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La detenzione interminabile: storie di donne di Palestina
Le autorità giudiziarie israeliane hanno deciso di prorogare la detenzione amministrativa (senz’accusa e rinnovabile ad oltranza) per la prigioniera palestinese Hana Yahya Saber ash-Shalabi, proveniente da Jenin. Per Hana non è il primo episodio di questo tipo: la donna è stata arrestata il 14/09/2009 e, da allora, le autorità israeliane hanno proceduto allo stesso modo. Puntualmente, alla scadenza dei sei mesi, hanno esteso la detenzione amministrativa nei suoi confronti. Attualmente, le prigioniere palestinesi in detenzione amministrativa sono tre: Hana, Kifah ‘Awni Qatash, ‘Aliya’ al-Ja’bari. Decisioni come l’ultima ai danni dei diritti di Hana ash-Shalabi rientrano tra quelle pratiche “legali” di Israele che le prigioniere palestinesi hanno annunciato di voler denunciare attraverso forme di protesta. L’appello è stato lanciato dalle prigioni israeliane di Hasharon e Damon e le azioni si svolgeranno nei prossimi mesi.
Riportiamo dal sito Infopal:
Di fronte al caso di Hana e per ribadire la loro protesta per il rispetto di propri diritti, le detenute palestinesi hanno scritto al ministero palestinese dei Prigionieri chiedendo di intervenire affinché le autorità d’occupazione israeliane sulle quali ricade la competenza per gli affari carcerari garantiscano le visite mediche e forniscano le cure richieste necessarie e permettano alle prigioniere i cui coniugi sono a loro volta detenuti da Israele di incontrarsi. Inoltre richiedono di consentire alle prigioniere palestinesi di proseguire all’interno delle carceri gli studi universitari, di svolgere gli esami e ricevere regolarmente i libri di testo. Le prigioniere palestinesi chiedono anche il rispetto e una maggiore attenzione per esigenze personali come quella di avere i ricambi di vestiario e calzature. Le richieste continuano per porre fine ai divieti sulle visite dei loro familiari e per pretendere che i militari non assaltino regolarmente le loro celle con ispezioni umilianti. Infine, le prigioniere hanno chiesto al proprio ministero di seguire con particolare attenzione il caso delle compagne detenute nella sezione “Nahshon”, dove le aggressioni da parte degli ufficiali carcerari israeliani e i metodi di umiliazione sono frequenti e si consumano in vari contesti, anche durante il loro trasferimento verso i tribunali.
Fabrizia Falcione,dirigente dei progetti di Unifem, agenzia Onu per i diritti delle donne, intervistata da Infopal racconta che…
La situazione di donne e minori palestinesi nei centri di detenzione israeliani è davvero critica, in termini numerici, perché di fronte alle centinaia di migliaia di prigionieri politici palestinesi maschi, sembrano inesistenti. Tuttavia, la condizione delle prigioniere è peggiore degli uomini: la situazione delle violazioni nei loro confronti, infatti, va affrontata nel complesso e in una prospettiva di genere. Sebbene inferiori numericamente, donne e ragazze continuano ad essere arrestate, tra necessità ignorate e diritti violati.
Sia ex le detenute che sono rimaste incarcerate in quelle strutture sia i familiari di quanti restano in prigione, hanno raccontato di celle infestate da insetti, scarafaggi e ratti.
Le detenute incinte vengono ammanettate durante il parto e lasciate così nel periodo successivo. C’è una assoluta assenza di cure e trattamenti, in particolare nel periodo di gravidanza. Una volta compiuti due anni, i bambini vengono allontanati dalle madri.
Le donne patiscono oltraggi e offese al proprio retaggio culturale e ai diritti religiosi. Un’ex detenuta ha raccontato: “Mi hanno privata del velo dandomi un’uniforme di colore marrone, a maniche corte e quando ho chiesto di avere una maglia a maniche lunghe da poter indossare di sotto, me l’hanno negata. Costretta a spostarmi tra le celle tra gli occhi di guardie uomini…mi sono sentita umiliata e sono stata insultata”.
