Archivio
A Nicola Pellecchia, combattente fino all’ultimo respiro
Le prime righe scritte da Oreste,
in saluto di un compagno, un fratello, un amico di cui mi ha sempre parlato, col suo occhio vispo da bambino dispettoso.
Non ho mai conosciuto Nicola Pellecchia, non ho avuto modo di incontrarlo mai e mi dispiace.

Nicola e Oreste… Oreste era ricoverato a Napoli per un malore… abbracciato a Nicola le energie son tornate rapidamente (grazie al maestro Sepe, per la foto)
Ieri i funerali a Procida, in fretta e furia, non hanno permesso a molti di noi di andarlo a salutare,
di stringerci ai suoi compagni più stretti, in quel quadro struggente che è quell’isoletta partenopea.
Il mare grosso ha reso duro il viaggio anche per chi doveva attraversare solo quel tratto di golfo.
A PUGNO CHIUSO NICOLA,
la tua storia, la tua lotta fino all’ultimo contro lo Stato,
contro il male che l’ha strappato a sua figlia e al suo mare.
La terra sarà come un’onda, schiuma di mare, profumo di iodio.
carissim*,
Nicola ha finito ieri il suo andar morendo, con rabbiosa persistenza che resisteva mostrando “cosa può un corpo”.
Penso alla sera del secondo comune compleanno assieme, a casa di Ada.
Io stramazzavo quasi sotto il peso di una magnifica fisarmonica “maggiore” trovata da Ada e troppo bella, un po’ sprecata
dall’aleatorio dilettante di passaggio, ma lo sforzo era nulla rispetto alla pertinace potenza di persistere nel proprio essere che Nicola incarnava.
Col viso di cenere, è restato fino all’ultimo alla tavola, e la mattina è volato dalla figlia nell’isola che sa di
sortilegio segreto. Era finita, si capiva già, ma lui continuava astrappare minuti di tempo di vita, come Prometeo rubava il fuoco ai suoi dèi.
Per ora non ho energia per dire altro, e lo farò poi.
Il funerale è oggi, chè venerdì Procida sarà ancora più irraggiungibile, per causa di sciopero che si aggiunge al mare grosso. (( questo per me è impresso nel ricordo della prima volta che l’ho vista, arrivando col cuore grosso e una quindicina di sodàli arrivati laggiù per essere assieme alla dispersione delle ceneri di Roberto Silvi….
il fotogramma è quello di Nicola, che prende il sacchetto delle ceneri dalle mani di Janie nel punto oltre il quale nojaltri cittadini nonmdobbiamo andare, ché c’è rischio di spezzarsimle gambe scivolando sul mucchio dei lastroni di pietra, frangifluttimpiù che molo, e si avvia, dritto e con passo elastico, fino alla puntamdella muraglia, diciamo, d’improvviso spericolatamente inseguito da un Ermanno materializzatosi come una specie di nero uccello marino, lo spolverino
impermeabile svolazzante al vento, le scarpe pericolosamente da città…)).
Ci saranno dunque Fabia e la loro figlia, i pescatori di Procida e qualche amico di lì, e un pugno di compagne e compagni che erano già lì, nei suoi giorni estremi.
“È tutto per ora” cioé ben poco, comunque si vedrà. Per intanto un
abbraccio, Oreste
————————————-
2. Il primo rintocco della
“campana” che aveva suonato per lui :
” Questa notte Nicola e morto, a casa sua, circondato dall’affetto di tutti, ringrazio ancora chi di voi ha permesso, con il proprio contributo solidale, di rendergli meno gravoso questo distacco, Ada ”
Le torture su Alberto Buonoconto, poi morto suicida … 1975, questura di Napoli
RIPORTO PER INTERO, RINGRAZIOLO, DAL BLOG CONTROMAELSTROM , così da integrare la lunga serie sulla tortura presente su questo blog
In questo paese si è sempre usata la tortura, per sopperire alle incapacità investigative degli inquirenti di fronte a fatti che colpivano la cosiddetta “opinione pubblica”. Ma dal 1975, comincia a diventare un metodo centrale dell’attività repressiva dei movimenti politici antagonisti e rivoluzionari.
Nel 1975 succedono fatti nuovi che ne consentono l’applicazione sistematica.
Correva la VI legislatura, era in carica il “IV Governo Moro” (23.11.1974 – 12.02.1976) formato da DC e Pri (presidente del consiglio Aldo Moro, vicepresidente Ugo La Malfa) agli interni, Luigi Gui, alla giustizia, Oronzo Reale (quello della “Legge Reale” ). Nel 1975 inizia la “politica di solidarietà nazionale” (1975-1978), con la collaborazione prevalente tra Dc e Pci che porterà ai governi di “unità nazionale”, caratterizzati dall’assenza di qualsiasi opposizione parlamentare (se non piccole formazioni come Democrazia Proletaria e altre). Sull’esempio della “Grosse Koalition” in Germania Ovest tra Cdu/Csu (cristiano democratici/cristiano sociali) e Spd (socialdemocratici) che era stata formata il 1° dicembre 1966.
