Archivio

Posts Tagged ‘Freedom Flottiglia’

Israele, Uribe e le buffonate dell’ONU

6 agosto 2010 1 commento

BRAV’UOMO BAN KI-MOON, PROPRIO UN BRAV’UOMO.
OGGI HA FATTO UN BEL REGALO ALL’INTELLIGENZA PLANETARIA: mettere Uribe, da sempre servo statunitense e amico superfedelissimo dello stato (stato segregazionista e teocratico) israeliano, a capo del Comitato d’indagine sull’aggressione israeliana alla Freedom Flottiglia, avvenuta il 31 maggio scorso in acque internazionali.
Una commissione super-partes, era stata trionfalmente annunciata (lunedì Israele aveva dato la disponibilità a collaborare) e s’è rivelata una delle più comiche buffonate degli ultimi tempi.
Guidata da un assassino, un torturatore, un personaggio di rara
Metto paro paro l’articolo di Peacereporter di Stella Spinelli pubblicato tre giorni fa che prova a fare (non è per niente semplice) un quadro delle splendide azioni del signor Uribe, per aver meritato un simile compito.

La Commissione Onu che dovrà indagare sull’assalto militare israeliano alla Flottiglia della pace sarà presieduta da Alvaro Uribe, il presidente colombiano uscente, uomo vicino agli Usa che ha fatto del disprezzo per i diritti umani una bandiera

Soldato israeliano

Alvaro Uribe, presidente uscente della Colombia, non resterà senza lavoro l’8 agosto, quando il suo successore, Manuel Santos gli succederà a Palazzo Narino. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, lo ha appena scelto per presiedere il Comitato d’indaginisull’aggressione israeliana subìta dalla Freedom Flottilla turca carica di aiuti umanitari destinati a Gaza. Era il 31 maggio scorso. Dopo due lunghi mesi di intense consultazioni, il governo di Tel Aviv ha dunque concesso che una commissione Onu indaghi su quanto avvenne quando le truppe speciali israeliane assaltarono la nave in cui vennero assassinati nove attivisti turchi. È la prima volta che lo stato ebraico accetta un’inchiesta internazionale sull’operato del suo esercito, tanto che non sono mancate le polemiche interne: “E’ un fatto senza precedenti e il risultato di una cattiva gestione di governo”, ha tuonato Tzipi Livni, ex ministro degli Esteri e ora leader dell’opposizione. Plauso e soddisfazione invece da buona parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Ad affiancare Uribe, l’ex primo ministro della Nuova Zelanda Geoffrey Palmer e due rappresentanti di Turchia e Israele. Con la promessa che lo stato ebraico collaborerà.
Una buona notizia, dunque, per lo meno in apparenza. Ed è così che ce la presentano. Ban Ki-Moon in testa. Finalmente un Comitato super partes, di prestigio, composto da “esperti”, dicono. Eppure, chiunque abbia masticato un po’ di storia recente colombiana non può che sgranare gli occhi e sobbalzare dall’indignazione nel leggere il nome del prescelto Onu. Alvaro Uribe è considerato da commissioni internazionali e organizzazioni non governative in difesa dei diritti umani, comprese molte associazioni più o meno direttamente collegate alle Nazioni Unite stesse, uno degli uomini più oscuri e sinistri del panorama internazionale. Su di lui pendono non solo sospetti, ma anche cause di corruzione e legami con il narcotraffico. E non finisce qui. Durante i suoi due mandati di governo, la Colombia non ha visto che incrementare esecuzioni extragiudiziali per mano dell’esercito regolare, con migliaia di civili morti ammazzati e fatti sparire in fosse comuni. Ha visto oltre 4 milioni di sfollati interni, ignorati e ingannati. E la guerra interna, negata dalle versioni ufficiali, continuare imperterrita. E che dire delle decine e decine di collaboratori di Uribe, compreso parenti e amici, finiti indagati e spesso condannati per i reati più svariati, legati però, sempre e comunque, alla gestione del potere e alla spartizione dei proventi.

