Archivio

Posts Tagged ‘Bambin Gesù’

Le lettere del tuo nome… e quel famoso rianimatore…

8 febbraio 2018 2 commenti

Abbiamo incontrato il primario del Dea del Bambin Gesù precisamente quattro anni dopo. Dopo che cosa?, ti starai chiedendo tu!

Era fine dicembre del 2013 quando lui e la sua equipe ti condannarono all’ergastolo con aria dura e sommessa: “il bambino non sarà mai svezzato dalla ventilazione meccanica, non prenderà mai coscienza di sè e dello spazio intorno a lui, ma sarà comunque una vita che voi dovrete accogliere”. Fine pena mai, per te e per tutti noi, compreso il tuo fratellino che ti aspettava da tempo ormai, fuori quella porta e non sapeva se mai ti saresti svegliato da quel sonno eterno che per te era stabilito, con tanto di carezza del Signore.

Lo abbiamo rincontrato dopo 4 anni al bar della sede di Palidoro di quello stesso ospedale: tu cercavi di conquistare ogni discesa in velocità sulla tua sedia e ci sfuggivi di mano continuamente. Lui ti ricordava bene, ricordava me che tanto implorai loro di non accanirsi sul tuo corpo avendo di risposta solo sguardi di commiserazione e risposte del tipo “ogni vita donata dal Signore merita di essere vissuta”. Tante parole che pensavo di aver dimenticato e invece sono arrivate tutte come un fiume a battermi nelle tempie dentro quell’affollato bar. Ogni tanto anche la mia voce e i miei occhi tremano.

Anche l’annientamento della sua sentenza davanti ai suoi occhi, che eri tu sfrecciante e autonomo sulla tua sedia, ha trovato sostegno nel “Signore”. È solo merito del signore, ha detto forse dieci volte in tre minuti, se tu Sirio sei così

E invece manco per il cazzo!!! Se sei uscito dallo stato vegetativo non è grazie al signore ma grazie a decine di colleghi di quell’uomo che fortunatamente credono che la vita sia altro e che si possa provare a conquistare, se sei quello che sei così da lasciarlo a bocca aperta è grazie a te, grazie alla scienza, grazie al sudore di decine di persone che investono su di te, grazie ad un enorme mondo che le rianimazioni NON conoscono e invece dovrebbero.

Dovrebbero eccome, prima di regalare ergastoli, prima di costringerci ad implorare morte.

Ti ringrazio Sirio, perché a quell’uomo l’altro giorno hai insegnato a tacere. Anche se per poco, anche se con le sue risposte celesti in tasca, l’hai ammutolito.

Come fai ogni giorno con noi.

W la rivoluzione, #inculoallostatovegetativo

Quando gli ftalati non fanno male… i bimbi disabili non hanno diritto a questa tutela

18 giugno 2015 3 commenti

La tracheostomia

A quanto pare per il Ministero della Salute esistono bambini di vari livelli, bambini da tutelare fino ad ogni sonaglino che passa per le loro manine, a bambini che possono morire silenziosamente, senza suscitare alcun effetto. Ricordo la campagna del Ministero, il loro splendido opuscolo dedicato agli ftalati: mai avrei pensato che avrebbe potuto generare dentro di me questa malsana dose di rabbia e frustrazione. Gli ftalati son prodotti chimici che lo stesso ministero della salute definisce “sostanze tossiche per la riproduzione”, e spiegano che “il motivo della restrizione è dovuto al pericolo di esposizione che può derivare dal masticare o succhiare per lunghi periodi di tempo oggetti che contengono ftalati”. Vorrei chiedere a chi ha scritto quell’opuscolo, con tanto di timbro ministeriale, se sa che esistono centinaia di bambini meno fortunati, che come problema non hanno l’esposizione a sonagli, bambole, materassini gonfiabili e quant’altro, ma che sono tracheostomizzati, o comunque hanno dimestichezza costante con dei sondini da aspirazione (ma quelli son più fortunati).

Una cannula per tracheostomie

Vi spiego: mio figlio è portatore (si dice così) di una tracheostomia dall’ottobre del 2013. La tracheostomia è dotata di una cannula che si inserisce nella trachea del bambino e lì rimane, permettendo un canale pulito, pulibile, aspirabile, e cambiabile ogni 28-30 giorni. Come un ciclo mestruale, noi cambiamo mensilmente la cannula al nostro bambino: la tiriamo fuori dal foro sulla sua trachea e inseriamo la cannula nuova, pulita, che medicheremo per i trenta giorni successivi. La cannula è lì, posizionata sul suo collo e inserita per diversi centimentri all’interno del suo corpo, nel canale naturale costituito dalla trachea: la cannula di mio figlio e di tutti gli altri bambini è composta da FTALATI. Se guardate il suddetto opuscolo, parla proprio di DEHP (ftalato di bis 2etilesile) come di quello più pericoloso, assolutamente da togliere da ogni giocattolo (ovviamente c’è un riferimento chiaro e tondo alla Cina).

sondini da aspirazione

Vi è chiaro il concetto?? Gli ftalati son tossici nelle principessine, nei soldatini e nei sonagli dei bebè e questo è cosa pericolosissima: però per il Ministero della Salute possono essere conficcati da più di 20 mesi e chissà per quanto ancora nella gola di mio figlio. Per 4 mesi, quest’anno, la Covidien, ha fornito alle Asl (che però hanno provato a rifilare per mesi quelle con ftalati di cui probabilmente avevano magazzini pieni) delle cannule prive di ftalati: grande gioia, pensavamo finalmente di esserci liberati di quella monnezza tossica presente nella trachea di nostro figlio. Ma niente da fare: senza alcuna comunicazione, son tornate quelle vecchie, con il bel simbolo DEHP ben visibile sul lato della scatola, perchè “le altre son state ritirate”. Ora mi piacerebbe avere una bella risposta da qualcuno. Siamo stati 11 mesi ricoverati al BambinGesù e abbiamo aspirato con i sondini nostro figlio decine e decine di volte al giorno con dei sondini della marca Pennine, anche quelli con uno splendido simbolo DEHP su ogni confezione. Arrivati a casa, abbiamo ottenuto gli stessi sondini della marca Rusch, che fortunatamente non ne contengono. Anche qui mi piacerebbe capire come possa un ospedale così attento ai suoi piccoli pazienti, mettere a disposizione per i degenti solo sondini considerati “tossici” (I sondini si inseriscono nelle stomie, o anche nei genitali per effettuare cataterismi, ed entrano per più di 15 cm nel corpo del paziente: ma son tossici, quest’è).

Noi il cambio cannula lo abbiamo dovuto effettuare, sono stata io con le mie mani ad inserire nella gola del mio bambino di nemmeno due anni, un ausilio passatomi dallo Stato e contenente una sostanza tossica che assolutamente va tolta da ogni giocattolo e prodotto di cartoleria per salvaguardare la salute dei figli. Dei loro figli a quanto pare. Non dei figli di tutti.

Al nostro piccolo Ginseng, che ci ha lasciato con un gran vuoto

24 febbraio 2015 3 commenti

La prima volta che sono entrata in quella stanza il cuore mi batteva forte.
Tiravano mio figlio fuori da un’incubatrice da trasporto dove appariva enorme rispetto alla prima volta che ci era entrato, quasi sei mesi prima.
Iniziava un viaggio nuovo che non sapevo come affrontare: da un reparto intensivo dove potevo vederlo solo qualche ora al giorno ad una grande stanza divisa tra tre famiglie, che sarebbe stata la mia cuccia per un lungo e rivoluzionario semestre, notte e giorno. Entrando in stanza notai subito lui (che chiamerò Cheng).

