel momento decisivo; che tutto il loro essere sarà rimesso in gioco da situazioni imprevedibili; e che le loro decisioni per la Francia, per se stessi, dovranno prenderle laggiù, da soli. Essi partono. Altri ritornano, dopo aver sperimentato la propria impotenza, serbando nella maggior parte dei casi un silenzio pieno di rancore. Nasce la paura: la paura degli altri e di se stessi, e dilaga in ogni ambiente. La vittima e il boia si confondono nella nostra stessa immagine. Poiché, nei casi estremi, l’unica maniera di rifiutare una delle due parti consiste nell’accettare l’altra.
Una tale scelta non si impone -almeno non ancora- ai francesi in Francia. Ma proprio queste indeterminatezza ci pesa: noi siamo la ferita e il coltello: l’orrore di questo e il terrore di quella si bilanciano e si rafforzano reciprocamente. I ricordi riaffiorano. 250px-17octobre61matraqueQuindici anni or sono i migliori della nostra Resistenza avevano paura di non resistere alla sofferenza, più che della sofferenza stessa. Essi dicevano :” Quando tace, la vittima salva ogni cosa; ma quando parla, nessuno ha diritto di giudicarla, neppure colui che non ha parlato: essa s’accoppia col suo carnefice, diventa la sua femmina, e questa coppia allacciata sprofonda nella notte dell’abiezione”. L’abiezione ritorna.
A El-Biar, essa ritorna ogni notte. In Francia è la fuliggine dei nostri cuori. Ecco, una propaganda sussurrata  insinua appunto che “tutti parlano”; e così la tortura si giustifica con l’umana ignoranza: ciascuno di noi essendo un traditore potenziale, il boia che è in ciascuno di noi trova giustificazione. Tanto più che la gloria della Francia lo esige, come voci suadenti insinuano ogni giorno. Un buon patriota non può avere che buona coscienza. Solo un disfattista può averla cattiva.
Allora, lo sbigottimento diviene disperazione: se il patriottismo deve precipitarci all’abiezione, se nessuna sorveglianza, mai, ha impedito alle nazioni e all’umanità tutta di perdersi in una follia disumana, allora, a che scopo tormentarci per divenire o rimanere degli uomini? Essere disumani è la nostra verità.
Ma se di vero non c’è altro che il terrore, terrorizzare o essere terrorizzati, a che scopo vivere e restare patrioti?
Questi pensieri sono stati seminati in noi con la violenza. Nella loro oscurità e nella loro falsità, discendono tutti da questa premessa: l’uomo è inumano. Il loro obiettivo è convincerci della nostra impotenza, e ci riusciranno, finché non li guarderemo in faccia. Ma bisogna che all’estero si sappia che il nostro silenzio non significa consenso. Esso deriva da angosce provocate, esasperate, sapientemente dirette. Lo sapevo da tempo, ma aspettavo la prova decisiva.
Essa è venuta.
algeriQuindi giorni fa, presso le Editions de Minuit, usciva un libro: La Tortura.
Il suo autore, Henri Alleg, tuttore detenuto in una prigione di Algeri, racconta senza commenti inutili, con precisione ammirevole, gli “interrogatori” che ha subito. I carnefici, come gli avevano promesso, lo hanno “curato”: “telefono da campo”, supplizio dell’acqua  come al tempo della Brinvilliers, ma coi perfezionamenti tecnici del nostro tempo, supplizio del fuoco, della sete, etc.
E’ un libro che sconsigliamo alle anime tenere.

Finora, solo qualche richiamato alle armi e soprattutto qualche sacerdote avevano osato portare testimonianze. Avevano vissuto in mezzo ai torturatori, loro e nostri fratelli. Delle vittime, per lo più. Non conoscevano che le urla, le ferite, le sofferenze; additavano i segni del sadismo su brandelli di carne. Ma che cosa ci distingueva da questi sadici? Nulla, dal momento che tacevamo.
La nostra indignazione poteva anche parerci sincera: ma avremmo saputo provarla vivendo laggiù, o non ci saremmo piuttosto abbandonati a una cupa rassegnazione, a un universale disgusto? Per mio conto, leggevo talvolta per dovere e magari pubblicavo, ma detestandomi, quei racconti, che ci mettevano spietatamente in causa, e che non ci lasciavano speranza.

Con La Tortura, tutto cambia. Alleg ci risparmia vergogna e disperazione, perché è una vittima e ha “vinto” la tortura. battagliadialgeri215C’è un sinistro umorismo, in questo rovesciamento di posizioni; lo hanno martirizzato in nome nostro, e noi, grazie a lui, ritroviamo un poco della nostra fierezza: siamo fieri che sia un francese. I lettori si incarnano in lui con passione, l’accompagnano sino al passo estremo della sofferenza. Con lui, soli e nudi, lottano e resistono. Sarebbero questi lettori, saremmo noi capaci davvero di tanto? Questo è un altro affare. Quello che conta è che la vittima ci libera facendoci scoprire, come lo scopre lei stessa, che abbiamo la possibilità e il dovere di sopportare tutto.
Eravamo come affascinati dalla vertigine dell’inumano, ma basta che un uomo duro e ostinato -ostinato nel suo mestiere d’uomo- a strapparti all’incantesimo: la “tortura” non è nulla di inumano, è soltanto un crimine ignobile e lurido, commesso da uomini contro altri uomini, e che altri uomini ancora possono e debbono reprimere. L’inumano non esiste, se non negli incubi generati dalla paura. Basta il calmo coraggio di una vittima, la sua modestia, la sua lucidità, per liberarci dalla mistificazione. Alleg ha strappato la tortura alla notte che la ricopriva:; avviciniamoci, guardiamola alla luce.

