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Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte …


In tutti questi mesi io c’ho provato tante volte a trovare le parole, l’ho fatto qui, l’ho fatto in tanti (e tanto odiati) quaderni che compravo e poi abbandonavo dopo poco che l’angoscia li pervadeva, le ho perse e ritrovate tante volte provando a scrivere a tuo padre.
“Tanta letteratura” così è iniziato il nostro amore, sulle parole e la carta che viaggiava dentro e fuori una cella: poi chi è più stato capace di scrivere.
Io, la tua mamma, piccolo Sirio, ho provato a raccontare quel nostro anno di ospedali, monitor, urla e respiri al rumor di moka, quelli dei bimbi tracheotomizzati, ma solo poco fa son riuscita a parlar di quei giorni,
di quel cuore dimesso troppo presto, nella stolta sublime gioia di tutti noi.

Oggi è il tuo papà a trovar le parole, dopo tanto tempo
a raccontar la tua storia, piccolo Sirio, tra le sue pagine…
e non posso non metterle anche qui, in questo tentativo timido che ogni tanto faccio di raccontare la tua storia,
perché credo che il dolore vada raccontato, l’ho sempre fatto con quello degli altri, non posso desistere davanti al mio e a quello di chi amo,
perché forse il solo modo che avremo di combattere la disabilità sarà quella di raccontarla per renderla a te, a noi e a chi ci circonda il più normale possibile, perché la tua battaglia è bella e la bellezza è di tutti.

LETTERA AD UN BIMBO NATO DUE VOLTE:

Sirio è a casa! sta qui vicino a me nella culla!

Nonostante l’ipotermia il suo viso è molto dolce

1503290_10152085712818429_803803905_nCaro Sirio,

ti scrivo questa lettera con la speranza che un giorno tu possa leggerla, magari condividendola con tuo fratello. Mi piace pensare che tu possa arrivare a farlo con quella voce che ogni tanto ci fai sentire. Ammaliante come un piccolo canto delle sirene, inno di battaglia che annuncia la tua voglia di vivere, forza incredibile che guardiamo con stupefatta ammirazione, imparando da te ogni giorno la fatica dei piccoli gesti, la conquista quotidiana della vita.

Un anno fa, il 4 ottobre 2013, nascevi per la seconda volta. Quel giorno hai conosciuto la morte. Il tuo cuore si è fermato. Non sappiamo perché. Nessun dottore ha saputo dircelo con esattezza. Qualcuno ha parlato di Alte-Sids, la morte improvvisa del lattante (Sudden Infant Death Syndrome), comunemente conosciuta anche come “morte in culla”.
Nei testi scientifici la descrivono come una morte improvvisa e inaspettata del neonato, fino a quel momento sano, che si verifica preferibilmente durante il sonno e che rimane inspiegata anche dopo l’esecuzione di un’indagine completa comprendente l’autopsia, l’esame delle circostanze del decesso e la revisione della storia clinica del caso.
Eri a casa da otto giorni, dopo averne trascorsi 41 in ospedale per la tua “prematurità” che – come dice nonno Oreste, anche lui settimino come te – dovrebbe definirsi immaturità, poiché è prematuro colui che matura prima degli altri, non dopo.
Da appena due giorni avevi superato la prima visita di controllo con un profluvio di elogi che hanno assunto poi il senso della beffa.
Tua madre conosce a memoria le cartelle cliniche. Ha letto ogni particolare dei diari medici e infermieristici decifrando le scritture più incomprensibili. Per alcune settimane hai sofferto di bradicardie, la prima l’hai fatta davanti ai miei occhi, una sera, quando eri ancora in incubatrice. Hai reclinato il capo, come quel mattino, perdendo i sensi. Non volevo più andarmene dall’ospedale. Non volevo più abbandonarti dopo quello che avevo visto. Ti eri spento all’improvviso, tu che ti agitavi come un pesciolino nell’acquario e facevi sentire la tua voce acuta. Rientrato a casa non trovavo le parole per raccontarlo a tua madre.
“Un fatto normale in un immaturo nato a trenta settimane”, spiegarono i soliti dottori. Un disturbo momentaneo, dovuto all’immaturità dei centri nervosi che regolano battito e respirazione. Alla trentaseiesima settimana sarebbe tutto scomparso.
Ed alla fine della trentaseiesima ti hanno mandato a casa, nonostante sei giorni prima avessi avuto ancora una pesantissima bradicardia. Episodio che aveva richiesto un intervento manuale dell’infermiera. Ma a noi, ignari, sembrava una liberazione. Anche tu a casa, finalmente. “La casa di Sirio” non sarebbe stata più il Gianicolo, come era convinto tuo fratello.
1379668_10151721535593429_25546666_nEra un giorno felice dopo il parto anzitempo e la lunga degenza in ospedale. Tua madre sembrava una libellula con quel grembiule verde ancora indosso. Non l’ho mai più vista così felice. E Nilo non si tratteneva dalla gioia quando sei entrato a casa, aveva finalmente il fratellino con cui poter giocare.
Otto giorni dopo la morte si è infilata nel tuo letto.
Oggi il dubbio è un tarlo. La tua vita attuale è dipesa da quella dimissione affrettata e senza ausili protettivi, come un banale ossipulsimetro? Per poche centinaia di euro sei ora costretto a lottare contro una tetraparesi, con una tracheo in gola e un rubinetto nello stomaco?
La domanda ci tormenta perché tra le tante ingiustizie che scolpiscono la vita tu hai subito la peggiore.
Riposavi accanto a mamma. La sera prima ti avevo adagiato sul petto di tuo fratello e ti eri addormentato su una mia spalla mentre lavoravo al computer. Quella mattina ci avevi salutato col pianto del lattante affamato mentre uscivamo per andare a scuola. Allora la morte è venuta, gelida ed avida. Ma quel giorno è dovuta ritornarsene a mani vuote.

