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Manduria e la “tendopoli che non c’è”

30 marzo 2011 Lascia un commento

Un’idea di cosa sia la tendopoli sorta tra Manduria e Oria ce l’ha Marek, un tunisino di trent’anni: “This is a prison”, dice in un inglese arabizzato quanto basta per capire che la nostra conversazione non può andare avanti. C’è qualcuno che parla italiano? o inglese? Sì, qualcuno c’è. “Quello che ti posso dire è che non so perché sono qui. Io voglio andare in Francia. Tutti noi vogliamo andare in Francia o in Germania”.

Sono giovani, alcuni giovanissimi, i profughi tunisini che ormai da tre giorni affollano l’ex spazio militare tra Manduria e Oria. Con gli ultimi 827 arrivi hanno abbondantemente superato le mille unità, sedici delle quali sono donne. Vivono, tutti, senza sapere cosa sarà di loro, con l’incubo del rimpatrio da una parte e la voglia di abbandonare l’Italia dall’altra. La Francia è la meta più ambita: lì hanno famigliari, amici, amanti. Qui, invece, non hanno ben chiaro cosa fare. “Mangio, dormo e fumo tutto il giorno”, continua l’interprete di cui non conosco il nome. “Scusa amico, quanti chilometri per Taranto?”. Circa quaranta.

Hamza, ventidue anni, ha un’amica che fa l’avvocato a Napoli. Il suo inglese è fluente. Spiega che la vita nella tendopoli è uno schifo. La doccia è fredda, il cibo è brutto, la corrente elettrica c’è solo per due ore al giorno. Mi mostra le foto della sua odissea nel Mediterraneo registrate sul suo cellulare. Sono le foto di una bagnarola oberata di

"Porta Europa" a Lampedusa

esseri umani al di là di qualsiasi “capienza massima”. “Do you want?”. I want. “Money”. Rido, ride. Poi mi dà il suo numero di telefono non prima di aver commentato l’arretratezza tecnologica del mio. Non ho soldi per comprarne uno nuovo. Ride ancora, di gusto questa volta.

Hamza ha in testa una serratissima road map da rispettare: Taranto-Napoli-Roma-Lucca-Parigi. Ma la vede nera, almeno finché sarà circondato da quelle recinzioni metalliche. E’ deluso. Quando è sbarcato a Lampedusa gli avevano detto cose diverse: gli avevano detto che sarebbe arrivato in un posto migliore, che sarebbe stato libero di muoversi in Europa in poco tempo, che avrebbe ricevuto 300 euro insieme a tutti i suoi connazionali. “This is my 300 euro”, dice sorridendo mentre mi mostra un sacchetto di plastica contenete una saponetta, uno shampoo e un piccolo asciugamani.
“Quanti chilometri per Taranto?”. Sempre quaranta.
“Perché siamo in questa gabbia?”. Bella domanda, la verità è che non lo sa nessuno il perché. A dirla tutta non si sa bene nemmeno cosa sia quella gabbia. “E’ un centro di accoglienza e riconoscimento”, improvvisa il serafico Nicola Lonoce, responsabile della logistica del campo per conto del Consorzio Nuvola (che raccoglie le cooperative sociali del territorio), satellite del Consorzio internazionale Connecting people. E’ lo stesso Lonoce a confessare che formalmente quel campo semplicemente non è. “Chi è scappato ieri (circa 130 persone, ndr) non ha commesso nessun reato”. In poche parole non è scappato. Ha semplicemente fatto quanto è in suo diritto di fare, andare per la sua strada. Da clandestino.
Anche i poliziotti sono lì nel caso in cui succeda qualcosa, ma non possono impedire la fuga né tanto meno negare l’accesso al campo. Uno di loro, in un momento di rara confidenza forse concessa per sfinimento, mette a nudo l’imbarazzo normativo e organizzativo della situazione, dice: “Se questi decidono di uscire, chi li ferma? Ce li ritroviamo addosso. E se ne arrivano altri? che si fa?”.

Solo domande a Manduria, ognuna proveniente da una prospettiva differente. Di risposte, finora, nemmeno l’ombra. L’unico che prova a fornire è Lonoce, ma non è certo lui che può colmare l’enorme vuoto che aleggia attorno quel non luogo legislativo. Spiega, però, che la prospettiva burocratica dei 1500 di Manduria è richiedere la protezione internazionale per riuscire a ottenere la protezione umanitaria, con la quale saranno liberi di circolare per l’Europa per un anno. In condizioni di normalità ci vogliono circa quattro-cinque mesi, un’eternità, vista la situazione. E’ possibile tuttavia che la Commissione territoriale – ente preposto al rilascio della protezione umanitaria – riceva un’ordine di semplificazione burocratica per accelerare il tutto. “E’ possibile, ma non è certo”.
Ecco, appunto, di certo non c’è nulla, così ognuno fa e dice un po’ quello che gli passa per la testa. “Non si può parlare con i profughi”, mi fa una non meglio identificata persona con fare da poliziotto in borghese. “C’è un decreto che lo proibisce”.
La conversazione surreale non procede oltre, Hamza ha una cosa più importante da chiedermi. Il suo sorriso a metà strada tra la rassegnazione e la simpatia svanisce d’improvviso, si fa serio e mi chiede di essere sincero. E’ vero che verranno tutti rimpatriati? e che cosa posso fare io per aiutarlo, io con il mio lavoro da giornalista?
Rifletto, ma non sa dare una risposte che non sia pura retorica, almeno agli occhi di chi non sa che farsene, in questo momento, di un giornale. Rifletto e mi chiedo per quanto tempo ancora si potrà continuare a rispondere “non lo so” alle domande di mille e cinquecento persone trattenute in una tendopoli per mere ragioni burocratiche.
L’altra piccola certezza riguarda il fatto che nell’immediato i profughi tunisini riceveranno un attestato nominativo con il quale saranno liberi di uscire dal campo per dodici ore. Spiego questa cosa ad Hamza il quale non trova meglio di fare che sorridere amaro. “There is no future”, dice. E mi saluta.

Francesco Lefons
da 20centesimi

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