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L’arresto di Nicola D’amore: operaio Fiat, brigatista.

Nicola D’Amore, col megafono in mano, alla testa di un corteo Fiat
Quando ho ricevuto il testo che leggerete, da Nicola D’Amore, sono state subito tante le domande che avrei voluto fargli.
Per una semplice ragione, perché penso sia necessario -ora, nel 2020- raccontare, per comprendere, perché questi ragazzi o addirittura dei padri di famiglia, sceglievano di entrare a far parte di un’organizzazione armata.
Sono stati in migliaia a fare questa scelta, e la domanda che sempre mi son sentita di fare, come quando imparavo da Salvatore era … “da dove provenivi, da che città, che famiglia, che condizione sociale”?
Nicola fa parte di quei compagni che entrano nelle Brigate Rosse dalle linee delle fabbriche, dalle presse, dalle officine: le brigate di fabbrica, nate e cresciute in quel proletariato che ho sempre avuto la curiosità di capire.
Nicola nelle fabbriche del nord ci arriva da una storia lontana: nasce a Portici, da un padre ferroviere anch’esso figlio di ferroviere. Ma al quinti figlio maschio che viene al mondo decide di costruire una prospettiva diversa ed emigra verso nord, nel 1959. Sei mesi passa in stazione, con la sua famiglia, e i mobili appoggiati, che nessuno affittava casa ai terroni, che nessuno affittava casa a chi aveva cinque figli. Alla fine casa la trova, ma tre figli rimangono clandestini, perché ne poteva dichiarare solamente due: Nicola vive nascosto per anni, letteralmente nascosto sotto al letto se il padrone di casa era nei paraggi.
Scugnizzi clandestini già nei primi anni di vita, esclusi, celati.
A 16 anni è già un operaio Fiat.
La vita di Nicola andrebbe raccontata con calma, per capire quegli anni e la forza di quei proletari che tanto in alto hanno puntato e speriamo di farlo al più presto.
Intanto vi lascio col racconto del suo arresto e dei suoi primi mesi di prigionia.
Da circa sei anni ero un militante delle Brigate Rosse, più precisamente delle Brigate di Fabbrica della Fiat di Torino.
Verso il gennaio del 1980 la situazione non era delle migliori; c’era sempre più difficoltà a prendere contatto con l’organizzazione e a trovare il modo di riunirsi, tutto sembrava congelato.
Ricordo quei momenti con smarrimento, un momento di attesa, in cui mi son sentito molto solo, con un vuoto di rapporti attorno a me.E’ la metà di gennaio quando si avvicina Lorenzo Betassa, che avevo già conosciuto perché avevamo partecipato insieme ad alcune azioni armate, per dirmi che saremmo dovuti andare ad Asti la settimana successiva per una riunione della direzione strategica.
Perfetto.
Ci diamo appuntamento sul treno proprio la prima settimana di febbraio, e vista la forte sensazione di essere sotto controllo in fabbrica nelle ultime settimane, abbiamo rafforzato di molto le misure di sicurezza. Così quella mattina, salendo sul treno, mi sono accorto subito di una donna che passeggiava facendo l’indifferente, come se nulla fosse. Era una domenica mattina, il treno era quasi vuoto e io e Lorenzo ci trovavamo nella stessa carrozza ma in scompartimenti separati.
Alla stazione di Asti arriviamo intorno alle 9 del mattino e subito, una volta scesi, ho chiesto a Lorenzo se aveva notato la tipa e se aveva avuto le mie stesse sensazioni, “Sì”, mi risponde.Continuiamo a fare dei giri, acquistiamo sicurezza dopo quell’incontro, e andiamo al bar dell’appuntamento.
Ci troviamo Rocco Micaletto che ci spiega la situazione e ci propone il passaggio alla clandestinità, visto che eravamo i più anziani e avevamo già costituito un nucleo in grado di portare avanti le istanze dell’organizzazione.
Io, come responsabile delle brigate delle presse mi sono subito proposto, mentre Lorenzo ha tentato di farmi dissuadere, dicendomi di aspettare, che avrei potuto stare ancora un po’ con mia moglie e mio figlio e casomai entrare il mese successivo.