Questi carnefici, prima di tutto, che cosa sono? Dei sadici? Degli arcangeli irritati? Dei signori della guerra con i loro terrificanti capricci? A creder loro, sarebbero una mescolanza di tutto questo. Ma Alleg, appunto, non li crede. Quel che risulta da quanto egli ci riferisce è che essi vorrebbero convincere se stessi e convincere la vittima di una loro piena sovranità: ora come superuomini che tengono dei semplici uomini in loro potere, ora come uomini forti e severi, incaricati di addomesticare la bestia più oscena, più feroce e più vile che ci sia, la bestia umana. S’indovina che non fanno tuttavia scelte sottili: l’essenziale è far sentire al prigioniero che non è della loro razza_ lo si spoglia, lo si imbavaglia, lo si beffeggia. Intanto, dei soldato vanno e vengono, pronunciando insulti e minacce con una disinvoltura che vorrebbe apparire terribile.
Ma Alleg, nudo, tremante di freddo, legato a una tavola ancor nera e viscida di vecchi vomiti, riduce tutte queste manovre alla loro miserabile verità: sono commedie recitate da imbecilli. Commedia, la violenza fascista delle loro parole, i il giuramento di “buttare all’aria la Repubblica”. Commedia, il discorsoalgeria4dell’aiutante di campo del generale M., che termina con queste parole: “Non vi resta più che suicidarvi”. Commedie grossolane, sempre quelle, che ricominciano senza convinzione ogni notte, con ogni prigioniero, e che poi si smettono per mancanza di tempo. Perché questi orribili lavoratori sono sovraccarichi di lavoro e fatica: i prigionieri fanno la coda davanti alla tavola del supplizio, si legano, si slegano, si portano in giro le vittime da una camera di tortura all’altra. A guardare con gli occhi di Alleg questo immondo alveare ci si accorge che gli stessi torturatori sono soverchiati da ciò che fanno.
Certo, sanno che atteggiarsi alla calma, bere birra, tranquilli e decisi, accanto a un corpo martirizzato, e poi d’un tratto balzano in piedi, corrono dappertutto, bestemmiano e urlano di rabbia: dei nevrotici che sarebbero delle vittime eccellenti, e alla prima sferzata confesserebbero.
Malvagi, rabbiosi, certo. Sadici? No, nemmeno sadici: hanno troppa fretta. E’ quella che li salva, del resto: resistono grazie alla velocità acquistata: debbono correre senza requie o crollare.
Eppure amano il lavoro ben fatto: se lo giudicano necessario, spingono la coscienza professionale fino ad uccidere. Ed ecco quello che colpisce, nella narrazione di Alleg: dietro questi chirurghi squallidi e sgomenti senti una inflessibilità che li supera, loro e i loro capi.
Sarebbe troppa fortuna, se questi delitti fossero l’opera di un pugno di pazzi. In verità è la tortura, che fa i carnefici. Dopo tutto, questi soldati non si erano arruolati in un corpo scelto per martirizzare il nemico vinto.
Alleg, in pochi tratti, ci descrive quelli che ha conosciuto, e questo basta a segnare le tappe delle metamorfosi.
Ci sono i più giovani, sbigottiti, incapaci di resistere, che mormorano “è orribile” quando la loro torcia illumina un suppliziato. algeria1E poi ci sono i sotto-boia, che non mettono ancora mano alla tortura, ma sostengono e trasportano i prigionieri, alcuni già induriti e altri no, ma tutti già presi nell’ingranaggio, e tutti imperdonabili.
C’è un biondino del Nord con un viso così simpatico, che può parlare delle sedute di tortura che Alleg ha subito, “come di una partita di cui si ricorda con piacere, e che non prova disagio a congratularsi con la vittima come farebbe con un campione ciclista”. Qualche giorno dopo, Alleg lo ritroverà congestionato, sfigurato dall’odio, mentre percuote, su per una scala, un musulmano. E poi ci sono gli specialisti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti delle scosse elettriche, ma che non sopportano le grida. E infine i pazzi che corrono intorno come foglie morte nel turbine della loro propria violenza.
Nessuno di questi uomini ha una vita sua, nessuno resterà quello che è: non sono che i momenti di una trasformazione inesorabile. Tra i migliori e i peggiori v’è una sola differenza: i primi sono reclute, i secondi veterani. Tutti finiranno per andarsene e, se la guerra continua, altri li sostituiranno: biondini del Nord o piccoli bruni del Mezzogiorno, che faranno lo stesso tirocinio o ritroveranno la stessa violenza con lo stesso nervosismo.
In quest’affare gli individui non contano; una specie di odio errante e anonimo, un odio radicale dell’uomo s’accanisce a un tempo sui carnefici e sulle vitime per degradarli insieme, gli uni mediante gli altri. Quest’ odio è la tortura eretta a sistema, creatrice dei suoi stessi strumenti.
Quando questo vien detto, sia pur timidamente, sui banchi dell’Assemblea, la canea si scatena, e urla: “E’ un insulto all’esercito”. Ma una volta per tutte, questi cani ringhiosi ci dicano: che c’entra l’esercito? Nell’esercito ci sono dei torturatori, senza dubbio. La commissione inchiesta, nel suo rapporto pur indulgente, non lo ha nascosto. Ma questo non vuol dire che sia l’esercito a torturare.
Che insensatezza! Forse che i civili non conoscono il metodo? Basta lasciar fare alla polizia di Algeri. E poi ci vuole un capo-carnefice, l’Assemblea intera donna_algerinal’ha designato: non è il generale S., e neppure il generale E., e neppure il generale M., di cui tuttavia Alleg fa il nome: è Lacoste, l’uomo dai pieni poteri.
Tutto si fa attraverso di lui e con lui,  a Bona come a Orano: tutti gli uomini che sono morti di sofferenze e di orrore nell’immobile di El-Biar, nella villa S., sono morti per sua volontà. Non sono io che  lo dico: sono i deputati, è il governo.
E del resto la cancrena si estende, ha attraversato il mare. Si è sparsa anche la voce che si pratica la tortura in certe prigioni civili del “territorio metropolitano”: non so se sia fondata, ma dev’essere stata raccolta anche dai poteri pubblici, visto che il procuratore, al processo di Ben Saddok, ha domandato solennemente all’accusato se avesse subito sevizie. Beninteso, la risposta era conosciuta in anticipo.
No, la tortura non è né civile né militare né specificatamente francese: è come una sifilide  che devasta l’intera epoca. All’est come all’ovest ci sono carnefici. Non è passato tanto tempo da quando Farkas torturava gli ungheresi. I polacchi non nascondono che la loro polizia , prima di Poznan, torturava anch’essa volentieri; e su ciò che accadeva in URSS al tempo di Stalin abbiamo la testimonianza irrecusabile del rapporto Krusciov. Ieri si “interrogavano” così, nelle prigioni di Nasser, degli uomini politici che poi sono stati, con qualche cicatrice, elevati a cariche eminenti. L’elenco potrebbe continuare. Oggi, comunque, è il momento di Cipro e dell’Algeria; e Hitler, insomma, non era che un precursore.
Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, la tortura può definirsi un’istituzione semiclandestina. Ha forse le stesse cause dappertutto? No, probabilmente. E poi poco importa: qui non si tratta di giudicare il nostro tempo; si tratta di guardare in faccia le cose nostre per cercar di capire che cosa è successo a noi, a noi francesi.

