Archivio
Al nostro piccolo Ginseng, che ci ha lasciato con un gran vuoto
La prima volta che sono entrata in quella stanza il cuore mi batteva forte.
Tiravano mio figlio fuori da un’incubatrice da trasporto dove appariva enorme rispetto alla prima volta che ci era entrato, quasi sei mesi prima.
Iniziava un viaggio nuovo che non sapevo come affrontare: da un reparto intensivo dove potevo vederlo solo qualche ora al giorno ad una grande stanza divisa tra tre famiglie, che sarebbe stata la mia cuccia per un lungo e rivoluzionario semestre, notte e giorno. Entrando in stanza notai subito lui (che chiamerò Cheng).
Cheng sembrava guardarmi, io avevo paura a guardare lui.
Avevo visto solo scriccioli, minuscoli scriccioli delle terapie intensive neonatali, che anche nelle situazioni peggiori sembrano sani e perfetti: approdavo in un reparto dove basta uno sguardo distratto e da lontano per capire quanto la natura sia strana, diversa, infame. Ancora ero inesperta, ancora non sapevo, ancora il mio sguardo faceva fatica a poggiare su una disabilità così manifesta, deformante, totale.
Cheng sembrava guardarmi, sembrava infastidito dal trambusto degli ambulanzieri che salutavano riportandosi via quella cosa orrenda che è un’incubatrice da trasporto, sembrava infastidito da noi, nuova famiglia ad occupare un letto che era stato liberato poche ore prima.
Finalmente.
Cheng era un bimbo strano: un bimbo con una patologia genetica mai capita veramente. Come il mio bambino respirava attraverso una tracheostomia e mangiava con la gastrostomia. Aveva un visetto tondo e grande, un mix dei suoi lineamenti asiatici e delle strane ignote malformazioni che lo avevano colpito dal momento del suo concepimento.
Cheng non aveva una mamma accanto a lui: era un bimbo abbandonato come se ne incontrano diversi.
Un bambino abbandonato ma mai solo: intorno a lui c’era sempre qualcuno, sempre coccole, sempre regali, sempre bagni profumati e cambi soffici, terapiste e piccole passeggiate con i volontari.
Cheng era un po’ il nostro cucciolo, Cheng per me è stato un grande amico.
Cheng mi ha insegnato quali sono i rumori della notte per una mamma di un bimbo trachestomizzato,
Cheng mi ha insegnato che si può essere sordi e ciechi ma vedere e sentire tutto,
Cheng mi ha insegnato che non si deve smettere di parlare con i sordi,
Cheng mi ha insegnato che anche da ciechi si può avere una mira incredibile (che gran campione di sputi sei stato!)
Cheng mi ha insegnato che sì, la faccia può rimanere imbronciata anche per sempre.

Buon volo, piccolo calabrone adorato. Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare. Igor Ivanovič Sikorskij
Cheng aveva trovato una nuova mamma,
malgrado le malformazioni, malgrado la genetica, malgrado la ormai quasi costante ventilazion meccanica.
Cheng ha preso un aereo, ha conosciuto una casa e un’isola che l’ha accolto,
Cheng è riuscito ad uscire da lì e non da solo.
E mi mancherà.
Sapere che non c’è più mi lascia il vuoto, anche se la sua era una vita che è difficile definir vita.
Io gli sono grata per tante cose, e sempre ti porterò nel cuore piccolo Ginseng della neuro.
Quando sei partito con la tua nuova famiglia io era abbracciata a quella vecchia,il reparto di neuroriabilitazione che per molto è stato casa tua e anche madre. Tra le lacrime di chi ti salutava emozionato c’ero anche io… Sapere che non ci sei più mi spacca il cuore in due.
Nel tuo nuovo viaggio non ci saranno tracheostomie ne solitudine, non sentirai quel cazzo di rumore quando ti staccavi il ventilatore, nessuno rischierà uno dei tuoi sputazzi straordinari. Ti ho voluto un gran bene piccolo grande combattente imbronciato e te ne vorrò sempre.
