Archivio

Posts Tagged ‘neuroriabilitazione’

Le lettere del tuo nome… e quel famoso rianimatore…

8 febbraio 2018 2 commenti

Abbiamo incontrato il primario del Dea del Bambin Gesù precisamente quattro anni dopo. Dopo che cosa?, ti starai chiedendo tu!

Era fine dicembre del 2013 quando lui e la sua equipe ti condannarono all’ergastolo con aria dura e sommessa: “il bambino non sarà mai svezzato dalla ventilazione meccanica, non prenderà mai coscienza di sè e dello spazio intorno a lui, ma sarà comunque una vita che voi dovrete accogliere”. Fine pena mai, per te e per tutti noi, compreso il tuo fratellino che ti aspettava da tempo ormai, fuori quella porta e non sapeva se mai ti saresti svegliato da quel sonno eterno che per te era stabilito, con tanto di carezza del Signore.

Lo abbiamo rincontrato dopo 4 anni al bar della sede di Palidoro di quello stesso ospedale: tu cercavi di conquistare ogni discesa in velocità sulla tua sedia e ci sfuggivi di mano continuamente. Lui ti ricordava bene, ricordava me che tanto implorai loro di non accanirsi sul tuo corpo avendo di risposta solo sguardi di commiserazione e risposte del tipo “ogni vita donata dal Signore merita di essere vissuta”. Tante parole che pensavo di aver dimenticato e invece sono arrivate tutte come un fiume a battermi nelle tempie dentro quell’affollato bar. Ogni tanto anche la mia voce e i miei occhi tremano.

Anche l’annientamento della sua sentenza davanti ai suoi occhi, che eri tu sfrecciante e autonomo sulla tua sedia, ha trovato sostegno nel “Signore”. È solo merito del signore, ha detto forse dieci volte in tre minuti, se tu Sirio sei così

E invece manco per il cazzo!!! Se sei uscito dallo stato vegetativo non è grazie al signore ma grazie a decine di colleghi di quell’uomo che fortunatamente credono che la vita sia altro e che si possa provare a conquistare, se sei quello che sei così da lasciarlo a bocca aperta è grazie a te, grazie alla scienza, grazie al sudore di decine di persone che investono su di te, grazie ad un enorme mondo che le rianimazioni NON conoscono e invece dovrebbero.

Dovrebbero eccome, prima di regalare ergastoli, prima di costringerci ad implorare morte.

Ti ringrazio Sirio, perché a quell’uomo l’altro giorno hai insegnato a tacere. Anche se per poco, anche se con le sue risposte celesti in tasca, l’hai ammutolito.

Come fai ogni giorno con noi.

W la rivoluzione, #inculoallostatovegetativo

Al mio partigiano, che ha scacciato il freddo

6 febbraio 2018 Lascia un commento

Mi sono appena arrivati questi due video da scuola.

La mia reazione, da romantica rivoluzionaria, è stata abbassare il capo e alzare il pugno.

Come davanti ai chi ha dato la vita,

Come davanti al sangue rosso di chi ha fatto per la lotta per la libertà il suo tutto.

Amore mio,

Erano anni che non sentivo bruciare in me questo fervor rivoluzionario.

Sei la più bella e la più pura delle rivoluzioni, sei il mio partigiano.

“E ti amo. E fra freddo”, ho citato tanto volte per te, invece ti amo e non fa più il freddo di prima

Mi chiamo Sirio, parlo con il tablet…

4 dicembre 2017 1 commento

Forse il modo migliore per presentare Sirio e il suo viaggio verso la libertà è quello di dare a lui la parola.

Al nostro piccolo Ginseng, che ci ha lasciato con un gran vuoto

24 febbraio 2015 3 commenti

La prima volta che sono entrata in quella stanza il cuore mi batteva forte.
Tiravano mio figlio fuori da un’incubatrice da trasporto dove appariva enorme rispetto alla prima volta che ci era entrato, quasi sei mesi prima.
Iniziava un viaggio nuovo che non sapevo come affrontare: da un reparto intensivo dove potevo vederlo solo qualche ora al giorno ad una grande stanza divisa tra tre famiglie, che sarebbe stata la mia cuccia per un lungo e rivoluzionario semestre, notte e giorno. Entrando in stanza notai subito lui (che chiamerò Cheng).