ALVARO URIBE

La Colombia di Uribe è un paese ingiusto e macchiato di sangue innocente. Per non parlare della serie di scandali gravissimi che hanno fatto tremare Palazzo Narino fino alle fondamenta: dai servizi segreti deviati e usati per scopi personali dal medesimo Uribe, il quale ordinava loro di spiare e minacciare uomini chiave della società colombiana; ai voti pagati a suon di prebende per ottenere la maggioranza per la riforma costituzionale che gli avrebbe permesso una seconda elezione.
Elencare in poche righe tutte le malefatte di un personaggio di tale portata è impossibile. A parlare sono i fatti della storia recente colombiana. Ma una cosa fra tutte va sicuramente evidenziata: Alvaro Uribe è da sempre e soprattutto un fedelissimo della Casa Bianca e molto amico di Israele. È grazie all’appoggio incondizionato ricevuto dal governo Bush che ha potuto ingaggiare una guerra campale contro guerriglia e narcotraffico, e sotto sotto costringere milioni di persone a fuggire da terre fertili e preziose per multinazionali affamate. È grazie ai soldi, tanti, destinati dalla Casa Bianca al Plan Colombia se ha potuto fare e disfare a suo piacimento. Un appoggio che ha, comunque, generosamente ricambiato svendendo il territorio colombiano agli interessi privati ed esteri. Prima di lasciare la poltrona, una delle sue ultime mosse, è stato concedere l’installazione di sette basi militari agli Usa, trasformando del tutto il paese in un vero avamposto strategico a stelle e strisce. E se si pensa alla posizione geografica della Colombia e agli stati con cui confina, i conti son presto fatti. E non scordiamo il ruolo, comprovato, che il Mossad, servizio segreto israeliano, ha da sempre nell’addestrare le truppe colombiane, affiancate da soldati e contractors Usa e israeliani. Che avevano rapporti molto stretti anche con le orde di paramilitari che da decenni mettono a ferro e fuoco il paese.
Particolari anche i legami economici tra Colombia ed Israele, con una predilezione per il mercato delle armi e della tecnologia che l’ex ministro della Difesa di Uribe, Santos – ora eletto presidente – ha sempre mantenuto strettissimo, dimostrando costanza e fedeltà

Averlo nella Commissione Onu di “esperti” super partes in cerca della verità, dunque, non è una buona notizia. Uribe non è super partes, non è votato alla verità, non è indipendente. Ma una cosa è certa. È esperto, sì, e molto, di diritti umani. Calpestati e violati, puntualmente, in nome del profitto.

Dopo gli spari in acque internazionali anche il furto dai conti correnti

9 giugno 2010 1 commento

La notizia ha dell’incredibile anche per chi, come me, raramente si stupisce per gesti ed eventi gestiti da Israele e i suoi soldati (di ogni divisa e forma).
Ma questa ha veramente superato il prevedibile.
Parliamo ancora una volta di Manolo Luppichini, il nostro compagno, che da regista freelance era imbarcato sulla Freedom Flottiglia: non a bordo della Mavi Marmara dove c’è stato l’eccidio israeliano, ma su un’altra delle imbarcazioni che componevano la flotta di aiuti umanitari, la “8000” come il numero dei prigionieri palestinesi nelle mani israeliane.

Ora le sue parole, in una dichiarazione di oggi, ci lasciano sconcertati: «Sono rientrato in Italia il 3 giugno – racconta- ma a Roma solo l’altro ieri, il 7 giugno. Sono andato subito in banca per bloccare la carta, ma dai tabulati risulta che è stata utilizzata in Israele il 4 giugno, quando io ero già rientrato, per due volte. Una prima volta sono stati prelevati solo 2 euro, probabilmente per fare una prova poi, una seconda volta, 52 euro, dopodichè il credito disponibile sulla carta si è esaurito. Non solo mi hanno sequestrato tutto il materiale di lavoro  telecamere, e registrazioni, ma, come se non bastasse, hanno anche speso i miei soldi, attingono al mio conto corrente, e questo è un fatto intollerabile. Sono basito e senza parole. Non capisco se si tratti di arroganza o ingenuità». «A questo punto – prosegue Luppichini – mi chiedo in mano a chi siano le mie cose. Pretendo di ricevere indietro tutto quello che mi è stato sequestrato»
E’ riportato dalle agenzie stampa…
mentre QUI potete ascoltarlo dai microfoni di Radio Onda Rossa

EMILY, COLPITA AL VOLTO DALLA POLIZIA ISRAELIANA HA PERSO UN OCCHIO

8 giugno 2010 Lascia un commento

EMILY, COLPITA AL VOLTO HA PERSO UN OCCHIO
Il dramma di una giovane americana ferita da un candelotto lacrimogeno sparato dai poliziotti israeliani a Qalandiya.