Questo voglio raccontarti, quell’incredibile catena umana che quel mattino ti ha ridato la vita strappandoti dalle mani di colei che tutto oblia. Voglio raccontarti quella furibonda lotta, la folle corsa verso l’ospedale. Quei tredici interminabili minuti. Anche se quanto avvenuto in quei momenti è niente di fronte al cammino che hai fatto nel frattempo.

Un urlo strozzato mi è entrato nelle ossa all’apertura della porta.
Non avevo risposto alla chiamata di tua madre perché stavo salendo le scale.
“Ma che è morto? E’ morto!”.
Stravolta, tua madre m’è apparsa sull’uscio del corridoio. Eri immobile tra le sue braccia aperte. Una di quelle madonne palestinesi che corrono senza meta nelle strade impolverate per mostrare al mondo il figlio trucidato.
Non ci ho creduto, Sirio. Non ci ho mai creduto. Sono pazzo, lo so!
Ho lasciato cadere le cose che avevo tra le mani e ti ho stretto a me. Ho preso la tua nuca ed ho cominciato insufflarti aria, poi giù per le scale verso l’ospedale. Tua madre dietro seminuda con le scarpe in mano.
Le tue guance perdevano calore ma il tuo viso era dolce, i tuoi occhi addormentati. “Sirio” – gridavo – “respira”. Ma dal tuo naso è uscito solo sangue. Due rivoli di sangue provocati dalla rottura dei capillari, ci hanno poi spiegato i medici. Un sapore portato in bocca per giorni.
1044777_10151679631563429_345110417_nSaltavo gli scalini quattro alla volta, soffiavo aria e tenevo ferma la tua testa. Conquistato il cortile arriviamo al cancello, poi in strada verso la macchina che ci ha subito tradito. Batteria completamente scarica. Tua madre fa un primo tentativo, poi un secondo. Ci guardiamo, “Via, lascia perdere. Andiamo a piedi, fermiamo qualcuno”. Usciamo di corsa, “Prendiamo il motorino” – dice lei, ma di fronte a noi c’è Mimmo, un vicino che sta prendendo la sua autovettura ed ha visto tutta la scena. Ci fa segno, “Salite vi porto io”.
Salgo davanti, mamma monta dietro e si parte. Intanto continuo a soffiarti la vita dentro ma non reagisci. Ti gonfi come un palloncino. Sento il tuo petto riempirsi e poi svuotarsi tra le mie mani.
Ci vuole il massaggio, mi dico. Anche se la posizione non era la migliore, provo a fare pressione sulla cassa toracica ma ho subito paura. Mi sembra di farti solo del male.
Intanto il cuore batte in gola, quello mio. Accade così quello che poteva essere l’irreparabile. La morte trova un alleato sicuro nel traffico. Una lunga fila blocca la strada all’altezza del primo semaforo. Non c’è scampo. Non si può fare inversione, non ci sono vie laterali dove immettersi. Sembra davvero finita.
Ma io non ci credevo, non ci ho mai creduto. Dovevo ad ogni costo portarti in ospedale, nulla mi avrebbe fermato, come anni prima quando dovevamo raggiungere un obiettivo.
Apro lo sportello e scendo. Ti tengo sempre stretto a me. Comincio a correre tra le macchine senza smettere di insufflarti. Arrivo al centro dell’incrocio, la gente mi guarda, alcuni non capiscono, altri hanno paura. L’autista di un pulman, che è lì davanti, comprende al volo ed inizia a suonare il clacson. Ora sono in mezzo all’incrocio con un neonato in braccio che insufflo, ricordo una nonnina ferma al semaforo. Lei sì che capisce cosa sta succedendo. Con le mani tra i capelli grida: “corri, corri”. Ma le macchine stanno ferme. Faccio segno di avanzare, di fare largo, ma non si muovono. Allora comincio a dare colpi sul parabrezza. Alla guida c’è una signora che ha paura, è terrorizzata, Forse gli prendo a calci la macchina, alla fine si muove. Inizia un concerto di clacson, le macchine si spostano, si apre un varco, Mimmo ne approfitta e viene avanti. Risalgo e ci lasciamo l’incrocio alle spalle. Gli altri semafori saranno clementi, un’onda verde ci apre la strada, Mimmo fa anche un piccolo contromano. La morte non ha più alleati. Intanto non smetto la respirazione bocca a bocca ma siamo finalmente al san Camilllo. Ci dirigiamo verso il pronto soccorso pediatrico, le tue labbra cominciano a scurirsi, salto dalla macchina che è ancora in movimento e mi precipito all’interno. C’è una mamma col bimbo, mi guarda scioccata, la rivedo dopo che piange a dirotto, tutti intorno capiscono al volo, vedo infermieri che corrono. Irrompo nella stanza delle emergenze e ti poggio sul lettino. Mi allontanano, poi ci fanno domande su cosa è accaduto, nel frattempo arrivano le rianimatrici con un enorme borsone. Sono due ragazze, sono loro che faranno ripartire il tuo cuore.
