I funerali di Franca Salerno


Il mio corpo non aveva mai sostenuto quello di un corpo morto.

Baruda _I funerali di Franca Salerno_

Le mie spalle non avevano mai sorretto una bara prima di ieri pomeriggio… e ringrazio tutte di avermi coinvolto inaspettatamente.
Portare Franca sulla mia spalla è stata una grande emozione,
il suo peso sulle mie spalle è stato piacevole, il suo peso e quello della sua storia in questo modo sono entrate ancora di più nel mio corpo. Noi donne, a portare il tuo corpo.
Siamo donne Franca mia, e la rivoluzione -quando decidiamo di farla, che ci sia o no- passa sempre su di noi,  ci lacera la carne, ci entra dentro
Tu lo sai bene, sorella e compagna, madre e combattente: lo sai bene perchè la tua strada non ha avuto mai pace, mai una passeggiata che non fosse una faticosa salita.
Perchè il tuo corpo ha sempre pagato, perché hai messo al mondo una meraviglia che c’ha lasciato troppo troppo presto, perché da quando eri poco più di una bimbetta hanno cercato di spezzare il tuo volo e alla fine, comunque, non ci sono mai riusciti del tutto.
Portava i tuoi occhi quel dolce Antonio che tutti noi abbiamo amato, portava i tuoi occhi, occhi liberi!

Baruda _I funerali di Franca Salerno_

Ed ora tu libera lo sei sul serio…ora non ci sarà cemento né sbarre a fermare il tuo cammino e il tuo sguardo. E’ finito il dolore, ora sei libera come quel sorriso che c’hai donato-
Ora sei evasa sul serio da quella galera, come già aveva fatto il tuo corpo combattente e troppo libero per sottostare alla follia e alla tortura del carcere, del carcere speciale, dell’isolamento.
Non so come trovare le parole per salutarti, voglio solo dirti che la tua storia è la mia storia.
Che per me sei TUTTA da ricordare: la Franca della sua adolescenza in fuga, della sua militanza, della scelta delle armi, del carcere, delle evasioni, dei pestaggi sul pancione, dei primi anni di tuo figlio in isolamento con te in un carcere speciale sardo, della sua morte poi dopo che finalmente eravate tornati insieme, e poi la tua malattia e il modo in cui l’hai combattuta.
Ciao Franca, grazie

LINK:
Una vecchia intervista con Franca Salerno
Ciao Anto’
L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale
Ciao Franca, cuore nostro
La copertina con la stella

Baruda _ciao Franca, cuore e sangue nostro_

  1. Vincenzo Miliucci
    5 febbraio 2011 alle 12:44

    In memoria della compagna Franca Salerno,di cui oggi si sono svolte le esequie,inumate nel cimitero del Laurentino .

    Franca Salerno è la madre del compagno Antonio Piccininno , uno dei tanti morti del lavoro deceduto qualche anno in un incidente stradale mentre lavorava precariamente.

    Hasta la victoria

    Vincenzo

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  2. Oreste Scalzone
    5 febbraio 2011 alle 12:46

    Per Franca, per chi resta

    Ad ogni addìo, diciamo “per lui…, per lei…” – in realtà è su noi che
    piangiamo, che ci sentiamo ogni volta un po’ più soli, che viviamo
    ogni volta anche il lutto anticipato per la morte nostra, e di
    ciascun’e tutti, e ci stringiamo nella cerimonia degli addìi per
    cominciare ad elaborare memoria ed oblìo necessarî, a traversare la
    rememorazione, per riprendere a respirare, anche con loro dentro, e in
    loro continuazione…

