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Cosa accomuna Marcello Basili, pentito della lotta armata e oggi docente universitario, a Nicola Ciocia (alias professor De Tormentis), ex funzionario dell’Ucigos torturatore di brigatisti?
DAL BLOG INSORGENZE di Paolo Persichetti
mercoledì 1 febbraio 2012
La voglia d’oblio. Il tentativo di restare anonimi, di nascondersi tra le rughe del passato sperando di poter cancellare la propria storia. A Marcello Basili, oggi professore associato di Economia politica presso l’Università di Siena, il passato pesa come un macigno.
Nel 1982 fu arrestato per appartenenza alle Brigate rosse, brigata di Torre spaccata. Non attese molto per pentirsi. Vestì subito i panni del collaboratore di giustizia e da bravo «ravveduto» si adoperò nell’arte dell’autocritica degli altri, scaricando sui suoi coimputati accuse e chiamate di correo. Mentre parlava molti dei suoi ex compagni venivano torturati, con le stesse modalità impiegate da quel Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, capo di una squadra (i cinque dell’Ave Maria) specializzata negli interrogatori con l’acqua e sale, la tecnica del waterboarding impiegata per estorcere dichiarazioni.
Il pentito che vuole farsi dimenticare
Scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della sera di oggi, 1° febbraio, che Basili ha chiesto attraverso il suo avvocato che il suo passato di militante della lotta armata sia cancellato dagli archivi telematici, invocando la legge sulla privacy e il «diritto all’oblio» per «non vedere incrinata o distrutta la propria riconquistata considerazione sociale».
Questione seria quella del diritto all’oblio che avrebbe meritato tutt’altro dibattito ma che appare del tutto inappropriata in casi come quello di Marcello Basili o di Nicola Ciocia.
Sempre secondo quanto rivela il Corriere, Basili si è rivolto al Centro di documentazione della Fondazione Flamigni intimando di eliminare il suo nome dagli indici e comunicando di opporsi «al trattamento dei dati» connessi ai suoi trascorsi sovversivi. Precedenti che, sostiene sempre l’insegnante universitario, «appartengono ormai al passato, sono già stati resi noti all’epoca e hanno perso quel carattere di attualità che ne potrebbe giustificare l’ulteriore pubblicazione».
A dire il vero la Fondazione Flamigni andrebbe stigmatizzata per altre ragioni, essendo il più grande collettore delle teorie del complotto, la più grande banca dati della menzogna storica sulla lotta armata per il comunismo.
Ma torniamo a Basili: se i dati in questione fossero impiegati con uno scopo discriminatorio, il docente dell’università di Siena avrebbe tutte le ragioni per lamentarsene. Tuttavia non sembra, fino a prova contraria, che Basili ne abbia ricevuto fino ad oggi un qualche svantaggio. I reati per cui subì un processo e la condanna prevedevono, per chi non collabora con la giustizia, oltre ad una lunga reclusione in carceri speciali anche l’interdizione automatica dai pubblici uffici una volta terminata la pena.
Basili al contrario, grazie allo status di pentito che gli ha permesso di esportare ogni responsabilità sulle spalle altrui, mandando in galera altri, ha avuto da parte dello Stato un trattamento di tutto favore: una reclusione breve e l’interdizione venuta meno. Circostanze che gli hanno consentito di svolgere una brillante carriera universitaria, mentre i suoi compagni di brigata erano, e in alcuni casi sono tuttora, in carcere.
Certo Basili potrebbe ricordare le tante amnesie e rimozioni che hanno avvolto e avvolgono le biografie dei molti padri della patria, la lunga fila di redenti con militanze giovanili infrequentabili che riempiono i ranghi della prima e della seconda Repubblica, compreso il nostro attuale capo dello Stato. Ma l’essersi buttato pentito, purtroppo per lui, non gli dà comunque il diritto di vantare un posto di prima classe sul carro dei vincitori.
La storia non si imbavaglia e tantomeno si rimuove: si elabora
La richiesta avanzata da Basili, anche se ha qualcosa di abietto, non deve tuttavia sorprendere più di tanto perché resta coerente con quella cultura del ravvedimento contenuta nella legislazione premiale introdotta dallo Stato per fronteggiare i movimenti sociali sovversivi. Nel corso degli anni 80 e 90 pentiti e dissociati ricevettero il mandato di amministrare la memoria degli anni 70, scritta e divulgata attraverso un fiume di delazioni, ricostruzioni ammaestrate e testimoninaze ammansite.