Sarà proprio l’unità tra tutte le forze politiche a consentire una “politica controrivoluzionaria” una repressione feroce e totalmente al di fuori del quadro costituzionale e dello “stato di diritto”. Da qui la tortura, introdotta gradualmente ma sempre più massicciamente, le leggi speciali, le carceri speciali, i processi speciali, ecc…
Vedi a questo link la tortura nei confronti del compagno Enrico Triaca nel 1978 e in questo la risposta dello stesso Triaca al suo torturatore
Alberto Buonoconto viene arrestato l’8 ottobre 1975
Dal comunicato della “Lega per i diritti dei detenuti”
…Due giorni dopo l’arresto nel carcere di Poggioreale, Alberto Buonoconto dichiarava al Sostituto Procuratore della Repubblica, dr. Di Pietro di essere stato interrogato nella Questura di Napoli per 10 ore consecutive, senza la presenza del legale di fiducia o di un difensore di ufficio. Precisava poi che nel corso dell’interrogatorio, aveva subito, da parte di funzionari e d agenti, percosse e violenze fisiche somministrate con sistemi scientifici tali da poter essere qualificate come vere e proprie torture.
Il Sostituto Procuratore dava atto che il giovane presentava escoriazione e contusioni multiple su innumerevoli parti del corpo. Nei giorni successivi 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 ottobre il difensore del Buonoconto, avvocato Senese,vedeva costantemente respinta la richiesta di colloquio con il suo assistito, fino a che il giorno 17 ottobre (10 giorni dopo l’arresto) gli pervenne una denunzia autografa del giovane:
«Nella stanza dove mi hanno condotto ho trovato una decina di poliziotti, tutti in borghese, ed in più Fabbri e, credo, forse Ciocia (due funzionari PS di Napoli della squadra politica. N.d.r.), ed uno che gli altri chiamavano “dottore” mi diceva che lui mi faceva “gettare il sangue e l’anima”. Mi hanno fatto prima sedere normalmente su una sedia, poi, mentre mi schiaffeggiavano abbondantemente mi chiedevano se conoscevo i due che erano con me sulla macchina, mi tiravano cazzotti, e mi chiedevano quale “azione” ero in procinto di fare, mi tiravano la barba e mi strappavano i capelli per sapere dove avevo dormito la notte. Mi hanno tirato i nervi del collo, spremuto il naso, colpito violentemente con i tagli delle mani sul collo, sulle spalle e sulla schiena, stringendo anche le manette (dopo avevo i polsi il doppio di come li avevo entrando in Questura). Mi hanno storto le dita, le braccia, i gomiti, i polsi…poi mi prendono e mi stendono su una sedia. Uno di loro mi afferra con una mano il piede e con l’altra la coscia destra e fa leva col suo ginocchio. Non riuscivo più a tenere la testa alta, allora il sangue saliva e vedevo da questa posizione la dentiera di Fabbri che si apriva in larghi sorrisi di compiacimento per i suoi assistenti che mi tiravano calci sotto la testa per farmela tenere sollevata da terra… Hanno cominciato poi a tirarmi cazzotti nello stomaco, colpi di punta sul fegato, e continuavano in quella posizione distesa a tirarmi i capelli e a schiaffeggiarmi».
Immediatamente l’avvocato presentava denunzia alla Procura della Repubblica… contestualmente veniva richiesta ammissione al carcere di Poggioreale di un medico di parte, per costatare lo stato di salute del Buonoconto e l’entità delle lesioni. In data 20 ottobre il P.M. designato comunicò di non ammettere l’accesso al carcere del medico di parte, in quanto era stata già disposta , ed anche eseguita una perizia d’ufficio. Dichiarò inoltre che era stato omesso l’avviso alla difesa perché «le tracce delle lesioni potrebbero modificarsi durante il tempo necessario per la notifica dell’avviso».
Poiché per i reati commessi all’interno della Questura di Napoli, da alti funzionari, è assolutamente da escludersi la possibilità di reperire una qualsiasi prova testimoniale, appare evidente che privare la difesa del Buonoconto di una perizia medico-legale di parte, significa voler privare la denunzia di ogni elemento di prova . A confermare queste gravi considerazioni, sono venute nei giorni successivi, sulla stampa locale e nazionale, le giustificazioni dei funzionari della Questura di Napoli, che dichiaravano che il Buonoconto… si era prodotto lesioni sbattendosi la testa in un muro , all’atto del trasferimento dalla Questura al carcere. A parte che non esiste nessun referto ospedaliero sottoscritto dal Buonoconto, la stessa perizia eseguita dal medico-legale designato dal tribunale, elenca una lunga serie di lesioni, alcune delle quali localizzate in parti del corpo (fra le quali il collo), tali da dover escludere l’ipotesi dell’autoferimento.
Il prof. Faustino Durante dell’Università di Roma, ha infatti sostenuto in una sua controperizia, eseguita sulla scorta dei dati, di cui alla perizia del tribunale, che le lesioni subite dal Buonoconto gli sono state chiaramente e inequivocabilmente prodotte al seguito di colpi infertigli da terze persone.
Nonostante la controperizia… la Procura della Repubblica non ha ancora ritenuto di dover procedere all’invio di comunicazioni giudiziarie.
Una accorata testimonianza del padre di Alberto:
«…E ancora mi chiedo il perché di tanta crudeltà, di tanto spietato accanimento contro di lui, il perché delle torture che gli hanno inflitto dopo l’arresto, durante e dopo la lunga carcerazione, quel lungo calvario che giorno per giorno ha determinato la distruzione di Alberto.