Mi hai insegnato tante cose che mi permettono ogni giorno di lottare. Lasci il vuoto dentro a tante che ti han fatto da mamma al posto della tua… Ora impara a respirare bene eh. Mi raccomando….
LEGGI:
– Il cuore di un bimbo di 2kg, dimesso troppo presto
– Il monitor
– Il pianto neurologico
– La mozzarella che portò via il sorriso
– Gianicolo e desideri
– La caduta degli angeli
– Verso il ritorno
– Calabroni in neuroriabilitazione
– Imparare a contare
– Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte
Il morso che portò via il sorriso e i colori…
Amo la mozzarella, la mangio socchiudendo gli occhi come fosse un piccolo orgasmo ad ogni suo sfiorare le mie papille gustative:
è una delle poche cose che nei mesi all’estero mi mancava di casa. Le sue varie consistenze, il gioco di sapori, la goccia che cerchi di non far scappare…
poi nella vita ho incontrato due mozzarelle che han cambiato tutto.
Ora la mangio lo stesso, ma ogni volta che il mio occhio si sta per socchiudere godurioso penso a Giulio e Patrizia e l’orgasmo si blocca prima di partire,
godo del sapore in modo un po’ più gelido, il mio corpo non vibra come aveva sempre fatto al sol pensiero di quel latte.
Ora nell’assaggio sento il pianto di Giulio, ora nell’assaggio vedo Patrizia che arriva sul suo passeggino posturale e la sua lingua sempre fuori e rigida, portata da una delle sue sorelle…
Giulio e Patrizia erano due bimbi sani di un po’ meno di due anni, entrambi, (vi ho già detto che nei reparti di neuroriabilitazione pediatrica incontri quasi sempre bimbi che eran nati sani, che fino ad un qualcosa accaduto, erano bimbi sorrisi corse manine baci parole suoni gioia) … Giulio e Patrizia erano semplicemente in vacanza, con le loro famiglie, lontani da casa, la scorsa estate.
Giulio e Patrizia avranno provato quella mia stessa goduria nell’assaggiar quella mozzarella forse, magari si saranno messi il ditino sulla guancia per dire quanto era buona, avranno fatto uscire qualche consonante confusa per tentare di averne ancora.
Peccato che lo scorso anno in puglia c’è stata un’epidemia di Escherichiacoli (LEGGI) ,
peccato che quel morso di mozzarella qualche giorno dopo avrebbe cambiato la vita di tutti,
avrebbe tolto a loro la possibilità di muovere il loro corpo, di parlare e riconoscere la propria mamma.
Un morso e niente più voci, niente più sorrisi, niente più gambe che iniziano a correre: vi descrivo quel che si perde, quel che han “acquistato” ve lo risparmio…
Quel maledetto batterio ha attaccato i loro reni e poi è salito fin dove ha potuto.
E ancora se ci penso parole non ne ho per dirvi quel che si prova a sentire questi racconti, a viverci accanto, a vederli crescere vicino a te, che se sei lì vuol dire che qualche altra incudine dal cielo ti si è sfranta in testa (in quella di tuo figlio, che è peggio)…
quando mangio la mozzarella penso che è riuscita anche a mangiarsi un nervo ottico, che ha tolto i colori,
che non ha tolto la vita per un soffio ma l’ha lasciata amputata e dolorante, che ha storto tendini muscoli vita
E allora odio tutto,
odio quel batterio maledetto,
odio chi mi ha dato un figlio di 2 kg, senza la minima coscenza,
odio quella macchina che ha preso in pieno Rudy,
odio la morte che ogni tanto si scorda che potrebbe essere un favore,
odio la vita che quando vuole sa essere proprio infame,
odio il vostro Dio perchè è cattivo,
perchè loro dovevano continuare a sorridere, perché la voce di mio figlio era bellissima e mi manca.