E così andò, lui partì per primo. Siamo alla fine di febbraio, ed io sono in attesa della partenza.Il corpo di Lorenzo Betassa, nell’appartamento di Via Fracchia
Il giorno maledetto arriva, sento la radio, comprendo tutta la drammaticità della situazione, è tremendo pensare che sarei dovuto essere io al posto di Lorenzo Betassa, dentro l’appartamento di Via Fracchia. Il primo impulso è quello di scendere in strada e tirare giù il primo carabiniere che incontro.
L’ARRESTO
Prosegue un periodo tremendo, in cui sono solo e in attesa di un contatto che continua a non arrivare: il 9 aprile alle 4 del mattino sento un rumore sordo alla porta, un brusio di voci.Apro la porta in mutande e si buttano in tanti dentro casa, armati di mitra.
Non ho il tempo di dire nulla, che già sono ammanettato, al centro di una situazione di confusione totale: siamo in una casa operaia di settanta metri quadri dove si ritrovano improvvisamente una ventina di bisonti armati fino ai denti.
Cerco di ritrovare un secondo di razionalità e rivolgendomi al responsabile dell’operazione chiedo di smettere di fare quel casino, che nell’altra camera ci sono mia moglie e mio figlio Ciro, di sei anni. Proseguono perquisendo la cucina, i balconi, la stanza dove dormivo quando facevo il primo turno, per non svegliare Teresa e Ciro alle cinque del mattino, e poi di dicono di vestirmi per andare, dopo nemmeno dieci minuti, che la perquisizione sarebbe continuata con la sola presenza di mia moglie.
Sarà lei poi a raccontarmi che hanno proseguito per un’altra ora, con modalità decenti.
Appena uscito dall’atrio del portone ho avuto la sensazione che tutto fosse un sogno: il buio delle mattinate torinesi assomigliava a quello delle tante mattine in cui uscivo per andare in fabbrica.
Ma ecco che appena ci avviciniamo ad una macchina, di cui ricordo solo il colore scuro, vengo incappucciato e fatto salire: rimaniamo a bordo circa un’ora.
Tempo dopo ho scoperto che la caserma dove son stato portato è quella di Rivoli, nella periferia della città, a meno di un quarto d’ora da casa mia: chissà quanti giri hanno fatto ! Mi ritrovo così in una stanza completamente vuota e bianca, senza sedie e alcun tipo di suppellettile: appena mi chiudono mi guardo attorno e mi siedo a terra, con una sensazione di debolezza ma anche di tranquillità, come se il pericolo fosse scampato. Quella stanza bianca e vuota sarà la mia cella per circa un mese: ogni tanto le guardie entravano un po’ alticce e con le pistole senza caricatori volevano giocare alla roulette russa.
Capitava a volte che lasciassero socchiusa la porta, con in bella vista le armi sistemate in armeria, anch’essa lasciata appositamente socchiusa: speravano probabilmente in qualche mia cazzata, ti spingevano a far qualche mossa falsa e poi se ci provavi il risultato era prevedibile.Un mese dopo mi ritrovai di nuovo in viaggio dentro una macchina in borghese, per essere trasferito nei sotterranei del carcere di Chiavari.
Sette celle davanti ad un muro, in un corridoio cieco appositamente ristrutturato per noi: ho trascorso lì dentro più di sei mesi durante i quali ho ricevuto la visita di Caselli due volte. Veniva a ricordarmi che se non avessi collaborato, la sola prospettiva era quella dell’isolamento per il resto della mia vita: un trattamento di meschino terrorismo psicologico.
Ho ricevuto la visita di mia moglie verso settembre: era bello sapere che lei e Ciro stavano bene e trovai stupefacente quando mi raccontò che prima di entrare in carcere per il colloquio, entrando in un bar, gli avevano chiesto se era parente di uno degli arrestati delle Brigate Rosse; alla sua conferma le chiesero di attendere per tornare solo dopo mezzora con una borsa piena di cibo e un risotto alla pescatora buonissimo.