[…] Ci lasciano per delle ore in una stanza [della Questura] e di tanto in tanto viene un funzionario a chiedermi che cosa so io di mio figlio. Perché non lo richiamo a casa? Da quanto tempo manca da Napoli? Ipocritamente con me insistono per sapere qualche cosa di mio figlio . Sono domande tranello perché Alberto è già nelle loro mani: lo stanno picchiano e seviziando. Sono io che lo ignoro.
Poi vengo a sapere, dagli avvocati e dalla stampa, che Alberto è ferito. Le denunzie fatte sono state archiviate perché contro ignoti. Ignoti!!! le sevizie a lui inflitte, gli sono state fatte in un pubblico ufficio, dove sarebbe stato facile se solo avessero voluto, risalire ai responsabili.
Da quel giorno è iniziata la disperazione di tutti noi. Mio figlio ha pagato con la vita la sua lotta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia. Un giorno, mio figlio, il mio Alberto e tanti altri come lui, presenteranno “il conto” a tutti quelli, potenti e indifferenti, che reprimono, schiacciano, uccidono. E il “conto” sarà salato».
Il 20 dicembre 1980, a Napoli, il militante dei NAP Alberto Buonoconto s’impicca a casa dei genitori, mentre ancora sta scontando la pena.
Torture, vessazioni di ogni genere, carcere speciale, isolamento, portano Alberto al suicidio. Ma è un vero assassinio di Stato.
Su Alberto Buonoconto vedi su questo blog anche il post: http://contromaelstrom.wordpress.com/2011/09/07/ancora-tortura-negli-anni-settanta-e-ottanta/
L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale
Prendo da Infoaut questo racconto dell’evasione di Franca e Maria Pia.
Proprio oggi, proprio ora, appena rientrata dai funerali di Franca Salerno. Funerali di cui ancora non riesco a scrivere…
CIAO FRANCA
I primi mesi del 1977 furono caratterizzati, in tutta Italia, da numerose rivolte all’interno delle carceri e da un consistente numero di evasioni da parte di militanti politici. Tra queste si annovera quella di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti dei Nuclei Armati Proletari, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 Gennaio; grazie ad un’azione coordinata tra l’interno e l’esterno dell’edificio, le due militanti riuscirono infatti ad evadere dal carcere femminile di Pozzuoli in cui erano rinchiuse in attesa del processo. Il progetto di fuga comprendeva inizialmente anche la terza compagna di cella delle due Nappiste, Rosaria Sansica, la quale decise però di rinunciare perché aveva ottenuto qualche tempo prima la libertà provvisoria per motivi di salute.
In quel periodo l’azione dei NAP era rivolta soprattutto alla liberazione dei militanti arrestati e a far sì che i processi in cui erano coinvolti non potessero aprirsi (obiettivo che veniva perseguito creando difficoltà a formare la giuria popolare e tramite una serie di proclami e ricusazioni volti a vanificare l’intero procedimento processuale), motivo per cui l’evasione fu programmata in concomitanza con il primo processo ai NAP che si stava svolgendo a Napoli, in cui erano imputate anche Franca Salerno e Maria Pia Vianale. Questa linea d’azione venne tra l’altro ribadita nel comunicato diffuso dall’organizzazione subito dopo la fuga dal carcere di Pozzuoli, in cui si legge: “La nostra libertà come è dovere di ogni rivoluzionario ce la riprenderemo da soli evadendo. Dalle carceri dai ghetti dove ci costringe la società borghese usciremo con le nostre forze. L’evasione è un momento della nostra lotta alla repressione di Stato”. Il ciclo di evasioni e rivolte mise in difficoltà le autorità carcerarie che, nel caso di Pozzuoli, licenziarono il Direttore del carcere nel tentativo di ricondurre a una negligenza della direzione quella che in realtà era un’azione politica su scala nazionale che non poteva non destare preoccupazione in chi quotidianamente si affannava a garantire un ordine ormai ampiamente compromesso.
Il 24 Gennaio, in sede processuale, la fuga delle due Nappiste venne rivendicata tramite la lettura del seguente comunicato:“Sabato 22 Gennaio, alle ore 4, l’organizzazione comunista combattente NAP ha attaccato il carcere-lager di Pozzuoli. L’azione tendente alla liberazione delle compagne Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti dell’organizzazione, si è sviluppata con un attacco coordinato interno-esterno ed ha raggiunto in pieno l’obiettivo fissato…il terreno reale dello scontro si sviluppa ora totalmente all’esterno dell’aula…è solo sulla parola d’ordine “portare attacco al cuore dello Stato” che si supera la parzialità delle esperienze di lotta armata e si ricompone l’unità della classe delle sue avanguardie armate nel partito combattente”.Il processo si protrasse fino al 16 Febbraio, data nella quale la Corte inflisse 289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti (nonostante molti degli imputati si fossero dichiarati non appartenenti all’organizzazione).

Il clima di tensione, di “caccia all’uomo” e di violenza gratuita da parte degli agenti che caratterizzò le circostanze del loro arresto (nonché altri episodi) è ben descritto in un’intervista rilasciata da Franca Salerno alcuni anni dopo: “Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte. Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia e eccitazione; erano fuori di sè perché eravamo donne. Averci prese, per loro, era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.
