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40 anni fa, il 20 maggio 1980, arrestavano Salvatore Ricciardi
Con l’amaro in bocca guardo il calendario,
perché ricordo quel bicchiere di vino fresco e il tuo desiderio di brindare (quanti anni fa sarà stato quel primo brindisi di 20 maggio? forse 12, forse nessuno, che il tempo trascorso con te è sempre presente), un brindisi alla faccia dello Stato, alla faccia della cattura, del buco nero in cui ti hanno chiuso invano per 16 anni.
Salvatore mio adorato, questo 20 maggio, a cifra tonda dal tuo arresto, avremmo dovuto farci proprio una gran bevuta e fa proprio male al cuore e agli occhi stremati dal piangerti, sapere che lo si farà senza di te.
Alla libertà, alla tua libertà che non è stata mai fermata da nessun ergastolo, da nessun carcere speciale, da nessun braccetto, quella che hai saputo provare a conquistare, quella di cui ci hai fatti innamorare, raccontandocela e provando a farci capire che potevamo trovarla.
Racconti nel tuo Maelstrom, citando De André che crepare di maggio è cosa da troppo coraggiosi “anche essere arrestati di maggio è dura. Immagino che morire sia peggio, ma anche così non è piacevole. Invece degli odori primaverili ti sorbisci le puzze dei luoghi più squallidi costruiti da uomini per distruggere altri uomini e donne: le celle”. Alla fine ci hai lasciato in piena primavera, con aprile che iniziava e i glicini grassi d’amore, mai quanto quello da te ricevuto, e per te provato.
Per sempre grazie
Dal libro Maelstrom, di Salvatore Ricciardi (qui il suo blog: LEGGI)
L’ARRESTO
All’infermeria di Regina Coeli mi ci avevano portato dopo l’arresto. Era avvenuto in un bar del centro di Toma, con me c’erano una compagna di Roma e un compagno di Milano. Legato come un salame, ammanettato dietro la schiena, testa in un sacco di tela, qualcosa che somiglia a una corda intorno alla vita, sbattuto sul fondo di una pantera dei Carabinieri, pestato da scarponi militari, a sirene spiegate preceduti e seguiti da non so quante macchine. Il suono delle sirene nel segnala parecchie.
Prima tappa, raccattato di peso, senza toccare terra, mi portano in un locale. Incappucciato, vengo spogliano e legato a una sedia. Sento il vento fresco e le voci provenire da un cortile, sono davanti a una finestra. Le mani legate dietro lo schienale della sedia, completamente nudo se non per il cappuccio, comincio a sentire freddo, un venticello entra dalla finestra. Sento passi nervosi che percorrono la stanza, mi sono intorno, forse sono al centro di una stanza grande e vuota perché i passi e le voci rimbombano. Una mano mi strappa il cappuccio, un’altra mi afferra per i capelli e mi tira indietro la testa, strizzo gli occhi per la luce forte e faccio una smorfia, una voce mi chiede: “Come ti chiami? Che ci facevi là?”. E’ una voce roca, ma non vedo da dove proviene, aspetta qualche secondo poi mi cala di nuovo il cappuccio in testa calcandolo forte e dicendo: “Questo è un duro, non parla”. Ha fatto tutto da solo, io non ho avuto nemmeno il tempo di realizzare, lui poi dà gli ordini ai militari: “perquisite bene i vestiti e poi…”. Esce dalla stanza parlando con altri. Dev’essere il comandante, quelli che restano nella stanza lo chiamano così. “Lo ha detto il comandante”, “Vai a riferire al comandante”.
Le spalle cominciano a farmi male, è la posizione delle mani legate dietro lo schienale della sedia, fanno male pure i polsi ma il dolore delle spalle è più forte. Quanto tempo sarà passato?
Non riesco a pensare ad altro che al dolore a una spalla più intenso che all’altra, dovrei cambiare la posizione delle mani per equilibrare lo sforzo delle due spalle, ci provo ma il dolore dei polsi diventa acuto, non appena provo a muovere le mani. E allora non penso a nulla, tanto a che serve. Una rilassatezza innaturale, tra dolori e freddo, si è aggiunto anche un dolore alla schiena che è esposta al vento. Si stanno attenuando tutte le sensazioni, un torpore, quasi una sonnolenza favorita dal silenzio che è seguito alla concitazione di passi e di voci.
Un’ora, forse due, forse più. Arrivano, mi alzano dalla sedia, non riesco a muovermi tanto sono indolenzito, mi infilano la giacca, i pantaloni e le scarpe, niente biancheria né calzini. Di nuovo le mani nei braccialetti, alla stretta del metallo sulla carne maciullata il dolore si riaccende, dolore dei polsi e delle spalle, le mani sono legate dietro la schiena.
Col cappuccio in testo sul fondo di un’auto che parte a tutta velocità, non da sola, a sirene spiegate. Tragitto lungo stavolta, e c’è il traffico, si sentono frenate, motori, clacson delle altre auto che si muovono in città.
Perché mi viene da pensare che ore sono?

Salvatore Ricciardi, Forte Prenestino, maggio 2007
Quando sono arrivati al bar erano circa le 11 di mattina, stavamo ai tavolini fuori, era una bella giornata e stavamo parlando con calma davanti a un cappuccino. Ce li siamo trovati improvvisamente davanti con le pistole spianate, ma quelli erano solo l’esca, perché poi da dietro le siepi di mortella, o forse di pitosforo, nei grandi vasi che circondavano lo spazio dei tavolini, ne sono sbucati molti altri. Se solo avessimo toccato le armi pensando di potercela giocare con quei tre davanti, quelli dietro le siepi ci avrebbero maciullato. Un errore clamoroso, il loro, perché in caso di conflitto a fuoco, oltre che sparare su di noi, si sarebbero sparati anche tra loro, essendo gli uni di fronte agli altri, ma noi non ne avremmo avuto alcun beneficio, anzi, ci avrebbero accollato anche i colpi tirati tra di loro.
Dunque, erano circa le 11, un paio d’ore, due e mezzo nella prima caserma, dovrebbero essere le 13-13.30, infatti il traffico è quello intenso dell’ora di pranzo. I rumori della città sono sempre gli stessi e ti accompagnano quando vai a lavoro, a zonzo col naso per aria, oppure nell’ultimo posto dove vorresti, quei suoni ti entrano nelle orecchie come a dire: qui tutto continua come prima, anche senza di te, e questa cosa non mi piace.
Quei rumori, quel traffico maledetto mille volte, oggi mi danno un gran sollievo, con loro sento che sto ancora tra la gente. Sedici anni dopo, quando presi il primo permesso breve, qualche ora fuori dal carcere, ritrovare quei rumori, ma che dico, musica celestiale, il traffico, il vociare, i clacson, le frenate, mi fece di nuovo provare un piacere immenso. Per chi è cresciuto nella città quei rumori rappresentano la vita, la libertà. Non se ne abbiano gli ambientalisti, la sgasata di un’auto non sarà corretta, ma dopo sedici anni tombato in un buco è un suono di libertà.
ALTRE CASERME
Un’altra tappa. Stavolta è uno stanzino al piano terra, luce forte, un flash, una foto, le impronte, ma non solo delle dita, delle mani al completo, e poi altre misurazioni: altezza, peso, circonferenza cranica. Ma che ci dovranno fare?
Tolte le manette, nei polsi vedo un solco blu, toglierle interrompe l’addormentamento elle braccia e il dolore si fa più vivo. Se fosse un film, questo potrebbe essere il luogo della polizia scientifica, dove fanno tutte le rilevazioni chimiche e fisiche per poi scoprire il colpevole. Ma qui non c’è nulla da scoprire, e non è un film. Seguo il trascorrere del tempo sperando di reggere. Passa un’altra ora, poco più, poi di nuovo di corsa, sbattuto dentro la pantera. Ma perché fanno queste operazioni di corsa? Ancora nel traffico, sirene e rumori sembrano aumentati, andiamo verso zone trafficate, verso il centro della città. Sdraiato sul fondo dell’auto sento tutte le buche delle strade romane.
Non passa molto tempo e il corteo di auto dei carabinieri si ferma qualche secondo. Il rumore di una porta carraia che si apre, la macchina entra. Sempre incappucciato mi fanno uscire, gradini in salita, una rampa, una stanza, seduto Sun una sedia, poi tante scale in discesa. Sono in via in Selci, sede del nucleo speciale operativo dei carabinieri, l’ho saputo dopo.