Perchè mi mancano tutte le mamme che ho incontrato e le vorrei stringere tutte. Ora.
La disabilità è una montagna impervia tutta da scalare,
con un predatore che ti insegue affamato: quindi va scalata per forza.
Gambe in spalla, bava sempre presente, continuo a scalare e vi porto tutti dentro,
in un amore infinito.
Maledetta mozzarella maledetta.
Maledetta fretta di dimissioni. Siete tanti ad esser maledetti.
(i nomi son tutti inventati)
Pillole nosocomiali:
– Il monitor
– Il pianto neurologico
– La caduta degli angeli
– Gianicolo e desideri
– Verso il ritorno
– Calabroni in neuroriabilitazione
Pillole nosocomiali : il pianto neurologico
Ho iniziato questo lungo (ancora non imparo ad eliminare la temporalità, il futuro, dai miei pensieri e vorrei provare a non riuscirci) percorso nosocomiale in un reparto di neonatologia, dove tutti i rumori erano sgradevoli e martellanti, tranne quelli dei bimbi.
Il loro pianto, anche se di 12 contemporaneamente, non è mai stato fastidioso: acuto e leggero, coccolava noi mamme sempre in piedi a girare intorno ad un’incubatrice o una culletta…
mano a mano che sono andata avanti, di stanze e poi reparti, ho scoperto che molti di quei bimbi avrebbero perso la voce: la tracheotomia, che in troppi hanno da queste parti li rende muti anche quando non lo sono. I suoni diventano versi che all’inizio fan paura, poi tutto nel suo orrore diventa normale.
I reparti di emergenza ed accettazione invece, così come le rianimazioni pediatriche, ti fanno incontrare improvvisamente ben altre realtà;
la neonatologia diventa un ricordo lontano e quasi dolce, i bimbi lì sembravan sempre tutti sani e belli, anche se non lo erano.
Il loro esser piccoli, il loro pianto dolce e sottile, tutto rendeva comunque soffici quei reparti in cui questi nanerottoli combattono per esserci, dal primo loro istante.
Il DEA e la rianimazione pediatrica invece sono uno schiaffone in piena faccia: lì non esistono settimane gestazionali, non si pesano i grammi.
Si sta tutti insieme, dai 4 giorni di vita ai 18 anni: tutti insieme nella stessa stanza, ad accalcare dolore e sguardi tra famiglie.
Lì si incontra altro dolore, altra ansia: quel quadrato mai potrò toglierlo un secondo da davanti ai miei occhi, mai un solo degli sguardi conosciuti lì dentro potrà entrare in una zona d’ombra della mia memoria.
Al Dea (dipartimento di emergenza ed accettazione) ho scoperto il “pianto neurologico”.
Un corpo nudo e torto di una bimba che sembrava esser stata alta e snella, il cui corpo per una meningite maledetta aveva perso la forma che noi riteniamo normale: il pianto di Manuela non lo dimenticherò mai. Un lamento che lei non conosce e probabilmente non sente, una nenia continua e lacerante che entrava negli occhi della madre per provare a trasformarsi in un vero pianto. Un pianto apparso all’improvviso, insieme a tanto altro, in una vita che era normale fino a poco prima.
Il pianto neurologico non assomiglia per niente al pianto, nè a quello lamentoso, nè a quello disperato: ha un qualcosa di innaturale, sembra avere una provenienza lontana e oscura, ha le sembianze di qualcosa che entra nelle teste per portarne via ogni momento qualcosa.
Da poche ore lo sto riscoprendo,
il nuovo cucciolo nella nostra stanza sono ore che non trova tregua, il ritmo è sempre lo stesso, come ormai il movimento della sua mamma per cercare di calmarlo, chissà da quanto, chissà per quanto…
( tutti i nomi che compariranno nelle mie “pillole nosocomiali” sono inventati)
Commenti recenti