La magistratura, che ha gestito in Italia lo stato di emergenza, si è servita di questo personale fatto di ex militanti ravveduti e collaboranti, trasmettendo loro un irrefrenabile sentimento d’impunità che oggi porta quelli come Basili, o i funzionari di polizia addetti al lavoro sporco come Ciocia, privi del coraggio delle loro idee e delle loro azioni, a pretendere che la storia resti muta, senza traccia del loro passaggio.
Questa richiesta di trasformare un passato pubblico in un fatto privato è la conseguenza anche di quel processo di privatizzazione della giustizia che ha portato nell’ultimo decennio magistratura e sistema politico a delegare, sovraccaricare sulle spalle delle parti civili, la gestione della sanzione penale nei confronti dei prigionieri politici.
Il torturatore di Stato che continua a nascondersi
Esiste un parallelo tra l’atteggiamento di Marcello Basili è il comportamento di Nicola Ciocia, già funzionario dell’Ucigos e capo del gruppo di torturatori che per tutto il 1982 (ma anche prima per sua stessa ammissione, vedi il caso di Enrico Triaca nel maggio 1978 e ancora prima quello di Alberto Buonoconto nel 1975), ha imperversato tra caserme, questure e chiese sconsacrate d’Italia praticando l’acqua e sale contro persone arrestate con imputazioni di banda armata.
Questo signore, ora pensionato settantasettenne, nonostante sia stato chiamato in causa da un suo collega (Salvatore Genova), nonostante diversi articoli e un libro recente che ne hanno raccontato l’attività di seviziatore agli ordini dello Stato, indicandolo sotto l’eteronimo di professor De Tormentis, copertura sotto la quale lui stesso ha riconosciuto a mezzabocca le sevizie commesse, pur non rischiando più nulla sul piano penale non vuole venire allo scoperto.
Recentemente, dopo un esposto inviato all’ordine, il suo nome è scomparso anche dall’albo degli avvocati napoletani (attività a cui si era dedicato dopo aver lasciato il ministero dell’Interno con la qualifica di questore), dove compariva regolarmente fino a poche settimane fa.
Di “Nicola Ciocia-De Tormentis” ci siamo diffusamente occupati in questo blog (per gli approfondimenti rinviamo ai diversi link) e continueremo a farlo ancora. C’è infatti molto da raccontare: dall’organigramma delle tortrure, alla filiera di comando, al decisivo ruolo di copertura svolto dalla magistratura fino ad un illuminate dibattito sull’opportunità del ricorso alla tortura e sulla particolare forma di stato di eccezione che si è avuto in Italia sul finire degli anni 70. Discussione che si è tenuta alcuni anni fa sui maggiori quotidiani italiani.
La vicenda Basili-Ciocia (alias De Tormentis) dimostra come l’Italia abbia dato forma ad un singolare paradosso: alla memoria storica svuotata dei fatti sociali è stata sostituita la memoria giudiziaria; all’oblio penale si è sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Così un decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
A riguardo anche un articolo di Davide Steccanella, avvocato del foro di Milano : LEGGI
LINK SULLA TORTURA di questo blog:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Triaca
17) Seconda parte Triaca
Il coraggio dell’amnistia
Oggi il nuovo quotidiano L’Altro, ha aperto con un editoriale di Sansonetti decisamente importante, che riporterò qui sotto.
In questi giorni proverò a mettere un po’ di materiale sull’amnistia: perchè è una battaglia che dovremmo sentire nel sangue.