Sapete quel che si dice a volte per giustificare i carnefici: bisogna pur ridursi a torturare un uomo se dalla sua confessione possono dipendere centinaia di vite umane. E’ un bell’espediente da Tratuffe. Alleg, come Audin, non era un terrorista. Tanto è vero che  è stato accusato di “attentato alla sicurezza dello Stato e di ricostruzione di una lega sciolta”.
Era per salvare delle vite umane che gli si bruciavano i capezzoli e i peli del pube? No, si voleva soltanto estorcergli  l’indirizzo dell’amico che lo aveva ospitato. Se avesse parlato, si sarebbe messo un comunista di più sotto chiave: ecco tutto.t239054a
E poi si arresta a casaccio: qualsiasi musulmano è “interrogabile” a piacere: la maggior parte dei torturati non dicono nulla perché non hanno nulla da dire, a meno che non acconsentano, per non soffrire di più, a fare una falsa testimonianza o accusarsi gratuitamente di un delitto rimasto impunito, del quale diventa comodo accusarli. In quanto a quelli che potrebbero parlare, si sa bene che tacciono. Tutti, o quasi tutti.
Né Audin, né Alleg, né Guerroudji hanno disserrato i denti. “Ha comunque guadagnato una notte per dar tempo ai suoi amici di tagliare la corda”, constata uno dei carnefici dopo il primo interrogatorio di Alleg. E un ufficiale, qualche giorno più tardi: “Da dieci  o da quindici anni sanno che se vengono presi non devono dire nulla. Non c’è niente  da fare per togliere loro quest’idea della testa.” Forse volevan parlare soltanto dei comunisti; ma credono forse che i combattenti dell’ALN (l’Armata di Liberazione Nazionale) siano di un’altra tempra? Queste violenze non rendono: gli stessi tedeschi, nel 1944, avevano finito per convincersene; costano vite umane, e non ne salvano.
L’argomento, tuttavia, non è del tutto falso, e comunque ci illumina sulla funzione della tortura , istituzione clandestina o semiclandestina indissolubilmente legata alla clandestinità della resistenza o dell’opposizione.
In Algeria, il nostro esercito è schierato in tutto il territorio. Abbiamo per noi il numero, il denaro, le armi. Gli insorti non hanno nulla, salvo la fiducia e l’appoggio di una gran parte della popolazione. Siamo stati noi, nostro malgrado, a dare a questa guerra popolare attentati nelle città, imboscate nelle campagne; il FLN non ha scelto lui questa forma di attività, fa quello che può e basta.
Il rapporto fra le sue forme e le nostre lo costringe ad attaccarci di sorpresa: invisibili, inafferrabili, inattese, devono colpire e scomparire, per non essere sterminate. Di qui il nostro malessere: lottiamo contro un avversario segreto, una mano lancia una bomba in una strada, una fucilata ferisce un nostro soldato, si accorre: non c’è più nessuno. Più tardi, nei dintorni, si troveranno dei musulmani che non hanno visto niente. Tutto è legato: la guerra popolare, guerra dei poveri contro i ricchi, è caratterizzata dallo stretto vincolo delle unità insurrezionali con la popolazione.  Per l’esercito regolare e o poteri civili, questo nugolo di miserabili diventa il nemico quotidiano, innumerevole. Le truppe d’occupazione si preoccupano del mutismo che esse hanno generato. Si indovina una inafferrabile volontà di silenzio, un segreto circolare, onnipresente. I ricchi si sentono braccati in mezzo ai poveri che tacciono. Imbarazzate dalla loro stessa potenza, le “forze dell’ordine” non possono opporre nulla alle guerriglie, se non i rastrellamenti e le spedizioni punitive, nulla da opporre al terrorismo, se non il terrore- Qualche cosa è nascosto: in qualsiasi luogo e da tutti.
Bisogna farli parlare.

31006732_1de3295e92La tortura è una vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare, ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo. Se applica la question dovrà sempre ricominciare.
Ma nemmeno questi silenzi, queste paura, questi pericoli sempre invisibili e sempre presenti possono giustificare completamente l’accanimento dei carnefici, la loro volontà di ridurre all’abiezione le loro vittime, questo odio dell’uomo, infine, che si è impadronito di loro senza il loro consenso e li ha plasmati.
Uccidersi a vicenda, è la regola; ci si è sempre battuti per interessi collettivi e particolaristici. Ma nella tortura, questo strano match, la posta sembra essere totale: è per il titolo di uomo che il carnefice si misura col torturato, e tutto si svolge come se i due non potessero appartenere insieme alla specie umana. Scopo dell’interrogatorio non è soltanto quello di costringere un uomo a parlare, a tradire: bisogna che la vittima si auto qualifichi bestia umana attraverso le sue grida e la sua sottomissione: agli occhi di tutti e davanti a se stessa. Bisogna che il suo tradimento la spezzi e la tolga definitivamente di mezzo. Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo.

Questa radicalizzazione della posta è uno dei caratteri del nostro tempo. In nessuna epoca la volontà di essere liberi è stata più cosciente e più forte: in nessuna epoca l’oppressione è stata più violenta e meglio armata.
In Algeria le contraddizioni sono irriducibili: ognuno dei gruppi in conflitto esige l’esclusione radicale dell’altro. Abbiamo preso tutto ai musulmani e poi abbiamo proibito loro persino l’uso della loro lingua. Memmi, lo scrittore algerino, ha dimostrato come la colonizzazione si realizza attraverso l’annullamento dei colonizzati. Essi non possedevano più nulla, non erano più nessuno: abbiamo liquidato la loro civiltà  rifiutando loro la nostra. Avevano chiesto l’integrazione, l’assimilazione e noi abbiamo risposto di no: grazie a quale miracolo si potrebbe mantenere il supersfruttamento coloniale se i colonizzati dovessero godere degli stessi diritti dei coloni? Sotto-alimentati, incolti, miserabili, il sistema li respingeva spietatamente ai confini del Sahara, ai limiti dell’umano; sotto la spinta demografica il loro tenore di vita si abbassava di anno in anno. Quando la disperazione li ha indotti alla rivolta, questi sotto-uomini non avevano altra scelta che morire o tentare di affermare la loro umanità contro di noi: hanno respinto i nostri valori, la nostra cultura, le nostre pretese superiorità, e in blocco hanno rivendicato il titolo di uomini e rifiutato la nazionalità francese.