Salvatore Ricciardi nell’aula bunker di Rebibbia, durante il processo Moro Ter
In quei sotterranei bui trascorsi i miei primi sette giorni di reclusione, giorni in cui fui cancellato dalla realtà. Così avveniva quando ti arrestavano sospettato di far parte di organizzazioni combattenti o associazioni sovversive, ti rinchiudevano da qualche parte e nessuno sa dove. Le leggi speciali, ultraspeciali, glielo consentivano. Certo, il “garantismo” ne usciva malconcio, ma l’unità nazional-patriottica si rafforzava. Era un modo per fare pressioni sull’arrestato in modo che parlasse. Non erano ancora torture, quelle sono iniziate nell’82 e proseguite nell’83, gli anni “argentini”. Su quelle vere e proprie torture è intervenuta anche Amnesty International e c’è stato perfino un processo, alcuni poliziotti sono stati condannati per aver torturato prigionieri.
COSA HAI LASCIATO FUORI?
[…]
Però la prima impressione che hai è quella di essere stato sbattuto su un altro pianeta. Sono su un altro pianeta, cosa ho lasciato fuori? Quali lavori non completati? Le informazioni su quell’ ”inchiesta” le ho lasciate nel posto giusto? Quella cosa che dovevo fare non si potrà più fare, quel documento che stavo scrivendo? Avranno fatti altri arresti?
L’agitazione fa affiorare questi pensieri, non vuoi accettare che là dentro sei escluso dalla lotta e dalla vita. I pensieri aspettano che l’agitazione si plachi e tornano con un carico più pesante, un carico umano. Come la prenderanno la notizia del mio arresto le persone più vicine? Come l’avranno presa mia figlia e la mia compagna? E le sorelle? Dovrò spiegare a mia madre questa mia scelta, e lo farò, ma in queste ore, leggendo sui giornali oppure in tv la notizia, in che stato d’animo saranno? E le compagne e i compagni in ferrovia? E quelli del movimento? Alcuni sapevano o intuivano, ero scomparso da qualche tempo, per altri sarà un fatto inaspettato, un insospettabile, diranno.
Le figure che hai passato in rassegna ci sono tutte, poi, man mano, scolorano. I volti, le voci, le fisionomie si dissolvono dietro una nebbia. E’ questo il potere del carcere: la reclusione non sopporta convivenza con nessun’altra realtà, cancella quelle figure e le sostituisce con altre. Il carcere ridisegna le immagini di quelle persone i cui ricordi ti sono attaccati addosso, il carcere le crea e te le impone. Queste saranno, per te, i ricordi del mondo esterno, creati dal carcere e diversi dall’originale. Tu conserverai il ricordo, l’affetto, l’amicizia di ciascuna di queste persone ridisegnate dal carcere. Una distanza dalla realtà che aumenterà con gli anni della prigionia. Deformante come lo specchio di Alice. Recupererai la realtà quando ti lascerai alle spalle quegli odiati cancelli, e allora piomberai in un altro baratro. Il più delle volte è un trauma devastante. Ti troverai di fronte persone sconosciute, un mondo diverso dalle immagini che ti hanno accompagnato per lunghi anni in carcere e che per te era reale. La realtà sconvolge il tuo reale.
PERCHE’ CI SEI FINITO?
Sei in un angolo buio di una cella, rinchiuso e rannicchiato su una coperta sporca, circondato da mura grigie graffiate da vecchie presenze, sei nel luogo adatto per farti la domanda che non troverà risposta. Perché ci sei finito? Non arrivano risposte, arrivano persone e si dirigono tutti verso di te. Arrivano pure i pensieri. Persone e pensieri, compagni di questo primo isolamento, sette giorni in un tugurio desolato. Come in un film scorrono gli avvenimenti, i giorni e i mesi in cui è maturata la mia scelta.
Era il 1977, un anno esaltato, calunniato, dannato.
Traboccante di giovani con un urlo di rabbia in gola, l’ultimo di quel decennio, e del secolo, con un carattere sovversivo. La loro rabbia si lanciava contro le città ormai in stato d’assedio. Il linguaggio era chiaro, volevano dire che quanto era stato progettato negli anni precedenti andava portato fino in fondo. La rivoluzione, loro, l’avevano presa maledettamente sul serio. Forse intendevano una rivoluzione che non coincideva con quella progettata da noi, chissà. Ma poi, qual era la nostra? Le nostre, casomai. Ne avevamo ideate tante in una follia creativa. […]
SOTTERRANEI
[…] I primi tre giorni senza mangiare, rinchiuso in via in Selci, poi una pietanza al giorno. La notte, credo – ma poi ho perso la cognizione del tempo – alcuni battevano con qualcosa sulla porta di metallo accompagnando la battitura con la promessa di entrare e ridurmi in polpetta se non mi decidevo a dire tutto. Dai loro bisbigli capivo che mi osservavano continuamente attraverso uno spioncino, commentavano ogni mia mossa. Io passavo quel tempo, senza tempo, facendo ginnastica fino a stancarmi per potermi poi buttare sul tavolaccio e sonnecchiare non so quanto. gli indumenti che indossavo erano gli stessi, un pantalone e la giacca, ovunque scuciti e sfoderati, né biancheria, né camicia, né calzini, se li erano tenuti. […]
Nella cella dei sotterranei non c’era un gabinetto, né ti facevano uscire per alcuna ragione. C’era un secchio di plastica che poteva servire per orinare, nulla di più. Il tavolaccio per dormire era un rialzo di muratura con sopra una coperta e in alto una lampadina schermata sempre accesa. Non c’erano finestre né prese d’aria.
Non era tortura, ma non era piacevole.
LINK:
Il sito di Salvatore: CONTROMAELSTROM
Avere vent’anni nel luglio ’60: STORIA DI SALVATORE RICCIARDI, qui
Il mio Salvo, QUI
L’omaggio a Salvatore e l’occupazione militare di S.Lorenzo: QUI
La lunga mattinata di Radio Onda Rossa in suo ricordo: QUI
Un ricordo a 4 voci, QUI
Solidarietà a Lander Fernandez Arrinda : concessi i domiciliari
AGGIORNAMENTO ORE 11.45: CONCESSI i DOMICILIARI A LANDER!
EVVIVA!
annullato il presidio di Sabato pomeriggio a regina coeli!
BENE!!!
Questa mattina alle ore 9.30 presso la quarta sezione della corte d’appello, città giudiziaria di piazzale clodio ci sarà l’udienza per la convalida dell’arresto di Lander.
Intanto, per rompere il muro dell’isolamento, il solo mezzo è inviare telegrammi:
Lander Fernandez Arrinda
Via della Lungara 29
00165 Roma
LANDER ASKATU!
Segui: Un Caso Basco a Roma
Comunicato sulla condanna a Giovanni Caputi: COLPIRNE UNO PER RI-EDUCARNE MIGLIAIA
Colpirne uno per…ri-educarne migliaia
E’ arrivata la prima condanna per le\gli arrestate\i del 15 ottobre. Una condanna pesante che ci sembra essere, ancora una volta, la vendetta della Legge nei confronti di chi ha poco o niente per difendersi.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Dopo tutto l’insopportabile marasma mediatico creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre, la repressione continua a colpire, sempre più seriamente.
Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato con il rito abbreviato dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di detenzione per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale.
Ma la procura fa già sapere che forse non basta e, ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Vogliamo continuare a sostenere chi si è trovato prima colpito da accuse pesanti e poi da una condanna che trasforma una persona nel capro espiatorio delle migliaia che c’erano in piazza.
Ora che il governo dei banchieri si è insediato, crediamo che sia ancora più importante sottolineare contro chi continueremo a scagliare la nostra rabbia: i padroni, le banche, la classe politica tutta. Tutti pronti ad abbracciare il commissariamento de facto delle istituzioni europee, per un modello economico giunto al capolinea.
Noi, però, abbiamo un’arma che loro non hanno.
Quella solidarietà che si mette in moto quando sentiamo che uno spirito affine è in difficoltà. E allora il nostro impegno deve essere quello di far sentire a Giovanni tutta la nostra solidarietà.
Lanciamo un appello alla Roma solidale, se ancora esiste: cerchiamo collettivamente un domicilio per Giovanni, affinché almeno possa uscire da quell’infame luogo che è Regina Coeli, seppur in regime di arresti domiciliari.
