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Tispol: una settimana di controlli stradali in tutta europa
oggi ho scoperto che esiste Tispol, e non è una bella cosa.
Tispol è il network europeo delle polizie stradali di 28 paesi europei, una rete di comunicazione che ha come obiettivo quello di ridurre gli incidenti stradali. Dicono.
Ora ci annunciano la loro nuova campagna intitolata “Alcool and Drugs” che prevede 7 giorni di serrati controlli in tutta Europa,
un reticolo di blocchi stradali in tutta europa in un’operazione congiunta mirata a effettuare quanti più controlli con etilometri e precursori.
Ci comunicano che sarà data maggiore importanza ai veicoli pesanti e commerciali.
Da notare che noi siamo uno dei pochissimi paese dotato di una legislazione che permette alla Polizia di sottoporre tutti i conducenti ad accertamenti non invasivi o a prove attraverso apparecchi elettronici portatili come gli alcoltest.
Vi ricordate Hollande quando parlava dello stato di emergenza francese? Ecco. In Francia non si può perquisire un auto, perché considerata come un immobile: per perquisirla c’è bisogno di uno specifico mandato.
Per poter effettuare controlli a tappeto, come da noi si effettuano h24 da sempre, hanno dovuto dichiarare uno stato d’emergenza, eccezionale, e con una scadenza ben precisa.
Quello che da noi esiste da molto, molto tempo.
E la differenza, capite bene, è enorme e silenziata da sempre.
Comunque occhio dal 7 al 13, che se in Italia già normalmente rompono ora avranno una settimana di delirio totale a loro disposizione.
Grecia: “Chi sono dopotutto i teppisti?”
Rimetto queste righe, con il cuore pesante ed emozionato.
Perchè sono l’addio di un compagno, che già avevo pubblicato lo scorso anno,
ma che forse vanno rilette.
Spesso.
Le farei rileggere poi, tipo mantra, a chi ha parlato di sfasciacarrozze (eh no, non me va giù)
[leggi: Grecia, se vi pare normale tutto ciò]
Chi sono dopotutto i teppisti?
Violenza è lavorare per 40 anni per delle briciole e chiedersi se si riuscirà a smettere
Violenza sono i titoli finanziari, i fondi assicurativi saccheggiati, la truffa in borsa.
Violenza è essere costretti a stipulare un mutuo per una casa che si finisce per pagare come se fosse fatta d’oro.
Violenza è il diritto del tuo capo di licenziare in qualsiasi momento voglia farlo.
Violenza è la disoccupazione, la precarietà, sono i 700 euro al mese con o senza contributi previdenziali.
Violenza sono gli “incidenti” sul lavoro, perché il padrone riduce i costi di gestione a scapito della sicurezza dei lavoratori.
Violenza è prendere psicofarmaci e vitamine per far fronte agli orari di lavoro
Violenza è essere una donna migrante , è vivere con la paura di essere cacciato dal paese in qualsiasi momento e vivere in una costante insicurezza.
Violenza è l’essere casalinga, lavoratrice e madre allo stesso tempo.
Violenza è quando ti prendono per il culo al lavoro dicendo: ‘dannazione, sorridi, è chiedere troppo?’Quello che abbiamo vissuto io lo chiamo rivolta.
E proprio come ogni rivolta appare come una prova generale della Guerra Civile, ma puzza di fumo, gas lacrimogeni e sangue.
Non può essere facilmente sfruttata o controllato. Accende le coscienze, si rivela e polarizza le contraddizioni, e promette, almeno, momenti di condivisione e di solidarietà. E traccia i percorsi verso l’emancipazione sociale.
Signore e signori, benvenuti alle metropoli del caos! Installate porte sicure e sistemi di allarme alle vostre case, accendete il televisore e godetevi lo spettacolo. La prossima rivolta sarà ancora più agguerrita, mentre il marciume di questa società si approfondisce … Oppure, potete prendere le strade al fianco dei vostri figli, potete scioperare, potete osare di rivendicare la vita che vi stanno derubando, potete ricordarvi che una volta eravate giovani e volevate cambiare il mondo.Savas Metoikidis*
*Savas si è suicidato il 21 aprile dello scorso anno.
Qui il posto che ne parlava: LEGGI

Ciao Savas
La crisi ci priva di un altro compagno in Grecia, che sceglie il suicidio. Ciao Savas
La Grecia prende apprende di un nuovo suicidio, avvenuto ieri 21 aprile.
Un suicidio di un compagno, di un militante, di un uomo di 45 anni, insegnante da sempre impegnato politicamente.
Si chiamava Savas Metoikidis.
Si è impiccato come risposta finale alle imposizioni della troika, si è impiccato lasciandoci un lungo manoscritto in cui spiega le ragioni del suo gesto e che verrà probabilmente pubblicato tra poco, nella sua città natale, Stravroupoli, nel nord del paese.
Sono più di mille i suicidi avvenuti in Grecia dall’inizio della devastazione della società per mezzo del piano di austerità,
ma dopo quello di Dimitris Christoulas, questo è il secondo compagno che sceglie di farlo,
e di renderlo atto pubblico, il primo scegliendo un luogo simbolo come Syntagma -piazza del parlamento greco-,
il secondo lasciando un inequivocabile testo per spiegare il suo gesto.
Quello che pubblico qui sotto invece, che ho preso sempre da OccupiedLondon, è un testo che Savas aveva scritto allo scoppio della rivolta del dicembre 2008, seguita immediatamente dopo la morte del giovane Alexis Grigoropoulous per mano della polizia, senza alcuna ragione.
Una rivolta che ha cambiato molto il profilo delle piazze greche, e che io provai a raccontare da quelle strade, innamorandomene
Chi sono dopotutto i teppisti?