Per allontanare “dar catenaccio” chi ancora è costretto dentro un carcere…
IL CORAGGIO DELL’AMNISTIA di Piero Sansonetti (editoriale del quotidiano L’Altro di sabato 16 maggio 2009)
Giampiero Mughini ha raccontato ieri al Corriere della Sera (articolo di Aldo Cazzullo) i suoi ricordi e le sue riflessioni sull’uccisione del commissario Luigi Calabresi (anno 1972), Mughini all’epoca era vicino al gruppo dirigente di Lotta Continua, e quindi basa la sua ricostruzione (ipotetica) dei fatti su elementi di conoscenza personale (di abitudini, idee, rapporti, modi di comportarsi di quel periodo). Mughini avanza l’ipotesi che Sofri non sia colpevole diretto, ma che sapesse. E che conosca i nomi di chi uccise Calabresi. Tesi che già in passato aveva sostenuto. Personalmente questa ricostruzione non mi convince. Penso che Sofri sia innocente. E constato che, in ogni caso, contro di lui non sono state raccolte prove, e i processi che si sono conclusi con la sua condanna erano processi indiziari, tutti fondati sulle dichiarazioni di un pentito (non verificate e non verificabili) il quale in cambio della condanna di Adriano Sofri ha ottenuto per se la libertà dopo pochissimi mesi di prigione (pur essendo stato condannato come autore materiale dell’uccisione).
Sono assolutamente convinto del principio secondo il quale in mancanza di prove non si può condannare. E credo che un certo numero dei processi che si sono svolti negli anni ’80 (e in parte ’90) contro gli imputati di lotta armata o di reati politici, siano stati processi “zoppi”, poco convincenti, senza garanzie. Influenzati dal clima politico dell’epoca e condizionati da una legislazione speciale, basata sull’esaltazione del pentitismo, che non dava garanzie né di verità né di equanimità. Che le cose stiano così è abbastanza evidente. E ce ne accorgiamo ogni volta che le nostre autorità chiedono l’estradizione di qualcuno che fu condannato in quegli anni, con quei processi, e non la ottengono (recentissimo caso Battisti), Come mai non l’ottengono? Perché la Francia, il Brasile, il Canada, la Gran Bretagna, la Svezia, la Spagna eccetera eccetera sono paesi filo terroristi? Non mi pare una spiegazione ragionevole. Non la ottengono perché i processi sono considerati non affidabili. Tutto qui. Vedete bene che il problema esiste, e va affrontato seriamente. In che modo? Riprendendo la riflessione su quegli anni di fuoco, nei quali la lotta politica, in Italia, convisse con la lotta armata; e trovando il modo dì uscire definitivamente da quel clima e da quella storia. C’è un solo modo di uscire da quel clima e da quella storia.
Chiudendone tetti gli strascichi giudiziari e penali. Cioè con l’amnistia. Solo l’amnistia può relegare finalmente nel passato gli anni di piombo e di conseguenza permettere l’apertura di una discussione e di una riflessione seria. Quali sono gli argomenti contro l’amnistia?
In genere se ne sentono tre.
Il primo è il cosiddetto “diritto dei parenti delle vittime”.
Il secondo è la certezza della pena e il rischio che gente che ha seminato il male non paghi per il male, la faccia franca.
Il terzo è la paura che l’amnistia ci impedisca di scoprire cosa davvero è successo in quegli anni, cosa c’era dietro i delitti,
Il primo argomento mi sembra che non riguardi il diritto. Riguarda semmai la politica. I parenti delle vittime non hanno il diritto dì influire sulle pene dei colpevoli (o, talvolta, dei sospetti). Hanno il diritto ad essere risarciti, aiutati, assistiti. E spesso questo diritto non viene loro riconosciuto dallo Stato, ma l’amnistia non c’entra niente.
Il secondo argomento è sbagliato. Per un motivo molto semplice: la lotta armata degli anni settanta è l’unico capitolo della storia del delitto italiano che ha prodotto un numero altissimo di condanne e di pene. I ragazzi che furono coinvolti nella lotta armata, nella loro quasi totalità hanno pagato con anni e anni di galera. Non esistono altri “rami” del delitto dei quali si possa dire altrettanto. Qualcuno ha pagato per le stragi di Stato? Qualcuno per la corruzione politica? Qualcuno per le responsabilità dell’ecatombe sul lavoro? Ho fatto solo tre esempi, ì più clamorosi» ma potrei continuare. E allora è curioso che si chieda la cer-tezza della pena per gli unici che la pena l’hanno scontata. Giusto?