Raccogliamo dei soldi, affinché possa fare un minimo di spesa.
Mandiamogli dei vestiti, al contrario di quello che credono i buoni cittadini, in carcere fa molto freddo.
Regaliamogli dei libri, senza di loro dentro il tempo può sembrare infinito.
Scriviamogli lettere, per far sentire a Giovanni che fuori ci sono delle persone che lottano anche per lui.
Facciamogli sentire la nostra voce fuori dal carcere di Regina Coeli, e facciamola risuonare nelle strade.
Partecipiamo in massa il prossimo 5 dicembre all’udienza del processo contro Ilaria, Robert, Stefano.
Continuiamo a sottoscrivere per le spese legali presso il c\c di Radio Onda Rossa: conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.
Se il silenzio è il primo sintomo della loro vittoria, noi continueremo sempre a gridare.
Le nostre lotte camminano con Giovanni e per Giovanni.
Libere/i tutte/i
I compagni e le compagne
15 ottobre: ecco la prima condanna
Che vergogna.
Sembra che abbiano deciso di far pagare tutto a lui.
Tutto il marasma mediatico insopportabile creatosi subito dopo gli scontri del 15 ottobre inizia a mietere vittime.
Ieri sera c’arriva la splendida notizia della scarcerazione di Leonardo Vecchiolla, trasferito poco prima nel carcere di Rebibbia per competenza territoriale. Scarcerato senza alcuna restrizione: libero.
Oggi invece la batosta.
Giovanni Caputi, l’unico che era ancora in stato di detenzione, dentro Regina Coeli, proprio perché senza alcuna dimora, è stato condannato questa mattina dal Tribunale di Roma a tre anni e 4 mesi di condanna per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale con il rito abbreviato.
Ma la procura ci fa già sapere che forse non gli basta e che ora che ha ottenuto la trasmissione degli atti dal tribunale, vuole indagare anche per il reato di devastazione.
Tra gli arrestati del 15 ottobre, Giovanni è quello con la condizione più particolare: originario di Bari era in Spagna da divero tempo, non ha ottenuto la scarcerazione come gli altri perché privo di domicilio o di qualcuno che potesse ospitarlo, qui in Italia.
Così è rimasto in carcere ed oggi s’è preso la prima condanna per gli scontri del 15 ottobre scorso, in piazza San Giovanni: vogliono anche il risarcimento danni, sia il Comune di Roma che l’Ama, la società che gestisce lo smaltimento dei rifiuti e procederanno in sede civile dopo essersi costituiti parte civile.
Hanno trovato il capro espiatorio: il più debole paga per tutti.
Sarà contenta la redazione di Repubblica e tutti coloro che invocavano la polizia o impacchettavano fanciulli.
Noi ricordiamoci che il 5 dicembre ci sarà l’udienza per Robert, Stefano ed Ilaria:
NON LASCIAMOLI SOLI!
e scriviamo a Giovanni,
nel carcere di Regina Coeli, Via della Lungara 29, 00165 Roma
Presidio a Regina Coeli: LIBERARE TUTT@
LA SOLIDARIETÀ È UN ARMA
LIBERARE TUTTE E TUTTI
Nell’affollatissima assemblea di domenica 6 novembre tenutasi al CSOA Ex SNIA si sono incontrate numerose realtà romane provenienti da percorsi molteplici ed a volte distanti, almeno quattro generazioni di compagni e compagne a confronto. La volontà di andare oltre il 15 ottobre e rilanciare percorsi di lotta e autorganizzazione, capaci di connettersi, con la voglia di protagonismo dei giovanissimi, con le tante vertenze nei territori e nei posti di lavoro, con la difesa dei beni comuni e contro profitti e speculazioni. Un sentimento comune nelle dovute differenze senza rimozioni e non senza fare i conti con quanto è successo in quella giornata.
Tutti i presenti si sono espressi per il rifiuto della logica del capro espiatorio alla base del sistema penale e della dicotomia buoni/cattivi con la quale si è voluto criminalizzare da più parti la piazza del 15 ottobre. Un meccanismo che abbiamo subito all’indomani di Genova 2001 con il quale non si è saputo fare i conti. Dopo dieci anni è ancora il paradigma black bloc – infiltrato ad essere riproposto dall’apparato politico, dai pennivendoli e mezzobusti. Un immaginario talmente digerito socialmente da aver scatenato il fenomeno inedito della delazione di massa. Occorre prendere parola e re-agire fuori dai recinti identitari.
In questa direzione, come primo passo, si è deciso di impegnarsi collettivamente perché nessuno rimanga solo a fare i conti con procure e commissariati. Organizzare per questo una campagna per far fronte alla morsa repressiva che si sta impiantando per controllare il crescente disagio sociale e disinnescare il conflitto contro la riorganizzazione del capitale e le politiche europee di austerity. Costruire una rete di solidarietà che si doti come prima cosa di una cassa per le spese legali, l’attivazione di una mailing list per coordinarsi ( https://www.autistici.org/mailman/listinfo/liberta15ott ) e un blog (http://liberatutto.noblogs.org/) per aggiornare le informazioni sui processi e comunicare le varie iniziative.
Si è deciso di scendere questa settimana in piazza, di chiamare Roma a dare una risposta. Le stragi e i disastri colposi che si sono verificati in queste settimane in tutta Italia, a partire dalla nostra città, ci danno il vero parametro della distruzione e del saccheggio che subiamo nei nostri territori, giorno per giorno sulla nostra pelle, niente di paragonabile a dieci vetrine infrante.
L’assemblea si è aggiornata per mercoledì 9 alle ore 20:00 al CSOA Ex SNIA per continuare il dibattito e per organizzare un presidio per sabato 12 novembre in solidarietà con Giovanni Caputi, Fabrizio Filippi, Leonardo Vecchiolla e Carlo Seppia gli unici a cui non sono state derubricate da carcere a obbligo di dimora fra i 14 arrestati durante e dopo il 15 ottobre. Un occasione per rompere il divieto di manifestare imposto da Alemanno e Maroni, per dare una risposta di massa alla criminalizzazione delle lotte, per la libertà di movimento, per la libertà di tutti gli arrestati e le arrestate.
PRESIDIO DI FRONTE REGINA COELI
SABATO 12 NOVEMBRE DALLE ORE 15:00
LUNGOTEVERE GIANICOLENSE
Per far sentire la nostra solidarietà a chi è ancora in carcere possiamo scrivere agli indirizzi forniti su http://liberatutto.noblogs.org
Per Sottoscrivere per le spese legali di tutti e tutte gli arrestati e le arrestate: venendo negli studi di ROR in Via dei Volsci 56 a Roma, tutti i giorni dalle 8 alle 21; oppure compilando un bollettino di conto corrente postale CCP n. 61804001 intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma. Causale: “15 ottobre”; effettuando un bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001 Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001 Causale: “15 ottobre”.
Ispezioni in carcere, chiunque può accompagnare i parlamentari
Non siamo abituat@ alle buone notizie ma questa volta è innegabile.
Avevamo parlato proprio pochi giorni fa del processo che si sarebbe svolto contro le mamme di una compagna e un compagno e la consigliera regionale Anna Pizzo, per un ingresso in carcere che secondo la magistratura era illegale. Quando di legale quegli arresti avevano veramente poco, visto l’impianto accusatorio, poi caduto.
Delle mamme che riescono a vedere i loro figli, privati della possibilità di aver colloqui, attraverso l’accompagnamento di un parlamentare (o consigliere regionale) in visita in carcere.
C’è stata la piena assoluzione, e ne sono entusiasta
Assolta la consigliere regionale Anna Pizzo
Ispezioni in carcere, chiunque può accompagnare i parlamentari
di Paolo Persichetti, Liberazione 6 maggio 2011
I parlamentari o i consiglieri regionali che conducono visite ispettive nelle carceri possono avvalersi dell’ausilio di accompagnatori di loro scelta. Membri del governo, parlamentari europei, sindaci e presidenti della provincia, magistrati a capo dei tribunali e delle procure dove hanno sede le carceri, presidenti delle Asl competenti per territorio, garanti dei detenuti ed altri ancora. E’ piuttosto ampia, anche se ancora del tutto insufficiente per rendere le mura delle prigioni trasparenti, la schiera di figure istituzionali che possono entrare nelle carceri per condurre visite ispettive senza previa autorizzazione. Nel corso delle visite queste autorità possono avvalersi delle presenza di accompagnatori, anche questi autorizzati a varcare la soglia degli istituti di pena senza necessità di nessuna autorizzazione. Lo prevede l’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario.