Cheng sembrava guardarmi, io avevo paura a guardare lui.
Avevo visto solo scriccioli, minuscoli scriccioli delle terapie intensive neonatali, che anche nelle situazioni peggiori sembrano sani e perfetti: approdavo in un reparto dove basta uno sguardo distratto e da lontano per capire quanto la natura sia strana, diversa, infame. Ancora ero inesperta, ancora non sapevo, ancora il mio sguardo faceva fatica a poggiare su una disabilità così manifesta, deformante, totale.

Cheng sembrava guardarmi, sembrava infastidito dal trambusto degli ambulanzieri che salutavano riportandosi via quella cosa orrenda che è un’incubatrice da trasporto, sembrava infastidito da noi, nuova famiglia ad occupare un letto che era stato liberato poche ore prima.
Finalmente.
Cheng era un bimbo strano: un bimbo con una patologia genetica mai capita veramente. Come il mio bambino respirava attraverso una tracheostomia e mangiava con la gastrostomia. Aveva un visetto tondo e grande, un mix dei suoi lineamenti asiatici e delle strane ignote malformazioni che lo avevano colpito dal momento del suo concepimento.
Cheng non aveva una mamma accanto a lui: era un bimbo abbandonato come se ne incontrano diversi.
Un bambino abbandonato ma mai solo: intorno a lui c’era sempre qualcuno, sempre coccole, sempre regali, sempre bagni profumati e cambi soffici, terapiste e piccole passeggiate con i volontari.
Cheng era un po’ il nostro cucciolo, Cheng per me è stato un grande amico.

Cheng mi ha insegnato quali sono i rumori della notte per una mamma di un bimbo trachestomizzato,
Cheng mi ha insegnato che si può essere sordi e ciechi ma vedere e sentire tutto,
Cheng mi ha insegnato che non si deve smettere di parlare con i sordi,
Cheng mi ha insegnato che anche da ciechi si può avere una mira incredibile (che gran campione di sputi sei stato!)
Cheng mi ha insegnato che sì, la faccia può rimanere imbronciata anche per sempre.

Buon volo, piccolo calabrone adorato. Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare. Igor Ivanovič Sikorskij

Cheng aveva trovato una nuova mamma,
malgrado le malformazioni, malgrado la genetica, malgrado la ormai quasi costante ventilazion meccanica.
Cheng ha preso un aereo, ha conosciuto una casa e un’isola che l’ha accolto,
Cheng è riuscito ad uscire da lì e non da solo.

E mi mancherà.
Sapere che non c’è più mi lascia il vuoto, anche se la sua era una vita che è difficile definir vita.
Io gli sono grata per tante cose, e sempre ti porterò nel cuore piccolo Ginseng della neuro.
Quando sei partito con la tua nuova famiglia io era abbracciata a quella vecchia,il reparto di neuroriabilitazione che per molto è stato casa tua e anche madre. Tra le lacrime di chi ti salutava emozionato c’ero anche io… Sapere che non ci sei più mi spacca il cuore in due.

Nel tuo nuovo viaggio non ci saranno tracheostomie ne solitudine, non sentirai quel cazzo di rumore quando ti staccavi il ventilatore, nessuno rischierà uno dei tuoi sputazzi straordinari. Ti ho voluto un gran bene piccolo grande combattente imbronciato e te ne vorrò sempre.
Mi hai insegnato tante cose che mi permettono ogni giorno di lottare. Lasci il vuoto dentro a tante che ti han fatto da mamma al posto della tua… Ora impara a respirare bene eh. Mi raccomando….

LEGGI:
Il cuore di un bimbo di 2kg, dimesso troppo presto
Il monitor
Il pianto neurologico
La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
La caduta degli angeli
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione
Imparare a contare
Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte

Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte …

9 ottobre 2014 10 commenti

In tutti questi mesi io c’ho provato tante volte a trovare le parole, l’ho fatto qui, l’ho fatto in tanti (e tanto odiati) quaderni che compravo e poi abbandonavo dopo poco che l’angoscia li pervadeva, le ho perse e ritrovate tante volte provando a scrivere a tuo padre.
“Tanta letteratura” così è iniziato il nostro amore, sulle parole e la carta che viaggiava dentro e fuori una cella: poi chi è più stato capace di scrivere.
Io, la tua mamma, piccolo Sirio, ho provato a raccontare quel nostro anno di ospedali, monitor, urla e respiri al rumor di moka, quelli dei bimbi tracheotomizzati, ma solo poco fa son riuscita a parlar di quei giorni,
di quel cuore dimesso troppo presto, nella stolta sublime gioia di tutti noi.

Oggi è il tuo papà a trovar le parole, dopo tanto tempo
a raccontar la tua storia, piccolo Sirio, tra le sue pagine…
e non posso non metterle anche qui, in questo tentativo timido che ogni tanto faccio di raccontare la tua storia,
perché credo che il dolore vada raccontato, l’ho sempre fatto con quello degli altri, non posso desistere davanti al mio e a quello di chi amo,
perché forse il solo modo che avremo di combattere la disabilità sarà quella di raccontarla per renderla a te, a noi e a chi ci circonda il più normale possibile, perché la tua battaglia è bella e la bellezza è di tutti.

LETTERA AD UN BIMBO NATO DUE VOLTE:

Sirio è a casa! sta qui vicino a me nella culla!

Nonostante l’ipotermia il suo viso è molto dolce

1503290_10152085712818429_803803905_nCaro Sirio,

ti scrivo questa lettera con la speranza che un giorno tu possa leggerla, magari condividendola con tuo fratello. Mi piace pensare che tu possa arrivare a farlo con quella voce che ogni tanto ci fai sentire. Ammaliante come un piccolo canto delle sirene, inno di battaglia che annuncia la tua voglia di vivere, forza incredibile che guardiamo con stupefatta ammirazione, imparando da te ogni giorno la fatica dei piccoli gesti, la conquista quotidiana della vita.