Violenza è lavorare per 40 anni per delle briciole e chiedersi se si riuscirà a smettere
Violenza sono i titoli finanziari, i fondi assicurativi saccheggiati, la truffa in borsa.
Violenza è essere costretti a stipulare un mutuo per una casa che si finisce per pagare come se fosse fatta d’oro.
Violenza è il diritto del tuo capo di licenziare in qualsiasi momento voglia farlo.
Violenza è la disoccupazione, la precarietà, sono i 700 euro al mese con o senza contributi previdenziali.
Violenza sono gli “incidenti” sul lavoro, perché il padrone riduce i costi di gestione a scapito della sicurezza dei lavoratori.
Violenza è prendere psicofarmaci e vitamine per far fronte agli orari di lavoro
Violenza è essere una donna migrante , è vivere con la paura di essere cacciato dal paese in qualsiasi momento e vivere in una costante insicurezza.
Violenza è l’essere casalinga, lavoratrice e madre allo stesso tempo.
Violenza è quando ti prendono per il culo al lavoro dicendo: ‘dannazione, sorridi, è chiedere troppo?’Quello che abbiamo vissuto io lo chiamo rivolta.
E proprio come ogni rivolta appare come una prova generale della Guerra Civile, ma puzza di fumo, gas lacrimogeni e sangue.
Non può essere facilmente sfruttata o controllato. Accende le coscienze, si rivela e polarizza le contraddizioni, e promette, almeno, momenti di condivisione e di solidarietà. E traccia i percorsi verso l’emancipazione sociale.
Signore e signori, benvenuti alle metropoli del caos! Installate porte sicure e sistemi di allarme alle vostre case, accendete il televisore e godetevi lo spettacolo. La prossima rivolta sarà ancora più agguerrita, mentre il marciume di questa società si approfondisce … Oppure, potete prendere le strade al fianco dei vostri figli, potete scioperare, potete osare di rivendicare la vita che vi stanno derubando, potete ricordarvi che una volta eravate giovani e volevate cambiare il mondo.Savas Metoikidis
Un comunicato da Syntagma sul “partito comunista”
Dopo Varkiza [1], il Politecnico [2], la Scuola di Chimica (1979) [3] il dicembre 2008 [4] e una serie di altri casi, la realtà ancora una volta rivela il ruolo del Partito che tradisce sistematicamente le lotte popolari. E se fino ad ora hanno strangolato, con le loro cariche politiche ogni sciopero generalizzato e determinato in tutti questi anni, se hanno insultato tutte le rivolte come una “provocazione”, d’ora in poi la storia dimostra che non sono “semplici errori politici”, ma una posizione consapevole e coordinata per difendere la dittatura parlamentare e dei rapporti capitalistici finanziari e sociali.
Questo è quello che hanno fatto ieri (20/10), troppo, anche se fino a quel punto hanno chiamato il popolo alle manifestazioni per il rovesciamento del governo. Invece di proteggere chi circondava il parlamento ne hanno protetto il regolare funzionamento, hanno agito ancor più barbaramente della polizia, spaccando le teste e consegnando manifestanti alle forze della repressione. La cosa peggiore che hanno fatto è stato di legittimare lo Stato, che ha ucciso uno dei loro compagni, accusando dell’omicidio una certa violenza parastatale.
Da ieri, in modo definitivo e irreversibile, il cosiddetto “Partito Comunista” non è altro che una barriera contro il tentativo di seppellire il cadavere parlamentare. Qualsiasi essere umano libero che lotta per la propria dignità in questi giorni cruciali deve individuarlo politicamente come un bersaglio. Questa frase non deve essere letta come una scissione nel movimento. Potremmo avere problemi comuni e obiettivi comuni con gli elettori del “Partito Comunista”, ma la politica e la pratica della leadership dalle cui labbra pendono segue gli ordini del governo e degli inviati del FMI e UE della BCE. Non abbiamo mai marciato fianco a fianco con loro, non saranno mai con noi. Dobbiamo tutti tenere presente che il “Partito Comunista” agirà come una quinta colonna del regime dittatoriale, sperando ancora una volta di afferrare qualche briciola dal tavolo parlamentare, proprio come ha fatto nel 1990 [5].
La posizione di tutti i gruppi politici, siano essi parlamentari o non, che ha sostenuto gli atti del “Partito Comunista”, sia indirettamente che con il loro silenzio, o direttamente con le loro dichiarazioni, è altrettanto condannabile. Fino a quando questi partiti rimangono all’interno di un parlamento composto di destinatari degli ordini della Troika e continuano a ricevere i loro stipendi grassi, sono interamente corresponsabili di quello che è successo finora e di quello che verrà. Il loro voto negativo al memorandum e le leggi votate insieme rivelano con precisione il loro ruolo nella dittatura: fornendo l’alibi della democrazia e della pluralità delle voci, sostengono completamente il parlamento di rappresentanti, in modo che il popolo impoverito continui a contare i voti in ogni seduta fissa e predeterminata di voto delle leggi che cancellano il suo futuro – e al tempo stesso, sono alimentati con l’illusione che qualcuno parli in loro nome e nel loro interesse. Così, lasciano l’opposizione ai professionisti della politica, e non sentono il bisogno di reagire immediatamente e di persona. Qualsiasi voto, anche per i partiti extraparlamentari di “estrema sinistra” alle elezioni nazionali e locali non è altro che olio negli ingranaggi [della macchina] e una legittimazione della “correttezza” della dittatura parlamentare.
Dal 25 maggio, quando ci siamo radunati in piazza, abbiamo rivelato che la democrazia diretta è la capacità di ciascuno di noi di partecipare, di consultarci l’un l’altro, di modellare le idee insieme in modo autonomo, lontano dalle etichette ideologiche o parlamentari. Resteremo qui, contro il loro parlamentarismo e la loro burocrazia fallimentari.