Tua madre piange, io ho solo adrenalina, tanta adrenalina, infinita adrenalina. Si apre la porta, “quanto pesa il bimbo?”. Poi si richiude. Siamo lì che aspettiamo seduti per terra, appoggiati ad un muro. Guardo quella porta chiusa, mi ricorda altre porte, sensazioni già vissute in tribunale, nei processi…. Quando si apre ci sarà il verdetto.
Ancora un po’ e sentiamo dal monitor qualcosa che assomiglia ad un battito. Nessuno esce, forse aspettano che si stabilizzi. Passa ancora del tempo, arriva anche il primario. Poi esce lei, la dottoressa, è giovane, si chiama Chiara. “L’ho salvato – dice – ma non so se gli ho fatto un favore. Dovete esserne coscienti”. Non ci ha illuso, ci ha fatto capire che avevamo l’Everest davanti. Ma io sentivo che eri un grande scalatore. Eri nato di nuovo, il tuo cuore era tornato a battere. Eri intubato. Cominciava la lunga marcia! Come un maratoneta hai iniziato a macinare chilometri. L’ambulanza del Bambin Gesù, la Sten, non ha tardato molto. I dottori avevano deciso di congelarti, rallentare i processi vitali con l’ipotermia serviva a salvaguardare le cellule cerebrali riducendo il danno potenziale dovuto alla lunga ipo-anossia.
Quando si sono aperte le porte abbiamo riconosciuto il viso familiare di un’altra dottoressa. Una delle migliori. Ci ha sorriso, ne avevamo bisogno. Poi sei tornato di nuovo nel posto che tuo fratello pensava fosse la tua prima casa.
Mentre aspettavamo davanti alle porte dell’area rossa ti spogliavano per trasformarti in un ghiacciolino, 33 gradi corporei. Eri ricoperto di cuscinetti ghiacciati, la tua culla aveva la forma di una strana giraffa, eri gonfio, tumefatto dall’insulto, così lo chiamavano quei camici bianchi, sovrastato da macchinari e pompe, tubi ovunque. Ma il viso sempre dolce.
Un posto gelido il Dea, una sorta di Acheronte, con la morte che sta lì in un angolo a guardare chi può prendersi. Tua madre stava impazzendo. Ogni giorno che passava i dottori perdevano la speranza, dicevano che saresti rimasto un vegetale e lei voleva staccare tutto per fuggire via con te, sotto un pino del Gianicolo dove farti sentire l’ultima brezza. Non facevano grande affidamento sul tuo conto, anche se contrastavi il respiratore meccanico hanno voluto farti la tracheo comunque.
fotoIl 15 ottobre hai riaperto gli occhi smentendo tutti, obbligandoli a richiamare persino il primario per riscrivere la diagnosi. Papà già sapeva che da un po’ facevi dei movimenti e una sera li avevi aperti al canto di De André. Hai avuto tanta musica nelle orecchie, dal rock allo zecchino d’oro, ai canti di lotta, alla voce di Nilo che ti raccontava delle storie insieme a mamma fino al giorno che qualcuno rubò tutto. E sì Sirio persino questo ti hanno fatto, il furto di un vecchio ipod e di un mp4 da 19 euro dalla tua culla, quella di un bimbo appena risvegliatosi dal coma. Tu lottavi per restare in vita in un mondo fatto di anime morte.
Poi sono venute loro, delle strane artigiane senza camice bianco che riparano bambini. Li aggiustano, come dice tuo fratello (anche se sostiene di esser più bravo lui), li mettono seduti, li fanno camminare come Geppetto che trasformò un burattino in un bambino.
Continua così Sirio, verrà anche per te il giorno che potrai correre con il tuo amico Lucignolo nel palese dei balocchi.