Una prassi consolidata, che tuttavia non è indicata nella norma, contiene il numero degli accompagnatori ad un massimo di due a testa. L’amministrazione penitenziaria non ha alcuna autorità per introdurre limitazioni ad una norma di legge. Lo ha ribadito ieri con una decisione lampo il gip del Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi su una denuncia depositata nel dicembre 2009 dalle direzioni del carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile contro l’allora consigliera presso la regione Lazio, Anna Pizzo, insieme alle due persone che l’avevano accompagnata durante le visite nei due istituti di pena. Si trattava delle madri di due giovani di un centro sociale della Capitale, il Macchia rossa, situato nel popolare quartiere della Magliana e finito al centro di un teorema accusatorio ispirato da alcuni esponenti locali del Pdl, ex An, che avevano come unico scopo quello di sloggiare l’occupazione, da parte di una decina di famiglie senza casa, di una scuola abbandonata da anni. Occupazione che ostacola la realizzazione di alcuni lucrosi progetti speculativi (cf. Liberazione del 10 dicembre 2009).
I due, Gabriele e Francesca, erano finiti in carcere e si trovavano in isolamento. Poche settimane prima, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, Stefano Cucchi era morto nel reparto carcerario dell’ospedale Pertini dove era finito dopo le percosse subite prima di passare davanti all’udienza di convalida dell’arresto in tribunale. Sui media campeggiavano da giorni polemiche e denunce sulle condizioni in cui si svolgevano i fermi nelle stazioni dei carabinieri e nei sotterranei del tribunale di piazzale Clodio. La visita in carcere venne realizzata per verificare le condizioni di salute e di detenzione dei due giovani e nel rispetto delle procedure previste. All’ingresso dei due istituti la consigliera regionale e le due donne che l’accompagnavano si videro obbligate a compilare un prestampato dell’amministrazione penitenziaria nel quale era indicata, senza altra possibilità di scelta, la funzione di “collaboratore” (da intendersi come figura stabile e continuativa) per qualificare il ruolo di accompagnatrici. Nel declinare le loro generalità le due donne fecero presente di non rientrare in quella fattispecie, ma poiché la burocrazia penitenziaria non prevedeva altre possibilità furono costrette a riempire l’unica casella esistente. Sulla base di queste dichiarazioni, in qualche modo “imposte” per un’imperizia burocratica dovuta ad una forzata interpretazione restrittiva della legge, le direzioni dei due istituti hanno successivamente inviato una segnalazione in procura provocando l’apertura d’ufficio di un procedimento penale per false dichiarazioni. «Il fatto non sussiste», ha stabilito il Gup.
Sotto processo le mamme di compagni e compagne: vergogna!
Il 5 maggio p.v.si avvierà l’udienza che vede come imputate le mamme di Francesca e Gabriele e l’ex consigliera regionale di SEL Anna Pizzo.
Il 14 settembre 2009 viene messo in atto un assurdo e scenografico arresto dei compagni, della compagna e di alcuni occupanti della ex scuola 8 marzo. Tali arresti, voluti dal PDL romano, si basavano su accuse false ed infamanti con l’unico scopo di bloccare una piccola lotta sociale in corso che vedeva protagoniste alcune decine di famiglie che, con i compagni del C.S.O.A. Macchia Rossa, avevano occupato l’ex scuola 8 Marzo abbandonata da anni.
Il giorno dopo gli arresti, le mamme di Francesca e Gabriele, accompagnate da alcuni consiglieri regionali, si recano in visita presso il carcere di Regina Coeli e Rebibbia. Il direttore di Regina Coeli Mauro Mariani denuncia la presenza della madre di Gabriele che in quanto familiare diretto non poteva vedere il proprio figlio prima dell’interrogatorio di garanzia. Il suo zelo contagia anche a direttrice di Rebibbia Femminile dr.ssa Zainahi, che a posteriori denuncia la madre di Francesca. La comunicazione della chiusura delle indagini ed il provvedimento di rinvio a giudizio per le mamme e per la consigliera Anna Pizzo seguono di lì a poco con sospetta tempestività, quando i compagni e la compagna erano ancora agli arresti domiciliari.
Le mamme e la consigliera Anna Pizzo sono entrate in carcere perché conoscono la violenza che regna all’interno delle caserme, dei commissariati e degli istituti penitenziari. E’ di soli pochi giorni più tardi l’agghiacciante notizia della morte di Stefano Cucchi: ragazzo assassinato per mano di carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e medici dell’Ospedale Pertini, quelli cioè che dovrebbero essere i tutori della legge, delle buone condizioni di vita all’interno delle carceri e assicurare l’assurdo concetto di “rieducazione” e di quelli che dovrebbero garantire il diritto alla salute ed alla vita. Ma le nostre madri non vengono dalla montagna del sapone, Sconvolte politicamente e ed ancor più emotivamente dall’arresto e da una campagna stampa che ci dipingeva come dei mostri, degli aguzzini, dei razzisti, guerrafondai , dei ladri e come cioè persone prive di qualunque scrupolo, hanno voluto costatare con i loro occhi, che ai loro figli non fosse stato torto un capello. Hanno voluto con la loro presenza dimostrarci la loro vicinanza e solidarietà, per un arresto ingiusto che si era abbattuto su di noi e che stava infamando un intero movimento.
L’aver rinviato a giudizio le mamme e la consigliera Anna Pizzo, è soltanto l’ennesimo tassello di un accanimento giudiziario ed una campagna diffamatoria, come non se ne vedevano da molti anni e che da aprile 2009 ha intessuto la cronaca della ex scuola 8 marzo. Crediamo che questa udienza sia l’antipasto di un boccone ben più ghiotto che vuole mettere a processo non solo i compagni e la compagna ma attraverso loro anche un intero movimento come quello per il diritto all’abitare , che si organizza e lotta. Questo processo vuole mettere alla sbarra la capacità di tanti/e di autodeterminarsi e sottrarsi al ricatto del affitti a nero e dello sfruttamento e riconosce nella lotta e nello strumento della autorganizzazione l’unica possibilità di riscatto politico e sociale.
CSOA Macchia Rossa
Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa
Caso Cucchi: medici indagati, reintegrati
«Abbandono terapeutico». Messi sotto inchiesta per omicidio colposo
Reintegrati i medici indagati per la morte di Stefano Cucchi
di Paolo Persichetti, Liberazione 1 dicembre 2009
Sono stati reintegrati nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini i tre medici indagati per omicidio colposo dopo la morte di Stefano Cucchi. Eppure quanto è trapelato dagli accertamenti medico-legali sul corpo riesumato del giovane, deceduto il 22 ottobre scorso all’interno della struttura ospedaliera dopo una settimana di agonia seguita ad uno, o più, pestaggi e sevizie violentissime (sul numero esatto, e gli autori delle percosse subite, ancora oggi permane l’incertezza), confermerebbe le responsabilità dei sanitari nella sua morte. Il blocco della vescica riscontrato su Stefano Cucchi sarebbe, infatti, compatibile con la paralisi dell’ultimo tratto della colonna vertebrale.
Mentre le lesioni alla schiena e alla testa, seppur serie, non sarebbero state letali se adeguatamente curate. Insomma tutto lascia seriamente supporre che nei confronti di Cucchi vi sia stato un «abbandono terapeutico», una situazione di lassismo e incuria, una sottovalutazione grave e colposa delle sue condizioni di salute e delle cause che le avevano originate. Nonostante ciò, l’indagine amministrativa interna condotta da una commissione, apparentemente composta da personale della medesima Asl, ha sbrigativamente liquidato l’accaduto come «un evento non prevedibile». Nella relazione depositata ieri, si può leggere che l’analisi dei fatti, a fronte del «carattere improvviso e inatteso del decesso, non ha messo in luce, sul piano organizzativo e procedurale, alcun particolare elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l’evento avverso in questione. Contestualizza e configura pertanto l’oggetto dell’indagine sotto il profilo di evento non prevenibile». Per questo motivo Il direttore generale dell’Asl RmB, Flori Degrassi, ha disposto la revoca dell’ordine di trasferimento, preso in via provvisoria il 18 novembre scorso, nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponetti. La diffusione della notizia ha subito suscitato sconcerto e raccolto i commenti negativi del lagale della famiglia, Fabio Anselmo, di Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, e di Luigi Nieri, assessore al Bilancio della regione Lazio, che ha censurato una «decisione affrettata e profondamente sbagliata», rilevando come sia piuttosto inusuale «che la Asl concluda la propria inchiesta amministrativa prima di quella penale».