    Non avevo avuto il dono – che è, il più spesso, fortuito – di
    conoscere personalmente Franca Salerno. Avevamo appartenuto a ‘storie’
    relativamente diverse, rivoli diversi di uno stesso flusso,
    confluenza. Diversi, per molti aspetti che non erano fatuamente
    aneddotici, « ideologici » o « politici » (« Politica » è infatti,
    nella « modernità-Mondo », « professione », « sapere/potere separato
    », « arte del Governo » – che « non si può praticare senza crimine »,
    come spiegava, e poco importa se al dritto o al rovescio, Machiavelli
    ; dunque « governamentalità », questo mestiere fondato – come
    l’imprenditorialità o la passione per “giudicare e mandare”, fin oltre
    la morte ‘via’ la pena integrativa della « damnatio memoriæ », su
    vocazione al comando : che chiede, attira, provoca corrispondente
    servitù, in basso e ancor più in alto…, poi che « sarà difficile
    ridurre all’obbedienza chi non ama comandare », e dunque è anche
    l’inverso, la servo/padronalità oscena e infinitamente capace di viltà
    maramaldesca ne è riscontro e controprova).

    “Liberi e diversi come uccelli, e fraterni come stormo”, diversi –
    voglio continuare a pensare – per motivi non infimamente “identitarî”
    (« identità », è figura che rinvia al patrimonio, ad assi ereditarî,
    alla proprietà – « privata » o « pubblica », persino « di Stato » –, e
    fa pensare all’apertura notarile dei testamenti, che il più spesso
    divide, semina invidie, odî mortali, rancori, vittimismi, figure
    riflessive transitive, attive passive singolari plurali della “Colpa”,
    « passioni tristi » forme del risentimento, odio per la vita e
    autodivoramento suicidario-assassino…).

    Diversi nascevamo, come lèssico, come “dialetti” rispettivi,
    costitutivi e al contempo sotto-insiemi di una lingua che però aveva
    un’“anima” nel profondo, comune. Diversi come eravamo, per lingua,
    nojaltri di Potere Operaio, per esempio, e le compagne e i compagni di
    Lotta Continua. Al di là delle futilità, vanitas di concorrenze
    peraltro « mimetiche », c’erano alcune ragioni di approccio, di punto
    di vista, rispetto alle quali ci si addensava, ci si polarizzava
    diversamente – diciamo, ‘secondo inclinazioni’ rispettive, e che poi
    mettevano in forma anche i modi di esserci, le accentuazioni delle
    passioni – ciò che in versione nobile e non insignificante si chiamava
    « teoria », eppoi « linea ».

    Eguale, sotto, era l’istanza della ribellione. (Rivolta che è
    denominator comune, come lo è la Gemeinwesen, il ‘fundus’ comune che
    costituisce e distingue la specie – « razza umana » di esseri
    parlanti, aventi inferito la mortalità dunque consapevoli della
    propria morte, di sé e del resto, dell’alterità, gettatisi nel tempo e
    dannati[si] all’angoscia degli enigmi, fino ai dilemmi morali, senza
    più l’innocenza, anzi, l’estraneità a questa dialettica, dell’animale
    predatore e preda, e dannati a “conoscenza” e impossibilità di
    arrivarvi, a Storia e « cultura » e al fiume di sangue che ne segue,
    fino all’epoca della sua « riproducibilità tecnica » e della sua
    infinita clonazione virtuale.)

    Uguali, dunque, nella comunanza in quell’altro ‘specifico’ assoluto
    di questa « razza animale » irreparabilmente sui generis : la
    rivolta.