Cheng sembrava guardarmi, io avevo paura a guardare lui.
Avevo visto solo scriccioli, minuscoli scriccioli delle terapie intensive neonatali, che anche nelle situazioni peggiori sembrano sani e perfetti: approdavo in un reparto dove basta uno sguardo distratto e da lontano per capire quanto la natura sia strana, diversa, infame. Ancora ero inesperta, ancora non sapevo, ancora il mio sguardo faceva fatica a poggiare su una disabilità così manifesta, deformante, totale.

Cheng sembrava guardarmi, sembrava infastidito dal trambusto degli ambulanzieri che salutavano riportandosi via quella cosa orrenda che è un’incubatrice da trasporto, sembrava infastidito da noi, nuova famiglia ad occupare un letto che era stato liberato poche ore prima.
Finalmente.
Cheng era un bimbo strano: un bimbo con una patologia genetica mai capita veramente. Come il mio bambino respirava attraverso una tracheostomia e mangiava con la gastrostomia. Aveva un visetto tondo e grande, un mix dei suoi lineamenti asiatici e delle strane ignote malformazioni che lo avevano colpito dal momento del suo concepimento.
Cheng non aveva una mamma accanto a lui: era un bimbo abbandonato come se ne incontrano diversi.
Un bambino abbandonato ma mai solo: intorno a lui c’era sempre qualcuno, sempre coccole, sempre regali, sempre bagni profumati e cambi soffici, terapiste e piccole passeggiate con i volontari.
Cheng era un po’ il nostro cucciolo, Cheng per me è stato un grande amico.

Cheng mi ha insegnato quali sono i rumori della notte per una mamma di un bimbo trachestomizzato,
Cheng mi ha insegnato che si può essere sordi e ciechi ma vedere e sentire tutto,
Cheng mi ha insegnato che non si deve smettere di parlare con i sordi,
Cheng mi ha insegnato che anche da ciechi si può avere una mira incredibile (che gran campione di sputi sei stato!)
Cheng mi ha insegnato che sì, la faccia può rimanere imbronciata anche per sempre.

Buon volo, piccolo calabrone adorato. Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare. Igor Ivanovič Sikorskij

Cheng aveva trovato una nuova mamma,
malgrado le malformazioni, malgrado la genetica, malgrado la ormai quasi costante ventilazion meccanica.
Cheng ha preso un aereo, ha conosciuto una casa e un’isola che l’ha accolto,
Cheng è riuscito ad uscire da lì e non da solo.

E mi mancherà.
Sapere che non c’è più mi lascia il vuoto, anche se la sua era una vita che è difficile definir vita.
Io gli sono grata per tante cose, e sempre ti porterò nel cuore piccolo Ginseng della neuro.
Quando sei partito con la tua nuova famiglia io era abbracciata a quella vecchia,il reparto di neuroriabilitazione che per molto è stato casa tua e anche madre. Tra le lacrime di chi ti salutava emozionato c’ero anche io… Sapere che non ci sei più mi spacca il cuore in due.

Nel tuo nuovo viaggio non ci saranno tracheostomie ne solitudine, non sentirai quel cazzo di rumore quando ti staccavi il ventilatore, nessuno rischierà uno dei tuoi sputazzi straordinari. Ti ho voluto un gran bene piccolo grande combattente imbronciato e te ne vorrò sempre.
Mi hai insegnato tante cose che mi permettono ogni giorno di lottare. Lasci il vuoto dentro a tante che ti han fatto da mamma al posto della tua… Ora impara a respirare bene eh. Mi raccomando….

LEGGI:
Il cuore di un bimbo di 2kg, dimesso troppo presto
Il monitor
Il pianto neurologico
La mozzarella che portò via il sorriso
Gianicolo e desideri
La caduta degli angeli
Verso il ritorno
Calabroni in neuroriabilitazione
Imparare a contare
Lettera di un papà ad un bimbo nato due volte

Mi insegnerai la pazienza di contare?

