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bhè, questo non posso non metterlo… ;-)
Roma: quando la “musica solidale” entra anche a Regina Coeli
di Sandro Podda Liberazione, 27 aprile 2009
“No, lei signorina non può entrare”. Con un accento del sud e un po’ di imbarazzo, la guardia carceraria comunica alla ragazza che è venuta con me per fare le foto che all’ultimo minuto le è stato negato l’accesso. Siamo all’accettazione del carcere di Regina Coeli e da dietro un vetro la guardia carceraria che ci parla è l’unica a darci un po’ retta e qualche risposta dialogante. Il suo non è l’unico accento meridionale. Quasi tutti gli agenti nel gabbiotto si scambiano battute in marcati accenti del sud d’Italia. Alcuni hanno uno sguardo vagamente ostile, diffidente.
Un po’ come quello dei tanti Padre Pio appesi quasi sopra a due timidi Cristi in croce. Altri, i più anziani, sembrano invece rassegnati alle lungaggini burocratiche e al fatto che dietro a quello che c’è scritto in quelle mille carte spesso non ci sia alcuna ragione di “sicurezza”, ma un accenno neanche tanto velato all’idea di “punizione”. In carcere niente è o deve essere semplice sembrano dire quelle carte. Neanche venire, come abbiamo fatto noi – a questo punto solo io – a vedere uno spettacolo fatto dai detenuti per i detenuti e per i “liberi”, quelli che stanno fuori, a cui magari non è mai capitato di vedere cosa ci sia oltre quelle mura che si trovano un livello più in basso del Lungotevere in uno dei posti più cantati dalla tradizione popolare trasteverina e romana: Regina Coeli.
“La signorina ha delle segnalazioni e quindi le è stato revocato il permesso di entrare”. “Segnalazioni? Ma non doveva essere tutto cancellato? Come fa a risultarvi una cosa che non dovrebbe esserci e che tra l’altro risale a dieci anni fa?”. Tant’è che invece risulta, che non è stata cancellata e che non può entrare. Anzi, la macchina fotografica può, perché è stata autorizzata. La fotografa, no.
E neanche il mio registratore portatile che deve restare insieme al cellulare dentro un armadietto. Senza la cortesia di Dino Centonze che fotografa e riprende questi spettacoli da tempo non avremmo avuto immagini. L’agente mi fa entrare e mi scorta lungo un corridoio bianco sul quale si affacciano diversi quadri che raccontano la lunga tradizione delle guardie carcerarie attraverso una storia delle loro divise. Arriviamo ad un cancellone in ferro battuto dipinto di nero dove altri agenti formano un piccolo capannello. Il mio accompagnatore fa un cenno e un’altra guardia che fa scivolare una grossa chiave nella serratura aprendo la sala. Mi vengono incontro Angelo Litti e Antonio Pappadà. Sono i due ragazzi (qualcosa di più anagraficamente, ma non nello spirito) che una ventina di giorni fa sono venuti in redazione a raccontare quello che fanno da qualche anno. Vengono dal Salento, hanno una passione coltivata per la pizzica, il teatro e le tradizioni popolari. Nel 2004 hanno iniziato un’esperienza nella Casa Circondariale di Perugia tramite “Ora
d’aria” dell’Arci per “attivare uno scambio alla pari”, come dice Angelo e da allora hanno tenacemente dato seguito a quella idea di mettere in comunicazione l’”esterno” e l’”interno” attraverso la musica e il teatro. “Noi portiamo la nostra musica, loro quello che hanno da mettere a disposizione. Canzoni, scritti, idee. Dopo sei al massimo sette incontri si mette in scena uno spettacolo con dodici-quindici detenuti per gli altri detenuti e qualche persona che riusciamo a fare entrare come pubblico. Tra le difficoltà di chi magari esce, chi invece viene trasferito o chi si vede alla fine rifiutato il permesso di partecipare”. Hanno chiamato questa piccola creatura “Canto Libero, scambio di vite in corso d’opera”. Dopo Perugia sono stati nelle carceri di Orvieto, Bolzano e due volte a Spoleto e infine, mercoledì scorso, a Regina Coeli.