Il messaggio era chiaro: sappiamo che sei lì, e ci siamo.I PRIMI SEI MESI: L’ISOLAMENTO
I primi mesi di prigionia furono tremendi per me.
Ero terrorizzato dal fatto che potessi parlare, che potessero mettermi qualcosa nel cibo per farmi parlare, proprio a me che nemmeno le mie generalità avevo voluto dire a Caselli.
Così buttavo la casanza, tutto quello che arrivava, mangiavo solo le bucce della frutta, bevevo l’acqua dello sciacquone con il terrore: starete immaginando che ero pazzo, ma io avevo il terrore di poter dire qualcosa che potesse arrecare danno ai miei compagni e all’organizzazione, non avrei mai potuto accettarlo.
La maggior parte del tempo la passavo con qualche scarafaggio che, malgrado la luce accesa h24, usciva per cercare cibo ad una certa ora. Uno lo adottai proprio: legato al filo della coperta, lo nutrivo con delle briciole e ingrassava, fortificandosi, col suo fiocchettino rosso.
La prima volta che son riuscito ad ottenere un foglio di giornale ho ricavato delle palline per giocare da solo a bocce, per mantenere attiva la testa e il corpo, vista l’impossibilità di movimento se non per una doccia a settimana, veloce.
Per non impazzire ripetevo poesie a memoria, facevo calcoli, tentavo di pensare il meno possibile e di tenere la mente occupata: questo facevo, questo era. Non se se questo è normalità o tortura, so solo che ogni aspetto di un uomo solo nel ventre del potere è tortura e la sola forza interiore che puoi trovare per sopravvivere è il pensiero dei compagni, della collettività.LA FINE DELL’ISOLAMENTO
Passati questi sei mesi, verso metà novembre, faccio conoscenza con il furgone blindato usato per il trasferimento detenuto: Chiavari – Trani, ammanettato in quel piccolo spazio. Ricordo i polsi addormentati per una settimana, grazie ai maledetti schiavettoni chiusi con troppo zelo. Giunti nel carcere speciale di Trani, arriva il maresciallo Campanale e mi spiega che quei rumori che sento sono proprio i compagni, che vogliono sapere in che condizioni sono e chiedono di essere portato in sezione insieme a loro. Penso sia stata la prima volta che ho rivolto parola ad una guardia dopo mesi “cosa aspetta allora a farmi andare?”. “Domani mattina sarà trasferito in sezione, ora non si può. Però scriva un biglietto in cui dice che sta bene, che non è stato toccato e se vuole qualcosa da mangiare”.Lo scrissi e mangiai parecchio di quello che i compagni mi mandarono.
Finalmente il cibo dei compagni.Non avevo preso nemmeno uno schiaffo in questo lungo periodo di detenzione in solitudine, prima di raggiungere le sezioni: non sapevo cosa volesse dire pestaggio, agguato, squadretta.
Ma non ci fu bisogno di aspettare molto.
Nemmeno un mese dopo il mio arrivo a Trani iniziò “la battaglia”; poi ci furono Palmi, Fossombrone, le Molinette, Le Vallette …
“Cronologia di una rivoluzione mancata” nelle librerie da oggi
Esce oggi nelle librerie “Gli anni della lotta armata – Cronologia di una rivoluzione mancata” di Davide Steccanella, ed. Bietti
Ve lo consiglio, perché Davide è uno che la storia della lotta armata non l’ha avvicinata da molto, malgrado cronologicamente l’ha in parte guardata scorrergli accanto, fino a che non è caduto in un racconto, il racconto di Prospero Gallinari, in una lunga intervista.
E’ proprio Davide, sulle pagine di questo blog a raccontarmi come è iniziata…
<<e così iniziai ad ascoltare il suo racconto, lungo, più di 1 ora, ma interrotto, una sorta di monologo, era il racconto della sua storia e di quella storia. Era la prima volta che qualcuno me la raccontava così, sembrerà strano ma è proprio così, fino a pochissimi anni fa ero uno dei tanti “indottrinati” dalla storia dei vincitori.>>
Quindi leggetelo questo libro, da oggi sfogliabile ed acquistabile nelle librerie di questo paese avvolto dall’oblio.