Questa ribellione non si limitava a contestare il potere dei coloni. Essi hanno capito che era in causa la loro stessa esistenza. Per la maggior parte degli europei d’Algeria ci sono due verità complementari e inseparabili: i coloni sono degli uomini per diritto divino, 259gli indigeni sono una sottospecie di uomini. E’ la traduzione mitica di un fatto preciso, poiché la ricchezza degli uni poggia sulla miseria degli altri.
Così lo sfruttamento mette lo sfruttatore alla dipendenza dello sfruttato. E, su un altro piano, questa dipendenza è il nocciolo del razzismo, è la sua contraddizione profonda e la sua acida maledizione: essere uomo, per l’europeo di Algeri, vuol dire,innanzitutto, essere superiore al musulmano.
Ma se il musulmano si afferma a sua volta come uomo, come l’eguale del colono? Ebbene il colono è leso nel suo essere, si sente diminuito, svalutato: l’accesso dei bougnoules (termine dispregiativo per definire gli arabi) alle condizioni di uomini gli ripugna non soltanto perché ne vede le conseguenze economiche ma perché gli si annunzia il suo decadimentopersonale. Nella sua rabbia il colono sogna il genocidio. Ma è una pura utopia. Egli lo sa, conosce la propria dipendenza. Che cosa farebbe senza un sottoproletario indigeno, senza una manodopera in eccesso, senza la disoccupazione cronica che gli permette di imporre i salari? E poi, se i musulmani sono già degli uomini, tutto è perduto, non c’è nemmeno più bisogno di sterminarli. No: la cosa più urgente, se c’è ancora tempo, è di umiliarli, di stroncare l’orgoglio nel loro cuore, di abbassarli al livello della bestia.
Si lascerà vivere il corpo, ma si ucciderà lo spirito. Domare, addomesticare, castigare, ecco le parole che ossessionano il colono. Non c’è posto in Algeria per due specie umane. Tra l’una e l’altra bisogna scegliere.
Beninteso, non intendo dire che gli europei di Algeri abbiano inventato la tortura, e nemmeno che abbiano incitato le autorità civili e militari a praticarla. Al contrario: la tortura si è imposta da sé, è diventata una pratica prima ancora che ci se ne accorgesse. Ma l’odio per l’uomo che vi si manifesta, è l’espressione del razzismo. Poiché è proprio l’uomo che si vuol distruggere, con tutte le sue doti di uomo, il coraggio, la volontà, l’intelligenza, la fedeltà, quelle stesse doti che il colono rivendica per sé. Ma se l’europeo trascende sino a detestare la propria immagine, vuol dire che essa è rispecchiata da un arabo.
0ddcebe363b93ea5af6e7419b5b4d785Così, di queste due coppie indissolubilmente legate, il colono e il colonizzato, il carnefice e la sua vittima, la seconda è un’emancipazione della prima. I carnefici non sono coloni, né i coloni sono carnefici. Questi ultimi sono spesso giovanotti che vengono dalla Francia e hanno passato vent’anni della loro vita senza mai preoccuparsi del problema algerino. Ma laggiù l’odio è un campo di forze magnetiche che li ha attraversati, corrosi e asserviti.
La calma lucidità di Alleg ci permette di comprendere tutto ciò. Quand’anche non ci desse altro, bisognerebbe essergliene profondamente grati. Ma in realtà egli ha fatto molto di più: incutendo rispetto ai suoi carnefici ha fatto trionfare l’umanesimo delle vittime e dei colonizzati contro le violenze senza misura di certi militari, contro il razzismo dei coloni. E la parola “vittime” non vale qui a suscitare non so quale lacrimoso pietismo: in mezzo ai loro piccoli caid, fieri della loro giovinezza, della loro forza, del loro numero, Alleg è il solo “duro”, il solo veramente forte. Noi possiamo dire che ha pagato il prezzo più alto per il semplice diritto di rimanere un uomo fra gli uomini. Ma egli non vi pensa neppure. E’ per questo che tanto ci commuove questa semplice frase alla fine di un paragrafo: “Mi sentii tutt’a un tratto fiero e contento di non aver ceduto. Ero convinto che avrei resistito ancora se avessero ricominciato, che mi sarei battuto fino in fondo, che non avrei facilitato il loro compito suicidandomi.”
Si, un duro, che finisce per far paura agli arcangeli dell’ira.
Almeno in alcune delle loro parole, si intuisce che essi presentono e cercano di scongiurare una vaga e scandalosa rivelazione: quando è la vittima che trionfa, addio sovranità, addio diritto divino. Le ali degli arcangeli si fermano e i carnefici si chiedono perplessi: ma io saprei resistere se mi torturassero?
Il fatto è che, al momento della vittoria, un sistema di valori si è sostituito agli altro. Per poco gli stessi carnefici non sono presi dalla vertigine. Ma no: hanno la testa vuota, il lavoro li abbrutisce e credono appena a ciò che fanno.
Perché poi, del resto, turbare la coscienza dei carnefici?
Se qualcuno di loro muovesse obiezione, i loro capi lo sostituirebbero: ne troverebbero dieci per uno perduto. La testimonianza di Alleg infatti – ed è forse il suo maggiore merito – dissipa completamente le nostre illusioni: non basta punire o rieducare alcuni individui.
La guerra d’Algeria non può essere umanizzata. La tortura si è imposta da sé: è stata suggerita dalle circostanze, chiamata dall’odio razzista. In certa misura, come abbiamo visto, essa si trova al centro stesso del conflitto e forse ne esprime la verità più profonda. Se vogliamo mettere fine a queste immonde e lugubri crudeltà, salvare la Francia dalla vergogna e gli algerini dall’inferno, abbiamo un solo mezzo, sempre lo stesso, il solo che abbiamo mai avuto, il solo che avremo mai: aprire dei negoziati, fare la pace.
Jean-Paul Sartre