Un anno fa, il 4 ottobre 2013, nascevi per la seconda volta. Quel giorno hai conosciuto la morte. Il tuo cuore si è fermato. Non sappiamo perché. Nessun dottore ha saputo dircelo con esattezza. Qualcuno ha parlato di Alte-Sids, la morte improvvisa del lattante (Sudden Infant Death Syndrome), comunemente conosciuta anche come “morte in culla”.
Nei testi scientifici la descrivono come una morte improvvisa e inaspettata del neonato, fino a quel momento sano, che si verifica preferibilmente durante il sonno e che rimane inspiegata anche dopo l’esecuzione di un’indagine completa comprendente l’autopsia, l’esame delle circostanze del decesso e la revisione della storia clinica del caso.
Eri a casa da otto giorni, dopo averne trascorsi 41 in ospedale per la tua “prematurità” che – come dice nonno Oreste, anche lui settimino come te – dovrebbe definirsi immaturità, poiché è prematuro colui che matura prima degli altri, non dopo.
Da appena due giorni avevi superato la prima visita di controllo con un profluvio di elogi che hanno assunto poi il senso della beffa.
Tua madre conosce a memoria le cartelle cliniche. Ha letto ogni particolare dei diari medici e infermieristici decifrando le scritture più incomprensibili. Per alcune settimane hai sofferto di bradicardie, la prima l’hai fatta davanti ai miei occhi, una sera, quando eri ancora in incubatrice. Hai reclinato il capo, come quel mattino, perdendo i sensi. Non volevo più andarmene dall’ospedale. Non volevo più abbandonarti dopo quello che avevo visto. Ti eri spento all’improvviso, tu che ti agitavi come un pesciolino nell’acquario e facevi sentire la tua voce acuta. Rientrato a casa non trovavo le parole per raccontarlo a tua madre.
“Un fatto normale in un immaturo nato a trenta settimane”, spiegarono i soliti dottori. Un disturbo momentaneo, dovuto all’immaturità dei centri nervosi che regolano battito e respirazione. Alla trentaseiesima settimana sarebbe tutto scomparso.
Ed alla fine della trentaseiesima ti hanno mandato a casa, nonostante sei giorni prima avessi avuto ancora una pesantissima bradicardia. Episodio che aveva richiesto un intervento manuale dell’infermiera. Ma a noi, ignari, sembrava una liberazione. Anche tu a casa, finalmente. “La casa di Sirio” non sarebbe stata più il Gianicolo, come era convinto tuo fratello.
1379668_10151721535593429_25546666_nEra un giorno felice dopo il parto anzitempo e la lunga degenza in ospedale. Tua madre sembrava una libellula con quel grembiule verde ancora indosso. Non l’ho mai più vista così felice. E Nilo non si tratteneva dalla gioia quando sei entrato a casa, aveva finalmente il fratellino con cui poter giocare.
Otto giorni dopo la morte si è infilata nel tuo letto.
Oggi il dubbio è un tarlo. La tua vita attuale è dipesa da quella dimissione affrettata e senza ausili protettivi, come un banale ossipulsimetro? Per poche centinaia di euro sei ora costretto a lottare contro una tetraparesi, con una tracheo in gola e un rubinetto nello stomaco?
La domanda ci tormenta perché tra le tante ingiustizie che scolpiscono la vita tu hai subito la peggiore.
Riposavi accanto a mamma. La sera prima ti avevo adagiato sul petto di tuo fratello e ti eri addormentato su una mia spalla mentre lavoravo al computer. Quella mattina ci avevi salutato col pianto del lattante affamato mentre uscivamo per andare a scuola. Allora la morte è venuta, gelida ed avida. Ma quel giorno è dovuta ritornarsene a mani vuote.

Questo voglio raccontarti, quell’incredibile catena umana che quel mattino ti ha ridato la vita strappandoti dalle mani di colei che tutto oblia. Voglio raccontarti quella furibonda lotta, la folle corsa verso l’ospedale. Quei tredici interminabili minuti. Anche se quanto avvenuto in quei momenti è niente di fronte al cammino che hai fatto nel frattempo.

Un urlo strozzato mi è entrato nelle ossa all’apertura della porta.
Non avevo risposto alla chiamata di tua madre perché stavo salendo le scale.
“Ma che è morto? E’ morto!”.
Stravolta, tua madre m’è apparsa sull’uscio del corridoio. Eri immobile tra le sue braccia aperte. Una di quelle madonne palestinesi che corrono senza meta nelle strade impolverate per mostrare al mondo il figlio trucidato.
Non ci ho creduto, Sirio. Non ci ho mai creduto. Sono pazzo, lo so!
Ho lasciato cadere le cose che avevo tra le mani e ti ho stretto a me. Ho preso la tua nuca ed ho cominciato insufflarti aria, poi giù per le scale verso l’ospedale. Tua madre dietro seminuda con le scarpe in mano.
Le tue guance perdevano calore ma il tuo viso era dolce, i tuoi occhi addormentati. “Sirio” – gridavo – “respira”. Ma dal tuo naso è uscito solo sangue. Due rivoli di sangue provocati dalla rottura dei capillari, ci hanno poi spiegato i medici. Un sapore portato in bocca per giorni.
1044777_10151679631563429_345110417_nSaltavo gli scalini quattro alla volta, soffiavo aria e tenevo ferma la tua testa. Conquistato il cortile arriviamo al cancello, poi in strada verso la macchina che ci ha subito tradito. Batteria completamente scarica. Tua madre fa un primo tentativo, poi un secondo. Ci guardiamo, “Via, lascia perdere. Andiamo a piedi, fermiamo qualcuno”. Usciamo di corsa, “Prendiamo il motorino” – dice lei, ma di fronte a noi c’è Mimmo, un vicino che sta prendendo la sua autovettura ed ha visto tutta la scena. Ci fa segno, “Salite vi porto io”.
Salgo davanti, mamma monta dietro e si parte. Intanto continuo a soffiarti la vita dentro ma non reagisci. Ti gonfi come un palloncino. Sento il tuo petto riempirsi e poi svuotarsi tra le mie mani.
Ci vuole il massaggio, mi dico. Anche se la posizione non era la migliore, provo a fare pressione sulla cassa toracica ma ho subito paura. Mi sembra di farti solo del male.
Intanto il cuore batte in gola, quello mio. Accade così quello che poteva essere l’irreparabile. La morte trova un alleato sicuro nel traffico. Una lunga fila blocca la strada all’altezza del primo semaforo. Non c’è scampo. Non si può fare inversione, non ci sono vie laterali dove immettersi. Sembra davvero finita.
Ma io non ci credevo, non ci ho mai creduto. Dovevo ad ogni costo portarti in ospedale, nulla mi avrebbe fermato, come anni prima quando dovevamo raggiungere un obiettivo.
Apro lo sportello e scendo. Ti tengo sempre stretto a me. Comincio a correre tra le macchine senza smettere di insufflarti. Arrivo al centro dell’incrocio, la gente mi guarda, alcuni non capiscono, altri hanno paura. L’autista di un pulman, che è lì davanti, comprende al volo ed inizia a suonare il clacson. Ora sono in mezzo all’incrocio con un neonato in braccio che insufflo, ricordo una nonnina ferma al semaforo. Lei sì che capisce cosa sta succedendo. Con le mani tra i capelli grida: “corri, corri”. Ma le macchine stanno ferme. Faccio segno di avanzare, di fare largo, ma non si muovono. Allora comincio a dare colpi sul parabrezza. Alla guida c’è una signora che ha paura, è terrorizzata, Forse gli prendo a calci la macchina, alla fine si muove. Inizia un concerto di clacson, le macchine si spostano, si apre un varco, Mimmo ne approfitta e viene avanti. Risalgo e ci lasciamo l’incrocio alle spalle. Gli altri semafori saranno clementi, un’onda verde ci apre la strada, Mimmo fa anche un piccolo contromano. La morte non ha più alleati. Intanto non smetto la respirazione bocca a bocca ma siamo finalmente al san Camilllo. Ci dirigiamo verso il pronto soccorso pediatrico, le tue labbra cominciano a scurirsi, salto dalla macchina che è ancora in movimento e mi precipito all’interno. C’è una mamma col bimbo, mi guarda scioccata, la rivedo dopo che piange a dirotto, tutti intorno capiscono al volo, vedo infermieri che corrono. Irrompo nella stanza delle emergenze e ti poggio sul lettino. Mi allontanano, poi ci fanno domande su cosa è accaduto, nel frattempo arrivano le rianimatrici con un enorme borsone. Sono due ragazze, sono loro che faranno ripartire il tuo cuore.
Tua madre piange, io ho solo adrenalina, tanta adrenalina, infinita adrenalina. Si apre la porta, “quanto pesa il bimbo?”. Poi si richiude. Siamo lì che aspettiamo seduti per terra, appoggiati ad un muro. Guardo quella porta chiusa, mi ricorda altre porte, sensazioni già vissute in tribunale, nei processi…. Quando si apre ci sarà il verdetto.
Ancora un po’ e sentiamo dal monitor qualcosa che assomiglia ad un battito. Nessuno esce, forse aspettano che si stabilizzi. Passa ancora del tempo, arriva anche il primario. Poi esce lei, la dottoressa, è giovane, si chiama Chiara. “L’ho salvato – dice – ma non so se gli ho fatto un favore. Dovete esserne coscienti”. Non ci ha illuso, ci ha fatto capire che avevamo l’Everest davanti. Ma io sentivo che eri un grande scalatore. Eri nato di nuovo, il tuo cuore era tornato a battere. Eri intubato. Cominciava la lunga marcia! Come un maratoneta hai iniziato a macinare chilometri. L’ambulanza del Bambin Gesù, la Sten, non ha tardato molto. I dottori avevano deciso di congelarti, rallentare i processi vitali con l’ipotermia serviva a salvaguardare le cellule cerebrali riducendo il danno potenziale dovuto alla lunga ipo-anossia.
Quando si sono aperte le porte abbiamo riconosciuto il viso familiare di un’altra dottoressa. Una delle migliori. Ci ha sorriso, ne avevamo bisogno. Poi sei tornato di nuovo nel posto che tuo fratello pensava fosse la tua prima casa.
Mentre aspettavamo davanti alle porte dell’area rossa ti spogliavano per trasformarti in un ghiacciolino, 33 gradi corporei. Eri ricoperto di cuscinetti ghiacciati, la tua culla aveva la forma di una strana giraffa, eri gonfio, tumefatto dall’insulto, così lo chiamavano quei camici bianchi, sovrastato da macchinari e pompe, tubi ovunque. Ma il viso sempre dolce.
Un posto gelido il Dea, una sorta di Acheronte, con la morte che sta lì in un angolo a guardare chi può prendersi. Tua madre stava impazzendo. Ogni giorno che passava i dottori perdevano la speranza, dicevano che saresti rimasto un vegetale e lei voleva staccare tutto per fuggire via con te, sotto un pino del Gianicolo dove farti sentire l’ultima brezza. Non facevano grande affidamento sul tuo conto, anche se contrastavi il respiratore meccanico hanno voluto farti la tracheo comunque.
fotoIl 15 ottobre hai riaperto gli occhi smentendo tutti, obbligandoli a richiamare persino il primario per riscrivere la diagnosi. Papà già sapeva che da un po’ facevi dei movimenti e una sera li avevi aperti al canto di De André. Hai avuto tanta musica nelle orecchie, dal rock allo zecchino d’oro, ai canti di lotta, alla voce di Nilo che ti raccontava delle storie insieme a mamma fino al giorno che qualcuno rubò tutto. E sì Sirio persino questo ti hanno fatto, il furto di un vecchio ipod e di un mp4 da 19 euro dalla tua culla, quella di un bimbo appena risvegliatosi dal coma. Tu lottavi per restare in vita in un mondo fatto di anime morte.
Poi sono venute loro, delle strane artigiane senza camice bianco che riparano bambini. Li aggiustano, come dice tuo fratello (anche se sostiene di esser più bravo lui), li mettono seduti, li fanno camminare come Geppetto che trasformò un burattino in un bambino.
Continua così Sirio, verrà anche per te il giorno che potrai correre con il tuo amico Lucignolo nel palese dei balocchi.