Perché oltre ad essere una boccata d’aria, è un libro utile: una cronologia dettagliata, da tener sempre al proprio fianco,
come il suo autore!
Non è vero che si trattò di una deriva isolata di pochi violenti che si inserì in un contesto di protesta pacifica, e questo lo dicono sia la cronologia storica dei fatti accaduti in Italia dal 1969 al 1983, sia i dati numerici sulla lotta armata raccolti dai volumi editi dalla cooperativa “Sensibili alle Foglie”.
Non è veero che fu una guerriglia condotta da annoiati studenti “radical chic” istigati da “cattivi maestri”, ed anche questo lo dicono i dati di “provenienza sociale” raccolti dai citati volumi, dove si può vedere come la grande maggioranza dei lottarmatisti fosse di provenienza operaia, contadina e “proletaria”, oppure leggere le tante auto o etero biografie pubblicate in questi anni.
Non è vero che la lotta armata, e più in generale la violenza politica, non trovò mai alcuna “adesione” da parte di una importante parte della società italiana di quegli anni, ivi compresa la classe operaia, e lo dicono sia le storie personali, sia il racconto di episodi storici che ormai si trovano in diverse pubblicazioni, sia le tante interviste ai protagonisti dell’epoca.
Non ci furono solo le Brigate Rosse (o Prima Linea) ad attaccare m ilitarmente lo Stato; dopo il 1978 in Italia si formarono almeno un centinaio di gruppi armati nella stagione del “terrorismo diffuso” e non è neppure vero che furono le Brigate Rosse a dare inizio alla violenza politica, basta consultare la cronologia prima del 1976, data in cui si compì il primo omicidio delle BR,
Non è vero che la stessa storia delle Brigate Rosse, che pure sono state di gran lunga l’organizzazione più longeva, sia sempre stata la medesima; erano diversi i percorsi personali di provenienza dei tanti militanti, basta confrontare la storia del gruppo dei “reggiani” con quella dei “romani” o dei “trentini” o degli operai emigranti, e sono state diverse anche le “strategie” guerrigliere adottate nel corso degli ani che hanno condotto, non a cas, a tutte quelle plurime spaccature “interne” dopo il 1980.
Non è vero che le Brigate Rosse furno “manovrate” da misteriosi poteri occulti nell’operazione Moro, intorno alla quale non residua nessun “mistero”, e su questo sono stati citati i testi di riferimento oltra alle unanimi dichiarazioni di tutti i diretti protagonisti, su questo concordi indipendentemente dalla successiva scelta da loro operata, oltre che le varie sentenze divenute definitive.
Non è vero che il movimento del ’77 era “figlio” di quello del ’68: basta leggere i tanti resoconti dei protagonisti di allora, oltre che la storia; e non è vero che ci fu un “unico disegno comune di insurrezione armata” sotto diverse sigle, coloro che provenivano dall’esperienza del ’77 e dell’Autonomia non avevano nulla a che spartire con le BR, sia per l’ideologia sia per operatività organizzativa, e non a caso la stessa operazione Moro venne pesantemente criticata da tutte le altre organizzazioni armate di sinistra.
Non è vero che lo Stato sconfisse la guerriglia armata senza ricorrere a leggi speciali e persino a metodi extra-legali; basta ricostruire alcuni episodi, da via Fracchia alle torture inflitte nel 1982 ai vari prigionieri, oppure ricordare la diffusa promulgazione in quegli anni di leggi speciali, gli arresti ingiustificati e le condanne sommarie, fino alle tante premialità giudiziarie in favore della dissociazione, a discapito di chi invece non si dissociò.
Non è vero che lo Stato non scese mai a “compromessi” per sconfiggere la lotta armata; basta pensare ad episodi accertati e plurimi di infiltrazione, ovvero di trattative occulte ed inquietanti come nel caso Cirillo, ovvero di favoreggiamento come nel caso Cossiga- Donat Cattin.