Stiamo prendendo NOSTRA VITA nelle nostre mani
DEMOCRAZIA DIRETTA ORA
Assemblea popolare di piazza Syntagma, 21/10/2011
1. Riferimento al trattato del 1945 di Varkiza, dove il Partito Comunista ha tradito la lotta armata e migliaia di combattenti della guerra civile in cambio della sua legalità nel nuovo regime
2. Riferimento alla posizione originale del Partito comunista contro la rivolta del Politecnico del 1973, che determinò l’inizio del crollo della giunta fascista. Allora definì gli studenti, molti dei quali furono uccisi, “provocatori della polizia”
3. Riferimento agli incidenti del 1979 presso la Scuola Chimica di Atene, dove i membri del Partito comunista hanno spezzato l’occupazione della scuola, collaborando direttamente con la polizia
4. Un riferimento, ovviamente, alla più recente condanna della rivolta del dicembre 2008
5. Riferimento all’accordo del Partito comunista due principali partiti parlamentari, ND e PASOK, nel 1990
Manduria e la “tendopoli che non c’è”
Un’idea di cosa sia la tendopoli sorta tra Manduria e Oria ce l’ha Marek, un tunisino di trent’anni: “This is a prison”, dice in un inglese arabizzato quanto basta per capire che la nostra conversazione non può andare avanti. C’è qualcuno che parla italiano? o inglese? Sì, qualcuno c’è. “Quello che ti posso dire è che non so perché sono qui. Io voglio andare in Francia. Tutti noi vogliamo andare in Francia o in Germania”.
Sono giovani, alcuni giovanissimi, i profughi tunisini che ormai da tre giorni affollano l’ex spazio militare tra Manduria e Oria. Con gli ultimi 827 arrivi hanno abbondantemente superato le mille unità, sedici delle quali sono donne. Vivono, tutti, senza sapere cosa sarà di loro, con l’incubo del rimpatrio da una parte e la voglia di abbandonare l’Italia dall’altra. La Francia è la meta più ambita: lì hanno famigliari, amici, amanti. Qui, invece, non hanno ben chiaro cosa fare. “Mangio, dormo e fumo tutto il giorno”, continua l’interprete di cui non conosco il nome. “Scusa amico, quanti chilometri per Taranto?”. Circa quaranta.
Hamza, ventidue anni, ha un’amica che fa l’avvocato a Napoli. Il suo inglese è fluente. Spiega che la vita nella tendopoli è uno schifo. La doccia è fredda, il cibo è brutto, la corrente elettrica c’è solo per due ore al giorno. Mi mostra le foto della sua odissea nel Mediterraneo registrate sul suo cellulare. Sono le foto di una bagnarola oberata di

"Porta Europa" a Lampedusa
esseri umani al di là di qualsiasi “capienza massima”. “Do you want?”. I want. “Money”. Rido, ride. Poi mi dà il suo numero di telefono non prima di aver commentato l’arretratezza tecnologica del mio. Non ho soldi per comprarne uno nuovo. Ride ancora, di gusto questa volta.
Hamza ha in testa una serratissima road map da rispettare: Taranto-Napoli-Roma-Lucca-Parigi. Ma la vede nera, almeno finché sarà circondato da quelle recinzioni metalliche. E’ deluso. Quando è sbarcato a Lampedusa gli avevano detto cose diverse: gli avevano detto che sarebbe arrivato in un posto migliore, che sarebbe stato libero di muoversi in Europa in poco tempo, che avrebbe ricevuto 300 euro insieme a tutti i suoi connazionali. “This is my 300 euro”, dice sorridendo mentre mi mostra un sacchetto di plastica contenete una saponetta, uno shampoo e un piccolo asciugamani.
“Quanti chilometri per Taranto?”. Sempre quaranta.
“Perché siamo in questa gabbia?”. Bella domanda, la verità è che non lo sa nessuno il perché. A dirla tutta non si sa bene nemmeno cosa sia quella gabbia. “E’ un centro di accoglienza e riconoscimento”, improvvisa il serafico Nicola Lonoce, responsabile della logistica del campo per conto del Consorzio Nuvola (che raccoglie le cooperative sociali del territorio), satellite del Consorzio internazionale Connecting people. E’ lo stesso Lonoce a confessare che formalmente quel campo semplicemente non è. “Chi è scappato ieri (circa 130 persone, ndr) non ha commesso nessun reato”. In poche parole non è scappato. Ha semplicemente fatto quanto è in suo diritto di fare, andare per la sua strada. Da clandestino.
Anche i poliziotti sono lì nel caso in cui succeda qualcosa, ma non possono impedire la fuga né tanto meno negare l’accesso al campo. Uno di loro, in un momento di rara confidenza forse concessa per sfinimento, mette a nudo l’imbarazzo normativo e organizzativo della situazione, dice: “Se questi decidono di uscire, chi li ferma? Ce li ritroviamo addosso. E se ne arrivano altri? che si fa?”.
Solo domande a Manduria, ognuna proveniente da una prospettiva differente. Di risposte, finora, nemmeno l’ombra. L’unico che prova a fornire è Lonoce, ma non è certo lui che può colmare l’enorme vuoto che aleggia attorno quel non luogo legislativo. Spiega, però, che la prospettiva burocratica dei 1500 di Manduria è richiedere la protezione internazionale per riuscire a ottenere la protezione umanitaria, con la quale saranno liberi di circolare per l’Europa per un anno. In condizioni di normalità ci vogliono circa quattro-cinque mesi, un’eternità, vista la situazione. E’ possibile tuttavia che la Commissione territoriale – ente preposto al rilascio della protezione umanitaria – riceva un’ordine di semplificazione burocratica per accelerare il tutto. “E’ possibile, ma non è certo”.