La decisione presa dalle strutture dirigenti dell’ospedale Pertini non si discosta molto da quello spirito corporativo che ha fino ad ora caratterizzato il comportamento di tutti gli altri attori coinvolti in questo terribile esempio di violenza istituzionale.
Chiusura a riccio e omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio che vorrebbe imporre l’idea della insindacabilità dell’operato di chi agisce in uniforme di Stato. Un atteggiamento viziato da una visione autoreferenziale della legalità e della morale. Alcuni apparati molto potenti non hanno mai accettato di essere messi sul banco dei sospetti e fin dall’inizio hanno operato nell’ombra, mettendo le briglie a un’inchiesta che altrimenti rischiava di mostrare il «re nudo». Mentre negli ultimi giorni nuove testimonianze di detenuti, presenti nell’infermeria di Regina Coeli con Stefano Cucchi, hanno riaperto scenari su violenze precedenti l’arrivo in tribunale, che la procura ha sempre evitato di approfondire ritenendoli privi di riscontri (ma l’inchiesta serve per trovare eventuali riscontri, non per escluderli a priori), da parte degli indagati emerge una nuova strategia. Non più scarica barile tra penitenziaria e carabinieri, ma fuoco concentrico sulla figura di Cucchi, dipinto come uno che entrava e usciva dal pronto soccorso degli ospedali. Un modo per dire che era già «rotto» prima di essere arrestato. E come se non bastasse, vengono diffuse minacce a mezzo stampa facendo circolare notizie sull’apertura di una inchiesta contro i legali della famiglia Cucchi per calunnia nei confronti dei carabinieri. Un modo per dire che gli apparati dello Stato sono santuari intoccabili.
Erri de Luca risponde a Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi
«Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente… E poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato… Certo, bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così»
Carlo Giovanardi, Sottosegretario con delega per la lotta alla droga, “co-ideatore” della legge Fini-Giovanardi.
Senza la quale Stefano Cucchi sarebbe ancora vivo.
Erri de Luca, su Liberazione, risponde alla sua insopportabile dichiarazione con queste righe. Magistrali, come sempre
Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.
Di Erri De Luca:
– Su Sonja e Christian, estradati in Germania
– Sulla morte di Stefano Cucchi
– In te milioni di volte mi sono ingrandito
– Esser vendicati da una donna
– San Paolo e l’attacco al cuore dello Stato
– Ballata per una prigioniera
– Mediterraneo, cimitero liquido
– Emergenza e devozione
– ‘na dissenteria de bombe
– cambierà nome pure l’universo
Le ultime foto di Stefano Cucchi
Stefani Cucchi venne pestato a sangue prima di entrare in carcere
Lo provano le foto prese dal personale penitenziario della matricola del carcere di Regina Coeli
Le immagini scattate 20 ore dopo l’arresto. Sul volto di Stefano Cucchi sono visibili le tracce delle percosse. Era il 16 pomeriggio, a nemmeno venti ore dal suo fermo avvenuto alle 23,30 del giorno prima. I colori sul viso di Cucchi sono quelli dei lividi. Non si può guardare, quel ritratto, l’unico scattato dopo il suo arresto, senza pensare che sei giorni dopo quell’uomo di 31 anni con lo sguardo spaventato, finito in carcere per una dose da 20 euro di hascisc, sarebbe morto. Morte avvenuta il 22 ottobre, alle 6,20 del mattino, nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini
Che divise indossano quelli che hanno ridotto così Stefano Cucchi?

Segni evidenti del pestaggio sul collo, la mascella e lo zigomo di Stefano Cucchi ritratti dalla foto segnaletica presa al momento dell’ingresso in carcere
Violenza e tortura, di Stato
Violenza di Stato? Non è una novità. Stefano è l’ultima vittima
di Paolo Persichetti,
Liberazione 31 ottobre 2009
Stiamo assistendo ad una recrudescenza della violenza statale?
La domanda è d’obbligo dopo l’ultima vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. In realtà il ricorso a pratiche violente da parte degli apparati statali non è una novità. Una semplice disamina di lungo periodo del fenomeno porta a concludere che il ricorso ad un uso brutale, non proporzionato e fuorilegge della forza, è “prassi ordinaria” dei corpi dello Stato. Per i più giovani la memoria arriva alla «macelleria messicana» di Bolzaneto e della Diaz. I più anziani ricordano cosa fossero i commissariati e le carceri del dopoguerra, e cosa accadde nel calderone degli anni 70 con la legge Reale. Dal 1 gennaio 1976 al 30 giugno 1989 vennero uccise dalle «forze dell’ordine» 237 persone, mentre altre 352 rimasero ferite (dati censiti dal Centro Luca Rossi e fondazione Calamandrei). Senza dimenticare le torture contro i militanti della lotta armata praticate nel biennio 1981-1983, dopo il via libera venuto dal Cis, il comitato interministeriale per la sicurezza.
Una squadretta dei Nocs imperversò per l’Italia praticando sevizie apprese dai manuali utilizzati dagli aguzzini delle dittature militari dell’America latina. Manuali redatti dai generali francesi che ne avevano aggiornato le tecniche durante la guerra d’Indocina e poi in Algeria, ed esportate in seguito nella famigerata Scuola delle Americhe . Eppure c’è la sensazione che negli ultimi tempi qualcosa sia cambiato. Analisi sociologiche ci spiegano che le forze di polizia si sono hooliganizzate , basta leggere il libro di Carlo Bonini, ( Acab , Einaudi 2009) per farsene un’idea. Sorta di calco del mondo imbastardito delle curve. La sensazione d’impunità, la forza dell’omertà-ambiente che copre questi comportamenti, hanno attenuato i meccanismi di autocontrollo. Il populismo penale, l’importazione dei modelli di “tolleranza zero”, hanno portato alla costruzione di un nuovo “nemico interno” identificato nella piccola devianza, nei migranti. Una gestione dell’ordine pubblico militarizzata, sommata alla legislazione proibizionista e all’internamento carcerario come soluzione dei problemi, hanno generato un mostro sicuritario che produce un fisiologico esercizio della coercizione che dilaga in violenza aperta, tra fermi, celle di sicurezza, tribunali, prigioni. Negli ultimi anni la cronaca è fitta di episodi del genere: Marcello Lonzi , morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno. Sul suo corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo anni di denunce la procura ha recentemente riaperto l’inchiesta. Due agenti penitenziari sono indagati. Federico Aldovrandi , pestato a morte il 25 settembre 2005 in piena strada dai poliziotti di una volante. Aldo Bianzino , deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia. Sul suo corpo vengono riscontrate «lesioni massive al cervello e alle viscere», provocate prima dell’ingresso nel penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in corso contro ignoti. Stefano Brunetti , arrestato ad Anzio l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un decesso provocato da «emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole». Mohammed , marocchino di ventisei anni suicidatosi il 6 marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, dopo una lunga permanenza in cella liscia. Sei poliziotti della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati per «abuso di autorità contro persone arrestate o detenute». Francesco Mastrogiovanni , morto in un letto di contenzione il 4 agosto scorso dopo un Tso abusivo. Per le molteplici morti violente avvenute in carcere e nelle questure, l’Italia è sotto accusa da parte di alcuni organismi internazionali e dalla commissione europea per la prevenzione della tortura.
Il potere sui corpi è qualcosa di osceno
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine»
Intervista a Carofiglio, senatore PD, magistrato. Di Paolo Persichetti, Liberazione 1/11 2009
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci sono delle regole, nonnecessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per Sellerio ha pubblicato “I casi dell’avvocato Guerrieri”, “Testimone inconsapevole” e “L’Arte del dubbio”, che potremmo definire un vero manuale sulla tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano in faccia e nelle orecchie».
A Stefano Cucchi è accaduta una cosa del genere?
Questo lo dovranno appurare i titolari dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.
Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza di un fermo, possono agire d’impeto prima dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere informalmente interrogato per acquisire notizie utili all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.
Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette, gli offre una sigaretta e quello parla?