Il terzo argomento è il più controverso. E’ la famosa questione del complotto. Qual è il problema? Una parte dell’opinione pubblica italiana (specialmente di sinistra) si era convinta, negli anni scorsi, che il fenomeno della lotta armata fosse troppo grande e vasto e potente per potere essere il semplice prodotto dell’impegno diretto e un po’ delirante di alcune migliaia di giovani. E che allora dovesse essere il risultato di un complotto nazionale o internazionale. Devo dire che per molti anni anche io mi ero convinto di qualcosa del genere. Avevo sospettato che il rapimento e l’uccisione di Moro fosse una losca congiura del potere. Però poi, di fronte alla realtà, bisogna arrendersi. I colpevoli sono stati tutti arrestati, sono state raccolte tonnellate di testimonianze, prove, documenti. Sono passati 30 anni. È chiaro che non ci fu complotto. Semplicemente avevamo sottovalutato la forza della rivolta armata. E allora perché negare l’amnistia con la scusa della ricerca della verità? È chiaro che le cose stanno in modo molto diverso. La verità che ancora non conosciamo, che vorremmo conoscere, è quella sulle stragi di Stato (da piazza Fontana 1969 fino alla Stazione di Bologna 1980). Cioè su quella parte di lotta armata (di controguerriglia) che fu organizzata direttamente dalle istituzioni e dal potere e che, tra l’altro, ebbe un peso forte nella nascita – per reazione – delle brigate rosse e delle altre formazioni eversive di sinistra. Nessuno è in prigione per quelle stragi (tranne alcuni estremisti d destra per la strage di Bologna, ma moltissimi esperti ritengono che essi siano innocenti). Con questi misteri l’amnistia non c’entra niente. E probabilmente se ci si decidesse a vararla potrebbe essere un aiuto per riaprire la discussione e la ricerca su quel buco nero della storia italiana.
Ad Edoardo Arnaldi
EDOARDO ARNALDI
-Nasce a Genova il 27 novembre 1925
– dal 1949 lavora come avvocato civilista, nel ’69 diventa penalista
-milita in Soccorso Rosso
– muore suicida a Genova il 19 aprile 1980, quando i carabinieri vanno a casa sua per arrestarlo. Nelle stesse ore a Milano arrestavano un altro avvocato, Sergio Spezzali, per « connivenza » con le Brigate Rosse.
Vincenzo Guagliardo : Testimonianza del Progetto Memoria, Carcere di Opera 1994
Subito dopo l’esecuzione di via Fracchia, le forze dell’ordine andarono ad arrestare l’avvocato Edoardo Arnaldi poichè Sulla base delle indicazioni di Patrizio Peci, egli ormai non poteva che essere un brigatista.
La nascita del « pentito » moderno fonda improvvisamente una nuova etica : la comunità non è piu’ orgogliosa, (per se stessa) di avere piccole « zone franche » dove il medico, o l’avvocato devono restare impuniti e devono incontrare il fuorilegge in pericolo per la propria vita o libertà. I delicati contrappesi di una cultura costruitasi in secoli spariscano in un baleno. Le definizioni usuali che ne conseguivano per l’identità e la coscienza del singolo sbiadiscono, le parole dello storico o del filosofo vengono sostituite da quelle del giudice e del poliziotto, le quali stritolano, riducono, annullano ogni differenza nella semplice e immensa visione del complotto.
Devo qui confessare che Edoardo accettò, per esempio, di incontrarsi con me, mentre ero brigatista e latitante, perchè considerava ciò un suo dovere nella sua … antiquata morale. I suoi modi, la sua voce, i suoi ragionamenti avevano una gentilezza d’altri tempi. Neppure io, all’epoca, ero cosciente dei cambiamenti avvenuti. Mi era parso dunque giusto incontrare quest’uomo onde dargli un aiuto économico per sostenere i suoi viaggi appresso ai compagni in carcere e ai loro casi. Non vedevo grandi rischi per lui.
Quando le forze dell’ordine arrivarono a casa sua per un motivo del genere, Edoardo chiese di andare un attimo in un’altra stanza, e qui si sparò un colpo di pistola e morì. Mi viene in mente la filosofia di Anders, secondo la quale l’essere umano risulta essere ormai un prodotto antiquato rispetto a ciò che ha costruito, rispetto ai suoi stessi prodotti. E a volte si ribella come può, aggiungo.