6 settembre 2014 4 commenti

“Edmund Hillary è morto l’11 gennaio.
Nello stesso giorno mio figlio ha percorso trecentocinquantanove passi.
Scalare il monte Everest, cme fece Edmund Hillary, può sembrare un’impresa un pochino più significativa rispetto a percorrere trecentocinquantanove passi, come ha fatto mio figlio.
Per chi ha una paralisi celebrale come lui, però, percorrere trecentocinquantanove passi di seguito, senza aiuto, senza cadere, senza spezzarsi i denti, è un evento epico, perlomeno nella nostra mitologia familiare. Se mio figlio è Edmund Hillary, io posso essere solo il suo sherpa, Tenzing Norgay.
Lui barcolla da un lato all’altro, con la sua andatura incerta, procedendo lentamente metro dopo metro,
io mi mantengo in retroguardia, indicandogli il cammino meno accidentato e preservandolo dalle cadute.
I trecentocinquantanove passi di mio figlio sono stati fatti durante le vacanze, a Venezia.
Stiamo già pianificando le nostre prossime sfide. Per prima cosa, faremo trecentocinquantanove passi sul Corcovado.
Poi, trecentocinquantanove passi sull’Acropoli.
Poi, trecentocinquantanove passi sulla Grande Muraglia.
Poi, trecentocinquantanove passi nel deserto del Sahara.
Poi, trecentocinquantanove passi sul monte Everest.
Mio figlio e io faremo il giro del mondo a piedi, di trecentocinquantanove passi in trecentocinquantanove passi.”
– Diogo Mainardi-
(tratto da “La caduta. Ricordi di un padre in 424 passi”)

Io non so se muoverai i tuoi passi e chissà come buffi saranno.
Io non so se saprai mai pronunciare il tuo nome, piccolo combattente nato appena un anno fa,
Con la fortuna contraria e lo sguardo dolce.
Il mondo in un anno è tutto nuovo e diverso, un mondo che chissà se saprò mai accettare, ma che sto provando a comprendere.
Sai son tante le volte che spaccherei tutto, che tutto crolla in frantumi, si sbriciola, mi affoga.
Devo imparare nuovamente a camminare anche io, devo imparare a guardare il mondo,
devo imparare ad esser madre in modo totalmente nuovo, devo imparare la disabilità, devo imparare a respirare e contare fino a cento e poi a mille e poi a bho. Devo imparare a contare sai?
Che se conto fino a cinque ora il tuo braccio mi accarezza il viso, prima dovevo contare fino a 28: e 28 secondi per una come me sembrano durare ore.
Devo imparare contare, che magari piano piano sti numeri si accorciano: tu hai una voglia pazza di essere un po’ schizzoide e rapido,
cromosomicamente simile a me e a tuo fratello, non potresti avere altro desiderio e ti si legge in quegli occhietti furbi che intercettano tutto.
Peccato che tu, prima di compiere qualunque cosa, ogni volta, devi sollevare il mondo tutto, noi invece solo alzare un braccio.

Non son riuscita a farti nemmeno gli auguri per il tuo compleanno,
perchè sei il solo al mondo che delle parole ha fatto un frullato, le hai spazzate via tutte, son scomparse:
Ora, come i tuoi neuroni, stanno provando a riorganizzarsi, ma arrancano, inciampano. E’ dura ritrovarle. La rabbia spesso non lo permette, non permette nemmeno di immaginarlo.

Dopo che il tuo cuore si è fermato ci hanno detto saresti stato una vita senza vita, inconsapevole del mondo e del tuo corpo.
Ora quasi sei seduto solo, osservi tuo fratello giocare ed è chiaro il tuo desiderio, è palese la fatica che già fai per avverare i tuoi desideri.
Tutto, tutto sposterò, tutto distruggerò, tutto proverò a costruire per veder la tua rivoluzione, la più inaspettata di tutte, il più grande sovvertimento possibile sotto il nostro cielo.
L’Everest è lì che ci aspetta, piccola stella che illumina il giorno.

 

Un calabrone in volo in una neuroriabilitazione

25 Maggio 2014 8 commenti

Ho scoperto che è vero quel che diceva Igor Ivanovič Sikorskij sul volo del calabrone e l’ho scoperto nei 9 mesi di ospedale pediatrico che mi si son appena conclusi alle spalle, soprattutto nella seconda metà di questi, trascorsa tutta in un reparto di neuroriabilitazione pediatrica.