    Che noialtri vedessimo l’epicentro dello sprigionarsi della potenza,
    della « disperata vitalità » delle genti sottoposte a gerarchia, a
    utilizzazione strumentale, comando e qualsivoglia altra forma di
    mutilazione, d’ interdizione e confisca di ogni capacità di comunanza
    auto-determinata, d’autonomia singolare e comune – …, che noi
    collocassimo questo epicentro alle linee di montaggio delle Mirafiori,
    e poi in qualsivoglia altra forma che pur dissimuli e occulti
    l’economia di tempo-di-vita, di « nostra vita mortale » (come quello
    di Antonio figlio di Franca, ammazzato nella catena di montaggio
    dell’estrazione del plusvalore sociale, pur fatta risultare invisibile
    come la nebbia quando ci avvolge, e non è più “solo” banco di cui
    scorgiamo il profilo) ; e che invece Franca, e Maria Pia, e Anna
    Maria, e Antonio, e Luca, e Giovanni, Mimmo, Nicola, Pietro,
    Fiorentino, Alfredo e chi altro purtroppo non mi viene adesso al
    ricordo, vedessero il punto di svolta nel cortile di Attica !, e lo
    immaginassero, lo sognassero nel gesto semplice di Jonathan Jackson
    che si alza nell’aula del tribunale col suo fucile, enorme e austero
    per i sedici anni che lo impugnano, e dice a Corte e scorte armate, e
    contro gabbie e ferri, « Adesso decido io ! » –, questo non era un
    dettaglio, epperò era distinzione successiva, secondaria alla
    fraternità nella necessità/scelta primale della rivolta sovversiva di
    liberazione.

    Ho conosciuto Franca qui all’Akrobaz. Chiederò al compagno che la
    filmava come ipnotizzato dall’intensità del suo volto e delle sue
    parole, di ripescare quel frammento e mandarvelo, come un fiore per
    lei.

    Non l’avevano piegata, Franca, gli anni del feroce totale isolamento
    in « braccî morti ». Ho imparato in galera la modestia e la grandezza
    dei “nappisti” : la vita, la cosiddetta Storia, sono feroci : non solo
    Loro, “LorSignori”, i funzionarî delle teologie di
    Capitale/Stato/tecnica integrati, e di tutte le forme moderne, antiche
    e ultra-moderne, di gerarchizzazione comando sfruttamento, tentativo
    di confisca ultima della potenza di persistere, d’inibizione in radice
    del principio attivo di comunanza auto-determinata, autonoma di questi
    animali parlanti, comuni mortali che ci troviamo ad essere, “razza
    paroletaria” ; anche le nostre rivolte sono state sanguinarie – e alla
    domanda di Canetti, “Quando si finirà di uccidere ?” non possiamo
    rispondere incollando sul cosiddetto “futuro”, a cominciare da quello
    “prossimo-venturo” nel ‘presente largo’ che è l’unico consistente (e
    che passati, « futuri anteriori », e « futuri remoti » continuamente
    ci confiscano, talché “il morto vuol seppellire il vivo”…), non
    possiamo rispondere alla domanda con alcuna certezza, con una
    qualsivoglia ‘filosofia della Storia’ da incollare addosso, e
    prescrivere ad altrui.
    Una cosa ho visto : che quando avevano paura “dei Nap”, i guardiani e
    all’occorrenza massacratori di altri “animali di razza umana”
    rasentavano i muri, e le “squadrette” erano come sospese – migliaia di
    murati là dentro respiravano, respiravamo, un po’ meglio : questo ho
    visto. La domanda di Canetti resta, ma o comincia dall’esser rivolta
    verso “gli Alti”, i detentori della “licenza di uccidere con
    l’invisibilità dei morti quando sono oggetto di contabilità di grandi
    numeri”, o comé usata, straparlata “dalle cabine delle regìe”, è
    abietta. E non si scomodi la « nonviolenza » : David Thoreau, autore
    dell’opuscolo il cuo nome vero, originario, dell’autore, è non già
    “disobbedienza civile”, ma « Resistenza al governo civile », difende
    John Brown mandato al patibolo per rivolta a mano armata, e il senso
    legittimo di questa rivolta. Soprattutto nel dopo, questo distingue
    chi sia, all’occorrenza, il più radicalmente nonviolento, e l’infamia
    di contrabbandare per la stessa cosa il legalismo, fino all’ultimo
    corollario delle forme più diverse di alienazione penale, fino alla
    sua forma più infima – direbbe Camus, neanche « minimizzata » da quel
    riduttore che è l’assunzione del rischio personale – quella di
    demandarla eppoi reclamarla, e quella di esercitarla per procura […].

    Dopodiché, una cosa mi par certa : forse era stato ottimista il
    Doktor Marx, nel suo incipit « … Abbiamo finito di regolare i conti
    con la critica dell’al-di-là ; ora resta da passare alla critica dell’
    al-di-qua ». Sotto, ancora sotto la questione di
    mortalità/tempo/estrazione del plusvalore, e della teologia
    mondanizzata dello Stato, del “sistema integrato”
    tecno-economico-politico, c’è la dannazione quasi “archetipale” del «
    Giudizio di Dio ».
    « Per farla finita col Giudizio di Dio », urlava rauco alla radio
    Antonin Arthaud. In effetti, possiamo dire che prima viene il
    Giudizio, la pulsione mortifera mortale alla designazione della Colpa
    e alla punizione infinita e all’infinito del Colpevole, poi
    l’ipotesi–Dio.
    Ben oltre un Leviathano microfisico, fino alla singolarizzazione ;
    ben oltre i delirî della società di controllo e sorveglianza,
    dell’applicazione di « principio di precauzione » alle genti e al
    “Male”, decerebrati dalla nefasta utopia del « rischio-zero » […],
    un’ossessiva centralità del “giudizio di d’IO” rifratto in tutte le
    forme, fa affondare nell’universo della peggiore, annichilante
    servo/padronalità tendenzialmente “di ciascuno contro ciascuno”.
    La forma di dominazione peggiore, è quella che si metastatizza, si
    “microfisicizza”, trasmette, contagia il suo know-how anche come messa
    in forma di reclamo dell’odio contro il male di vivere proprio e
    della propria gente.

    Contro la caccia all ‘uomo , l’Inquisizione, il linciaggio (peggio,
    frustrato dal legalismo e dato in appalto a chi lo demandi al “braccio
    violento della Legge”, del Dio-Stato,), l’inimicizia è limpido stato
    di guerra. L’alternativa radicale, elementare, è quella tra “dar la
    caccia a un Colpevole”, denunciare, maledire…, o combattere.
    Le forme – violenta, non… – sono “solo” corollario : il primo
    discrimine è qui.

    La nuvola di fiele di pensare solo e sempre, ossessivamente e, via
    via, in tutte le direzioni (anche per noi, magari si comincia a
    ritorcere la logica – che è già diversivo contro la critica,
    l’indipendenza, l’asione autodeterminata, la lotta, fino alla guerra
    sociale, e sua transmutazione miserevole, subalterne, mimetica anche
    quando è ritorsione ; e poi si finisce alla rivalsa ‘a cascata’ verso
    l’ancor più “sotto”, o il più intimo…) in termini di Colpa, di
    Colpevoli, di delitto e castigo, è forse il consumo di merce tòssica
    più capace di far schermo e diversione alla rivolta di liberazione, e
    forse, alla vita stessa di una specie, che se si fa radicalmente
    logopatica si avvia allo ‘spavento senza fine’ della lunga agonia di
    un corpo col cervello avvelenato, che marcisce. Il reclamo come
    orizzonte del sogno dell’ « esercizio dell’azione penale », chiude il
    cappio vizioso di questa logica – inutile affastellare esempî,
    variazioni infinite su questa “pestilenza”.

    Mi scuso delle divagazioni : un saluto per Franca, fuor di retorica,
    bellissima persona.

    Parigi, venerdì 4 febbraio 2010, Oreste
    Scalzone, e col dolore, il vuoto, l’amore anche di Lucia , di
    RossaLinda e altre e altri

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  3. Sandro Padula
    5 febbraio 2011 alle 12:50

    Franca Salerno: una vita per la critica alle istituzioni totalizzanti come il carcere
    di Sandro Padula

    Dopo il dolore per la scomparsa del giovane militante del centro sociale romano Acrobax Antonio Salerno Piccinino, avvenuta nel 2006 in un incidente stradale mentre lui stava lavorando, anche adesso rimango senza parole.
    Nella Città Eterna, a causa di una grave malattia, è morta sua madre.
    Si tratta di Franca Salerno: arrestata il 9 luglio 1975, condannata a quattro anni e mezzo per la sua militanza nei Nuclei armati proletari, evasa il 22 gennaio 1977 insieme a Maria Pia Vianale dal carcere di Pozzuoli, riarrestata il primo luglio 1977 e in seguito condannata ad una ben più lunga pena detentiva.
    Non l’ho mai conosciuta vis a vis, ma nei suoi sedici anni consecutivi di carcere, mi è capitato diverse volte di avere una corrispondenza postale con lei e poi, una volta tornata in libertà, di sentirne parlare spesso.
    Nella mia mente s’accavallano una serie infinita d’immagini: i locali del Centro Sportivo Culturale di Torre Spaccata, un quartiere romano in cui si politicizzarono una cinquantina di brigatisti rossi; una grandissima scritta murale con la vernice rossa: “Onore al compagno Lo Muscio!”, nappista ucciso dalla polizia al momento dell’arresto di Franca Salerno e Maria Pia Pianale in piazza San Pietro in Vincoli a Roma; la produzione di un audiovisivo sulle carceri nel 1977 da parte di quel centro sociale ante litteram; la nascita delle carceri speciali, come Badu’e Carros a Nuoro, in cui la stessa Franca fu per un periodo reclusa; il timbro della censura carceraria; il volto dell’ex nappista Raffaele Piccinino, padre di Antonio; i fogli di una lettera giuntami dal supercarcere di Latina quando Franca fu scarcerata.
    Quel giorno finiva un incubo per lei. Aveva però trascorso molti anni insieme ad altre detenute politiche e verso di loro si sentiva quasi in colpa di tornare in libertà.
    Fuori dalla prigione restò diverse ore. Fumava una sigaretta dopo l’altra. Segnali di fumo per salutare le compagne prigioniere. Non aveva quasi niente con sé, solo il minimo indispensabile, come chi è abituato a vivere di corsa e ad affrontare ogni possibile imprevisto.
    Prese il treno? Venne qualcuno a prenderla con l’automobile? Non lo so. Di sicuro andò a Roma, ad abbracciare Antonio. Per la prima volta dopo sedici anni lei e il figlio erano entrambi liberi!
    Fin dall’inizio la vicenda di Franca e Antonio, di cui lei era incinta quando venne arrestata la seconda volta, pose il problema dei bambini in carcere.
    Senza dubbio per Antonio non fu qualcosa di piacevole. Essere neonati chiusi dentro un carcere è a dir poco assurdo, ma lui ricevette non solo l’irriducibile amore di Franca ma anche quello di tante detenute politiche. Era una specie di figlio di tante donne. Una gioia. Una vita nuova che al terzo anno sarebbe dovuta per forza essere scarcerata.
    Franca e Antonio. Antonio e Franca. Due vite intrecciate dalla storia e dalla casualità insita nella storia stessa. Dall’inizio alla fine. Come se dal 1977 in poi l’una e l’altra fossero animate dallo stesso respiro. Come se la morte di Antonio di cinque anni fa avesse di fatto indebolito Franca nelle condizioni di salute.
    Nonostante ciò, negli ultimi tempi lei stava cercando di raccogliere dei fondi per mettere in piedi un’agenzia per dare delle prospettive di lavoro ai giovani. Non so a che punto era il suo progetto. Ad ogni modo, per il momento, sembra doveroso far capire in giro chi era questa compagna e quale fu il contributo dei Nap alle trasformazioni sociali e politiche dell’Italia degli anni ’70 e in particolare alla riforma carceraria del 1975.
    Gli eroi, come ben sapeva Franca, non esistono se non per gli storici ben poco storici e molto reazionari. Esistono solo persone normali che in certe condizioni storiche, e pur sempre con pregi e difetti, sono come costrette dalla forza degli eventi a combattere contro le ingiustizie.
    Un abbraccio a coloro che hanno conosciuto e amato Franca e in particolare a Raffaele Piccinino.