Va detto che Edoardo s’era rovinato economicamente per noi. Aveva accettato di difendere i brigatisti insieme a Sergio Spazzali, e si era ritrovato umanamente sempre più solo e senza più tanti clienti. Ma tutto questo non è niente perchè dei suoi beni svenduti penso che se ne fregasse. Il fatto è che stava pure male fisicamente : era diabetico e affetto dal morbo di Bürger, ragion per cui, quando lo rividi da clandestino, zoppicava vistosamente.
Provo ora ad interpretare il suo gesto anche se mi rendo conto dell’arroganza e dell’insufficienza di un tale tentativo di fronte alla complessità dell’essere umano che si suicida.
Edoardo era stato un partigiano, uno dei tanti che erano rimasti delusi dei risultati ottenuti dalla Resistenza. Perciò sviluppò verso i brigatisti dei complessi rapporti « paterni ». Disse in un’arringa che avevamo dovuto fare i conti con i limiti di quanto aveva ottenuto la lotta della sua generazione.
Perciò essendo ancora noi dei « ragazzi con il sangue nelle vene », avevamo dovuto cercare a modo nostro e come potevamo di finire ciò che lui e quelli come lui avevano provato a cominciare. Oserei dire che ci vedeva a errare da limiti suoi più che nostri… Penso che in questo tipo di affermazioni ci sia un ingiusto « complesso di colpa » verso se stesso, ma al tempo stesso e al di là di questo, un profondo senso storico, una coscienza della inevitabile e necessaria contraddittorietà dell’atto umano volto alla liberazione. Il limite viene individuato per rafforzare la solidarietà invece che per giudicare ; per non rinunciare al cammino.
Certo è che una persona come questa, trovatasi di fronte all’idea di finire in galera in quelle condizioni, avrà pensato più o meno : « Nelle mie condizioni fisiche finire in carcere significherà dover accettare umiliazioni per ogni cosa ».
Inoltre, c’era in lui l’uomo deluso dagli esiti della Resistenza che ora doveva fare i conti con un arresto dovuto a tradimento fondato -per giunta – su una malafede interpretativa impensabile fino a pochi anni prima. E c’era proprio uno dei suoi « figli » ideali che per cavarsela lo denunciava così. Qui l’uomo antico che era in lui si sarà ribellato : il vecchio amico dichiarato, ma non identico ai giovani brigatisti, non poteva accettare di essere così presentato e denunciato proprio da un brigatista delatore. E allora un uomo che sta male è orgoglioso, non ci sta ad accettare giorni umilianti per le sue condizioni fisiche e per una ragione del genere : un secondo tradimento dei suoi sogni. Allora va nell’altra stanza e si spara.
In un nuovo contesto, con altri pensieri più ricchi d’esperienza, bisognerà riconquistare le caratteristiche dell’ « uomo antiquato rispetto al suo prodotto », farlo rivivere.
Ancora un rigetto per Guagliardo, dopo 33 anni
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI ROMA RIGETTA LA RICHIESTA DI LIBERTA’ CONDIZIONALE A VINCENZO GUARGLIARDO DOPO 33 ANNI DI CARCERE CON UNA SENTENZA PIENA DI ODIO E ACCANIMENTO.
I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979
all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».
Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale né era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo. Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese». In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare disprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?
____di Giorgio Ferri____
ANCHE IERI SUL CORRIERE A FIRMA DI GIOVANNI BIANCONI:
Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali».
E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà».
Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione. Giovanni Bianconi
La coppia Battisti-Vargas e la guerra di pollaio
Battisti e l’aiuto dei Servizi Gli ex compagni lo accusano
Scalzone e Persichetti: vede trame come nei suoi romanzetti
di GIOVANNI BIANCONI, Corriere della Sera, Domenica 8 febbraio 2009
“Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?”. La domanda viaggia su Internet, nel Blackblog di Oreste Scalzone e nel sito Insorgenze di Paolo Persichetti. Icona storica dei ‘rifugiati’ italiani in Francia il primo, unico estradato da Parigi il secondo, tuttora detenuto in semilibertà.