Ecco, appunto, di certo non c’è nulla, così ognuno fa e dice un po’ quello che gli passa per la testa. “Non si può parlare con i profughi”, mi fa una non meglio identificata persona con fare da poliziotto in borghese. “C’è un decreto che lo proibisce”.
La conversazione surreale non procede oltre, Hamza ha una cosa più importante da chiedermi. Il suo sorriso a metà strada tra la rassegnazione e la simpatia svanisce d’improvviso, si fa serio e mi chiede di essere sincero. E’ vero che verranno tutti rimpatriati? e che cosa posso fare io per aiutarlo, io con il mio lavoro da giornalista?
Rifletto, ma non sa dare una risposte che non sia pura retorica, almeno agli occhi di chi non sa che farsene, in questo momento, di un giornale. Rifletto e mi chiedo per quanto tempo ancora si potrà continuare a rispondere “non lo so” alle domande di mille e cinquecento persone trattenute in una tendopoli per mere ragioni burocratiche.
L’altra piccola certezza riguarda il fatto che nell’immediato i profughi tunisini riceveranno un attestato nominativo con il quale saranno liberi di uscire dal campo per dodici ore. Spiego questa cosa ad Hamza il quale non trova meglio di fare che sorridere amaro. “There is no future”, dice. E mi saluta.
Francesco Lefons
da 20centesimi
Grecia sotto attacco dalla comunità europea: carceri e Cie come lager!
Sapete che esiste un Comitato per la prevenzione della tortura nel consiglio d’Europa?
Pare che esista si, proprio così, ma il fatto che come nome si sia scelto Cpt non fa ben sperare visto che a casa nostra erano i Centri di permanenza temporanea, poi trasformati negli attuali Centri di identificazione ed espulsione. Lager dedicati a persone che non hanno commesso alcun reato, se non quello di non avere documenti nelle proprie tasche. Questo Cpt, quello europeo, per la prima volta nella sua vita (è nato nel 1989) ha proferito parola attaccando un paese membro della comunità europea, la Grecia.
Il paese viene attaccato per la gestione delle sue carceri, per la condizione che vivono i detenuti: le prigioni greche, è scritto, sono “depositi di carcerati” dove non è garantita una condizione minimamente umana di vita dall’amministrazione penitenziaria che, racconta il documento, in alcuni casi ha completamente lasciato allo sbaraglio e quasi all’autogestione alcuni penitenziari. L’attenzione di questa denuncia pubblica focalizza l’attenzione anche e soprattutto sui centri di detenzione dedicati ai migranti. Un paio di mesi fa una delegazione del Cpt è entrata nel centro di Soufli e per accedere hanno dovuto camminare sulle persone sdraiate a terra, stipati come bestie: 146 persone private della propria libertà in 110 metri quadri, con un solo bagno e una sola doccia…in molti sono rimasti in questa condizione per più di 4 mesi. Ancora i racconti provenienti da Filakio raccontano condizioni similari, riservate a centinaia di adolescenti, famiglie, bambini che non possono uscire dalla loro maledetta gabbia nemmeno per una manciata di minuti al giorno.
Un disastro umanitario indegno, non diverso dal nostro.
Distrutto il Cie di Marsiglia!
Il Centro di trattenimento amministrativo del Canet [a Marsiglia, NdT] è, adesso come adesso, completamente inutilizzabile», ha constatato Bernard Reymond-Guyamier, direttore di zona della Polizia di Frontiera. Alle 17.02 di ieri gli allarmi antincendio del Centro di trattenimento amministrativo [il Cra, che corrispe ai nostri Cie, NdT] sono entrati in azione, dando il via al protocollo di evaquazione dell’edificio.
«Un trattenuto intossicato dai fumi è stato portato d’urgenza all’ospedale di Lavéran», ha precisato il capitano di fregata Yannik Martin, che dirigeva le operazioni dei marinai-pompieri di Marsiglia. Le altre due persone gravemente intossicate, insieme agli altri 31 trattenuti coinvolti, sono stati curati in un punto di medicina d’urgenza allestito sul posto.
L’incendio è scoppiato in una cella al primo piano di una delle ali dell’edificio, mentre alcuni secondi più tardi un altro focolaio è stato acceso al piano terra dellaltra ala. «Queste similitudini non sono casuali», sospetta Bernard Reymond-Guyamier, un’inchiesta è stata aperta dalla polizia del dipartimento. Per attizzare il fuoco sembra siano state utilizzate delle coperte ammassate.