Papà

*  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *  *

Mi chiedo spesso se sarà mai possibile liberarmene e penso di no.
Ma non esiste nottata, giorno, riposo o dormita profonda che non si ripresenta per intero.
Dallo scossone che pensavo di ucciderlo, al mio urlo, al telefono che non risponde, alle mie lacrime, ai tuoi piedi sulle scale, il rumore delle chiavi che aprono, il cuore che si ferma per trovare le parole per dirti che accade, la voce che esce che è solo urlo.
Le tue lacrime immediate, il tuo urlo, il tuo “respira ti prego”, le scale, io che metto in moto invano, il traffico sulla Portuense, l’autista dell’autobus, la vecchia sul marciapiede, la macchina verde accanto a noi, i visi all’ingresso dell’ospedale.
La faccia dell’infermiere, le lacrime della mamma seduta, i volti delle rianimatrici, la porta chiusa e la morte che mi ballava intorno.
Le scale, la Tin, la pediatra del parto e i suoi ciondoli uno per ogni figlio felice, il sorriso della Piersigilli, io che le salto al collo, Stefania che mi chiede dell’antipidocchi, gli sguardi su di me come fossi assassina.
Il freddo, che stavo con quella canottiera sporca di latte.
La nuova corsa, il gianicolo che aveva colori diversi da 8 giorni prima, la porta del Dea, la porta del Dea, la porta del Dea, gli occhi bassi di Dotta, la violenza della sua bocca aperta e del suo corpo gonfio.
Il freddo.
Vivo tutto ciò ogni fottuto giorno,
spesse volte come un mantra doloroso e raccapricciante.
Che fatica.

Baruda

LEGGI:
Il cuore di un bimbo di 2kg, dimesso troppo presto
Il monitor
Il pianto neurologico
La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
La caduta degli angeli
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione
Imparare a contare

Il cuore di un bimbo di 2Kg, mandato a casa troppo presto

25 settembre 2014 17 commenti

Un anno fa prendevo un batuffolo di 2,020 kg e me lo portavo a casa,

Eccoci, liberi dal passo successivo.. per soli 8 splendidi maledetti giorni

o meglio: un anno fa, il 25 settembre del 2013, la neonatologia del Bambin Gesù (la terapia semi intensiva neonatale) decideva di dimettere mio figlio, entrato quel giorno nella 36esima settimana gestazionale.
“Un portento”, “la Ferrari del reparto”, “un prematuro come non ne vedevamo da anni”… ancora me le ricordo alla lettera, ogni pausa della voce e ogni toccata di palato da parte della lingua: ricordo le vostre voci, ricordo tutte le stronzate che mi avete detto, grandissimi scienziati dai camici pulitissimi, malgrado le tante continue bradicardie, malgrado i pizzichi sotto il tallone per far ripartire quel cuoricino, ogni tanto.
“Ma è normale signora, le bradicardie ci lasceranno all’ingresso della 36settimana”… proprio il giorno delle nostre dimissioni.

Un anno fa finalmente avevo due figli sotto lo stesso tetto,
un anno fa tornavo a casa con un bambino di 2 kg senza un saturimetro, senza un cazzo di niente,
ricordo come ho sceso la salita di Sant’Onofrio, col sorriso nel cuore, leggera come un moscerino allegro, con mio figlio tra il seno e il cuore,
pronta ad iniziare la mia nuova vita.Avevo un figlio minuscolo, sano, straordinariamente bello e vitale; avevo fiducia in quel reparto, in quel primario, in quei medici: che stupida stolta deficiente ero.

Neanche otto giorni dopo il cuore di mio figlio si è fermato davanti ai miei occhi,
neanche otto giorni dopo il motore della Ferrari tanto decantata da quel primario nano sorridente che tanto si crede affascinante, si è fermato.
Fermo, non un solo movimento. E da quel giorno, che era solo il 4 ottobre (8 giorni dopo, 37esima settimana gestazionale), tutto è stato per sempre diverso,
per sempre,
niente tornerà come prima.
Perché se mio figlio è vivo non lo deve ai grandi scienziati, non lo deve al Bambin Gesù, non lo deve alla fretta maledetta assassina con cui è stato dimesso: mio figlio è vivo per quella corsa, per quei 13 minuti senza fiato che ci hanno fatto arrivare ad una rianimazione, mio figlio è vivo per la prontezza di suo padre,
per i calci alle macchine che bloccavano la strada verso l’ospedale,
per le urla, la foga, la corsa, l’arrivo in mutande al pronto soccorso, la certezza della morte, il bip bip bip dopo qualche minuto:
“il cuore è ripartito non vi abbiamo certo fatto un favore però”, mi disse quella straordinaria donna che mi ha ridato la vita di mio figlio in mano.
Lei sì che mi disse la verità quella mattina d’inizio autunno, non certo chi parlava di Ferrari.

Il panorama a partire dal 4 ottobre…

E poi è stato di nuovo Bambin Gesù, perché le cure scelte per lui esistevano solamente lì a Roma,
è stato di nuovo quei corridoi, quelle sale d’attesa dove per 42 giorni ero stata con il cuore leggero,
mentre ora avevo un figlio in coma, un figlio intubato, un figlio con un cuore collassato e con chissà quali danni celebrali.

Ricordo i “sai mi dovevano dimettere ieri a 36 settimane, ma pare sia successa una tragedia e ora non dimettono prima delle 38”,
ricordo gli sguardi bassi, i medici che acceleravano guardando altrove quando incrociavano le nostre occhiaie,
ricordo i “ma signora andava tutto così bene” “può succedere a tutti” “che prontezza avete avuto, bravi”.

Bravi un cazzo, quelli bravi dovevate essere voi, non noi.
Bravi non lo siete stati voi che poi mai più mi avete guardato negli occhi,
Bravi non vi considero,
Vi considero frettolosi, vi considero superficiali, ho visto 6 mesi del vostro lavoro, ho osservato ogni vostro movimento, ho studiato il vostro lessico, ho seguito ogni vostro movimento: ho capito che lì dentro per aver la vostra attenzione si deve stare male, ma male per davvero.
Noi eravamo troppo sani secondo voi, noi eravamo lì a “prender peso”… e invece siamo entrati sani e piccoli,
ne siamo usciti tetraplegici, senza capacità di mangiare e deglutire… senza aver mai fatto più un sorriso. Già… mio figlio non sorride.
Ovviamente quegli stessi medici che mi parlavano della Ferrari mi dissero: “sarà coma per sempre”, “sarà uno stato vegetativo”…
col cazzo! Neanche in questo c’avete preso, neanche in questo!

E sapete che non smetto di pensarci?
Pensavo ci sarei riuscita un giorno, pensavo avrei dimenticato lui sano, quei 42 giorni in cui ho amato quel reparto,
quel 25 settembre di cui sento ancora una gioia totale che mi prende tutta:
ancora ci penso, ci continuerò a pensare a voi, le vostre facce, i vostri sorrisi, i vostri “signora ci dispiace molto” sono tatuati qua,
sul petto per sempre. Per sempre,
ogni volta che guardo mio figlio vedo la vostra fretta, le vostre menzogne, il mio odio per voi,
che sarà eterno.
Sirio non lo meritava, non lo meritava suo fratello: io vi odierò per sempre.

Pillole nosocomiali e neurologiche :
Il monitor
Il pianto neurologico
La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
La caduta degli angeli
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione
Imparare a contare

Il morso che portò via il sorriso e i colori…

26 giugno 2014 4 commenti

Amo la mozzarella, la mangio socchiudendo gli occhi come fosse un piccolo orgasmo ad ogni suo sfiorare le mie papille gustative:
è una delle poche cose che nei mesi all’estero mi mancava di casa. Le sue varie consistenze, il gioco di sapori, la goccia che cerchi di non far scappare…
poi nella vita ho incontrato due mozzarelle che han cambiato tutto.

Ora la mangio lo stesso, ma ogni volta che il mio occhio si sta per socchiudere godurioso penso a Giulio e Patrizia e l’orgasmo si blocca prima di partire,
godo del sapore in modo un po’ più gelido, il mio corpo non vibra come aveva sempre fatto al sol pensiero di quel latte.
Ora nell’assaggio sento il pianto di Giulio, ora nell’assaggio vedo Patrizia che arriva sul suo passeggino posturale e la sua lingua sempre fuori e rigida, portata da una delle sue sorelle…
Giulio e Patrizia erano due bimbi sani di un po’ meno di due anni, entrambi, (vi ho già detto che nei reparti di neuroriabilitazione pediatrica incontri quasi sempre bimbi che eran nati sani, che fino ad un qualcosa accaduto, erano bimbi sorrisi corse manine baci parole suoni gioia) … Giulio e Patrizia erano semplicemente in vacanza, con le loro famiglie, lontani da casa, la scorsa estate.
Giulio e Patrizia avranno provato quella mia stessa goduria nell’assaggiar quella mozzarella forse, magari si saranno messi il ditino sulla guancia per dire quanto era buona, avranno fatto uscire qualche consonante confusa per tentare di averne ancora.

Peccato che lo scorso anno in puglia c’è stata un’epidemia di Escherichiacoli (LEGGI) ,
peccato che quel morso di mozzarella qualche giorno dopo avrebbe cambiato la vita di tutti,
avrebbe tolto a loro la possibilità di muovere il loro corpo, di parlare e riconoscere la propria mamma.
Un morso e niente più voci, niente più sorrisi, niente più gambe che iniziano a correre: vi descrivo quel che si perde, quel che han “acquistato” ve lo risparmio…
Quel maledetto batterio ha attaccato i loro reni e poi è salito fin dove ha potuto.
E ancora se ci penso parole non ne ho per dirvi quel che si prova a sentire questi racconti, a viverci accanto, a vederli crescere vicino a te, che se sei lì vuol dire che qualche altra incudine dal cielo ti si è sfranta in testa (in quella di tuo figlio, che è peggio)…
quando mangio la mozzarella penso che è riuscita anche a mangiarsi un nervo ottico, che ha tolto i colori,
che non ha tolto la vita per un soffio ma l’ha lasciata amputata e dolorante, che ha storto tendini muscoli vita

E allora odio tutto,
odio quel batterio maledetto,
odio chi mi ha dato un figlio di 2 kg, senza la minima coscenza,
odio quella macchina che ha preso in pieno Rudy,
odio la morte che ogni tanto si scorda che potrebbe essere un favore,
odio la vita che quando vuole sa essere proprio infame,
odio il vostro Dio perchè è cattivo,
perchè loro dovevano continuare a sorridere, perché la voce di mio figlio era bellissima e mi manca.
Perchè mi mancano tutte le mamme che ho incontrato e le vorrei stringere tutte. Ora.

La disabilità è una montagna impervia tutta da scalare,
con un predatore che ti insegue affamato: quindi va scalata per forza.
Gambe in spalla, bava sempre presente, continuo a scalare e vi porto tutti dentro,
in un amore infinito.

Maledetta mozzarella maledetta.
Maledetta fretta di dimissioni. Siete tanti ad esser maledetti.