LA TORTURA IN ITALIA
L’Italia ferma agli anni di piombo? «A me risulta che negli anni ‘70 il governo brasiliano torturava e uccideva. Non mi risulta che quei personaggi abbiano poi scontato tutta o una parte della loro responsabilità politica e morale. Però capisco che uno fosse, a quell’epoca, all’opposizione e possa avere un cortocircuito». Giovanni Bachelet, deputato Pd e figlio di Vittorio, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980 all’Università La Sapienza, parla in un’intervista al ‘Messaggerò del caso Battisti. Per Bachelet immaginare che il governo italiano degli anni ‘70 fosse come quello brasiliano «è un fatto di ignoranza». Bisogna spiegare al Brasile che «la maggioranza dei terroristi italiani non solo sono stati identificati, processati, condannati, ma addirittura hanno già concluso la loro pena». «Se il guardasigilli brasiliano parlasse con ex terroristi -continua Bachelet- scoprirebbe che hanno finito di scontare la loro pena e spesso sono impegnati in opere buone». In Italia, sottolinea ancora, «non siamo stati nè il Sudafrica, nè il Brasile degli squadroni della morte. Ci fu una volontà di non piegarsi ad una logica di guerra civile, che ci fece affrontare in modo democratico e costituzionale questa emergenza»

UN PAESE SENZA VERGOGNA: RILASCIARE SIMILI DICHIARAZIONI VUOL DIRE NEGARE LA REALTA’ DI QUELLA CHE E’ STATA LA REPRESSIONE NEL VENTENNIO CALDO DEL SECOLO SCORSO, VUOL DIRE NEGARE L’ARTICOLO 90, VUOL DIRE FAR FINTA CHE TUTTI I CASI DI TORTURA SUI MILITANTI DELLE BRIGATE ROSSE NON CI SIANO MAI STATI.

allora, ci vorrà tempo per passare allo scanner e ribattere tutto il materiale che ho, quindi ve ne pubblichero’ un pezzetto alla volta.
Una parte di testimonianze è nelle vecchie pagine di questo blog e vi rimetto il link

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12 Gennaio 1982: Gli avvocati Edoardo di Giovanni e Giovanna Lombardi, nel corso di una conferenza stampa, denunciano le torture cui sono stati sottoposti due loro assistiti: Stefano Petrella e Ennio Di Rocco.

22 Gennaio 1982: Durante una caccia all’uomo nella zona di Tuscania, viene catturato Gianfranco Fornoni. La sua denuncua sulle torture subite troverà spazio solo su Lotta Continua e Il Manifesto. Intanto proseguono gli arresti di massa; nel mese di marzo il sottosegretario agli Interni Francesco Spinelli dichiarerà  che in circa 2 mesi sono state arrestate 385 persone, con l’accusa di banda armata. Lo stesso Spinelli, riferendosi alle denuncie di tortura, con cinica arroganza afferma: “Non mi risulta che sia mai morto nessuno. Diciamo che nei confronti degli arrestati ci sono stati trattamenti piuttosto duri, ma sono cose che capitano in tutte le polizie del mondo.

Marzo 1982: Amnesty International dichiara di aver raccolto in 3 mesi una “mole impressionante” di denunce di torture in Italia. “…Tra le nostre fonti non ci sono solo le dichiarazioni delle vittime. Esistono anche lettere di agenti di polizia che lamentano la frequenza con cui la tortura verrebbe applicata a persone arrestate per terrorismo (Espresso 21-3-82)

29 Marzo 1982: Luca Villoresi, giornalista di Repubblica viene arrestato per reticenza. Aveva pubblicato un articolo, il 18 marzo, in cui venivano riportate le testimonianze anonime di due agenti che avevano visto torturare una ragazza. Questo racconto coincideva con quello di Alberta Biliato, che ha denunciato di essere stata torturata nella sede del III distretto di polizia di Mestre. Il giornalista viene scarcerato dopo due giorni.

DI MATERIALE CE NE STA ANCHE TROPPO…vi metto l’inizio dellatorture_ritagli
Sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti del 17 marzo 1983:
1) Genova Salvatore
2) Amore Danilo
3) Di Janni Carmelo
4) Laurenzi Fabio
5) Aralla Giancarlo
6)D’Onofrio Nicandro
7) Carabalona Massimo
8 ) Ignoti
IMPUTATI:
A) del reato di cui agli art. 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P. e 61 n. C.P. per aver illecitamente privato Di Lenardo Cesare della libertà personale, perchè in concorso fra loro prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’ispettorato di zona del 2° Reparto Celere, dove era legittimamente detenuto in seguito all’arresto avvenuto il 28/02/82, sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricavano con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di un’autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente; indi lo trasportavano nuovamente  (sempre nel bagagliaio) nell’area 2° del Reparto Celere e lo conducevano in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alla violenza descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale proprie di ciascuno, in numero non inferiore a 5 persone ed al fine di commettere il reato di cui al capo seguente; per Genova inoltre di aver promosso e organizzato la cooperazione nel reato, nonchè di aver diretto l’attività delle persone che vi sono concorse; in Padova tra le 21 e le 24 del 31.03.1982
B) del reato di cui agli art. 56, 81 cpv., 110, 112 nn.1 e 2, 605/1° e 2° C.P in relazione all’art. 339 C.P., per aver in concorso tra loro e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendo inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca,e , permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare con il naso, facendogli ingoiare una grande quantità d’acqua che veniva continuamente versata nella sua bocca, compiuti atti idonei in modo univoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi, senza però che tale evento si verificasse; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;
C) del reato di cui agli art. 110, 61 n.9, 112 nn. 1 e 2, 582 C.P per aver in concorso tra loro e con altri, volontariamente cagionato a Di Lenardo Cesare, mediante le percosse e la violenza descritte al capo B, lesioni personali in diverse parti del corpo e in particolare all’orecchio sinistro; con le aggravanti di aver commesso il fatto  con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione da ciascuno svolta, in numero non inferiore a 5 persone; per Genova, inoltre, di aver promosso e organizzato la cooperazione di più persone nel reato;
Amore, Di Janni e Laurenzi:
D) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv, 61 n.9, 56 e 610 1°e 2° con. C.P. in relazione all’art. 339, per aver in concorso tra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con violenza consistita in percosse, nonchè nella provocazione di ustioni alle mani e in altre parti del corpo, nonché una serie di ferite provocate al polpaccio della gamba sinistra con strumenti taglienti od acuminati e nella somministrazione di scariche elettriche, mediante applicazione di strumenti idonei agli organi genitali e nella zona addominale, posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi nonchè sulla struttura ed organizzazione della banda armata di cui faceva parte; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alle qualità di pubblico ufficiale;
E) del reato di cui agli art. 110, 81 cpv., 61 n.9, 582 e 585 C.P. per avere con le modalità indicate nel capo precedente cagionato a Di Lenardo Cesare lesioni personali guarite in 20 giorni: con le aggravanti di aver commesso il fatto con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale;
Amore inoltre:
F) del reato di cui agli art. 110, 610/1° e 2° co. in relazione all’art. 339, 61 n.9 C.P., perchè in concorso con altre persone non identificate, mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo e minaccia, consistita nel preannunciarle ulteriori e più gravi atti di violenza, costretto Libera Emilia a rendere dichiarazioni sui reati da lei commessi; con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale
Ignoti:
G) del reato di cui agli art. 81 cpv., 61 n.9 e 610/1° e 2° co. C.P. in relazione all’art. 339, per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, mediante violenza consistita in percosse in diverse parti del corpo, e mediante  minaccia consistita nel preannunciare nuovi e più gravi atti di violenza, costretto Savasta Antonio, Libera Emilia, Frascella Emanuela, Ciucci Giovanni a rendere dichiarazioni sui reati da loro commessi;  con le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone riunite e con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla qualità di pubblico ufficiale