Sotto quel titolo, un lungo elenco di dubbi, interrogativi inquieti e critiche sull’ergastolano dei “Proletari Armati per il Comunismo” al quale il Brasile ha concesso asilo politico (ma si trova ancora in prigione); le sue ultime mosse non sono piaciute affatto alla ‘comunità’ degli ex militanti della lotta armata che hanno trovato ospitalità oltralpe, com’è stato per Battisti fino al 2004. Cinque anni fa, quando il governo di Parigi stava per rispedirlo nelle patrie galere, scappò in Sud America, e ora rivela che ad aiutarlo furono i servizi segreti francesi. “L’abbiamo letto con turbamento”, commenta Scalzone che nel 204 brindò alla sua fuga. Oggi non rinnega ma scrive: ” Le nostre reazioni oscillano tra incredulità e qualche domanda: perchè mai lo avrebbero ‘esfiltrato’? In cambio di che? E perchè mai, vero o fiction che sia, viene a dirlo come se fosse la cosa più normale del mondo, offrendo sponda alle calunnie “pistaiole”, in particolare stalino-fasciste, che da sempre ci propinano in materia?”
Subito dopo ce n’è per la scrittrice Fred Vargas, collega ‘giallista’ e amica di Battisti. Che ha confermato l’aiuto di Carla Bruni in Brasile, nonostante la pubblica smentita della signora Sarkozy, e fornito particolari sulla ‘persona servizievole’ che avrebbe fornito il passaporto falso al fuggiasco: “non esattamente un agente dei servizi ma una personalità molto vicina ai governi della presidenza Mitterand”, riassume Scalzone.
Tra gli ‘esiliati’ italiani Cesare Battisti, divenuto scrittore di successo in Francia, non ha mai goduto grandi simpatie. Anche perchè lui per primo assunse atteggiamenti distaccati dal resto della ‘compagneria’. Ma la battaglia per la sua libertà aveva rinsaldato la solidarietà. Scalzone intonava in piazza canti rivoluzionari accompagnati dalla fisarmonica, ma oggi accusa: “Manca solo che Battisti e Vargas lancino un altro strale contro qualche figura che si sia particolarmente impegnata verso la France terre d’asile e nella cosiddetta dottrina Mitterand”.
Poco meno che un traditore, insomma.
Paolo Persichetti, che nel 2002 fu riportato in Italia nel giro di una notte, unico risultato dei “patti” tra i governi di destra di Roma e Parigi, non crede al ruolo dei servizi segreti in favore di Battisti e dice: “Niente torna in questa storia. Il rancore dei suoi ex coimputati che lo stigmatizzano solo perchè a loro non è riuscito di fuggire; il fatto che per discolparsi Battisti stesso faccia il loro nome facendo passare per pentiti dei semplici ‘ammittenti’ che non avevano fatto dichiarazioni su terzi; una guerra di pollaio che vede i politici fare le dichiarazioni più astruse e insensate”.
Che ora l’ergastolano dei Pac abbia diritto di tornare libero in Brasile, per Scalzone, Persichetti e gli altri ‘rifugiati’ è un dato scontato. Ma “lo stillicidio di rivelazioni centellinnate e in crescendo sembrano uscite dalla mentalità contorta di chi, a furia d’inventare intrecci polizieschi, finisce per vedere la vita come un vortice di complotti. Battisti sembra vivere nella trama dei suoi romanzetti.”
E se gli amici dello scrittore, dalla Vargas e Bernard-Henry Levy, vengono bollati come “girotondini di Francia, con la loro vulgata sull’Italia ‘mai uscita dal fascismo’ “, l’ex militante dei Pac, “dev’essere affondato in un misto di ‘legittimismo’ e vittimismo: solo così si spiega l’odio riversato prima contro i ‘brigatisti’, poi ‘gli ex compagni’ fino a una sorta di sordo rancore contro Marina Petrella, come di gelosia perchè la battaglia du si lei ha avuto successo…”
Il finale è riservato al ‘terribile sospetto’ che la coppia Battisti-Vargas arrivi a fare “terra bruciata di quel che resta del mitterrandiano ‘asilo di fatto’ “, come fosse “la contropartita richiesta.” In ogni caso, “tutto quel che rende ancor più delirante, non meno, la caccia all’uomo e l’immagine che si vuol dare della rivolta con un intero Paese (l’Italia) contro uno (e di che spessore…)”
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