Nell’ultimo capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle altre persone è qualcosa di osceno, perché è l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche di quella più facile da violare.
Il corpo di Stefano Cucchi non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per traumi subiti nella fase dell’arresto.
Io non parlerei di una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze, c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza, entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase operativa, quando intervengono modalità movimentate di un arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si tratta di una dimensione difficilmente governabile che si colloca nella fase successiva all’arresto, all’apprensione fisica del soggetto interessato all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione – oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati – sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare con le persone – indagati e testimoni – è in realtà molto più efficace e positiva nelle prospettiva di un’indagine dagli esiti attendibili.
Ci sono analisi sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini, Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in questo modo?
Non si può generalizzare l’atteggiamento di un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore confondere l’uso della violenza che a volte si verifica all’interno dell’attività investigativa con le modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può sempre osservare che in una situazione di barbarie collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si incrementi.
Può anticipare il contenuto dell’interpellanza parlamentare che depositerà la prossima settimana?
Tra le altre cose, ho chiesto chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato. Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà essere spiegata.
Di anomalie in questa storia ce ne sono tante. Sembra che Cucchi in caserma avesse indicato un proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato assistito, per così dire, da un legale d’ufficio.
Se la cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e la sua funzione di controllo.
LEGGI: A Carlo Giuliani, sul suo assassino stupratore e i pestaggi di Milano
Confermati gli arresti per i/le compagn@ della 8 marzo
CONFERMATI GLI ARRESTI PER GLI OCCUPANTI DELLA 8 MARZO!
MOBILITIAMOCI SUBITO PER LA LORO LIBERAZIONE !
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Lunedì scorso, 14 settembre, le forze del dis-ordine si sono introdotte con la forza nell’edificio della ex-scuola 8 Marzo occupata di Magliana, con l’evidente intenzione di sgomberare lo stabile che ospita le famiglie di sfrattati, precari, disoccupati.
Lo sgombero non è riuscito, grazie alla resistenza pacifica ma determinata degli occupanti e delle occupanti, così i carabinieri hanno portato via 5 occupanti che sono stati tratti in arresto.
Contro di loro sono state mosse accuse infamanti, basate solo ed esclusivamente sulle dichiarazioni false di un ex occupante allontanato dall’occupazione un anno fa per aver aggredito la sua compagna.
Queste dichiarazioni sono state riportate ed amplificate nei giorni scorsi anche dalla stampa, con il risultato di aver generato una campagna mediatica intesa a criminalizzare tutto il movimento per il diritto all’abitare, un movimento che evidentemente fa paura a questa classe politica incapace di risolvere problemi come la casa, il lavoro, la precarietà, il reddito, e che teme che queste questioni mobilitino lotte generalizzate.
Oggi il Gip ha convalidato gli arresti per i 4 occupanti che, quindi, rimarranno in carcere fino a che sulla loro situazione non si esprimerà il tribunale del riesame, fra non meno di due settimane. Francesca è stata addirittura trasferita da Rebibbia a Civitavecchia, allontanandola di fatto dalla sua famiglia e da tutti/e noi ancora di più. Il quinto occupante si trova attualmente agli arresti domiciliari, che gli sono stati confermati.
È una scelta punitiva, che dà valore alle parole di un unico testimone, un uomo violento attualmente indagato per lesioni aggravate contro la sua ex compagna e che cova rancori verso gli occupanti dell’8 marzo e che è stato usato per montare un falso e infamante teorema politico-giudiziario contro l’Occupazione!
Gabriele, Francesca, Simone, Sandro e Sandrone devono essere immediatamente rimessi in libertà, perché l’unica colpa che hanno è quella di essere lavoratori precari e non potersi permettere di acquistare una casa.
In particolare chiediamo con forza la liberazione di Sandrone, attualmente recluso presso il centro clinico di Regina Coeli che proprio ieri e’ stato medicato d’urgenza. Affetto da un tumore per il quale e’ in attesa di un terzo intervento chirurgico al San Camillo, dovrebbe ricevere a breve notizie sulla data dell’operazione ma il sequestro del suo cellulare ne rende difficile, se non impossibile, la reperibilità.
A questo comunicato ne seguiranno altri per invitare alla mobilitazione generale nei prossimi giorni per chiedere la liberazione della compagna e dei compagni arrestati e per difendere la 8 Marzo e tutte le occupazioni dei Movimenti di lotta per la casa!
Per adesioni:
occupa@inventati.org
Comitato d’occupazione Magliana
CSOA Macchia Rossa
Tutt@ sotto le carceri romane, per chiedere la scarcerazione dei nostri compagn@
Libertà per la compagna e i compagni arrestati!
Presidio davanti alle carceri di Regina Coeli e Rebibbia
Lunedi 14 settembre 5 compagni di lotta dell’8 Marzo occupata di Magliana sono stati prelevati dai carabinieri in modo coatto alle ore 4.40 di mattina e portati a Regina Coeli e a Rebibbia.
Le forze del dis-ordine si sono introdotti con la forza nell’edificio della ex-scuola che ospita tutti noi: famiglie di sfrattati, precari, disoccupati; ci hanno costretto a rifugiarci sul tetto per difendere il nostro spazio.
Ci hanno detto che era solo una perquisizione, ma il modo di agire era quello di uno sgombero ben organizzato. Non ci sono riusciti e per ritorsione hanno portato via 5 occupanti. Hanno sfondato le porte della varie stanze spaventando anche i bambini che sono stati perfino costretti a saltare il primo giorno di scuola. Proseguono così il gioco e gli interessi dei consiglieri del Pdl come Luca Gramazio, Augusto Santori, Luca Malcotti e dei palazzinari romani, in primis Gaetano Caltagirone e Domenico Bonifici che usano l’arma della diffamazione mezzo stampa, attraverso “Il Messaggero” e “Il Tempo” per colpire al fianco un movimento che fa paura a questa classe politica incapace di risolvere problemi come la casa, il lavoro, la precarietà, il reddito, e che teme che queste questioni mobilitino lotte generalizzate.
Non abbiamo nulla da nascondere.
Le diffamazioni diffuse da sedicenti giornalisti, che qui non sono mai venuti a fare un’inchiesta, non ci hanno fatto recedere dalla nostra lotta perché questa nasce dalla necessità di abitare in una casa e dal desiderio di un diverso convivere, di riprenderci la vita e non sopravvivere.
Per questo, in questi due anni di occupazione, abbiamo recuperato uno spazio pubblico abbandonato al degrado da ben 30 anni, riaprendolo a tutto il quartiere. E’ così che ci siamo guadagnati la solidarietà degli abitanti, molti dei quali, oggi sotto sfratto, si sono conquistati, anni fa e con la lotta, la loro casa.
Gabriele, Francesca, Simone, Sandro e Sandrone devono essere immediatamente rimessi in libertà, perché l’unica colpa che hanno è quella di essere lavoratori precari e non potersi permettere di acquistare una casa. In particolare chiediamo con forza la liberazione di Sandrone, attualmente recluso presso il centro clinico di Regina Coeli che proprio ieri e’ stato medicato d’urgenza. Affetto da un tumore per il quale e’ in attesa di un terzo intervento chirurgico al San Camillo, dovrebbe ricevere a breve notizie sulla data dell’operazione ma il sequestro del suo cellulare ne rende difficile, se non impossibile, la reperibilità.
Questi 5 compagni rischiano di dover passare ancora dei giorni privati della loro libertà personale per un’inchiesta costruita senza nessun fondamento concreto, tanto che le accuse più gravi sono già cadute così come cadranno tutte le altre!
SABATO 19 SETTEMBRE ALLE ORE 17
PRESIDIO DAVANTI A REGINA COELI E REBIBBIA SEZIONE FEMMINILE
Per adesioni:
occupa@inventati.org
Comitato d’occupazione 8 Marzo
Comunicato del comitato d’occupazione 8 Marzo
LIBERTA’ PER LA COMPAGNA E I COMPAGNI ARRESTATI!
NON ABBIAMO NULLA DA NASCONDERE!
NOI NON PAGHIAMO IL PIZZO, NOI LOTTIAMO!
Lunedi 14 settembre 5 compagni di lotta dell’8 Marzo occupata di Magliana
sono stati prelevati dai carabinieri in modo coatto alle ore 4.40 di
mattina e portati a Regina Coeli e a Rebibbia.