(i nomi son tutti inventati)

Pillole nosocomiali:
Il monitor
Il pianto neurologico
La caduta degli angeli
Gianicolo e desideri
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione

Un calabrone in volo in una neuroriabilitazione

25 Maggio 2014 8 commenti

Ho scoperto che è vero quel che diceva Igor Ivanovič Sikorskij sul volo del calabrone e l’ho scoperto nei 9 mesi di ospedale pediatrico che mi si son appena conclusi alle spalle, soprattutto nella seconda metà di questi, trascorsa tutta in un reparto di neuroriabilitazione pediatrica.

Un calabrone di spalle… che è ora torni a casa…

Una palestra di vita non da poco, cruenta e dolce, capace di sventrare l’anima con le sue storie e allo stesso istante di darti una forza inaudita, in grado di spostare tutte le grandi montagne e sovrastrutture che inevitabilmente abbiamo davanti alle “menti non conformi” e quindi ai corpi.
Penso che spesso parlerò di quel luogo, forse senza nemmeno il bisogno di nominarlo: un’isola di sbarchi improvvisi, dove si arriva barcollando con il proprio fagottello in mano e si esce a schiena dritta (un sacco di cicatrici eh!), ogni tanto per mano a quei fagottelli che lì vedono loro offerta la possibilità di provarci.
L’ospedalizzazione è un carcere che ho dovuto affrontare in molte sfaccettature, da genitore, nemmeno da paziente: ha le sue gerarchie, ha la spocchia di troppi che nemmeno si fermano un secondo per darti una sola consonante valida alla comprensione della tua condizione, ha i suoi raccomandati, i suoi stronzi, le sue oasi di pace.
Ho accumulato tanto odio, ho dovuto braccare camici per aver risposte, ho dovuto correr via da altri camici per non sentir stronzate,
ma ho conosciuto le coccole e gli abbracci degli sconosciuti che ti scaldano più di quelli cari, ho incontrato persone che hanno penetrato il mio cuore con un’umanità che per me e per il mio di fagottello è stato ossigeno.
E allora questo post è solo per dire grazie.
Un grazie che se provo a dirlo scivola sulle lacrime e me lo perdo senza riuscirlo a fermare, perchè sono inevitabilmente copiose.
Ho conosciuto donne che puntano ogni loro granello di forza e impegno su piccoli impercettibili movimenti di un sol dito di una mano,
ho conosciuto donne che riempivano un intero camice azzurro con il loro amore per i nostri bambini e con una fiducia in loro che sempre spiazza noi mamme stanche
Ho incontrato donne che han creduto in ogni grammo di mio figlio,
che più di me son state in grado di notare ogni piccolo movimento, gesto, sussulto, suono,
che mi hanno insegnato a leggere nelle pieghe della pelle e delle ciglia,
che mi hanno portato per mano in un mondo che oltre al dolore mi ha fatto incontrare universi paralleli,
di una forza sovrumana.

Un grazie a chi ha accarezzato la tua pelle per mesi, a chi ti ha insegnato che puoi raggiungere i tuoi obiettivi,
che ogni tuo gesto deve averne e può farlo, un grazie a chi ha cambiato il tuo sguardo curioso in due occhi di lince attenti a tutto e veloci,
un grazie a chi ha aperto quella tua manina, con colori e giochi,
un grazie a chi mi ha insegnato, passo passo, come valorizzare ogni tuo sforzo per renderlo ogni giorno più naturale, più bello, più proiettato verso la vita.
Dalla mia burbera (è tutta ‘na finta) Paola, che ha lo sguardo di una 15enne felice ogni volta che uno dei suoi bimbi fa anche solo un quarto di quello che lei chiede,
a Roberta con cui mi perdevo a parlar di oriente; alla mia Barbara che ha insegnato a Sirio un mondo intero e che crede in lui come fosse una mamma, ormai una sorella della quale non posso fare a meno.
Mi avete fatto innamorare del vostro lavoro, mi avete fatto innamorare dei vostri sorrisi,
così presi ad insegnare ai nostri che ridere in realtà sarebbe una cosa facilissima …
“ma lui ride come un pazzo, siamo noi ad esser sceme e non accorgercene” , e me sa che c’avete ragione.

E poi grazie a Silvia, al suo cazzeggiare, al suo essere l’antiruolo che ha, al calabrone che mi ha regalato.

Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare.
Igor Ivanovič Sikorskij

Pillole neurologiche:
Il monitor
Il pianto neurologico
La caduta degli angeli
Gianicolo e desideri
Verso il ritorno
Mi insegnerai la pazienza di contare
La mozzarella che strappò i sorrisi

Verso il ritorno …

17 Maggio 2014 13 commenti

Le dita di una sola mano;
abbiamo iniziato a scalare quelle io e Nilo, poi sarà di nuovo casa, dopo più di nove mesi.
Sarà di nuovo noi, sarà di nuovo letto, profumo di lenzuola, coccole e moka sul fuoco,

sarà doccia di casa, telefono che squilla,  postino odioso, bar di vecchi bestemmiatori misogeni,  sarà due figli sotto uno stesso tetto, sarà noi quattro, che non sappiamo nemmeno che cosa vuol dire.

Sarà tutto nuovo, sarà una vita nuova che mai purtroppo tornerà sui precedenti binari che non avevan mai meta,
ma sarà comunque la nostra di vita, finalmente lontana dai meandri di un ospedale, anche se non per sempre, anche se magari non per molto.
Ti porto a casa figlio mio, chicco di grano,
ti porto a casa come fosse la prima volta perché l’altra la voglio scordare (maledetti voi tutti),
ti porto tra mura che saran solo tue, che saran lontane da tutte quelle storie di dolore e resistenza che per sempre ormai vivranno con noi.
Ti porto tra colori e profumi di quel che si mette a tavola, ti porto dove c’è la musica, dove il buongiorno è un  “tolassssione” squillante di tuo fratello e un’esplosione di sole che esce dal suo sguardo appena sveglio, ti porto tra la nostra gente, ti porto tra quelli che saranno i volti che piano piano diventeranno casa. Ti porto nel nostro mondo sconclusionato e sognatore, che forse una rivoluzione come la tua non l’aveva manco mai immaginata. Che pensiamo di volar alti, ma non ti pensare sa!
Una quotidianità ormai rimossa diventerà finalmente tua e nostra, di noi quattro che mai siam stati insieme.

Ti porto a casa, ti porto a casa tra pochi giorni, che iniziamo a scalare le dita di una mano sola,
ti porto a casa con il tuo autotreno di materiali, presidi, ausili, volti nuovi  e tanti camici che poi saran corpi fluttuanti per casa: una nuova grande rumorosa famiglia che girerà intorno a te, per te, per costruire insieme una strada che per te sia percorribile.
Ti porto a casa e quindi nel mondo, piano piano,
un passetto di formica alla volta e sarà gioia e tanto dolore: perchè il mondo è cattivo per quelli belli e forti, quindi chissà quanto sarà cattivo per te, più silenzioso e delicato di un ciclamino sotto burrasca, per noi che scopriremo tutto dall’inizio, come non avessimo vissuto prima un sol secondo.
Speriamo di aver spalle abbastanza larghe per poter proteggere il tuo sguardo dolce e curioso… speriamo di aver la forza per comprendere questa vita dove tutti torniam neonati per ricominciare a conoscer la vita.
Ma intanto benvenuto stella mia,
benvenuto tra noi, nel tuo mondo tutto da scoprire,
tra tutti quelli che da mesi e mesi ti stanno aspettando.

