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Intervista ad Avni Er, dal C.I.E. di Bari
82 le persone arrestate in Turchia, da dove risulta partita l’operazione, altre 59 fra Germania, Olanda, Belgio e Italia. Molti sono giornalisti della stampa di opposizione, appartenenti ad organizzazioni democratiche, avvocati, architetti, artisti, molti impegnati nella salvaguardia dei diritti umani e nella libera informazione.

Evni Er è accusato di far parte del Dhkp-c, un partito comunista della sinistra rivoluzionaria inserito nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Infatti viene condannato a sette anni con l’accusa di “terrorismo internazionale” dal tribunale di Perugina. Fra i testimoni, a volto coperto, alcuni degli agenti speciali, spesso responsabili di torture, provenienti dalla Turchia. Nella condanna, confermata in appello è prevista l’espulsione di Evni Er a fine pena, ma la Turchia ne chiede l’estradizione che viene scongiurata anche grazie ad una vasta mobilitazione internazionale.
La liberazione giunge in anticipo, il 19 febbraio per buona condotta, ma il detenuto è immediatamente trasferito nel Cie di Bari per essere espulso. Ha chiesto asilo politico con l’aiuto del suo legale, teme fortemente per la sua vita in caso di rientro in patria. «Sono uscito da un carcere, per entrare in un altro carcere (il Cie) in attesa di essere portato nel carcere peggiore», racconta, «in Turchia mi aspettano e non certo per salutarmi. Il giorno successivo alla mia scarcerazione la agenzia governativa Anatolia mi ha “dedicato” una pagina, aspettano la mia espulsione».
E c’è qualcos’altro che sfugge ad ogni controllo e che dovrebbe far riflettere l’opinione pubblica italiana e pesare sulla decisione della Commissione: quando prendono un oppositore in Turchia è scontato che per almeno 4 giorni finisca per essere torturato. È capitato recentemente ad un ragazzo, Engin Ceber. Lo hanno preso mentre distribuiva una rivista legale, neanche legata al partito. È uscito morto dalle torture».
Dichiarano di processare i torturatori che hanno imperversato nella polizia e nell’esercito, ma poi i reati finiscono prescritti o spariscono le prove. A volte nei tribunali hanno anche il coraggio di dichiarare che non riescono a rintracciare gli agenti identificati. Temo veramente per la mia vita, ringrazio i tanti compagni che mi portano solidarietà e spero veramente di ottenere asilo politico».
Se le leggi e le disposizioni ratificate anche dall’Italia verranno rispettate, Evni Er non dovrebbe essere espulso in Turchia, sono infatti inespellibili coloro che rischiano di essere sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, ma sull’altro piatto della bilancia ci sono gli ottimi rapporti fra il presidente del consiglio Berlusconi e il premier turco Erdogan e in questi casi – le relazioni con la Libia insegnano – c’è forte il rischio che si trovi l’escamotage per procedere al rimpatrio.
Un caso simile è accaduto con un’altra detenuta, questa legata ai movimenti kurdi, Nazan Ercan, ma in quel caso prevalse la voglia di non rendersi responsabili di un crimine e la donna, dopo un periodo di trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, venne sì estradata, ma in Germania. O forse la situazione di Evni diventerà simile a quella di altri invisibili ancora presenti in Italia, che hanno espiato una pena, non possono essere rimpatriati nel proprio paese, non hanno ricevuto lo status di rifugiato, non possono avere un permesso di soggiorno. La sola speranza è che la commissione apposita, lo riconosca come rifugiato politico.
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Nuova rivolta al CIE di Bari
Nuova rivolta, ieri pomeriggio, dentro al Cie di Bari-Palese. Sembra che tutto sia nato dal pestaggio effettuato dalle guardie, non si sa per quale motivo, di un recluso del modulo 6. I suoi compagni hanno reagito bruciando alcuni materassi e spaccando i vetri della struttura. Contro i ribelli sono accorsi “militari di tutti i tipi” – secondo le testimonianze da dentro – che sono riusciti ad isolarli nel loro modulo. Non si sa bene cosa sia capitato successivamente, ma sembra non ci siano stati arresti. In realtà è dall’altroieri che la tensione al 6 si è rialzata: i reclusi degli altri moduli avevano sentito urla e casino provenire da lì e da allora tutti i moduli sono isolati e i pasti vengono serviti tra le sbarre.
QUI SOTTO IL VOLANTINO DISTRIBUITO DURANTE LA MANIFESTAZIONE IL GIORNO SUCCESSIVO
Benvenuti nella democrazia dei lager
M. ha una trentina d’anni, e, come dicono i suoi compagni di cella, “sta morendo piano piano”. Da circa quattro mesi è rinchiuso nel C.I.E. di Bari-Palese e da più di 40 giorni porta avanti, nel silenzio e nella disperazione, uno sciopero della fame: non parla e rifiuta il cibo, mangia solo un po’ di pane ogni quattro-cinque giorni, e perciò le sue condizioni di salute sono gravi; è rimasto “solo ossa”. Da quando i suoi compagni di cella chiedono insistentemente agli operatori sanitari di fare qualcosa, la risposta è sempre la stessa: questi operatori dicono che se M. non si reca autonomamente in infermeria, loro non possono fare niente e non sono responsabili della sue pessime condizioni; evidentemente non gli importa se M. sta così male che non riesce neanche ad alzarsi dal suo materasso, e quindi l’assistenza medica gli viene di fatto negata. In poche parole: la sua vita non ha nessun valore per gli operatori sanitari del C.I.E.