Una vecchia intervista con Franca Salerno
Ciao Anto’
Ciao Franca, cuore nostro
I funerali di Franca Salerno
La copertina con la stella
E’ morta Franca Salerno, storica militante dei Nap (via Insorgenze)
Importante questo articolo, importante i racconti che ci regala, i piccoli pezzi di vita di Franca che ci fa ascoltare.
Le parole di Nicola e poi di Sante, il racconto di quell’urlo a Badu e Carros che diceva che il cucciolo della compagna detenuta nel braccio di fronte di quel maledetto carcere stava male…
insomma, un articolo importante che ci racconta piccoli pezzi di quella piccolissima grande donna che è stata Franca Salerno, militante dei Nap, madre del nostro Antonio.
Ciao Franca
via Insorgenze
Ciao Franca, cuore nostro
E’ morta la nostra compagna Franca Salerno.
La mamma di Antonio, lei che lo tenne in pancia durante il suo arresto, che lo partorì in cella e che gli diede i primi tre anni di vita a Badu e Carros, il terribile carcere di Nuoro.
Antonio l’ha lasciata poco dopo la fine della sua vita da detenuta.
Il suo amato figlio è morto sul lavoro, ammazzato dalla strage quotidiana della precarietà…
e il corpo stanco di Franca non ha retto.
E’ morta stanotte, dopo una malattia lacerante.
Franca ha una lunga storia che è la storia di tutt@ noi
Ciao Franca, abbracciaci Antonio, almeno quello!
PER CHI VOLESSE SALUTARLA, DOMANI (4 FEBBRAIO) DALLE 13 ALLE 16 CI SI VEDE AL LABORATORIO ACROBAX, EX-CINODROMO (PONTE MARCONI)
LINK:
Una vecchia intervista con Franca Salerno
Ciao Anto’
L’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale
I funerali di Franca Salerno
AD ANNAMARIA MANTINI
ANNAMARIA MANTINI
-Nacque a Fiesole, l’11 aprile 1953
-Frequenta le scuole a Firenze e nel 1973 si iscrive a Lettere e Filosofia
– Nel 1975 si trasferisce a Roma
– Milita nei Nuclei Armati Proletari
– Viene uccisa dai carabinieri a Roma l’8 luglio 1975
Documenti prodotti da organizzazioni armate per la per persona o per l’evento in cui ha incontrato la morte:
– Nuclei Armati Proletari, Comunicato 9-7-75 in: Soccorso Rosso napoletano (a cura di), I nap, Milano 1976, Collettivo Editoriale Libri Rossi.
“9 luglio 1975: Ieri in un agguato teso dalla polizia, è stata uccisa a freddo la compagna Annamaria. La volontà del potere di chiudere la partita con i compagni che si organizzano clandestinamente, ha armato la mano del killer di turno, che con la precisa coscienza di uccidere, ci ha privato di una compagna eccezionale.
Annamaria era uno dei compagni che hanno dato vita al nucleo “29 ottobre”. Ha fatto parte del gruppo che ha sequestrato sotto casa il magistrato Di Gennaro, e il contributo che ha dato alla costruzione ed esecuzione di questa azione, dimostrando il livello politico militare che aveva raggiunto. E’ enorme l’abisso che separa una compagna rivoluzionaria da uno sbirro. Non basterebbero la vita di cento Tuzzolino per pagare la vita di Annamaria.
Questo non significa che dimenticheremo i Tuzzolino, i Barberis, così come non abbiamo dimenticato i Conti e i Romaniello.
La mano che uccide un proletario ci è nemica come i porci che la armano. Ma lo ripetiamo, non è uccidendo uno o più sbirri che i proletari si possono ripagare del prezzo che stanno pagando per liberarsi. E per questo prezzo altissimo, in noi come in tutti i rivoluzionari, non c’è solo la rabbia ma anche la coscienza che il movimento si sta arricchendo in maniera definitiva del patrimonio di importantissime esperienze che questi compagni ci lasciano.
Le giornate di aprile, le innumerevoli azioni armate, gli espropri per autofinanziamento, le azioni nelle carceri, dimostrano la crescita di una nuova generazione di combattenti, e non bastano gli omicidi e gli arresti per distruggerla.
La nostra esigenza di comunismo è indistruttibile.
Luca Mantini, Sergio Romeo, Bruno Valli, Vito Principe, Gianpiero Taras, Margherita Cagol, Annamaria Mantini.
Non siete i soli e non sarete gli ultimi, ma rappresentate per tutti i rivoluzionari una scelta irrinunciabile.
Lotta armata per il comunismo
Nucleo Armato 29 ottobre.
Documenti prodotti da gruppi sociali
– Anna Maria Mantini, in: Nuclei Armati Proletari, Quaderno n.1 di Controinformazione, Milano 1976
“Comunista da sempre, ma solo a 17 anni inizia ad interessarsi attivamente di politica sull’onda della contestazione studentesca del ’68. Quando il fratello viene arrestato (’72) entra a far parte dell’allora Soccorso Rosso fiorentino. L’esperienza diretta, la grande sensibilità nei confronti delle esigenze del proletariato detenuto la portano alla spontanea scelta verso questo settore di intervento.
Vive dall’interno le contraddizioni dei “nuclei carceri” di Lotta Continua.
Di sua iniziativa prende contatti con altri detenuti ed ex-detenuti, con i quali mantiene rapporti sempre più intensi: sono loro lo stimolo principale alla sua maturazione politica, il suo punto di riferimento ed è con loro che critica le posizioni attendeste di LC.