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  4. ginodicostanzo
    5 febbraio 2011 alle 13:01

    Aggiungo il mio saluto…

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  5. 5 febbraio 2011 alle 13:37

    A pugno chiuso!

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  6. Francesco Piccioni
    5 febbraio 2011 alle 16:36

    Vaglielo a spiegare, oggi, che quarant’anni anni fa si poteva arrivare alla lotta armata partendo dalla vita on the road, in fuga esistenziale da uno schema millenario che inchiodava le donne a ben pochi ruoli.
    Impossibile, dirà qualcuno. Franca Salerno, occhi blu e un sorriso, dopo sedici anni di carcere speciale e un’evasione, è riuscita a farsi capire dai ragazzi con cui aveva vissuto suo figlio Antonio, nato in carcere e morto cinque anni fa, da giovane pony express precario e figura di riferimento nel Laboratorio Acrobax di Roma. Un luogo vivo dove ognuno può essere se stesso, con le imperfezioni che nessuno qui cercherà di azzerare, tra eguali. Per capirla, in fondo, non era necessario averne sentito la voce, insieme ai pianti di Antonio, nelle notti di Badu e Carros, alla periferia di Nuoro. Ora è evasa anche dalla vita, dopo l’ultima prova feroce che questa aveva voluto infliggerle.
    Ieri mattina, nella sala grande di Acrobax, le abbiamo portato l’ultimo saluto in tanti. Anziani guerriglieri rugginosi e ragazzi che l’avevano conosciuta per le qualità umane tutte sue, senza curarsi troppo dell’alone sbiadito del mito. Apprezzandone le imperfezioni che appartengono a tutti e che invece, di solito, vengono citate a sostegno dei pregiudizi.
    Il coro di ragazze che l’ha ricordata, una dopo l’altra, è stato lo specchio di questo perfetto stare insieme tra persone diverse che condividono molto. Così come il pianoforte emozionato, un altro modo per ricordare. Una vita fuori dagli schemi, per giornalisti frettolosi e senza troppa fantasia. Una vita contro gli schemi, invece; prima e oltre la politica, la lotta, la galera.
    Ciao Franca, tanto prima o poi ci vediamo.

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  7. Maddalena
    6 febbraio 2011 alle 12:08

    La tua storia, la nostra storia … ciao Franca che la terra ti sia lieve

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  8. Giuseseppe Aragno
    6 febbraio 2011 alle 14:51

    Un saluto e il rispetto profondo.
    Gli storici? I più parleranno di demoni, temo, non di eroi. Racconteranno poi, i più onesti, con fatica e mille iesatezze, i fatti così come emergono da carte di polizia e atti processuali. Si potrebbe far meglio – e sarebbe possibile andare oltre il ricordo e il suo profondo significato umano – se l’altra campana suonasse. Quella di chiudersi nel silenzio è una scelta comprensibile, che va rispettata. La memoria orale, però, potrebbe fare da contraltare a quella istituzionale di carte e processi. E sarebbe il miglior modo di ricordare e rendere onore, al di là delle scelte più o meno condivise.

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  9. francesco caruso
    6 febbraio 2011 alle 16:44

    mi dispiace solo non essere stato lì con voi per l’ultimo saluto a Franca.

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  10. Amsicora Nuoro
    14 febbraio 2011 alle 00:50

    Un po di te rimarra’ impigliato qui’ per sempre tra mirti e rosmarino in questa terra di barbarisardi.çiao compagna Franca

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  1. 14 ottobre 2011 alle 14:40
  2. 17 gennaio 2012 alle 16:12
  3. 3 febbraio 2012 alle 09:45
  4. 17 dicembre 2012 alle 19:29
  5. 24 gennaio 2013 alle 10:41

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