………………………. potrei andare avanti per giorni!mini_torture_affiorate

ENNIO DI ROCCO, PROCESSO VERBALE, ROMA 11 GENNAIO 1982 [Interrogatorio avanti al P.M. Domeni Sica]

“La sera del mio arresto venni condotto prima al 1° Distretto di polizia ove ricevetti, nella cella, calci e schiaffi. Poi sono stato spostato alla caserma di Castro Pretorio. Dopo circa un’ora sono arrivati tre incappucciati che hanno incappucciato anche me, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno condotto in un luogo che non so riconoscere perchè incappucciato, ma che ritengo essere una casa. In questo luogo per la notte e il giorno successivo (per quel che ho potuto capire) sono stato – a rotazione di squadrette di 3 o 4 persone- picchiato con calci, pugni e bastonate ed in pratica in ogni modo, con le manette strette ai polsi di dietro che venivano torte. Mi è stata poi praticata una puntura al braccio destro. Poi sono stato fatto sdraiare su di un letto e coperto con due coperte, chiaramente al fine di farmi sudare. Per un periodo di tempo che non so dire, dopo che avevo subito la puntura, si sono alternate domande suadenti e botte. Non credo di avere detto nulla sotto questo trattamento.
Il giorno dopo c’è stata una nuova rotazione di percosse, sino a che non è arrivata una squadretta che ha continuato a battermi con i bastoni sulla pianta e sul dorso dei piedi e sulle caviglie; preciso che in tutto questo tempo ero legato con mani e piedi ad un letto. Sono stato picchiato anche sulle ginocchia, sul petto ed in testa. In tutto questo periodo sentivo le urla dell’altro compagno, che ritengo fosse Stefano Petrella, che però ovviamente non vedevo.
Può darsi che io dimentichi qualche altro particolare di questi tre giorni. Incappucciato e dentro a un furgone sono stato spostato in un altro edificio; dopo un viaggio di 45 minuti. Nel nuovo luogo di detenzione sono stato costretto a bere tre bottiglie di Caffè Borghetti, così mi dicevano. Mi sono addormentato e nel sonno mi facevano delle domande in relazione a cose che volevano sapere e alle quali ritengo, bene o male, di essere riuscito a non rispondere.
Può darsi che poi io abbia avuto delle allucinazioni, perchè sognavo di gridare e poi mi sono svegliato dopo essermi orinato addosso. Allora qualcuno si è avvicinato. Dopo un intervallo abbastanza lungo, durante il quale  non mi è stato fatto niente, mi hanno fatto  mangiare.
Subito dopo sono stato prelevato dal letto e portato in una cucina (che ho potuto intravedere attraverso le bende agli occhi). Sono stato disteso lungo su un tavolo, mi è stato tolto il maglione e la camicia e messo con mezzo busto fuori dal tavolo. Ero a pancia all’aria e avevo le mani e i piedi legati alle gambe del tavolo. Una persona mi torceva gli alluci; altri due mi tenevano gambe e braccia; un altro mi teneva il naso chiuso e mi reggeva la testa. Qualcun altro mi mandava acqua e sale nella bocca, non facendomi respirare e tentando di soffocarmi. Non so quanto tempo ciò sia durato; ad un certo momento finì l’acqua salata e cominciò quella semplice. Ho tentato di uccidermi trattenendo il respiro ma non ci sono riuscito”

PRIME TESTIMONIANZE:

EMANUELA FRASCELLA, VERBALE DI SOMMARIE INFORMAZIONI, PIACENZA 19 APRILE 1982

[Interrogatorio avanti al Sostituto Procuratore della Repubblica di Padova, Vittorio Borraccetti, Casa Circondariale di Piacenza, 19 Aprile 1982]