Dopo una breve militanza in Potere Operaio ne esce per dar vita insieme ad altri compagni al Collettivo G. Jackson.
Il radicalizzarsi delle posizioni all’interno e all’esterno del carcere la rendono cosciente della necessità di operare sui livelli più avanzati dello scontro, ciò la spinge ad approfondire i rapporti con i compagni dei NAP.
Con l’assassinio di due di loro durante un’azione di autofinanziamento viene a rompersi un legame politico e umano fortissimo. “E’ inutile che io nasconda dietro la mia fede politica la mutilazione grossissima che ho avuto” scrive ad un mese dalla morte del fratello.
Ma non per questo affretta o decelera una scelta che già da tempo aveva fatto. La maturità politica, la carica umana, l’odio profondo per l’istituzione carceraria la vedono fondatrice del nucleo 29 Ottobre. Verrà assassinata a 22 anni, ma come spesso ripeteva lei stessa: “E se la morte ci sorprende all’improvviso, che sia la benvenuta, purchè il nostro grido di guerra giunga ad un orecchio che lo raccolga, un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino ad intonare canti funebri con il crepito delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria.”
QUI, il mio omaggio agli altri compagni uccisi dallo stato: omaggio che giorno dopo giorno cerco di completare per non dimenticare nessun@
A loro, sangue nostro.
Ad Antonio Lo Muscio
ANTONIO LO MUSCIO
– Nasce a Trinitapoli (FG) il 28 marzo 1950
– Non risponde alla chiamata per il servizio militare ed è quindi arrestato nel 1970 dove rimane per 2 anni
– torna in carcere più volte
– nel 1975 lavora alla Fargas di Novate milanese per qualche tempo
– milita nei Nuclei Armati Proletari
– viene ucciso dai carabinieri a Roma, il 1 luglio 1977
Scritture di Antonio Lo Muscio
– “Lettera ad un amico”, carcere di Procida, 5 Marzo 1974
Caro compagno spero tanto che tu stia sempre bene. Quando uscirò oltre a lavorare normalmente, cercherò di svolgere anche un certo lavoro politico coinvolgendo se sarà possibile gli stessi elementi che ieri come me vivevano al di fuori della realtà. In un mondo diverso da quello reale dove si vede nel denaro la sola via d’uscita, così come ci ha insegnato la borghesia, che con i soldi fa e disfa a suo piacimento. Bisogna far capire loro come ho capito io che chi ha il potere di fare e disfare a suo piacimento è uno solo, il popolo. E’ questa la vera forza che fa cambiare il mondo, e non il denaro. Tutte le soddisfazioni ce le potremo prendere una volta abbattuti gli sporchi capitalisti e tutte le forze reazionarie esistenti. Solo quando questo sarà attuabile tutti gli uomini si potranno ritenere uomini, oggi siamo sulla via di transizione, cioè uomini lo stiamo diventando solo ora.
– “Lettera ad un amico”, carcere di Perugia, 5 Gennaio 1975
Carissimo compagno, come sai fra non molto sarò fuori precisamente fra 18 giorni. Di questo sono contentissimo per il fatto che uscendo potrò veramente dedicarmi alla lotta politica e in questo modo darò un significato alla mia stessa vita. Dico questo in riferimento a ciò che ero prima, cioè prima che entrassi in carcere. Sono del parere, se il tempo della detenzione viene usato bene, che, almeno una volta, tutti, senza escludere nessuno, dobbiate venire in carcere a vedere da vicino quello che veramente è l’istituzione carceraria e la sua violenza.
Testimonianze al Progetto Memoria
– Silvana Innocenzi, Testimonianza al Progetto Memoria, Firenze 1995
“Un ragazzo intelligente, timido e sensibile. Un sorriso spontaneo, carico di tenerezza e di entusiasmo per la vita. Così la mia mente ricorda il primo incontro con Antonio. Mi colpì la disponibilità e la generosità che aveva nei confronti degli altri, la sua capacità di ascoltare.
Bello, dicevano le compagne che lo incontravano o che hanno avuto modo di conoscerlo nella sua passione politica. Io ero rimasta affascinata dal suo carattere, dal suo mondo interiore. […]
Arrivò il servizio militare e venne inviato a Como proprio mentre era nata un’intensa storia d’amore. La ragazza rimane incinta ( un figlio che poi non nascerà a causa di un aborto spontaneo )… e lui la raggiunge… la classica fuga.
Viene raggiunto a casa e dichiarato in stato di arresto. Ne nasce un tafferuglio… processato e condannato venne rinchiuso nel carcere di Forte Boccea e poi a Gaeta. E’ l’inizio dell’impatto con il carcere.
Il padre iscritto al PCI discuteva spesso con lui. Discussioni animate in cui Antonio, con la passione politica che aveva maturato contestava al padre la politica riformista e revisionista del PCI. In quegli anni lui era ideologicamente più vicino alla sinistra extraparlamentare. Fin da ragazzo era alla continua ricerca di un mondo diverso, più giusto, con meno differenze sociali, con meno sfruttamento e meno emarginazione.
Il suo primo sguardo l’ho incrociato dietro un bancone di una sala colloqui del carcere di Perugia. Era finito lì, dopo la detenzione militare, per un reato definitivo di furto.