DI BARBARA ANTONELLI

Ramallah, 07 giugno 2010, (foto dal sito http://www.stopthewall.org), Nena News –
Il 31 maggio Emily Henochowicz, una artista americana 21enne, era scesa in strada come tanti altri, palestinesi e stranieri, per partecipare a una delle manifestazioni spontanee organizzate nelle ore successive all’uccisione di 9 attivisti turchi della «Freedom Flottiglia» da parte dei soldati israeliani. A Qalandyia, il grande posto di blocco che divide Ramallah da Gerusalemme, erano più o meno le 12 quando un candelotto di gas lacrimogeno sparato dalla polizia israeliana, l’ha colpita in pieno volto, distruggendole letteralmente l’occhio sinistro e provocandole diverse altre fratture al viso. Ricoverata all’ospedale di Hadassah, di Gerusalemme, Emily ha subito l’asportazione del bulbo oculare il giorno dopo. Ora l’ambasciata Usa a Tel Aviv ha chiesto alle autorità israeliane di aprire subito un’indagine che chiarisca come sia avvenuto il ferimento grave di Emily.
Secondo diversi testimoni la guardia di frontiera israeliana (un corpo paramilitare della polizia) avrebbe sparato in successione tre candelotti di alluminio ad alta velocità mirando direttamente ai manifestanti. Come sempre accade in questi casi, la versione della polizia è diversa: secondo una nota diffusa dalle autorità israeliane oggi, una indagine interna avrebbe accertato che il candelotto avrebbe colpito prima il muro e poi Emily.
Jonathan Pollack, un attivista israeliano contro l’occupazione, che era presente alla manifestazione, al contrario sostiene, insieme ad altri manifestanti, che «Emily era a soli 10 o 15 metri di distanza dalla polizia, il che indica che l’impatto è stato fortissimo e che il candelotto sparato da così breve distanza ha colpito la giovane americana ad alta velocità». Il codice di condotta militare israeliano – ha aggiunge Pollack – prevede  in questi casi che il gas lacrimogeno deve essere lanciato con una traiettoria di 60 gradi, ma in molti casi questo non avviene e l’esercito spara direttamente sui dimostranti e a distanza molto ravvicinata».
Altre testimonianze sono state raccolte dallo studio legale dell’avvocato Michael Sfard. L’avvocato, che rappresenterà Emily, ha chiesto che il distretto di polizia competente per la Cisgiordania, apra subito un’indagine. Nipote del famoso sociologo Bauman, Sfard assiste legalmente da anni diverse associazioni pacifiste israeliane e ha rappresentato presso le corti israeliane molti casi di violazioni di diritti umani a danno di palestinesi. In passato ha curato gli interessi legali delle famiglie di tre cittadini stranieri uccisi dall’esercito israeliano: la famiglia di James Miller, il fotografo inglese ucciso a Gaza, e quelle di due attivisti dell’ «International Solidarity Movement» entrambi uccisi dall’esercito israeliano a Gaza, Tom Hurndall e Rachel Corrie.
«I testimoni che si trovavano a Qalandyia – riferisce Sfard –  hanno detto tutti che  il lancio del gas lacrimogeno è avvenuto a distanza molto ravvicinata». Il caso di Emily Henochowicz si aggiunge a una lunga lista di altri attivisti, che hanno subito ferite, in alcuni casi gravissime e con conseguenze irreversibili, durante manifestazioni pacifiche. A maggio, Hasen Brejieyah del villaggio di Al Masara, vicino Betlemme, è stato colpito da un candelotto in testa. Lo stesso per Imad Rizka palestinese con cittadinaza israeliana, di Jaffa, ferito al viso nella manifestazione conclusiva dei tre giorni della Conferenza sulla resistenza popolare non violenta a Bi’lin.  Bassem Abu Rahma, sempre di Bi’lin,è morto nel 2009, ucciso da un candelotto di gas che gli ha perforato il torace.
Tristan Anderson è ancora in coma con danni irreversibili al cervello e impossibilitato ad essere rimpatriato negli Stati Uniti, dopo che l’esercito gli ha sparato un candelotto di gas lacrimogeno in testa.
Emily era arrivata da New York a Gerusalemme 6 settimane fa, per studiare arti visuali alla Bezalel Accademy, un istituto di arte e design a Gerusalemme. Il suo lavoro più recente trova proprio ispirazione dall’esperienza di vita vissuta nei Territori occupati palestinesi.