La privacy nei confronti delle donne è violata anche nel corso delle perquisizioni all’interno delle celle, condotte da guardie uomini. Non viene preso in considerazione alcun rispetto per l’aspetto religioso. Ogni giorno, anche al mattino presto, si fa la conta delle detenute e, tra le forme di punizione vi è anche quella svegliare bruscamente le detenute che, dal sonno, non rispondono al momento. Inoltre, a prigioniere e detenute palestinesi vengono vietati la detenzione e l’utilizzo di oggetti come le penne: non possono leggere e non viene loro riconosciuto il diritto ad alcuna pausa ricreativa.
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Flobert … strage sul lavoro che non dimentichiamo
Venerdì 11 aprile 1975, alle 13,25, una terribile esplosione distrugge la Flobert, una fabbrica che produce proiettili d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, situata alla contrada Romani a Sant’Anastasia, alle pendici del Monte Somma, nel vesuviano.

Foto di Valentina Perniciaro
Quel giorno sono al lavoro circa sessanta dipendenti, tra cui motissime donne. Vicino alla baracca da cui promana la prima deflagrazione, piena di circa 200.000 cartucce, vi sono tredici operai, dei quali dodici muoiono sul colpo, scaraventati fino a cento metri dal luogo dell’esplosione. Sono quasi tutti giovani, d’età compresa tra i venti e i quarantadue anni. Provengono da molti paesi della provincia partenopea: Sant’Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano d’Arco, Cercola, S. Sebastiano al Vesuvio, Portici.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima; altri dieci, tra cui cinque donne, subiscono ferite anche gravi.
Non si riesce ad accertare la vera causa dello scoppio: si ipotizza un innesco da cicca di sigaretta (ipotesi poi esclusa dalle successive indagini), forse lasciata cadere da uno degli operai, molti dei quali, si scoprirà, lavoravano al nero in capannoni di lamiera e legno e privi di qualsiasi requisito di sicurezza (gli operai risulteranno assunti solo cinque giorni prima, ma le testimonianze documentano anche la presenza di lavoratori al nero).
Dopo lo scoppio, i soccorsi giungono dapprima dagli abitanti, e poi dalle forze dell’ordine. Si trovano davanti brandelli di carne, due figure carbonizzate attaccate ad una grata, colte dalla morte nel tentativo di sfuggire alle fiamme, teste staccate dai corpi, dita e braccia disseminate nei campi circostanti e sugli alberi nella campagna. Di un operaio non si ritrova nemmeno il cadavere. Polverizzato, disperso dalla violenza dell’esplosione.
Viernarì unnice aprile
‘a Sant’Anastasia
nu tratto nu rumore
sentiett’ ‘e ch’ paura.
Je ascevo ‘a faticà
manc’a forza ‘e cammenà
p’à via addumandà
sta botta che sarrà.
‘A Massaria ‘e Rumano
na fabbrica è scuppiata
e ‘a ggente ca fujeva
e ll’ate ca chiagneva.
Chi jeva e chi turnava
p’à paura e ll’ati botte
ma arrivato nnanz’ ‘o canciello
maronn’ e ch’ maciello!
Din’t vuliette trasì
me sentiette ‘ e svenì
‘nterr’ na capa steva
e ‘o cuorpo n’ ‘o teneva.
Cammino e ch’ tristezza
m’avoto e ncopp’ ‘a rezza
dduje pover’ operaje
cu ‘e carne tutt’abbruciat’.
Quann’ arrivano ‘e pariente
‘e chilli puverielle
chiagnevano disperati
pè ‘lloro figlie perdute.
«’O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pè pietà
pè fforza ccà adda stà».
«Signò nun alluccate
ca forse s’è salvato»
e ‘a mamma se và avvutà
sott’ ‘a terra ‘ o vede piglià.
Sò state duricie ‘ e muorte
p’è famiglie e ch’ scunfuorto
ma uno nun s’è trovato
povera mamma scunzulata.