A Perugia insieme ad altri compagni aveva dato vita al Collettivo delle Pantere Rosse, sull’onda del movimento delle Black Panthers americane. […]
I nostri incontri a colloquio, erano dei momenti intensi di confronto e scambio, di comunicazione tra realtà diverse. Io che frequentavo il movimento di liberazione della donna e lui che mi parlava dell’assurda vita coatta. Delle vite e delle sofferenze che erano rinchiuse all’interno delle mura di un carcere. Dell’uso dei letti di contenzione e dei manicomi giudiziari per le persone che meno si adattavano alla vita del carcere, alle sue regole.
Era felice quando poteva comunicarmi una piccola conquista interna, sia che si trattasse di spazi di socialità, di condizioni lavorative migliori o della possibilità di far entrare libri e altro materiale scritto senza l’intervento della censura.
Era felice perché stava cambiando qualcosa e si rendeva contro che poteva farlo anche all’interno di un’istituzione così totale come è, ed era, il carcere.
Mi regalò il libro Col sangue agli occhi di Jackson. “Leggilo, mi disse, dimmi cosa ne pensi, secondo me è stupendo”.
Lo lessi e capii che lui lì ritrovava tutte le sue emozioni più forti: rabbia, odio, amore. Non amava il sottoproletariato di Marx, amava il proletariato di Fanon.
Intanto le rivolte nelle carceri aumentavano e quella del carcere di Alessandria fece discutere più di tutte. C’erano stati dei morti tra il personale civile sequestrato.
Alcuni detenuti della rivolta finirono anche a Perugia e iniziò anche lì un’attiva campagna di controinformazione su quanto era realmente accaduto durante il sequestro degli ostaggi,
Sognare, realizzare un’evasione è il desiderio più vivo di ogni recluso per sottrarsi ad una situazione che, per quanto può essere vivibile, toglie il bene più importante: la libertà dell’individuo.
“Liberare tutti” era il messaggio più radicato tra i detenuti di quegli anni.
Alla rabbia istintiva, individuale, cosciente di molti detenuti, i Nuclei Armati Proletari diedero una progettualità collettiva e rivoluzionaria.
Antonio ci si ritrovò.
Un giorno con discrezione mi diede un foglietto dattiloscritto, voleva sapere cosa ne pensavo. Erano delle riflessioni sulla lotta armata, sulla sua possibilità e necessità. Non riuscii subito a dargli una risposta, ero solo cosciente che lì, in carcere più che altrove, le mediazioni non erano possibili.
Uscì nel 1974. Mi presi dei giorni di ferie dal lavoro e l’aspettai all’uscita. Fu sorpreso. Aveva i capelli lunghi, la barba e un cappotto lungo che gli davano un aspetto particolare, tra l’originale e il demodé. […] Furono momenti stupendi. E solo oggi che ho anche io vissuto l’esperienza del carcere posso coglierne ulteriori sfumature.
Cercò i compagni che conosceva, gli amici che da tempo non rivedeva. Alcuni lavoravano in fabbrica e lo invitarono alle loro riunioni. Io a Roma, lui a Milano, ma continuammo a vederci circa ogni 15 giorni.
Il carcere però non lo aveva dimenticato, soprattutto non aveva dimenticato le persone che aveva lasciato e che voleva aiutare ad uscire da quei luoghi di non vita. Continuammo ad andare ai colloqui e a seguire alcuni compagni nei bisogni più immediati.
Intanto nel suo cuore c’era la speranza di entrare in contatto con i compagni dei NAP che iniziavano a fare le loro prime azioni.
Ma il passaggio decisivo alla lotta armata avvenne quando la polizia uccise a Roma, sul pianerottolo di casa, la compagna Anna Maria Mantini (presto questo blog dedicherà una pagina anche a lei). L’aveva conosciuta, apprezzata, stimata moltissimo. Ne discutemmo a lungo di questa sua morte. Non ci volle molto a capire che avrebbe continuato la sua lotta. […] La mia scelta non tardò ad arrivare.
Vivere con lui un periodo della mia militanza nei NAP è stato di un’enorme ricchezza. Era la prima volta che dividevamo insieme più cose, dalla quotidianità al grande sogno di un mondo diverso. Non c’è mai stata tra noi una grande divisione di ruoli, ci alternavamo in molte cose; quello che detestava era fare acquisti, anche quanto le cose servivano a lui. Non viveva la sua scelta separata alle altre dimensioni della vita. La sua concezione di guerriglia conciliava con tutto: azioni, amore, famiglia e figli. Tutto era un unico grande filo rosso.
Viaggiavamo sempre molto uniti, tanto da diventare oggetto di simpatica ironia per gli altri compagni.
L’ultima immagine che ho di lui vivo è quella della separazione alla stazione Termini. Io partivo per Torino, per incontrare dei compagni, e lui mi aveva accompagnato. Non voleva farmi partire, ma io insistetti. Mi girai più volte a guardarlo andare via e giurammo che al ritorno avremmo mollato tutto per festeggiare il mio compleanno.
Ma non potemmo farlo. Appena arrivata a Torino fui arrestata.
Mi raggiunge anche in carcere con simpatiche cartoline, brevi, affettuose, cariche di emotività, quasi a voler colmare il vuoto e la distanza che si era creata materialmente tra noi.