Non è vero che tutti coloro che ai tempi si erano armati si sono poi dissociati a parte pochi fanatici “irriducibili” (terminologia davvero infelice); basta leggere o ascoltare oggi le molte e rilevanti testimonianze di chi in questi anni ha scontato l’intera pena e ora, dopo 30 anni, è libero.Tratto da “Gli anni della lotta armata – Cronologia di una rivoluzione mancata” di Davide Steccanella
“Si è ancora al giorno uno di una storia bloccata, ma bloccata non solo per loro: di più per la pubblica salute di un paese che non si è più disintossicato dall’emergenza e continua a inventarsene, a spacciarne, a iniettarsele in vena. Siamo un paese di bambini invecchiati, bisognosi di mostri.” (Erri De Luca)
Quando sento parlare di Carlo Alberto Dalla Chiesa…
Quando sento parlare di Carlo Alberto Dalla Chiesa penso ad un corridoio stretto.
Quando sento parlare di Carlo Alberto Dalla Chiesa penso a 4 cadaveri in fila.

Via Fracchia, 28 marzo 1980
Giustiziati.
Ogni volta che sento parlare di Carlo Alberto Dalla Chiesa sento decine di colpi d’arma da fuoco ad interrompere il sonno di 4 persone.
Ogni volta che sento parlare dell’eroe di Stato Carlo Alberto Dalla Chiesa penso a come si dorme profondamente alle 2.42 di notte, anche da clandestini.
E penso ad Annamaria Ludmann, 32 anni , a Lorenzo Betassa, 28 anni, a Piero Panciarelli, 25 anni, a Riccardo Dura di 30 anni,
il cui sorriso e simpatia sono arrivati ai giorni nostri dai racconti di TUTTI quelli che hanno diviso con lui anche solo un caffè…
Quando penso a Carlo Alberto Dalla Chiesa sento un brivido lungo come quel corridoio e il silenzio piombato su una strage palese.
Quando sento parlare di Carlo Alberto Dalla Chiesa vorrei tanto, perdio se lo vorrei, sentir parlare dell’eccidio di Via Fracchia, in quella triste notte genovese del 28 marzo 1980.
Quando sento il nome di Dalla Chiesa penso a Giancarlo Del Padrone, morto nel carcere delle Murate, durante la rivolta, da lui sedata.
Quando sento il nome di Dalla Chiesa penso alla rivolta nel carcere di Alessandria del 1974, sedata a colpi di fucile, con 5 morti a terra.
Annamaria, Riccardo, Lorenzo, Piero: A PUGNO CHIUSO
Ad Edoardo Arnaldi
EDOARDO ARNALDI
-Nasce a Genova il 27 novembre 1925
– dal 1949 lavora come avvocato civilista, nel ’69 diventa penalista
-milita in Soccorso Rosso
– muore suicida a Genova il 19 aprile 1980, quando i carabinieri vanno a casa sua per arrestarlo. Nelle stesse ore a Milano arrestavano un altro avvocato, Sergio Spezzali, per « connivenza » con le Brigate Rosse.
Vincenzo Guagliardo : Testimonianza del Progetto Memoria, Carcere di Opera 1994
Subito dopo l’esecuzione di via Fracchia, le forze dell’ordine andarono ad arrestare l’avvocato Edoardo Arnaldi poichè Sulla base delle indicazioni di Patrizio Peci, egli ormai non poteva che essere un brigatista.
La nascita del « pentito » moderno fonda improvvisamente una nuova etica : la comunità non è piu’ orgogliosa, (per se stessa) di avere piccole « zone franche » dove il medico, o l’avvocato devono restare impuniti e devono incontrare il fuorilegge in pericolo per la propria vita o libertà. I delicati contrappesi di una cultura costruitasi in secoli spariscano in un baleno. Le definizioni usuali che ne conseguivano per l’identità e la coscienza del singolo sbiadiscono, le parole dello storico o del filosofo vengono sostituite da quelle del giudice e del poliziotto, le quali stritolano, riducono, annullano ogni differenza nella semplice e immensa visione del complotto.