L’incendio si è propagato in tre celle che sono state completamente distrutte dalle fiamme, come pure una sala comune. I muri anneriti e l’aria difficilmente respirabile rendono impossibile il trattenimento dei 52 senza documenti presenti nel Centro. La Prefettura della Regione dovrebbe dunque incaricarsi di trovare una soluzione per ognuno dei trattenuti ammassati in fondo al cortile sotto a delle coperte blu. «Sono le Prefetture che hanno ordinato il trattenimento di ciascuno e che decidono i trasferimenti verso altri Centri, caso per caso», precisa Bernard Reymond-Guyamie. Ma i Cra della regione sono strapieni quasi tutti. «Sono previste delle liberazioni», confessano in Prefettura. […]
da La Marseillaise, tramite Cettesemaine

Questa è sempre Marsiglia, solo due giorni fa, durante uno sciopero di portuali. Idranti contro la celere, non male! (REUTERS/Jean-Paul Pelissier)
Aggiornamento 12 marzo. A parte due reclusi liberati immediatamente e undici portati in ospedale, la maggior parte dei rivoltosi di Marsiglia (37) sono stati trasferiti nel Centro di Nîmes. Di questi, alcuni sono stati liberati il giorno seguente con l’appiglio della non conformità tra la legge francese e le direttive europee. E pure tra quelli in ospedale alcuni sono riusciti ad andare via. Altri 6, tunisini e algerini, sono stati invece arrestati per “distruzione di bene pubblico”: ora sono nella prigione di Baumette. Un presidio solidale si era svolto di fronte al commissariato dove erano in stato di fermo prima che fossero trasferiti in carcere. Oggi, invece, uno dei reclusi portati l’altro giorno a Nîmes è stato accompagnato all’areoporto di Marsiglia: lo aspetta un aereo diretto alle Comore. Solo che lui e la sua famiglia sono molto conosciuti in zona, per cui proprio nel momento in cui scriviamo circa duecento persone sono anche loro all’aeroporto, ma per cercare di fermare la deportazione. Non appena i compagni di là ce lo racconteranno, vi faremo sapere come è andata a finire…
macerie @ Marzo 12, 2011
A questo indirizzo invece le corrispondenze effettuate da Radio Onda Rossa con il presidio in solidarietà ai migranti di questo pomeriggio, davanti al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria
Dibattito pubblico: Libertà per tutti e tutte, con o senza documenti
R.A.P. gruppo inchiesta, Radio OndaRossa, Rete no-Cie e occupanti di Casale de Merode
invitano tutte e tutti coloro che vogliono un mondo senza gabbie né frontiere
a partecipare a un dibattito pubblico sui Cie
DOMENICA 6 MARZO 2011
all’occupazione abitativa di via del Casale de Merode, 8 (Tormarancia)
– dalle ore 17.00:
dibattito pubblico: libertà per tutte e tutti! con o senza documenti!
per scambiarci informazioni ed esperienze sulle lotte contro i Cie e le deportazioni forzate,
sulle strategie di resistenza e sulle forme di autorganizzazione
mostre fotografiche sui Cie e sulle insurrezioni in corso nel Maghreb, materiali informativi, Nella tua città c’è un lager (bollettino bisettimanale sulle vicende che si susseguono nei cie), Scarceranda (l’agenda di Radio OndaRossa contro ogni carcere, giorno dopo giorno)
– a seguire:
cena con tutti i sapori del mondo
il ricavato della cena servirà ad acquistare delle radioline portatili da consegnare alle recluse e ai reclusi durante il prossimo presidio solidale del 12 marzo davanti al Cie di Ponte Galeria perchè ascoltare una radio è un modo per mantenere un contatto con l’esterno
PORTA UNA RADIOLINA A PONTE GALERIA!
contribuisci anche tu a rompere il muro del silenzio e dell’isolamento!
>> VERSO IL 12 MARZO <<
per un mondo senza gabbie né frontiere! chiudere tutti i Cie!
>> ASCOLTA LO SPOT DELLE DUE INIZIATIVE <<
>> ascolta/scarica/diffondi lo spot contro i Cie<<
Ancora dalla Grecia senza benza
Prosegue lo sciopero degli autotrasportatori greci: l’assemblea di ieri, al quinto giorno di blocco e dopo una giornata di scontri con la polizia contro il piano di precettazione, ha deciso di andare avanti con il blocco totale che sta mettendo in ginocchio il paese alle porte d’agosto.
L’assemblea s’è conclusa con una manifestazione verso Syntagma, sede ateniese del parlamento greco. L’industria turistica, la solo che sembrava non aver ricevuto scosse telluriche da crisi economica, è frastornata da questo sciopero ad oltranza: 33mila camionisti non hanno ascoltato l’ordinanza di precettazione. La situazione per i turisti ha del comico: 100.000 serbi sono bloccati tra le località dell’Egeo e le isole lì difronte, mentre la maggiorparte delle migliaia di veicoli affittati dai vacanzieri girovaghi sono stati abbandonati sul ciglio delle strade, completamente privi di anche solo una goccia di carburante.
CINQUE EURO AL LITRO al mercato nero, se proprio si vuol viaggiare: la guerra è guerra come si diceva una volta e si sta tornando a dire.
Il governo greco, ormai rimasto senza più un capello in testa dallo stress, ha ordinato stamane l’impiego di camion cisterna dell’esercito per far fronte all’emergenza benzina e alimenti freschi.
Dopo gli scontri ad Atene, ieri sera è stata Salonicco la città invasa dalla rabbia dei lavoratori in sciopero: scontri in tutta la città si sono verificati contro le forze dell’ordine.
Grecia senza benzina
Grecia bloccata…e non è una novità ormai.
Il bello è che quando succede il 30 luglio per quel paese è un dramma non da poco: ci sono migliaia di turisti già bloccati e molte cancellazioni in corso.
Questa volta non è servito un sciopero generale per paralizzare il paese, ma è bastato uno sciopero dei camionisti che va avanti da cinque giorni a tenere i paese senza benzina e altri beni. Ieri diversi disordini e scontri si sono verificati ad Atene dove gli autotrasportatori avevano indetto una manifestazione di piazza contro le precettazioni: l’ordinanza di precettazione che il governo ateniese ha celermente emesso (una misura straordinaria a cui si fa ricorso molto raramente) non è stata minimamente rispettata e il blocco sembra voler continuare. Oggi è stato indetto dall’assemblea generale degli autotrasportatori un nuovo direttivo che deciderà se proseguire lo sciopero iniziato a causa dell’avvio di un processo di liberalizzazione delle licenze, che rientrerebbe nel grande piano di risanamento varato in accordo con il Fondo monetario internazionale e ovviamente con l’Unione Europea. Lo strozzinaggio internazionale legalizzato.
Che si tratti di studenti, di anarchici, di migranti, di portuali, di autotrasportatori o altri lavoratori, le piazze greche non cessano di urlare rabbia, di fronteggiare schiere di uomini in divisa, di tentare di riappropriarsi della dignità e magari pure del futuro.