Intanto i compagni continuavano ad essere arrestati, la caccia all’uomo era diventata sempre più accerchiante, e la vita per lui e per gli altri non deve essere stata facile negli ultimi periodi.
Poi un giorno, il primo luglio 1977, la terribile notizia appresa da un banale giornale radio tra le mura di una cella di Marassi, a Genova.
Ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri a Roma, piazza san Pietro in Vincoli, vicino alla facoltà di ingegneria, all’età di 27 anni, mentre tentava di sfuggire all’arresto con altre due compagne.
Falciato dalle raffiche di mitra fu poi freddato con una pallottola sparata a pochi centimetri dalla nuca. Non volevano arrestarlo, ma ucciderlo.
Non ci rivedemmo più.
Da una testimonianza raccolta da un giornalista del Corriere della Sera e pubblicata il 2 luglio: “Prima è passato di corsa quel giovane, Lo Muscio, inseguito da un carabiniere che sparava raffiche di mitra. E’ caduto proprio a pochi metri dall’ingresso della facoltà, cercando di sostenersi con le braccia e urlando per il dolore.
E’ a questo punto che il carabiniere, fatti pochi passi, ha lasciato partire un’altra raffica e Lo Muscio è stato fulminato. Gli ultimi colpi sono stati sparati dal carabiniere con una pistola.”
– Amici di Antonio, testimonianza collettiva al Progetto Memoria, Roma 1995
“Antonio l’ho conosciuto in carcere, nelle prime lotte. E’ diventato un compagno dei NAP proprio stando insieme a noi. Antonio era un compagno generoso, molto disciplinato. Quando si accostò al collettivo di Perugia doveva uscire di lì a poco. Gli dissi, se vuoi conoscere un compagno eccezionale, vai a questo indirizzo, e gli diedi l’indirizzo di Luca Mantini (anche di Luca ne parleremo presto ). Lui uscì. E per quanto sembri incredibile, era la sera di Piazza Alberti, del giorno in cui Luca era morto in piazza Alberti. Naturalmente non poteva saperlo e andò in casa di Luca. Lì trovò Annamaria.
Vennero a casa mia insieme quella sera e fu la prima volta che lo vidi. Dopo di allora ci siamo incontrati molte volte. Con me non aveva un rapporto politico, era una cosa un po’ strana, un rapporto molto umano. Antonio era un tipo gioviale, festoso. Cantava. In macchina cantava sempre. Ricordo di un viaggio con Antonio.
Me lo ricorderò tutta la vita. Prendemmo un vassoio, pesante come un macigno. E partimmo. Attraversando mezza Italia. E durante tutto il viaggio, sebbene spossato di stanchezza, cantava. […] Si fermò all’alba in un negozio di alimentari, comprò un po’ di gnocchi di patate. Poi, da un’altra parte, del pomodoro crudo. Li condimmo così, a mano. Al controllo dei cibi, in carcere, comunque mi restituirono il vassoio con tutti quegli gnocchi, e mi dissero seraficamente di metterli in un contenitore di plastica… Mi ricordo quest’ episodio perché dice come era fatto Antonio: se c’era da fare una cosa, lui partiva all’una di notte, attraversava l’Italia e la faceva, con allegria. Antonio era subito disponibile, sempre allegro, ti sapeva mettere subito a tuo agio.
QUI, un’intervista a Franca Salerno, arrestata e pestata (con un bel pancione) insieme Maria Pia Vianale mentre Antonio veniva giustiziato.
una vecchia intervista a Franca Salerno
“Sono stata arrestata ed ero incinta, ma mi hanno picchiata”
Franca Salerno, Arrestata il 9 luglio 1975, condannata a quattro anni e mezzo per appartenenza ai Nap, Nuclei armati proletari, evasa insieme a Maria Pia Vianale dal carcere di Pozzuoli e riarrestata il primo luglio 1977 in piazza San Pietro in Vincoli a Roma…“In un conflitto a fuoco dove Antonio Lo Muscio è morto ammazzato”.
Ricordo le foto sui giornali, la tua all’ospedale… “Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte. Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia e eccitazione; erano fuori di sè perché eravamo donne. Averci prese, per loro, era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.
Al processo, a quanti anni ti hanno condannata? “A 18, per banda armata”.
Sapevi di essere incinta al momento dell’arresto? “Sì, avevo questo bambino in pancia e volevo salvaguardare la sua vita. Antonio era morto, Pia era stata portata via con l’autoambulanza ferita, io ero sul selciato e gridavo: “Sono incinta”, ma da ogni autocivetta uscivano uomini e picchiavano. Sino a quando è arrivato anche per me il momento di andare in ospedale”.
Cosa vuol dire fare un figlio in carcere? “Guarda che io il figlio l’ho fatto fuori, in carcere l’ho partorito.
Ma non mi sono sentita mamma da subito, all’inizio mi vergognavo. Quasi che il mio essere gravida fosse un tradimento alla rivoluzione”.
Ed è rimasto con te in carcere? “Sino ai tre anni andava e veniva, perché in carcere i bambini non stanno bene. E poi ho fatto molto carcere da sola, come a Nuoro, dove in sezione c’eravamo solo io e lui. Forse dalle lettere avevano capito che vivevo la maternità in modo confittuale e mi hanno messo alla prova”.
Come si chiama? “Antonio”.