Devo qui confessare che Edoardo accettò, per esempio, di incontrarsi con me, mentre ero brigatista e latitante, perchè considerava ciò un suo dovere nella sua … antiquata morale. I suoi modi, la sua voce, i suoi ragionamenti avevano una gentilezza d’altri tempi. Neppure io, all’epoca, ero cosciente dei cambiamenti avvenuti. Mi era parso dunque giusto incontrare quest’uomo onde dargli un aiuto économico per sostenere i suoi viaggi appresso ai compagni in carcere e ai loro casi. Non vedevo grandi rischi per lui.
Quando le forze dell’ordine arrivarono a casa sua per un motivo del genere, Edoardo chiese di andare un attimo in un’altra stanza, e qui si sparò un colpo di pistola e morì. Mi viene in mente la filosofia di Anders, secondo la quale l’essere umano risulta essere ormai un prodotto antiquato rispetto a ciò che ha costruito, rispetto ai suoi stessi prodotti. E a volte si ribella come può, aggiungo.
Va detto che Edoardo s’era rovinato economicamente per noi. Aveva accettato di difendere i brigatisti insieme a Sergio Spazzali, e si era ritrovato umanamente sempre più solo e senza più tanti clienti. Ma tutto questo non è niente perchè dei suoi beni svenduti penso che se ne fregasse. Il fatto è che stava pure male fisicamente : era diabetico e affetto dal morbo di Bürger, ragion per cui, quando lo rividi da clandestino, zoppicava vistosamente.
Provo ora ad interpretare il suo gesto anche se mi rendo conto dell’arroganza e dell’insufficienza di un tale tentativo di fronte alla complessità dell’essere umano che si suicida.
Edoardo era stato un partigiano, uno dei tanti che erano rimasti delusi dei risultati ottenuti dalla Resistenza. Perciò sviluppò verso i brigatisti dei complessi rapporti « paterni ». Disse in un’arringa che avevamo dovuto fare i conti con i limiti di quanto aveva ottenuto la lotta della sua generazione.
Perciò essendo ancora noi dei « ragazzi con il sangue nelle vene », avevamo dovuto cercare a modo nostro e come potevamo di finire ciò che lui e quelli come lui avevano provato a cominciare. Oserei dire che ci vedeva a errare da limiti suoi più che nostri… Penso che in questo tipo di affermazioni ci sia un ingiusto « complesso di colpa » verso se stesso, ma al tempo stesso e al di là di questo, un profondo senso storico, una coscienza della inevitabile e necessaria contraddittorietà dell’atto umano volto alla liberazione. Il limite viene individuato per rafforzare la solidarietà invece che per giudicare ; per non rinunciare al cammino.
Certo è che una persona come questa, trovatasi di fronte all’idea di finire in galera in quelle condizioni, avrà pensato più o meno : « Nelle mie condizioni fisiche finire in carcere significherà dover accettare umiliazioni per ogni cosa ».
Inoltre, c’era in lui l’uomo deluso dagli esiti della Resistenza che ora doveva fare i conti con un arresto dovuto a tradimento fondato -per giunta – su una malafede interpretativa impensabile fino a pochi anni prima. E c’era proprio uno dei suoi « figli » ideali che per cavarsela lo denunciava così. Qui l’uomo antico che era in lui si sarà ribellato : il vecchio amico dichiarato, ma non identico ai giovani brigatisti, non poteva accettare di essere così presentato e denunciato proprio da un brigatista delatore. E allora un uomo che sta male è orgoglioso, non ci sta ad accettare giorni umilianti per le sue condizioni fisiche e per una ragione del genere : un secondo tradimento dei suoi sogni. Allora va nell’altra stanza e si spara.
In un nuovo contesto, con altri pensieri più ricchi d’esperienza, bisognerà riconquistare le caratteristiche dell’ « uomo antiquato rispetto al suo prodotto », farlo rivivere.
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