Ciascuna di queste situazioni presenta delle differenze, a seconda del tipo di carcere, e delle analogie. La più profonda di queste è l’effetto immortalato nelle foto di un libro che Angelo e Antonio mi mostrano. L’effetto prima e dopo, si potrebbe chiamare. Le facce lunghe dei primi incontri e la gioia che ogni tanto esplode nei visi durante gli spettacoli o nelle prove. Libera. Dal peso della memoria di trovarsi dentro un carcere. Per un momento, per un paio d’ore, anche se guardati a vista, anche se per la durata di una canzone o poco più da cantare come se si fosse all’aperto, tra amici e affetti. Hanno deciso di chiamare questo spettacolo a Regina Coeli “La carrozza”, per sottolineare la natura itinerante di questo progetto che intendono proseguire. Dopo essermi venuti incontro corrono a prepararsi.
Una responsabile li rimbrotta: “Sbrigatevi che sennò sforiamo”. E ricorda a tutti che, finito lo spettacolo, si torna tutti dentro. E qualcuno fuori, con il sapore che a volte è stato solo il caso o la vita a scegliere diversi destini e che sempre il caso o la vita potrebbero un giorno portare chiunque a vivere la negazione fisica e psicologica della libertà. La prima delle sensazioni con cui impatto è questa. I visi, gli scherzi, le battute, le persone sono le stesse con cui sei cresciuto. Sono te. E sono gli stessi degli agenti che girano intorno alla sala. Nessun segno di vera differenza. Tranne il ruolo da cui è difficilissimo uscire: “la guardia”, “il ladro”, “l’operatore”, “il visitatore”. La sala in cui si svolge tutto è la “Prima Rotonda”, un ampio dodecagono su cui si affacciano i cancelloni neri di quattro bracci e quello del corridoio. Tre piani con buie porte dalle finestre oscurate corrono verso il soffitto a cupola interrotti da altri cancelloni attraverso cui non si può vedere nient’altro che ombre a causa di alcuni fogli di cellophane messi tra le sbarre. Su una di queste piccole porticine si legge “Biblioteca”. Nella Rotonda il clima è sinceramente piacevole e più sereno di quello respirato all’ingresso. Su un piccolo palco gli attori si preparano, ripassano la parte, i tempi. Ad assistere siamo in una cinquantina, tra detenuti e un piccolo gruppetto di “visitatori”, più operatori e operatrici e una decina di guardie. Seduti su sedioline da scuola, sulla mia destra quattro ragazzi si scambiano abbracci e piccoli gesti di confidenza.