Una cosa simile, probabilmente, deve averla pensata dei suoi carcerieri quel recluso che per disperazione ha tentato di impiccarsi, circa un mese fa, ed è vivo solo perché i suoi compagni di cella gliel’hanno impedito; fosse stato per gli addetti alla sorveglianza, “avrebbe anche potuto impiccarsi, se ne era così convinto”. Neanche la vita di S. deve aver molto valore, secondo gli operatori del C.I.E. in cui è rinchiuso: è ammalato di diabete, ma si vede negare una cura adatta e la possibilità di fare delle analisi. E un parere non molto diverso sugli operatori sanitari l’avranno forse quei reclusi che sanno che alcuni di loro hanno malattie come l’epatite c, e vedono che nessun tipo di precauzione viene presa dagli addetti all’assistenza per evitare il contagio: la barba, ad esempio, la fanno tutti con lo stesso rasoio. Anche questo, si capisce, è una cosa che pare non importi agli operatori del C.I.E.
A quanto dicono questi operatori, neanche la pessima qualità del cibo dipende da loro: è quindi inutile che i reclusi si lamentino se nei piatti trovano vermi o roba andata a male, o se dopo pranzo sono in uno strano stato di torpore come se nel cibo fossero stati messi psicofarmaci e “sostanze calmanti”.
Forse si tratta delle stesse “pillole” che vengono somministrate quotidianamente all’ora della cosiddetta “terapia”: tutte le altre cure mediche richieste dai reclusi vengono quasi sempre negate. Gli operatori sanitari devono aver stabilito, a quanto pare, che gli psicofarmaci sono un ottimo espediente per tenere a bada i migranti che si trovano nel C.I.E; per poterli tenere rinchiusi per mesi nelle celle col pretesto che non hanno un documento valido, come ha stabilito il recente “Pacchetto Sicurezza”. Per impedirgli di protestare, di fare baccano, di tentare la fuga. E se gli psicofarmaci non dovessero bastare, ci sono i militari addetti alla sorveglianza: sempre col manganello in mano. Ai militari, dicono i migranti, è inutile chiedere qualunque cosa: non è possibile mandare un fax, e neanche avere una penna per scrivere, non ti danno nulla, ti dicono che quello che chiedi non c’è, o non è possibile, o loro non ne sono responsabili.
Ma allora chi sono i responsabili di tutto questo? Saranno gli ex-ministri Turco e Napolitano, che nel 1998 hanno deciso la costruzione di strutture simili? Sarà il ministro Maroni, che ha fatto approvare una legge che allunga i periodi di detenzione nei C.I.E.? Sarà l’O.E.R. (Operatori Emergenza Radio), la “onlus” che ha vinto la gara d’appalto per la gestione del C.I.E. di Bari-Palese? Saranno forse le ditte Medica Sud srl o Ladisa, che partecipano alla gestione di questo centro, in “raggruppamento temporaneo di impresa” con la suddetta O.E.R.? Saranno i militari del battaglione S. Marco, che sono addetti alla sorveglianza? La risposta pare ovvia: sono tutti responsabili.
Responsabili dell’attuazione di una legge razzista, responsabili della macchina delle espulsioni, responsabili dell’esistenza dei C.I.E., responsabili delle pessime condizioni di vita al loro interno, responsabili della disperazione di chi vi viene “ospitato”.
Ma forse neanche psicofarmaci e manganelli bastano a tenere la situazione sotto controllo, se spesso nel C.I.E. di Bari-Palese ci sono proteste e rivolte rumorose: dentro le celle, con gli scioperi della fame, o cercando di inghiottire qualunque cosa pur di uscire dal centro, per essere portati in ospedale; e all’interno della struttura, quando i migranti spaccano vetri e bruciano materassi chiedendo di essere liberati, o almeno rimpatriati, per sfuggire all’inferno del C.I.E.
L’ultima protesta si è verificata la settimana scorsa: due migranti sono stati arrestati e probabilmente rimarranno in carcere per molto tempo, senza che si sappia più niente di loro.
Una cosa simile è successa ai venti algerini che sono stati arrestati l’anno scorso, nella notte di Natale, per aver tentato la fuga. Sono rimasti in carcere con l’accusa di devastazione e saccheggio, da cui sono poi stati assolti, dopo un anno, perché la corte d’appello ha deciso che, in effetti, come condanna era decisamente esagerata. Dopo un anno di carcere.
Considerando tutto questo, non è difficile capire perché le leggi sull’immigrazione che vigono in Italia non possono che essere definite razziste, e non ci si stupirà più di tanto se questi C.I.E. vengono sempre più spesso chiamati lager. Perché di lager si tratta.
E allora benvenuti nella democrazia del razzismo, della violenza contro i migranti, della xenofobia, della repressione dei “clandestini” e degli “indesiderati”. Benvenuti nella democrazia che ha costruito i nuovi lager.
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Rivolta al CIE di Bari
Tocca al Cie di Bari Palese chiudere degnamente questo mese di rivolte che hanno segnato i Centri di tutta Italia.
La dinamica dei fatti non è ancora chiarissima, ma da quel che hanno potuto ricostruire fino ad ora i compagni baresi tutto sarebbe nato questa mattina da un litigio tra un recluso e i funzionari dell’ufficio immigrazione.
Litigio culminato con il lancio di una sedia e con il fermo del recluso.
Solo a quel punto, per difendere il fermato, un’intera sezione del Centro sarebbe insorta: vetri spaccati e materassi bruciati.
Non si sa quanto siano stati ingenti i danni, ma alla fine i soldati del Battaglione San Marco hanno trasferito in carcere due prigionieri, forse tre, mentre altri due sarebbero in ospedale. Secondo un lancio di agenzia, inoltre, tre poliziotti e due soldati sarebbero stati leggermente feriti negli scontri.
Ascoltate la ricostruzione fatta da una compagna barese: http://www.autistici.org/macerie/?p=23183
macerie @ Novembre 30, 2009
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