 

A partire dalla prossima settimana proverò anche a riaprire questo blog.
Anche queste pagine saranno totalmente diverse da prima, come ogni mio respiro d’altronde, ma non posso negare che ne ho nostalgia.
Ho nostalgia delle parole, ho nostalgie delle scintille rivoltose, ho nostalgia del vento sulle montagne,
ho nostalgia di tanto…
a tra poco

Pillole nosocomiali : il pianto neurologico

27 gennaio 2014 6 commenti

Ho iniziato questo lungo (ancora non imparo ad eliminare la temporalità, il futuro, dai miei pensieri e vorrei provare a non riuscirci) percorso nosocomiale in un reparto di neonatologia, dove tutti i rumori erano sgradevoli e martellanti, tranne quelli dei bimbi.
Il loro pianto, anche se di 12 contemporaneamente, non è mai stato fastidioso: acuto e leggero, coccolava noi mamme sempre in piedi a girare intorno ad un’incubatrice o una culletta…
mano a mano che sono andata avanti, di stanze e poi reparti, ho scoperto che molti di quei bimbi avrebbero perso la voce: la tracheotomia, che in troppi hanno da queste parti li rende muti anche quando non lo sono. I suoni diventano versi che all’inizio fan paura, poi tutto nel suo orrore diventa normale.

I reparti di emergenza ed accettazione invece, così come le rianimazioni pediatriche, ti fanno incontrare improvvisamente ben altre realtà;
la neonatologia diventa un ricordo lontano e quasi dolce, i bimbi lì sembravan sempre tutti sani e belli, anche se non lo erano.
Il loro esser piccoli, il loro pianto dolce e sottile, tutto rendeva comunque soffici quei reparti in cui questi nanerottoli combattono per esserci, dal primo loro istante.
Il DEA e la rianimazione pediatrica invece sono uno schiaffone in piena faccia: lì non esistono settimane gestazionali, non si pesano i grammi.
Si sta tutti insieme, dai 4 giorni di vita ai 18 anni: tutti insieme nella stessa stanza, ad accalcare dolore e sguardi tra famiglie.
Lì si incontra altro dolore, altra ansia: quel quadrato mai potrò toglierlo un secondo da davanti ai miei occhi, mai un solo degli sguardi conosciuti lì dentro potrà entrare in una zona d’ombra della mia memoria.

Al Dea (dipartimento di emergenza ed accettazione) ho scoperto il “pianto neurologico”.
Un corpo nudo e torto di una bimba che sembrava esser stata alta e snella, il cui corpo per una meningite maledetta aveva perso la forma che noi riteniamo normale: il pianto di Manuela non lo dimenticherò mai. Un lamento che lei non conosce e probabilmente non sente, una nenia continua e lacerante che entrava negli occhi della madre per provare a trasformarsi in un vero pianto. Un pianto apparso all’improvviso, insieme a tanto altro, in una vita che era normale fino a poco prima.
Il pianto neurologico non assomiglia per niente al pianto, nè a quello lamentoso, nè a quello disperato: ha un qualcosa di innaturale, sembra avere una provenienza lontana e oscura, ha le sembianze di qualcosa che entra nelle teste per portarne via ogni momento qualcosa.

Da poche ore lo sto riscoprendo,
il nuovo cucciolo nella nostra stanza sono ore che non trova tregua, il ritmo è sempre lo stesso, come ormai il movimento della sua mamma per cercare di calmarlo, chissà da quanto, chissà per quanto…

( tutti i nomi che compariranno nelle mie “pillole nosocomiali” sono inventati)

Pillole nosocomiali: il monitor

19 gennaio 2014 6 commenti

Un po’ di pillole di Bambin Gesù non riescono a non uscire…
quindi piano piano proverò a raccontarvi quel mondo, i suoi rumori, le sue allucinazioni, i dialoghi assurdi, gli incontri straordinari e non…

IMG_6645

Ehi, quella saturazione?! 🙂

Tre linee se tutto va bene,
se sei fuori da una rianimazione le linee spesso son solo tre: frequenza cardiaca, saturazione, frequenza respiratoria.
Poi in basso ogni tot compaiono tre numeri in rosso, divisi da slash e parentesi: la pressione arteriosa
e ancora sotto, verdina, la temperatura corporea esterna ( se sei in rianimazione anche interna).

Verde, azzurro, giallino: le linee corrono costanti, ognuna con la sua curva:
tum tum tum tum, la frequenza cardiaca incanta come un tamburo, ritmico o meno che sia.
Ho conosciuto cuoricini molto metallari, con quel battito che correva che sembrava esplodere da un momento all’altro, e poi eccolo che la linea si allunga un po’ e cambia la melodia che senti ormai nella tua testa,
la musica diventa lenta, la curva cambia le sue pause, poi riprende.
Poi ecco le ondine della saturazione, quella sì che mette in ansia, quella sì che per settimane e settimane ti fa sussultare…
ondine che devono susseguirsi tutte uguale, altrimenti ecco che se il 100 inizia a calare, il colore della pelle muta all’istante, le mucose si scuriscono, i muscoli iniziano a contrarsi… è tutto questione di pochi secondi, e in genere tutto si riprende…
La frequenza respiratoria è quasi rilassante rispetto alle altre; ognuno ha la sua curva, i neonatini la fanno a punta, poi piano piano la respirazione si assesta e quelle punte diventano rettangoli, lenti rettangoli che riempiono la riga, uno dietro l’altro…

I monitor diventano così amici che alla fine li hai talmente dentro di te che non senti nemmeno il bisogno di averli accanto,
i monitor per noi genitori diventano superflui perchè ogni loro variazione già la vediamo, secondi e secondi prima, in ogni movimento imprecettibile dei nostri figli. Quasi ci si gioca a chi arriva prima a pizzicar la bradicardia del momento…
I monitor ora iniziano a perder peso nella nostra quotidianità, sono amici notturni, che hanno smesso di trapanarci le orecchie.

Siamo stati in stanze da 12 cullette, dove spesso tutto suonava contemporaneamente…prima allarme giallino, lento e martellante…
se non si accorre subito anche la frequenza ritmica del monitor si affanna, il frastuono cresce, la luce diventa sempre più rossa e l’aria immediatamente si blocca, insieme al tempo.

Sono il peggior nemico, sono un grande amico, ci son luoghi al mondo in cui anche quei monotoni schermi diventano grandi compagni,
che poi sei felice di lasciare a chi, sfortunato, rimane in prima linea nella guerra contro la morte.
E nel nostro cuore

Gianicolo: desideri davanti al tramonto

13 dicembre 2013 4 commenti

20131213-165734.jpg

Mi piacerebbe farti vedere questo panorama che sfiori da quando sei nato,
Mi piacerebbe donarti quest’aria fredda e questi colori caldissimi,
Insegnarti a distinguere il dolore dalla vita,
Dare ai tuoi occhietti curiosi e da combattente, un orizzonte lontanissimo e profumato.
Mi piacerebbe, piccolo uomo dal nome di una stella, prenderti per mano e camminare scalzi sulla sabbia, sulla terra, sull’erba bagnata; inserire i tuoi polpastrelli nelle fessure di una falesia, vederti sorridere e poi ridere e poi ancora ridere.