Papà

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Mi chiedo spesso se sarà mai possibile liberarmene e penso di no.
Ma non esiste nottata, giorno, riposo o dormita profonda che non si ripresenta per intero.
Dallo scossone che pensavo di ucciderlo, al mio urlo, al telefono che non risponde, alle mie lacrime, ai tuoi piedi sulle scale, il rumore delle chiavi che aprono, il cuore che si ferma per trovare le parole per dirti che accade, la voce che esce che è solo urlo.
Le tue lacrime immediate, il tuo urlo, il tuo “respira ti prego”, le scale, io che metto in moto invano, il traffico sulla Portuense, l’autista dell’autobus, la vecchia sul marciapiede, la macchina verde accanto a noi, i visi all’ingresso dell’ospedale.
La faccia dell’infermiere, le lacrime della mamma seduta, i volti delle rianimatrici, la porta chiusa e la morte che mi ballava intorno.
Le scale, la Tin, la pediatra del parto e i suoi ciondoli uno per ogni figlio felice, il sorriso della Piersigilli, io che le salto al collo, Stefania che mi chiede dell’antipidocchi, gli sguardi su di me come fossi assassina.
Il freddo, che stavo con quella canottiera sporca di latte.
La nuova corsa, il gianicolo che aveva colori diversi da 8 giorni prima, la porta del Dea, la porta del Dea, la porta del Dea, gli occhi bassi di Dotta, la violenza della sua bocca aperta e del suo corpo gonfio.
Il freddo.
Vivo tutto ciò ogni fottuto giorno,
spesse volte come un mantra doloroso e raccapricciante.
Che fatica.

Baruda

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  1. ginodicostanzo
    9 ottobre 2014 alle 15:39

    … ciao

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  2. Gaura
    9 ottobre 2014 alle 15:56

    Sirio, grande Battagliero! Curr’ Curr’…Uagliò!!!

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  3. Ezio
    9 ottobre 2014 alle 20:32

    un soffio d’amore
    un soffio di vita…di vite
    di speranze
    e poi d’amore
    e ancora…e ancora

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  4. Roberta
    10 ottobre 2014 alle 08:46

    siete una coppia meravigliosa, coraggiosa, viva. Vi voglio molto bene
    Sirio e Nilo sono costantemente nei miei pensieri

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  5. cz
    11 ottobre 2014 alle 14:20

    Grande fegato e grande cuore.
    Para todos la luz, para todos todo.

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  6. enzo
    23 ottobre 2014 alle 09:19

    siete entrati molto ,prepotentemente nei miei pensieri.SI LAVITA SI CONQUISTA COMBATTENDO siete insieme ad altri la punta più alta DELL UMANITA GRAZIE è POCO….

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  1. 24 febbraio 2015 alle 09:41
  2. 1 febbraio 2016 alle 09:55
  3. 4 dicembre 2017 alle 11:59
  4. 19 aprile 2019 alle 08:58

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