“[…]Poco dopo la porta fu sfondata e la polizia fece irruzione; gli agenti ci intimarono la resa e noi lasciammo la stanza abbandonando le armi. […] Fui quindi portata fuori e fatta stendere a terra accanto ai miei compagni; ricordo che avevamo la faccia a terra; con la testa dal lato della porta dello studio medico che si apre sul pianerottolo. In un primo momento fummo ammanettati ma in seguito, non ricordo precisamente quando, ma certo prima che ci portassero via, le manette furono sostituite da strisce di stoffa. Venimmo poi anche bendati. Mentre eravamo stesi sul pianerottolo fummo presi a calci ai fianchi; per quanto mi riguarda personalmente ricordo di essere stata percossa ripetutamente con calci ai fianchi. Ricordo inoltre che qualcuno mi prese i piedi e me li storse. Qualcuno mi alzò poi la gonna, mi abbassò il collant e le mutande e mi colpì ripetutamente a calci sui genitali e sul sedere. Per parecchio tempo nei giorni successivi ho sofferto di dolori all’osso sacro.  […]
Ad un certo momento fui riportata, ammanettata e comunque con le mani legate, e bendata, dentro casa; mi pare che in un primo momento mi abbiano tenuto sull’ingresso. Fui presa a pugni sulla schiena. Mi misi ad urlare e allora fui condotta in un locale che mi parve essere il soggiorno, dove mi furono dati altri pugni. Preciso: prima mi fu chiesto con le buone se volevo collaborare e per tale eventualità venivo invitata a sedermi, poi di fronte al mio rifiuto ripresero i pugni sulla schiena. Ad un tratto qualcuno mi alzò sul petto la maglietta che indossavo e mi tirò i capezzoli dei seni. Dopo di che mi riportarono fuori e mi fecero stendere di nuovo sul pavimento. Qui ripresero a percuotere me e i miei compagni, con i calci.
[…] Poichè non rispondevo mi alzarono la gonna, mi calarono le mutande e iniziarono a strapparmi i alcuni peli dal pube.Gridai.
[…]Gli agenti ripresero a maltrattarmi; mi alzarono la gonna, mi abbassarono nuovamente collant e mutande e mi strapparono altri peli del pube; inoltre mi alzarono la maglietta e mi tirano i capezzoli.

e proseguo…

PAOLA MATURI, Arrestata a Roma il 1 Febbraio 1982
“La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino ,dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo, mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i capezzoli con non so cosa. Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto entrare in una stanza.
Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo capiamo perchè fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi  mi hanno fatto fumare una sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte.
Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la spina dorsale.

LE TORTURE SUBITE DAI MILITANTI DEI PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO

MILANO 17-18 febbraio 1979460_0___30_0_0_0_0_0_avaem_071

SISINNIO BITTI:
“Era la notte del 16 febbraio 1979, rientrai a casa con Marco verso le due di notte. Appena entrati ci trovammo davanti una squadra di poliziotti in borghese che ci ammanettarono subito. Essendo entrambi attivi nel collettivo autonomo Barona del quartiere, immaginavamo di essere controllati. Il giorno prima nel pomeriggio in Milano venne ucciso l’orefice Torregiani.
Appena arrivati in questura mi portarono su e giù per le scale, dopodiché venni introdotto in un salone ai piani più alti. Lì venni assalito a calci e pugni alla schiena e dietro il collo, venni buttato a terra e picchiato; chiedevo il perché di tutto ciò e loro mi dicevano “lo sai benissimo perché. Ti conviene parlare altrimenti stanotte per te è finita; ti buttiamo giù dalla finestra.”
Venni sollevato da terra e disteso su un tavolaccio, addosso avevo almeno 6 poliziotti in borghese che mi tenevano ben fermo per le mani e i piedi: i calci li alternavano al ventre e al basso ventre. Ricordo vicino al tavolo due lavandini, in uno dei due vi era inserita una canna di plastica; questa canna mi veniva infilata in bocca e veniva aperto il rubinetto con il massimo della pressione costringendomi ad ingoiare acqua fino a riempirmi lo stomaco come un pallone; un poliziotto mi saliva sulla pancia per farmi vomitare l’acqua.
Mi fecero scendere dal tavolo e mi sedettero su una sedia, venni ammanettato e un poliziotto mi schiacciò i piedi per farmi stare fermo. Da notare che allora pesavo 52 Kg per un’altezza di 1.62, mentre i poliziotti erano quasi tutti il doppio di me. Continuarono le torture; volevano sapere dove avevamo lasciato le armi che, secondo loro, avevamo usato per uccidere Torregiani. Ad un certo punto fui costretto a inventare una scusa per sottrarmi alla violenza fisica, così dissi loro che li avrei portati nel luogo dove avrebbero trovato le armi. Li portai così in uno scantinato dove si riunivano i collettivi della zona. Io non avevo minima idea in quel momento dove si trovassero delle armi, tanto meno quelle usate per l’omicidio Torregiani; appena arrivati, in pochi minuti rivoltarono tutto, ma di armi non c’era traccia. A quel punto ebbi veramente paura, infatti due di loro tirarono fuori le pistole minacciando di uccidermi, ma altri due terbitorerano contrari al punto che litigarono tra loro, tanto da non poter capire se stessero facendo sul serio o se fosse una farsa. Ormai albeggiava, tornammo in questura e fui sbattuto in una cella senza niente, bagnato e gonfio. Mi accasciai dietro la porta; un poliziotto mi controllava continuamente. Venni prelevato dalla cella credo nel pomeriggio, mi trascinarono per un po’ su e giù per le scale, e dopo un po’ venni portato dentro una camera. Di quella esperienza ricordo solo un tavolo e tante coperte ammucchiate. Mi fecero spogliare completamente e mi sdraiarono supino sul tavolo; mi misero le manette alle caviglie e alle mani.
Incominci a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse la coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le piante dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevo andare dal Magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani.
Mi portarono davanti a due persone in una stanza semi buia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici Deliguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte ciò che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici.
Il pomeriggio che fu ucciso Torregiani mi trovavo in ospedale a lavorare in presenza di medici e infermieri che in seguito testimoniarono a mio favore. I poliziotti in parte avevano creduto e cercarono di convincermi ad accusare Sebastiano, Pietro Mutti e Franco Angelo, persone che loro conoscevano già.
Dopo questo drammatico interrogatorio davanti ai giudici mi venne finalmente offerto un panino dopo ore e ore di digiuno senza mangiare né bere; in seguito venni trasferito al carcere di San Vittore. Accortisi che stavo molto male venni immediatamente sottoposto a visita medica.
Mi riscontrarono varie lesioni, tra cui: otite traumatica, tachicardia, pressione arteriosa alta, tumefazione alle tempie, alle caviglie, tumefazione e lesione allo scroto, e in seguito venni ricoverato al centro clinico.
Dopo qualche giorno mi venne data la possibilità di poter parlare con i giudici Spataro e Deliguori, i quali li vidi dopo qualche giorno, ed in seguito partirono le denunce per i poliziotti.
Venni scarcerato per mancanza di indizi.”