Vorrei donarti il mondo tutto, questa luna timida,
queste lucette che si illudono di trasformare questo presente di amputazioni in “festività”..
Vorrei vederti felice, innamorato, ubriaco, arrabbiato… Vorrei milioni di piccole cose, e come una cretina le vorrei ora, le vorrei subito, le vorrei capaci di lenire tutto ciò.
Sei la più bella delle stelle cadute in terra, sei di una forza sovrumana, che spero saprai insegnarmi.
Sei la vita mia, e malgrado tutto, riesci a renderla bellissima…

Pillole neurologiche:
Il monitor
Il pianto neurologico
La caduta degli angeli
Gianicolo e desideri
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione
La mozzarella che strappò i sorrisi
Imparare a contare

La caduta degli angeli… quotidianità di una vita al Bambin Gesù

28 novembre 2013 7 commenti

Ancora uno…
mi basta vedere il cancello della catena aperto per sentire un brivido lungo la schiena
che ogni volta si ripete uguale.
Anche oggi quel cancello maledetto era aperto per uno dei bimbi che ho amato in questi mesi di vita che vita non è,
in questi mesi di monitor, camici, allarmi, geni e germi, encefali e ventricoli, cuori che esplodono.

Pablo Picasso, maternità su sfondo bianco

Oggi il cancello della camera mortuaria era aperto di nuovo: ancora una volta quel bruciore in testa che sembra letale,
le parole che non escono, gli abbracci che son tutto un tremore muto e inarrestabile.
Ho sempre trovato parole per tutto ma non ne trovo una per descrivervi quel posto, quelle nostre vite appese a qualche linea in corsa su un monitor..non ho parole per raccontarvi le pieghe del dolore e quel che avviene attorno ad esso.
Chi lo nutre, chi se ne approfitta, chi semplicemente cerca di prenderci confidenza per imparare a conviverci per la vita, chi invece incontra al volo quello della morte lancinate ed immediato.

C’è chi muore, c’è chi ormai pensa che la morte sia un lusso.
Ti avevo promesso il nostro di cuoricino in uno dei momenti più disperati,
piccolo angelo appena volato. Quando non vedevo altro che il buio più nero, mentre parlavo con la tua mamma,
mi metteva pace pensare che magari potevamo essere la svolta per te… te lo ricordi? Quasi mi ha dato uno schiaffo quando gliel’ho detto, ed ora sento la pelle bruciare come se me l’avesse dato, riascolto dentro di me quella conversazione da quando ho visto quel cancello aperto.
Non hai fatto in tempo, nessun cuore è venuto a dar fiato al tuo futuro… tra poche ore tornerai tra le montagne che ti appartengono e che non hai mai nemmeno visto da lontano.
Noi continuiamo a combattere invece, chissà per arrivare dove… ma tu ci manchi già al nostro fianco, in quel colle dai passeggini sempre vuoti,
dagli occhi gonfi e dai troppi santini.

 

Pillole nosocomiali:
Il monitor
Il pianto neurologico
La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione

Le finestre del Bambin Gesù…. e Repubblica.it

20 agosto 2013 2 commenti

_Bambin Gesù, Padiglione Pio XII post pioggia in pieno agosto_ La foto che ho fatto e che dopo tre minuti era su Repubblica

Incredibile oh!
Questi di Repubblica.it riescono a farmi compagnia anche nei reparti d’ospedale, così compagnia che i miei tweet e la foto che ho scattato un minuto dopo l’incidente al Bambin Gesù, nel “delicato” Padiglione Pio XII, si sono trasformati rapidamente in un articolo siglato con “riproduzione riservata” ovviamente,
articolo d’apertura per ora delle pagine romane.
Hanno preso per intero i tweet e gli scatti, ma come al solito la fonte non la mettono, si ricordano di metterla solo quando ti devono dare della “black blok” e accollarti responsabilità per quello che scrivi (come accadde il 15 ottobre, proprio tra me e loro).

E allora ecco i tweet ,
ed ecco qui il LINK all’articolo :

  •  Baruda@baruda
    Al #bambinGesù con un po’ de acquazzone se staccano le finestre co tutto il telaio #stamoAvanti #limortaccivostra
    2:42 PM – 20 Ago 13
  •  Baruda@baruda
    Da #terapiaIntensiva non abbiamo accesso ai bagno perché le scale per raggiungerli hanno acqua ovunque è finestre che saltano #bambinGesù
    2:47 PM – 20 Ago 13
  •  Baruda@baruda

    Caduta da tre metri: Bambin Gesù, per un temporale estivo…

    È proprio partito telaio, finestra, lampada.. Non me carica le foto ma mo ve le mando #pioggia dentro tutto il padiglione #bambinGesù
    2:54 PM – 20 Ago 13

  • Baruda@baruda La prossima suora che me vole benedì je dico de pijà er cacciavite e rimette i telai delle finestre che volano come frisbee #bambinGesù
    2:56 PM – 20 Ago 13
  • Baruda@baruda  Ecco le finestre di #chirurgiaNeonatale e #terapiaIntensivaNeonatale del #bambinGesù x 2 gocce http://twitpic.com/d9d0p1
    2:59 PM – 20 Ago 13
  • Baruda@baruda  Per vedere mio figlio me vesto da robocop poi invece giocamo a frisbee coi finestroni tra reparti #bambinGesù #terapiaIntensivaNeonatale
    3:03 PM – 20 Ago 13
  • Baruda@baruda
    Che se da noi a #terapiaIntensivaNeonatale volano le finestre non oso pensare ai dirimpettai de #reginaCoeli #mortacciDeTutti
    3:53 PM – 20 Ago 13
  • Baruda@baruda
    Quanto je piace a @repubblicait rubamme la roba oh! #bambinGesù #finestrone #maltempo #datemeLiSordiUnaVoltaUnaTaccivostri

     5:49 PM – 20 Ago 13

    Ecco il buco… volevo chiedere scusa alla redazione di Repubblica per la qualità delle foto, di solito son più brava, pagatele, così uno se compra la macchinetta nuova almeno 😉

    Questi i tweet…non mi sarei mai accorta di quelle foto sul loro milionario sito se non avessi ricevuto diversi messaggi, perché ovviamente stando da 5 giorni lì dentro, come potete immaginare, ho ben altro da fare,
    ma è surreale che questi facciano articoli con materiale preso da twitter, senza manco mette ‘na fonte,
    ma – ripeto – se era da parlare delle “mamme Black blok” mettono pure l’IP se ce riescono.
    Giornalismo surreale,
    che però ha reso molto felice il reparto, che tra acqua a catinelle che andava ovunque, vetri ed esplosioni (un finestrone che cade da tre metri in simili reparti fa saltare diverse decine di persone già belle esaurite), non si aspettavano di ritrovarsi dopo dieci minuti su Repubblica.it (io sì, che ve conosco eccome).
    Noi siamo stati 45 minuti senza poter accedere al solo unico bagno del comparto, con tutte le scale allagate su 4 piani: bella prova per un padiglione distrutto da un incendio due anni fa e TOTALMENTE rifatto ora…da ogni finestra, OGNI FINESTRA, entrava acqua a catinelle…forse non avevano i soldi per il silicone, oltre che per le viti per il telaio…

    Nel frattempo, per chi si era preoccupato per il precedente post:
    mio figlio è talmente libertario che mi ha fatto evadere dal San Camillo, dove dovevo rimanere diverse settimane..
    però nel farmi evadere nascendo così presto, s’è fatto catturare…
    ed ora per un po’ starà lì a prender ciccia ed energie, che già ha da vendere comunque.
    Grazie a tutte e tutti, che siete un portento di solidarietà e calore…
    a presto su questi schermi….
    sperando che una finestra non mi prenda in pieno nel frattempo, grazie all’eccellenza della sanità italiana e dei soldi del Vaticano…

    Ciao a tuttiiiiii!