AGGIORNAMENTI del 31 LUGLIO: QUI
Da Parigi: BRUCIAMO LE FRONTIERE!
Un appello da Parigi
Il 25, 26 e 27 gennaio prossimi si aprirà al Tribunale di Parigi (Aula 16, Fermata “Cité” della metropolitana) il processo per l’incendio di Vincennes. Ve ne abbiamo già parlato a lungo, di quella rivolta, vi abbiamo parlato dell’apertura del processo in dicembre, e recentemente vi abbiamo anche tracciato una stimolante cronologia di questi ultimi mesi di lotta contro i Centri e contro le galere in Francia ed in Belgio.
Ora ci giunge un appello dalla Francia perché la settimana che precede le udienze – quella che va dal 16 al 24 di gennaio – si trasformi in una settimana di solidarietà con gli accusati, in una settimana di lotta contro i Centri e contro le frontiere. Eccovelo.
BRUCIAMO LE FRONTIERE!
La rivolta che ha portato all’incendio della più grande prigione per stranieri in Francia è una risposta concreta e storica all’esistenza dei centri di trattenimento e all’insieme della politica di controllo dei flussi migratori. Nei giorni 25, 26 e 27 gennaio, dieci persone saranno giudicate per questa rivolta nel Tribunale di Parigi (Metropolitana Cité). La nostra solidarietà deve essere all’altezza della posta in gioco: rilascio degli accusati e, inoltre, libertà di movimento e di insediamento.
Il 22 giugno 2008, il più grande CPT di Francia è bruciato. Tra giugno 2008 e giugno 2009, una decina di ex- trattenuti sono stati arrestati e collocati in detenzione preventiva – per la maggior parte da quasi un anno -. Sono accusati di danneggiamento, distruzione di edifici del centro di trattenimento amministrativo di Vincennes e/o violenza contro le forze dell’ordine.
Durante i sei mesi precedenti all’incendio, il centro di Vincennes è luogo di continui movimenti di protesta di coloro lì rinchiusi perché sprovvisti di documenti. Scioperi della fame, piccoli incendi, rifiuto all’appello, diverbi con la polizia, forme di opposizione individuali o collettive, si sono succeduti all’interno del centro per tutto questo periodo. All’esterno, manifestazioni e iniziative denunciano l’esistenza stessa di questi centri e sostengono gli atti di rivolta.
Il 21 giugno 2008, Salem Souli muore nella sua stanza dopo aver invano chiesto di essere curato. Il giorno dopo, una marcia organizzata dai detenuti in ricordo di quest’uomo, è repressa con violenza. Scoppia allora una rivolta collettiva e il centro di trattenimento brucia.
Un processo esemplare
Per impedire che questo tipo di rivolta si diffonda, lo Stato deve colpire duramente, trovare dei responsabili. Queste dieci persone sono state arrestate per servire come esempio. Non importa che siano “innocenti” o “colpevoli”. Lo Stato, punendoli, desidera veder scomparire la contestazione, la ribellione, gli atti di resistenza di quelli che si trovano, o si troveranno un giorno, rinchiusi fra le mura di questi centri. La rivolta di Vincennes non è isolata. Ovunque esistano questi centri di reclusione, scoppiano rivolte, avvengono incendi, evasioni, scioperi della fame, ammutinamenti, devastazioni. È successo in Francia (Nantes, Bordeaux, Toulouse dove sono bruciati dei centri) e in numerosi paesi europei (Italia, Belgio, Olanda, Germania) o nei paesi dove i controlli delle frontiere avvengono alla partenza, come in Libia e in Turchia. L’incendio del centro di Vincennes non è solo simbolico: la scomparsa di 280 posti all’interno del centro ha avuto come conseguenza immediata una importante diminuzione delle retate e delle espulsioni nei dintorni di Parigi, durante il periodo successivo. In concreto, migliaia di arresti sono stati evitati. Con il loro agire, i detenuti hanno bloccato per un lasso di tempo il funzionamento del meccanismo di espulsione.
Prigione per stranieri: rinchiudere, espellere, dissuadere l’immigrazione
I centri di trattenimento sono una delle tappe tra l’arresto e l’espulsione. Servono a tenere rinchiusi gli stranieri per il tempo necessario a preparare le condizioni necessarie alle espulsioni, che si tratti di un passaporto o di un lasciapassare rilasciato da un consolato e un posto in aereo o in nave. Più uno Stato vuole espellere, più sono i centri di reclusione che costruisce. Ovunque, il loro numero continua ad aumentare. In Europa, c’è la tendenza ad allungare i tempi di trattenimento, il che permette di aumentare le espulsione, ma anche di dissuadere l’immigrazione. Di fatto, questi luoghi di trattenimento sono strutture punitive. Vengono sempre più costruiti come fossero carceri: video-sorveglianza, unità ridotte, celle d’isolamento… In Francia, ad esempio, il più grande centro in costruzione a Mesnil-Amelot (240 posti), che aprirà tra qualche settimana, ha adottato questo modello. In Olanda, dove i suicidi e i decessi ‘inspiegabili’ sono frequenti nei centri, la detenzione dura 18 mesi e può essere riconfermata una volta tornati in libertà, le persone sono rinchiuse singolarmente in cellule molto piccole, oppure su battelli- prigione, con scarse possibilità di accedere all’esterno.