Le forze del dis-ordine si sono introdotti con la forza nell’edificio della
ex-scuola che ospita tutti noi: famiglie di sfrattati, precari,
disoccupati; ci hanno costretto a rifugiarci sul tetto per difendere il
nostro spazio.
Ci hanno detto che era solo una perquisizione, ma il modo di agire era
quello di uno sgombero ben organizzato. Non ci sono riusciti e per
ritorsione hanno portato via 5 occupanti. Hanno sfondato le porte della
varie stanze spaventando anche i bambini che sono stati perfino costretti a
saltare il primo giorno di scuola.
Proseguono così il gioco e gli interessi dei consiglieri del Pdl come Luca
Gramazio, Augusto Santori, Luca Malcotti e dei palazzinari romani, in
primis Gaetano Caltagirone e Domenico Bonifici che usano l’arma della
diffamazione mezzo stampa, attraverso “Il Messaggero” e “Il Tempo”
per colpire al fianco un movimento che fa paura a questa classe politica
incapace di risolvere problemi come la casa, il lavoro, la precarietà, il
reddito, e che teme che queste questioni mobilitino lotte generalizzate.
Non abbiamo nulla da nascondere.
Le diffamazioni diffuse da sedicenti giornalisti, che qui non sono mai
venuti a fare un’inchiesta, non ci hanno fatto recedere dalla nostra lotta
perché questa nasce dalla necessità di abitare in una casa e dal
desiderio di un diverso convivere, di riprenderci la vita e non
sopravvivere.
Per questo, in questi due anni di occupazione, abbiamo recuperato uno
spazio pubblico abbandonato al degrado da ben 30 anni, riaprendolo a tutto
il quartiere. E’ così che ci siamo guadagnati la solidarietà degli
abitanti, molti dei quali, oggi sotto sfratto, si sono conquistati, anni fa
e con la lotta, la loro casa.
Gabriele, Francesca, Simone, Sandro e Sandrone devono essere immediatamente
rimessi in libertà, perché l’unica colpa che hanno è quella di essere
lavoratori precari e non potersi permettere di acquistare una casa.
In particolare chiediamo con forza la liberazione di Sandrone, attualmente
recluso presso il centro clinico di Regina Coeli che proprio ieri e’ stato
medicato d’urgenza. Affetto da un tumore per il quale e’ in attesa di un
terzo intervento chirurgico al San Camillo, dovrebbe ricevere a breve
notizie sulla data dell’operazione ma il sequestro del suo cellulare ne
rende difficile, se non impossibile, la reperibilità.
Questi 5 compagni rischiano di dover passare ancora dei giorni privati
della loro libertà personale per un’inchiesta costruita senza nessun
fondamento concreto, tanto che le accuse più gravi sono già cadute così
come cadranno tutte le altre!
GIOVEDÌ 17 ALLE ORE 17.30 A PIAZZA DE ANDRÈ : ASSEMBLEA CITTADINA
VENERDÌ 18 ALLE ORE 17.30 A VIA DELL’IMPRUNETA 51:
CORTEO CITTADINO A MAGLIANA
Per adesioni:
occupa@inventati.org
Comitato d’occupazione 8 Marzo
Arresti G-8 a Roma: video e petizione
La coscienza civile si risvegli, la libertà di dissenso va difesa




Per leggere le firme e lasciare la propria questo è il link http://petizionearrestig8.noblogs.org
Qui invece il video di ricostruzione degli “scontri” dell’altro giorno con il simpatico atteggiamento della Digos
65 anni fa, le Fosse Ardeatine
65 anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine e i suoi 335 uccisi. Evento la cui memoria è necessaria, a maggior ragione in un presente come questo, dove eserciti indossano magliette che deridono centinaia di civili uccisi, dove si mandano avanti guerre contro popolazioni allo stremo, popolazioni in cattività, derubate della loro terra e della loro cultura, del lavoro e del futuro.
Terre dove non si può essere bambini, terre dove marcia un nemico che professa lo sterminio etnico, l’Apartheid, la segregazione con la scusa del diritto alla sicurezza.
SENZA MEMORIA NESSUN FUTURO, SENZA GIUSTIZIA NESSUNA PACE.
OGGI PIU’ DI IERI, ORA E SEMPRE RESISTENZA
L’ennesimo morto tra le sbarre
PER ORA SOLO UN COPIA-INCOLLA DELL’AGENZIA BATTUTA POCO FA.
L’ENNESIMO MORTO IN CARCERE…
«Ancora un morto nelle carceri del Lazio. Ancora un decesso senza motivi apparenti. Quella di venerdì scorso all’interno del carcere di Viterbo è la vittima numero 17 nelle carceri della nostra regione dall’inizio dell’anno. Una vera e propria strage che si consuma nel silenzio di quanti, piuttosto, preferiscono puntare l’attenzione su inasprimento delle condizioni di detenzione e certezza della pena». È quanto dichiara, in una nota, il Garante Regionale dei diritti dei Detenuti Angiolo Marroni commentando la notizia della morte, avvenuta venerdì scorso, di un detenuto di 35 anni nel carcere «Mammagialla» di Viterbo. Sulle cause del decesso di Emiliano L., questo il nome del detenuto, la Procura avrebbe aperto un fascicolo contro ignoti. «Secondo l’Ufficio del Garante dei detenuti – si legge ancora nella nota – Emiliano è il diciassettesimo morto accertato (16 detenuti e un agente di polizia penitenziaria) nelle carceri del Lazio dall’inizio del 2008 contro gli 11 del 2007 e i dieci del 2006. Quelli deceduti quest’anno sono tutti uomini: sei sono stati i suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro i decessi per malattia, sette quelli da accertare o non accertati. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (cinque), Rebibbia (cinque), Viterbo (quattro), Velletri e Frosinone». «In due mesi, dal 13 settembre ad oggi, abbiamo registrato sei decessi, cinque dei quali per cause da accertare – ha aggiunto il Garante dei detenuti – La drammatica conferma che la sicurezza dei cittadini è solo uno dei lati della medaglia: dall’altra parte ci sono, infatti, le precarie condizioni di vita nelle carceri e il
sovraffollamento, che impediscono in recupero sociale dei detenuti. Non possiamo più nasconderci: non basta più parlare di nuove strutture o inventare leggi che creano più carcere, come la recente norma che prevede la detenzione per chi abbandona i rifiuti. Serve invece coraggio per immaginare un nuovo sistema che preveda, per i reati meno gravi, il ricorso a pene alternative e forse più dissuasive»
Omaggio a Cesare Pavese -corrispondenze-
Un piccolo omaggio al mio Cesare, a Cesare Pavese, in attesa del centenario della sua nascita, il 9 settembre. Un piccolo assaggio della sua corrispondenza…ho fatto una scelta “leggera”, che non sfiora le lettere ai suoi maestri, editori, compagni di penna e di vita. E nemmeno le ultime lettere prima del suicidio. La prima è una lettera ad una ragazza anonima, scritta nella fanciullezza..
poi un piccolo assaggio del confino in Calabria, dopo qualche mese di detenzione prima a Torino e poi nel carcere romano di Regina Coeli..
E poi Fernanda. La cara Fernanda Pivano, cresciuta da Pavese come sua alunna al liceo, sua piccola amica e confidente, sua erede valida e meravigliosa.
Tra qualche giorno metterò alcuni stralci de “Il mestiere di Vivere”, suo diario e capolavoro.
A UNA RAGAZZA
Santo Stefano Belbo, 17 settembre 1927, notte
Per tutto il viaggio non ho pensato che a te.
Al tuo volto e alla tua figura continua che tu hai sempre. Ma soprattutto, immerso in una nuvola di dolcezza segreta, ho fantasticato e mi sono inebriato a lungo del dono dolcissimo e indicibile che ho avuto da te ieri senza aver osato sperarlo mai. Nei giorni passati tu mi avevi già confuso di cose belle, di doni semplici e meravigliosi, ma ieri tu mi hai donato nella tua intimità dolce e triste il culmine della vita. Mi hai mostrato la grandezza appassionata e rassegnata del tuo sentimento di essere una creatura altissima che vive davvero di sogni e di dolore e hai saputo nei baci, nelle carezze, nella carezza più pura del tuo corpo, colmare di gioia e insieme convincere di rassegnazione il mio cuore. Sei tornata per me quella che per un istante l’odiosità degli altri e la viltà della mia anima avevano oscurato: un fiore di poesia, un fiore delicato e indicibile, pieno di dolcezza e tristezza, datrice di spasimi e di gioie, un’immagine affinata nella bellezza di un sogno, della vita immensa e umile, di tutte le cose più alte.