Scherzano, ridono, si danno dei buffetti e si raccontano piccoli episodi della vita fuori. Più in là c’è un ragazzo che sembra un po’ più grande per i capelli bianchi che stridono con un volto ancora giovane. Sembra più malinconico. Le guardie e qualcuno affianco lo chiamo “Er poeta”. Non è difficile capire come si sia guadagnato il soprannome. Mentre aspettiamo l’inizio dello spettacolo, chiama l’agente che gli ronza dietro e attacca: “Senti, questa mi è venuta su così, de panza come se dice a Roma: Vedo tutta sta gente che se riunisce/ e un pensiero me sortisce/ Tutto me possono levà/ Tranne che la libertà de pensà”. Qualcuno grida “I cantanti li stamo ad aspettà dall’ottavo”. Penso che sia l’inizio di una serie di lazzi e battute che prenderanno di mira i poveretti che si trovano sul palco. Invece il loro ingresso è salutato con un caldo applauso che scalda tutti. Il palco e il pubblico sono tutt’uno. Anche i più pensierosi si lasciano andare a un gesto di partecipazione che via via si fa più coinvolgente. Alla mia sinistra due ragazzetti nordafricani che erano un po’ meno coinvolti non si trattengono e scattano in piedi quando Omar, un ragazzo brasiliano, e Marco, un ragazzo rumeno, mettono in scena un’ottima capoeira. Canti corali con “Lella” – specialmente nella parte “nun lo dì a nessuno, tiettelo pè te” – interpretata dal gemello mancato di Claudio Amendola, Alberto, sul palco grazie a un miracolo visto che all’inizio aveva un “divieto d’incontro”. Lo djembé suonato da Mohammed ed Abdelleh e le percussioni di Marian rimbombano nella sala e sembrano lacerare le pareti. È un’illusione, alla quale in pochi resistono e un momento in cui anche i più “duri” si lasciano andare al ritmo battendo sulle gambe. Un attore nato, Alessandro, sottolinea alcuni passaggi nascosto dietro le quinte con balletti e movimenti che strappano risate a chi lo vede. Canterà due stornelli della storia dei romani e di Regina Coeli: quello che elargisce la patente di romanità ad una condizione – “A Reggina Coeli ce sta ‘no scalino,chi nun salisce quelo nun è romano, manco ‘n trasteverino” – il celebre “Le mantellate”. Anche la sua è una storia particolare. Poteva essere fuori in permesso, ma ha deciso di restare per partecipare allo spettacolo.
I canti popolari salentini portati da Angelo e Antonio riscuotono successo e una pizzica sorretta dalla sola voce di Angelo (veramente una bellissima voce) diventa spunto per un improvvisato e apprezzato ballo tra Antonio e una ragazza riccia venuta con loro. Nonostante si tratti di un carcere maschile, nessuno fa commenti sull’avvenenza della ragazza omaggiata solo da una standing ovation per il bel momento offerto. Perché sembra di trovarsi ad una festa, se il termine non stridesse così tanto con il luogo. Con la chitarra di Mauro che canta accompagnato da tutti nel coro “Cuccurucucu Paloma”. Con il suo cappello di paglia e l’abbigliamento di chi ha trovato il suo buen retiro in un paese sudamericano. Qualcuno legge i suoi pensieri e tocca le corde di molti quando accenna agli affetti lasciati oltre quelle sbarre. Ad un certo punto parte un base rap e la curiosità si fa stupore. Sul palco c’è uno del Truceklan, Armando, che tutti fuori conoscono con il suo soprannome. I più giovani lo riconoscono, gli altri, in molti, si fermano ad ascoltare quelle liriche cantate con rara determinazione. Ma qual è il brano che riscuote più successo attraversando le generazioni, le nazionalità di provenienza e i gusti personali? Neanche a dirlo, il ponte tra tutti è Robert Nesta Marley, Bob. Quando l’afro-californiano Michael attacca “No woman no cry” tutti si uniscono nel ritornello a dar man forte ad una interpretazione penalizzata all’inizio da un po’ di emozione. Solo “Porta Portese” di Baglioni aveva scaldato così tanto la parte più “romana de Roma”. Ma Bob abbatte anche l’ultima forma di separazione. Lo spettacolo si allarga e si stringe e al di là della sua funzione sociale come si dice in questi casi ha anche un suo deciso valore artistico. Difficile distinguere tra chi sta sul palco e chi siede come “pubblico”. Il risveglio arriva brutale alla fine, quando una guardia carceraria mi dice “Lei è un giornalista no? Venga da parte che li facciamo rientrare”. Mi indicano di stare all’angolo mentre gli altri tornano dentro scambiandosi ancora qualche battuta. Solo allora vedo i lunghi bracci delle sezioni quando i cancelli si aprono per fare rientrare i detenuti. Angelo, Antonio e i loro amici raccolgono le loro cose e si scattano qualche foto. Un agente mi accompagna fuori, mentre una guardia li osserva e commenta: “Sono comunisti o qualcosa di simile. Si divertono così…”.
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