Clandestini: mano d’opera fatta su misura…
I centri di reclusione sono parte della politica di “gestione dei flussi migratori”, elaborata secondo i criteri della “immigrazione scelta” ossia in funzione dei bisogni di mano d’opera dei paesi europei. Non è da oggi che il padronato dei paesi ricchi fa ricorso ai lavoratori immigrati per accrescere i profitti. In modo legale come nel caso del lavoro a termine, di quello che era il contratto OMI (che permette di adeguare il diritto di presenza sul territorio al tempo dei lavori stagionali) oppure con il lavoro nero, dove gli stranieri sono impiegati molto spesso nei settori più difficili (BTP, lavori nei ristoranti, pulizie, lavori stagionali, …). Questi settori richiedono una mano d’opera flessibile, da adattare ai bisogni immediati della produzione. Oltre all’assenza di diritti legati al loro statuto, per esempio in caso di infortunio, la costante minaccia di arresto e di espulsione che pesa sui clandestini, permette ovviamente ai padroni di pagarli di meno, se non addirittura di non pagarli per niente (non è poi così raro). Questo abbassamento dei salari e delle condizioni di lavoro permette al padronato di rafforzare lo sfruttamento di tutti. Gli innumerevoli scioperi dei lavoratori privi di documenti mostrano a che punto padroni e Stato hanno bisogno di questa mano d’opera, ma anche che organizzandosi insieme, i clandestini possono talvolta tenere loro testa ed ottenere di essere messi in regola.
… e capro espiatorio ideale
La politica migratoria, e i centri di reclusione che fanno parte dell’ingranaggio, serve soprattutto a stigmatizzare chi non ha documenti. Lo Stato ne fa il capro espiatorio delle difficoltà che incontra oggi il popolo francese. L’utilizzo spettacolare delle espulsioni di Stato contribuisce a dimostrare da una parte l’ampiezza del “pericolo” che l’immigrazione irregolare rappresenta per la Francia e dall’altra l’efficacia di uno Stato che protegge i propri concittadini contro questo pericolo.
Lo Stato utilizza artifici come le cosiddette “minacce dell’immigrazione clandestina”, la “feccia delle periferie”, le “donne che portano il velo”, o la campagna sull’identità nazionale, per suscitare i peggio rigurgiti xenofobi e razzisti e tentare di creare consenso intorno al potere e al mondo che produce.
Frontiere ovunque
I centri di reclusione costituiscono un elemento indispensabile per applicare una politica europea di controllo dei flussi migratori che, mentre pretende abolire le frontiere all’interno dello spazio di Schengen, all’esterno le rafforza, in particolare con il dispositivo Frontex. Così il controllo inizia aldilà delle porte dell’Europa in accordo con paesi come la Libia, la Mauritania, la Turchia o l’Ucraina, dove vengono finanziati campi di detenzione per stranieri decretati indesiderabili, prima ancora che abbiano avuto la possibilità di mettere piede in Europa.
Allo stesso tempo dentro questo spazio territoriale le frontiere si moltiplicano, si spostano e quindi sono ovunque: ogni controllo di identità può portare all’espulsione. Perché la frontiera non è solo una linea che demarca un paese, ma soprattutto un posto di controllo, di pressione, di scelta. Così la strada, i trasporti, le amministrazioni, le banche, le agenzie di lavoro a termine, di fatto funzionano come frontiere.
I centri di reclusione, come tutti i campi per migranti, sono particole di frontiere assassine dell’Europa di Schengen. Sono luoghi dove si aspetta, rinchiusi, a volte senza scadenza e senza sentenza, dove si muore per mancanza di cure, dove ci si suicida piuttosto che essere espulsi. Bisogna farla finita con le frontiere!
Per tutte queste ragioni e perché la gestione dei flussi migratori non è “giusta”. Perché ciascuno deve poter decidere di vivere dove gli pare. Noi siamo solidali con gli accusati della rivolta e dell’incendio del centro di reclusione di Vincennes.
LIBERTÀ PER TUTTI GLI ACCUSATI!
LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE E DI INSEDIAMENTO!
CHIUSURA DEI CENTRI DI RECLUSIONE!
BASTA COI DOCUMENTI!
SETTIMANA DI SOLIDARIETÀ DAL 16 AL 24 GENNAIO 2010
Primo appuntamento il 16 gennaio 2010: Documentari, Dibattito,
Informazioni alle 19.00 al CICP (21 ter, rue Voltaire, 75011 Paris)
macerie @ Gennaio 4, 2010
Sotto sgombero la “giungla” di Calais
Dalle 7.30 di martedi 22 settembre, l’insediamento irregolare di immigrati vicino a Calais, in Francia, è circondato dai CRS, la polizia anti-sommossa. La scorsa settimana il ministro per l’immigrazione Eric Besson aveva annunciato l’immediato sgombero, che sembra non si stia facendo attendere.
Sono almeno 150 i migranti che vivono in quella baraccopoli, quasi tutti provenienti da Pakistan ed Afghanistan.
“Abbiamo bisogno di riparo e protezione. Vogliamo l’asilo e la pace: questa giungla è la nostra casa”, recitano gli striscioni che circondano la zona.
Hanno aspettato l’intervento della polizia in silenzio, senza muovere un dito, con solo alcuni focolai per scaldarsi durante la notte e condividere un thè con i giornalisti arrivati a vedere.
Quello di Calais è un luogo simbolo per tutti coloro che dal continente tentano di raggiungere le coste inglesi: la famigerata “giungla” è posizionata infatti a pochi metri dall’itinerario utilizzato dai tir per attraversare la Manica. Tir dove spesso si nascondono e dove ancora più spesso trovano la morte.
Centinaia di migranti avevano iniziato a lasciare la “giungla” proprio appena dopo l’annuncio dell’imminente sgombero fatto dal ministero, per sfuggire all’arresto.
Qui uno splendido documentario….