L’ARRESTO DEI GIORNALISTI CHE PARLANO DELLE TORTURE

Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982

“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ’spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].disegno_shut_up
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci  per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri.  Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un  sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le

Virginio Rognoni, Ministro degli Interni

minacce di morte (”Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]

NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]

SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982

“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
siulp_logo_colori_copygiornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche,  esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.

NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza  che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”

Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche.”

ADRIANO ROCCAZZELLA, DENUNCIA ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI IVREA, G.I. ANTONIO TISEO, 24 GENNAIO 1980

“Quando fui arrestato nella zona di Alba Adriatica fui malmenato con i calci dei mitra, oltre a calci e pugni con le mani e con i piedi e insieme con me fu malmenata anche l’altra persona che fu arrestata contemporaneamente a me; Cesaroni fernando, il quale fu trattato nella stessa maniera. Fummo catturati contemporaneamente  da CC e agenti della PS che, ho saputo dopo, provenivano dalla caserma di Nereto e dalla questura di Ascoli Piceno.
Durante il trasporto dal luogo di cattura fino alla caserma di Nereto, alcuni CC, attaccando i caricatori dei mitra, pieni di pallottole, mentre io ero costretto con le mani legate in modo molto stretto, mi colpivano con i caricatori contro il gomito del braccio destro, ed anche in testa. Riportai là delle lesioni sia al gomito, che divenne blu e mi doleva, tanto che non riuscivo a piegarlo, sia alla testa, dove il medico, intervenuto successivamente, rilevò dei tagli al cuoio capelluto.rcellecarcere
Fummo condotti nella caserma di Nereto e nel corridoio della stessa passammo attraverso due ali di militari, che impugnavano mitra ed armi di ordinanza, anzi, preciso, fummo trascinati per le manette, che erano del modello a dentiera e che erano tanto tese da non permettere la circolazione del sangue ai polsi. Condottici in una stanza, volevano sapere le nostre vere identità in quanto noi eravamo forniti di documenti falsi e cominciarono a strapparci di dosso i vestiti con colpi di lamette.
A questo punto ci separarono di modo che ognuno di noi fu messo in una stanza. A questo punto io avevo già dato le mie vere generalità ed avevo dichiarato di appartenere ad un’organizzazione comunista. Nonostante ciò continuavano a malmenarmi per circa mezz’ora con calci dei mitra, colpendomi specialmente alla testa e sul naso. Dopo questo pestaggio ebbi un dolore costale, per cui penso che una costola dell’alto sinistro del torace fosse incrinata. […]
Dopo circa 2 ore che mi trovavo in quella stanza, durante le quali ogni tanto entrava qualche CC e mi appioppava calci e sberle, vennero due uomini in borghese che cominciarono ad interrogarmi, anzi preciso che uno dei due mi faceva delle domande, mentre l’altro mi colpiva con un pugno di ferro alla tempia, all’attaccatura della mandibola e alla nuca. […]
Nell’intervallo tra il pestaggio di cui ho parlato e le soste dovute al fatto che i due si recavano dal mio coimputato, venne nella stanza un carabiniere che indossava un blue-jeans ed una canottiera di lana, con un accento che mi sembrò meridionale, il quale, in un primo momento fece la parte del buono, promettendo che se avessi parlato egli si sarebbe adoperato per evitarmi ulteriori pestaggi.
gal_4809Dopo 10-15 minuti costui perse la pazienza e, tirata fuori la cinghia dei pantaloni, prima minacciò di impiccarmi poi iniziò a colpirmi sulle spalle con la cinghia piegata in due, mentre io avevo tutto ciò che indossavo ridotto a brandelli. Ogni tanto entrava qualche militare e mi colpiva con calci ai testicoli nudi, mentre mi tenevano le gambe aperte, perchè non potessi ripararmi. […]
Poco prima dell’interrogatorio del giudice, probabilmente un sostituto procuratore, venne a visitarmi un medico, dopo che i CC avevano ripulito il mio corpo dalle tracce di sangue, che tuttavia, rimasero sui brandelli di vestito che avevo addosso. […] Agli atti istruttori esiste un certificato di quel medico che attesta abrasioni da me riportate al volto oltre cha tagli alla testa e una sospetta frattura del gomito destro. Il medico mi medicò sommariamente con un cerotto sul naso disinfettandomi un po’ i vari tagli da me sofferti. Prima che fossi introdotto davanti al giudice, mi misero in una stanza di fronte a quella dove si trovava il magistrato, insieme al mio coimputato, dove ogni tanto veniva l’uomo con il pugno di ferro e ci colpiva alla nuca con il medesimo. In quella stanza c’erano 6-7 militari ed un po’ tutti ci minacciarono di non riferire le percosse al giudice , perchè in caso contrario ci avrebbero eliminati. […]
Dopo mi portarono in una stanza dove mi presero le impronte digitali, dove per la prima volta da quando ero stato di fronte al giudice, davanti al quale avevano tolto le manette, mi tolsero le manette per prendere le impronte, dopo che mi costrinsero a firmare con la forza sul foglio sul quale erano le mie impronte. A questo punto, siccome non ero in grado di camminare da solo, fui trascinato da due uomini a lavarmi le mani e nel corridoio incontrai un altro ufficiale dei CC che mi sembrò un generale e che poi ho saputo essere venuto da Napoli. […]
Dopo che mi lavai le mani mi portarono in una stanza dove mi legarono con uno spago i testicoli e cominciarono a tirare. Successivamente seppi dal Cesaroni che gli avevano legato i testicoli mentre era sulla punta dei piedi e lo spago era attaccato agli infissi delle finestre, in modo che se egli avesse appoggiato i talloni per terra, si sarebbe strappato i testicoli.
Seppi anche da lui che gli avevano stretto i testicoli tra due sbarrette di legno, glieli avevano tagliati con le lamette e precedentemente avevano messo del sale grosso da cucina e dell’aceto sui tagli relativi alle ferite riportate dallo stesso in seguito ai pestaggi e poi avevano strofinato sia il sale che l’aceto sulle ferite ed infine gli avevano bruciato le piante dei piedi con un mozzicone di sigaretta.”

Tratto da “Le Torture Affiorate”. Edizioni Sensibili alle Foglie

  1. chiara mazza
    20 aprile 2009 alle 12:39

    Non c’è meraviglia come al solito tanta rabbia e un sorriso per aver letto di nuovo sartre attraverso di te-

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