Mi fai soffrire, divinamente soffrire ancora, al pensiero di te, del tuo passato e del tuo avvenire, ma ora comprendo, comprendo come non mai. Ho sentito sotto la mia guancia battere il tuo cuore profumato e triste e ho compreso con tutta la mia rassegnazione l’altezza della tua anima che sa sacrificarsi così per donare intorno a sé, a un povero poetucolo inetto, tanta dolcezza di poesia, per il solo amore di regalare una cosa buona a un essere tanto triste e tanto fanciullo.
Tu mi hai fatto e convinto poeta, o mia grande bambina.
Prima di te tutte le mie pagine non erano che sfoghi sforzati e tremendi, fulminei, di lunghe sofferenze grige che a un tratto culminavano in una irresistibile potenza di spasimo, o cose morte stentate e sofferte in segreto e con immensa vergogna. Ma ora dopo la tua apparizione azzurra, che fu per me come una grande melodia, colle note gaie e serene dei tuoi capelli biondi, della tua fragilità di sogno, e con quelle più profonde e dolorose dei tuoi occhi spalancati, del tuo viso buono e sorridente della tua povera anima esile ma tanto dolce che rassomiglia solo alla tua voce e a tutta la tua vita… Vedi mi perdo bambina, a pensare e sognare di te.
Ora dicevo dopo la tua apparizione di sogno, la poesia è diventata una cosa sola colla mia esistenza, e ad ogni istante mi fioriscono in cuore tenerezze, scatti, struggimenti e contemplazioni, gioie vivissime e dolori tristi, spasimi, sogni, tutti fusi e vivificati nell’onda struggente di tenerezza che non mi lascia più e mi pare mi consumi lentamente il cuore. Intorno alla tua figura bella si raggruppano tutte queste ebbrezze del cuore, tu sei il loro corpo e la loro forma terrestre, sei il simbolo vivo delle tempeste e delle calme della mia anima e per te sbocciano tutti i miei canti.
Tu sei per me una cosa sovrumana, altissima e inesprimibile, bambina: sei per me la poesia e la vita, la poesia della vita. Vedi quanta gratitudine debbo avere per te. E ieri, ieri, tu mi hai dato nella rinuncia di te stessa i baci e le carezze e le parole di conforto che tu sola sai.
Oh grazie bambina.
Qua ho riveduto i colli fra cui sono nato nella dolce pianura del fiume, piena d’alberi e la terra del largo declivio dolcissimo dove ho scorrazzato e vissuto bambino: ho riveduto i profili delle colline pallidi di lontananza dove bambino ancora, spaziavo lo sguardo col cuore gonfio, e con parole esaltate alla bocca in un’aspirazione struggente a mondi lontani, tanto lontani, dove si viveva soltanto della musica di quelle belle parole d’amore.
Amavo le nuvole in cielo, allora, a dieci anni. Da allora, di anno in anno, sempre più, il cuore mi si è gonfiato e esaltato e ha goduto dei pochi trionfi, e tristemente sofferto con una gioia che altri non trova nemmeno pallidamente nei piaceri più vivi, e sempre si è agitato e contorto, dettandomi talvolta brevi parole della sua sofferenza viva, sconvolgendosi e stremandosi nel buio, piangendo, fino a ridursi tanto stanco tanto stanco da nemmeno più ricordarsi la sua fanciullezza.
E sei venuta tu bambina a riscuoterlo per un istante e a inebriarlo ancora, di quelle parole esaltate, a farlo vivere “soltanto” della loro musica. Come una di quelle nuvole che mi passavano nel cielo, bambina, io ti amo ora, mio esile sogno dagli occhi perduti nei capelli biondi.
Ciascuno dei ricordi più dolci di quella mia fanciullezza, mi ritorna al cuore con una sorpresa di gioia all’immagine presente di te, che ravvivi e fai bella ogni cosa più vile e dimenticata del mio passato.
E da ieri sei divenuta mia, per sempre, mia senza scampo come è mio tutto il ricordo evanescente tremante dei miei primi anni e delle mie lotte buie: tu sei ora la mia grande poesia, quella che mi è nata senza che io sapessi, in questa vasta pianura disseminata di grandi alberi e rinchiusa tra sognanti colline; quella poesia che ora, dopo lunghi anni di attesa disperata, ritrovo in te, chiara e straziante, e travagliata, armoniosa, indicibile e struggente, come te, te sola.
E’ questo bambina, l’amore che io ho per te.
Ma tu non dovrai mai dar cagione di dolore a Lui (tu sai) distruggergli anche un solo sogno per amore di me, per lenire anche di una sola sfitta le tristezze grige della mia anima.
Pensa che, a questo, il mio dolore sarebbe forse più grande del suo. Tu ricordi, tu sai, con quanta dolcezza rassegnata ho cercato di avvicinarmelo, di conoscerlo e farmelo amico. Piangerei di vergogna e dolore fremente se lui dovesse soffrire per noi. Io che ti amo, ti adoro di una passione disperata so quanto sarebbe terribile una rovina così grande. Un colpo di rivoltella. Non altro.
E del resto dopo tutto questo tu potrai dire, con un sorriso, “Bah, i poeti sono sempre stati così, impetuosi, ma in breve si stancano di tutto”. Io non risponderò a questo.
Sono triste triste e tanto vile. Ma credi, tutto quanto ti ho detto è la verità, la verità più pura. Tanto pura e tanto sincera che a scoprirla ho provato una gioia immensa.
Dovrò ancora soffrire tanto nell’avvenire, bambina!
E queste sono le mie sole gioie. Non distruggerle non fare anche tu come gli altri, odiosi.
ALLA SORELLA MARIA Brancaleone (al confino in Calabria), 2 Marzo ’36
Cara Maria,
continuo a non ricevere niente. Siete d’accordo col Padre Eterno: lui mi manda l’asma, voi il mal di cuore. Se sapesse che morso da affamato, da squalo, da cancro ha la lontananza, Agata mi scriverebbe. Il libro (Lavorare Stanca) dal 24 gennaio, era indirizzato a Lei.
Non chiedo che una cartolina con la firma. Il 25 è stato il suo compleanno.
Cesare
Quando un uomo invece di scrivere poesie, scrive lettere, è finito.
Brancaleone (al confino in Calabria), 12 Marzo ’36
Siete un mucchio di fottuti. Me ne importa tanto a me di Frassinelli, di quel bischero di Franco, e se mangio all’albergo! Quando la finirete di far finta di non ricevere che chiedo notizie, notizie, notizie, e una cartolina firmata, di Agata? E avete ancora il becco di scrivermi se ho bisogno di qualcosa. Da un mese non chiedo altro. Il confino è niente. Sono i parenti che costringono uno a lasciarci la pelle.
Che vi venga il cancro a tutti.
A FERNANDA PIVANO Roma, Domenica 9 maggio, 1943
Cara Fern,
[…]Ieri era molto scorbutica, e scommetto che era perfino brutta. Invece di escogitare scuse e complici a tutt’andare, studi ché sarà meglio.
[…] Il sesso è la rovina della vita. Ma anche una gran consolazione. Fernanda, apprezzi il sesso che è quello che suscita le lettere e le arti e fornisce di cittadini la patria. Lo apprezzi.
Mi scriva se lo apprezza. Suo
Pavese
A FERNANDA PIVANO Roma, 25 maggio, 1943
Cara Fernanda,
che lei è cattiva ed egoista l’ho sempre saputo, ma neanche io non scherzo e quindi sono disposto a correre il rischio. Ma parliamo di cose più decenti, si è decisa o no a studiare?
Cara Fernanda, quando ci si rifiuta di sposarmi, almeno si ha il dovere di risarcirmi facendosi una cultura e imparandola più lunga di me.[…] O sposi subito il capostazione e smetta!
[…]Fernanda, si mangia poco a casa nostra e, su cinque, tre hanno preso la tosse asinina. L’attendo anch’io, e in questa certezza La saluto caramente, non senza augurarmi che noi due siamo insieme, in una casetta di mare, entrambi con la tosse asinina, a darci i colpetti sulla schiena e confondere i nostri ruggiti.
Suo Cesarino
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