GLI AGGIORNAMENTI DALL’ANSA: L’operazione è iniziata poco dopo le sette del mattino e si è conclusa con il fermo di 278 migranti, 132 dei quali si sono dichiarati minorenni. Bulldozer sono poi entrati in azione per radere al suolo i rifugi di fortuna costruiti sulle dune. Lo smantellamento, anche su pressione di Londra, era in discussione da almeno un mese e molti migranti avevano già abbandonato il campo. I pochi rimasti hanno atteso l’evacuazione in silenzio, mostrando cartelli con scritte come: «abbiamo bisogno di alloggio e protezione», «vogliamo la pace», «la giungla è la nostra casa». Con loro c’erano decine di militanti di associazioni pro-immigrati, che hanno tentato di opporre resistenza all’evacuazione e due dei quali sono stati arrestati. Il ministro dell’immigrazione, Eric Besson, ha giustificato l’intervento affermando all’emittente radio Rtl che il campo era una «base di trafficanti di esseri umani» dove venivano richieste forti somme per un passaggio verso la Gran Bretagna. Ad ogni migrante, ha assicurato, verrà proposta «una soluzione individuale» con la scelta fra il ritorno volontario in patria, la richiesta di asilo politico o la deportazione forzata.
Ancora dalla Grecia e sulla pelle dei migranti, questa volta bambini
UNA TESTIMONIANZA DA ATENE, SUI MINORI MIGRANTI e LA REPRESSIONE
Sei mesi di carcere per Hussain tre anni e il fratellino Isamt sette anni La vergogna senza fine di un Paese che condanna e perseguita persino i bambini.
La Grecia persiste con la politica anti-immigrazione, inasprendo di giorno in giorno le misure adottate, fino a raggiungere livelli di illegalità inaudita per un Paese Europeo.
Attualmente mi trovo ad Atene. Qui la situazione è molto cambiata nelgi ultimi mesi: poliziotti armati girano ovunque, li vedi trascinare per la strada minorenni in manette, o spiare la situazione in modo molto più attento del solito.
Prima delle ultime elezioni europee i profughi senza casa dormivano davanti alle chiese, nei parchi o alla stazione, ora invece si nascondono sulle montagne o in zone isolate per paura di essere trovati dalle autorità o dai branchi di naziskin che con l’ausilio della polizia imperversano ormai in tutta la Grecia.
Queste persone non scappano per timore di essere respinte, ma per non farsi picchiare o uccidere dalla polizia e dai naziskin, che di questi tempi sembrano ormai la stessa cosa. Oggi ho parlato a lungo con una famiglia, avevano due bambini: uno di nove anni e uno di cinque. Si trovano ad Atene da dieci mesi, perché è molto più probabile sopravvivere alle manganellate o alle coltellate qui in Grecia che alle bombe e ai terroristi in Afghanistan.
Appena arrivati, per quindici giorni, hanno affittato una casa, poi essendo senza soldi sono finiti a dormire per strada. Il figlio più grande affetto da un disturbo agli occhi è stato curato previo rilascio delle impronte. Piangendo dicevano di aver paura, perché i gruppi di naziskin cercano ogni giorno e ogni notte stranieri da “punire”. Temono per i loro bambini, dieci volte hanno già tentato di arrivare in Italia da Igoumenitsa, ma la polizia portuale li ha sempre cacciati via. Chiedevano loro il passaporto persino per andare in bagno. Non se la sentono più di rischiare ancora, la polizia ha iniziato a mandare in carcere per mesi anche donne e bambini piccolissimi. Tuttavia non vogliono nemmeno rimanere in quest’inferno fatto di notti dormite in strada, di pranzi e cene a base di rifiuti e di quotidiane agressioni danni dei loro connazionali.
Trenta famiglie con figli a seguito si trovano in questo momento in prigione. Tra di loro anche bambini di appena un anno di età. Questo riferisce Hassan, la cui moglie e i due figli sono stati arrestati pochi giorni fa mentre tentavano di prendere una nave diretta in Italia. Il più piccolo, Hussain, ha solo tre anni mentre il fratellino Ismat ne ha sette. Il padre non può aiutare la sua famiglia perché privo dei documenti, dei soldi per permettersi un avvocato e di una conoscenza anche solo basilare della lingua.
Pare irridere queste persone l’ultima denuncia da parte dell’Unchr: “Inaccettabili le condizioni di 850 migranti”. Alle istituzioni di questo tipo è rimasta solo la forza di denunciare, ma le parole non scalfiscono minimamente la Politica anticostituzionale di questo Paese, mancano azioni e contromisure atte ad impedire il perpetrarsi di tali barbarie.
Basir Ahang
DOPO I VIDEO DI PRIMA, TESTIMONIANZA DI QUELLO CHE VIVONO I MIGRANTI NEI CENTRI DI DETENZIONE, METTO QUESTO MOLTO BELLO SU UNA DELLE AZIONI CONTRO LA GUARDIA COSTIERA FATTE DAGLI ATTIVISTI del NOBORDER CAMP SULL’ISOLA DI LESVOS, IN GRECIA, LA SCORSA SETTIMANA.
Dal NoBorder Camp 2009 una sola parola: FREEDOM!
Impossibile non pubblicare questi due video.
Perché bisogna vedere con i propri occhi spesso per capire, per potersi immedesimare in alcune vite.
Siamo sull’isola di Lesvos, in Grecia in un centro di detenzione di frontiera della comunità europea per migranti “irregolari”, entrati clandestinamente.
Queste immagini sono fruibili a tutt@ grazie all’impegno e alla lotta dei compagni e delle compagne del NoBorder Camp 2009 che si è svolto nel mese di agosto proprio su quell’isola.
Dopo aver visto queste immagini, il primo video è del maschile mentre il secondo è girato nel reparto femminile (con i bambini, tanto per sguazzare nel macabro medievale) , non si può arrivare ad altra conclusione che quei muri vanno abbattuti. Abbattuti. Non c’è altra soluzione!
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