Sò arrivat’ ‘e tavule
e ‘a chiesa simmo jute
p’ò l’urdemo saluto
p’e cumpagne sfurtunate.
P’e mmane nuje pigliammo
tutti sti telegrammi
sò lettere ‘e condoglianze
mannate pè crianza.
Atterrà l’ajmm’ accumpagnat’
cu arraggiar’a ‘ncuorpo
e ‘ncopp’ ‘a chisti muort’
giurammo ll’ata pavà…
E chi và ‘a faticà
pur’ ‘a morte addà affruntà
murimm’ ‘a uno ‘a uno
p’e colpa ‘e ‘sti padrune.
A chi ajmma aspettà
sti padrune a’ cundannà
ca ce fanno faticà
cu ‘o pericolo ‘e schiattà.
Sta ggente senza core
cu ‘a bandiera tricolore
cerca d’arriparà
tutt’ ‘e sbagli ca fà.
Ma vuje nun’ò sapite
qual’è ‘o dolore nuosto
cummigliate cu ‘o tricolore
sti durici lavoratori.
Ma nuje l’ajmm’ capito
cagnamm’ sti culuri
pigliammo a sti padrune
e mannammel’ ‘affanculo.
E cu ‘a disperazion’
sti fascisti e sti padrune
facimmo un ‘ muntone
nu grand’ fucarone.
Cert’ chisto è ‘o mumento
e ‘o mumento ‘e cagnà
e ‘a guida nostra è grossa
è ‘a bandiera rossa.
Compagni pè luttà
nun s’adda avè pietà
me chesta è ‘a verità
‘o comunismo è ‘a libertà

Foto di Valentina Perniciaro
‘A Flobert o “Sant’Anastasia”
Venerdì undici aprile a Sant’Anastasia
ad un tratto un rumore sentii, e che paura
Stavo uscendo a lavorare nemmeno la forza per lavorare
e per la strada chiedo questa botta che sarà
La Masseria dei romani una fabbrica è scoppiata
la gente che scappava ed altra che piangeva
Chi andava e chi tornava per paura d’altri scoppi
arrivato davanti al cancello madonna, e che macello!
Volli andare dentro mi sentii di svenire
a terra c’era una testa che stava senza corpo
Cammino e che tristezza mi giro e sulla rete
due poveri operai tutte le carni bruciate.
Poi arrivano i parenti di quei poverini
piangono disperati per i loro figli perduti.
«Mio figlio dove sta aiutatemi a cercare
fatelo per pietà per forza deve stare qua».
«Signora, non urlate che forse s’è salvato»
e la mamma va a girarsi sotto terra lo stanno prendendo.
Sono stati dodici i morti per le famiglie che sconforto
ed uno non s’è trovato povera mamma sconsolata..
Sono arrivati i tavuti ed alla chiesa siamo andati
per gli ultimi saluti ai compagni sfortunati..
Prendiamo tra le mani tutti questi telegrammi
son lettere di condoglianza mandate per crianza.
li accompagniamo a seppellirli e con la rabbia in corpo
sopra a questi morti giuriamo: dovrete pagarla
Chi va a faticare pure la morte deve affrontare
moriamo uno ad uno per colpa di questi padroni.
Chi dobbiamo aspettare per condannare questi padroni
che ci fanno lavorare col pericolo di schiattare
Questa gente senza cuore con la bandiera tricolore
cerca di riparare a tutti gli sbagli che fa.
Ma voi non lo sapete qual è il dolore nostro,
avvolgete con il tricolore questi dodici lavoratori.
Ma noi l’abbiamo capito: cambiamo questi colori
pigliamo questi padroni e mandiamoli affanculo.
E con la disperazione di fascisti e di padroni
facciamone un montone, un grande focarone.
Certo questo è il momento quello di cambiare
e la guida nostra è grossa, è la bandiera rossa.
Compagni, per lottare non s’ha da aver pietà
ma questa è la verità il comunismo è libertà.
(‘e Zezi; libera traduzione di Girolamo De Simone)
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