Poi cosa è successo? “Compiuti i tre anni, i bambini in carcere non ci possono più stare. È stato un grosso dolore, ma esistevano i compagni e le compagne. E lui esisteva, esisteva come cosa viva, non solo come perdita. Poi ci sono stati le carceri speciali, i vetri divisori nella sala colloquio che per anni ci hanno impedito di toccarci, e tutte le altre difficoltà che “loro” mettevano in mezzo. Ma a me non fregava niente. Mio figlio esiste, mi dicevo, e anche se va via troverò un modo per costruirci qualcosa assieme, per crescerci assieme”.
Chi lo ha tenuto? “Mia madre, mia sorella, l’altra nonna”.
Lui ti ha mai chiesto perché stavi in carcere? “Si, aveva cinque anni e voleva dare risposte alla sua vita di bambino nato dietro le sbarre. Potevo spiegargli la rivoluzione? E poi non mi piace la retorica gloriosa. Così gli ho detto: la mamma ha rubato. Poi, piano piano, ho cercato di spiegare. Ma il racconto vero dei percorsi che mi avevano portato in carcere c’è stato quando sono uscita e lui aveva 16 anni”.
E dopo sedici anni di galera come si riprende a vivere fuori? “Per un anno avevo i piedi fuori e la testa da detenuta. Cercavo emozioni passate, fili, ed ero comunque e sempre sulla difensiva. Poi, un po’ alla volta, ho iniziato a misurarmi con la realtà. Col lavoro necessario, con mio figlio. Era una presenza intensa, ma io da sedici anni non ero abituata alle presenze, ad avere persone attorno, all’interesse di qualcuno su di me. Ero disabituata alla materialità degli affetti, ai corpi da toccare. Ho dovuto imparare a non vivere di continue elaborazioni del cervello, a mettere in comunicazione corpo e mente”.
E il carcere, lo hai dimenticato? “Lo sogno continuamente. E per me sognare non è una seconda vita. Per me il carcere è presente, come sono presenti i compagni e le compagne che sono ancora dentro, a scontare una pena che non ha fine. In nessun modo disposti però a barattare dignità e rispetto di se stessi in cambio di libertà. Abbiamo rincorso l’utopia di un mondo migliore e mai l’interesse personale. Non lo faremo adesso”.
È stato facile trovare lavoro? “È stato necessario. Ma tutt’altro che facile. Mi sono state fatte offerte di lavoro da qualche parlamentare in cambio di un mio intervento sul dibattito della dissociazione. Ho rifiutato e mi sono affidata alla gente del quartiere e ho trovato lavoro in un’impresa di pulizie”.
Dell’esperienza del carcere cosa rimane addosso? “Dei vizi. Dentro la borsetta metto di tutto: spazzolino, penna, fogli bianchi, insomma quello che può servire per i cambiamenti improvvisi. Le cose che una detenuta inserisce nello zaino quando c’è aria di trasferimento e sa che, quando avverrà, non le sarà concesso nemmeno il tempo di prepararsi la borsa. E quando mangio lascio sempre qualcosa nel piatto, per dopo, perché non si sa mai”.
Lascia l’amaro in bocca quest’intervista, più di quanto le parole di Franca non lo lascino già.
Perchè quel bimbo di cui si parla, Antonio, non smette di mancare ad ognuno di noi.
Perchè la storia di quella vita nata tra le sbarre di un carcere di massima sicurezza non doveva finire spezzata sul lavoro, come troppe persone ogni giorno.
Solo oggi tra la lista dei morti spunta un ragazzo di 20 anni, morto accanto al fratello, rimasto gravemente ferito….non se ne può più. QUESTA PAGINA E’ QUINDI CONTRO IL CARCERE, CONTRO LA PRESENZA DI BAMBINI DA 0 A 3 ANNI, MA
ANCHE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO, PER FERMARE LA QUOTIDIANA SEQUELA DI ASSASSINII
Il giorno in cui è morto quel 17 Gennaio del 2006, Antonio Salerno Piccinino stava lavorando e faceva una consegna straordinaria, un favore personale ad uno dei suoi dirigenti, un viaggio fino ad Ostia improvvisato probabilmente per la voglia di dimostrare affidabilità.
Antonio è morto perchè andava troppo veloce a causa dei ritmi inarrestabili e delle pressioni emotive costanti che ci vogliono disponibili, sorridenti e veloci, sempre.
Antonio era un pony express, il contratto di lavoro era scaduto a fine dicembre e formalmente, quando è morto sulla Cristoforo Colombo non gli era ancora stato rinnovato.
Antonio era in nero. Il suo lavoro era quello di corriere addetto ai ritiri presso gli ambulatori veterinari, percorreva sulle strade di Roma 130Km al giorno. 14 ritiri al giorno, 3 euro per ogni ritiro in città, 5 euro per ogni ritiro oltre il Grande Raccordo Anulare e 6 euro per ogni ritiro nella zona mare comprendente Ostia, Torvajanica e Fiumicino.
E’ Indispensabile andare veloce perché l’equazione è semplice: aumentare il numero di ritiri per aumentare la propria busta paga.
E’ così che è morto Antonio. Ma Antonio non era affatto il suo lavoro, anzi. Era un ragazzo pieno di vita e di sogni. Antonio era un ragazzo di ventinove anni consapevole dei meccanismi di sfruttamento che era costretto a subire, era un precario che lottava quotidianemente contro la precarietà del lavoro e della vita.
Commenti recenti