Un calabrone di spalle… che è ora torni a casa…

Una palestra di vita non da poco, cruenta e dolce, capace di sventrare l’anima con le sue storie e allo stesso istante di darti una forza inaudita, in grado di spostare tutte le grandi montagne e sovrastrutture che inevitabilmente abbiamo davanti alle “menti non conformi” e quindi ai corpi.
Penso che spesso parlerò di quel luogo, forse senza nemmeno il bisogno di nominarlo: un’isola di sbarchi improvvisi, dove si arriva barcollando con il proprio fagottello in mano e si esce a schiena dritta (un sacco di cicatrici eh!), ogni tanto per mano a quei fagottelli che lì vedono loro offerta la possibilità di provarci.
L’ospedalizzazione è un carcere che ho dovuto affrontare in molte sfaccettature, da genitore, nemmeno da paziente: ha le sue gerarchie, ha la spocchia di troppi che nemmeno si fermano un secondo per darti una sola consonante valida alla comprensione della tua condizione, ha i suoi raccomandati, i suoi stronzi, le sue oasi di pace.
Ho accumulato tanto odio, ho dovuto braccare camici per aver risposte, ho dovuto correr via da altri camici per non sentir stronzate,
ma ho conosciuto le coccole e gli abbracci degli sconosciuti che ti scaldano più di quelli cari, ho incontrato persone che hanno penetrato il mio cuore con un’umanità che per me e per il mio di fagottello è stato ossigeno.
E allora questo post è solo per dire grazie.
Un grazie che se provo a dirlo scivola sulle lacrime e me lo perdo senza riuscirlo a fermare, perchè sono inevitabilmente copiose.
Ho conosciuto donne che puntano ogni loro granello di forza e impegno su piccoli impercettibili movimenti di un sol dito di una mano,
ho conosciuto donne che riempivano un intero camice azzurro con il loro amore per i nostri bambini e con una fiducia in loro che sempre spiazza noi mamme stanche
Ho incontrato donne che han creduto in ogni grammo di mio figlio,
che più di me son state in grado di notare ogni piccolo movimento, gesto, sussulto, suono,
che mi hanno insegnato a leggere nelle pieghe della pelle e delle ciglia,
che mi hanno portato per mano in un mondo che oltre al dolore mi ha fatto incontrare universi paralleli,
di una forza sovrumana.

Un grazie a chi ha accarezzato la tua pelle per mesi, a chi ti ha insegnato che puoi raggiungere i tuoi obiettivi,
che ogni tuo gesto deve averne e può farlo, un grazie a chi ha cambiato il tuo sguardo curioso in due occhi di lince attenti a tutto e veloci,
un grazie a chi ha aperto quella tua manina, con colori e giochi,
un grazie a chi mi ha insegnato, passo passo, come valorizzare ogni tuo sforzo per renderlo ogni giorno più naturale, più bello, più proiettato verso la vita.
Dalla mia burbera (è tutta ‘na finta) Paola, che ha lo sguardo di una 15enne felice ogni volta che uno dei suoi bimbi fa anche solo un quarto di quello che lei chiede,
a Roberta con cui mi perdevo a parlar di oriente; alla mia Barbara che ha insegnato a Sirio un mondo intero e che crede in lui come fosse una mamma, ormai una sorella della quale non posso fare a meno.
Mi avete fatto innamorare del vostro lavoro, mi avete fatto innamorare dei vostri sorrisi,
così presi ad insegnare ai nostri che ridere in realtà sarebbe una cosa facilissima …
“ma lui ride come un pazzo, siamo noi ad esser sceme e non accorgercene” , e me sa che c’avete ragione.

E poi grazie a Silvia, al suo cazzeggiare, al suo essere l’antiruolo che ha, al calabrone che mi ha regalato.

Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo, in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare.
Igor Ivanovič Sikorskij

Pillole neurologiche:
Il monitor
Il pianto neurologico
La caduta degli angeli
Gianicolo e desideri
Verso il ritorno
Mi insegnerai la pazienza di contare
La mozzarella che strappò i sorrisi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: