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Maryam, schiacciata dai volantini della NATO

1 luglio 2009 Lascia un commento

Afghanistan: Maryam, 5 anni schiacciata dai volantini della Nato

Maryam ha 5 anni.
E’ nata a Taywara, nella provincia centrale di Ghowr. Ma poi la sua famiglia, nella speranza di fuggire dalla miseria, è emigrata nella provincia meridionale di Helmand, finendo a vivere nel campo profughi di Mahajor, alle porte di Lashkargah. La casa di Maryam è una baracca, dove abita assieme ai suoi genitori, Mohammed Tahir e Qamar Gull, al nonno, allo zio, ai suoi quattro fratelli e alle sue due sorelle. Alle tre di mattina del 27 giugno, tutti sono stati svegliati dalle urla della piccola Maryam, schiacciata sotto uno scatolone da venti chili pieno di volantini informativi delle forze di occupazione Nato, lanciato da tremila piedi di altezza. Normalmente questi contenitori si aprono durante la caduta lasciando piovere il loro contenuto. Ma questa scatola, evidentemente, era difettosa. Verso le cinque di mattina, Maryam, accompagnata dal padre, è arrivata nell’ ospedale di Emergency, a Lashkargah. 12386“Era in stato di shock, con un trauma da schiacciamento della regione addominale e una vastissima ferita dei tessuti molli di tutta l’area genitale”, riferiscono fonti mediche dell’ospedale di Emergency. Immediatamente assistita e operata, le hanno trovato una grave frattura pelvica, vagina, retto e ano distrutti e danni all’uretra. “Viene operata di laparotomia, le viene fatta una colostomia (per defecare dalla pancia, ndr) e diverse trasfusioni visto che aveva perso moltissimo sangue. Oggi, tre giorni dopo, è stata riportata in sala operatoria per un’ulteriore pulizia delle ferite. Il 3 luglio dovrebbe subire un ulteriore intervento, e la storia credo si ripeterà per parecchi giorni a venire”, aggiunge la fonte medica. Maryam ha ripreso conoscenza il secondo giorno di degenza. Da allora brontola continuamente perché vuole l’acqua da bere. Il suo viso è perennemente crucciato in una smorfia di rabbia. In effetti non è piacevole svegliarsi di botto alle 3 di mattina con un pacco da venti chili che ti piomba addosso e ti apre l’addome spaccandoti le ossa… Quale futuro avrà questa bimba senza più organi genitali in un Paese come l’Afghanistan?

Enrico Piovesana , inviato di Peacereporter

A Roberta, la compagna di Aldo Bianzino

1 luglio 2009 Lascia un commento

Abbiamo conosciuto Roberta nei giorni successivi alla morte di Aldo,

giorni drammatici, durissimi, di intense mobilitazioni.

Abbiamo conosciuto la sua forza d’animo, la sua rabbia, la sua voglia di

lottare e il suo desiderio di conoscere la verità.

Una verità insabbiata, nascosta, che non riesce a venire fuori.

 

Roberta se ne è andata nel silenzio, senza riuscire a conoscerla.

 

Roberta Radici è la compagna di Aldo Bianzino, il falegname morto

misteriosamente nel carcere perugino di Capanne, la notte del 14 ottobre

2007. Aldo, insieme a Roberta, era finito in carcere con l’accusa di

possedere e coltivare alcune piante di marijuana e dal quel luogo non è

più uscito vivo.

 

Da allora, insieme a Roberta e suo figlio Rudra, insieme a Gioia (ex

moglie di Aldo) e ai figli Elia e Aruna, come Comitato Verità

per Aldo;, abbiamo organizzato manifestazioni, iniziative, presidi e

volantinaggi affinché si facesse luce su questa vicenda.

 

Mercoledì 1 luglio alle ore 9.00 presso il Tribunale di Perugia si terrà

l’udienza preliminare relativa alla richiesta di rinvio a giudizio della

guardia carceraria in servizio durante quella notte, per il reato di

omissione di soccorso.

 

Oggi che Roberta non c’è più, sentiamo, ancora più forte, l’esigenza di

continuare a lottare insieme a Rudra, rimasto solo, e a tutti gli altri

familiari. Continueremo insieme.

 

PERCHE’ IN CARCERE PER UNA PIANTA D’ERBA NON SI DEVE FINIRE

PERCHE’ IN CARCERE NON SI PUO’ MORIRE

 

COMITATO VERITA’ PER ALDO


No all’agente solo, appello dei macchinisti

1 luglio 2009 1 commento

PERCHE’ NON PASSI QUESTO ULTERIORE SCEMPIO AL LAVORO E ALLA SICUREZZA. SCEMPIO CHE SARA’ RESPONSABILE ANNUNCIATO DELLE PROSSIME STRAGI SUI BINARI E SULLE STAZIONI DI QUESTO MERDOSO PAESE.
CON I LAVORATORI, CON DANTE DE ANGELIS, CON QUEI 16 MORTI NEL CUORE… 

NO ALL’AGENTE SOLO!
Al Presidente della Repubblica
A tutte le istituzioni
Alla stampa
(Lettera firmata dai macchinisti alle istituzioni)

I sottoscritti macchinisti delle F.S. sottopongono al Presidente della Repubblica, al Governo e alle Istituzioni le seguenti osservazioni.
Dalla liberalizzazione della rete ferroviaria ad oggi si sono contati, per incidenti ferroviari, 54 macchinisti morti, oltre a tanti altri ferrovieri morti sul lavoro. Di qui la necessità di tener ben alta la guardia per evitare ulteriori disastri ferroviari e morti sul lavoro.treno_sfonda_sospeso
Siamo orgogliosi degli sviluppi della nostra tecnologia e degli investimenti sulla sicurezza ma nella dinamica ferroviaria, sottoposta a circolazioni non sempre prevedibili e, a volte, di emergenza la tecnologia non basta senza la presenza ed il controllo umano qualificato. Non a caso le F.S. italiane hanno tenuto testa, pur con tecnologie modeste, alle altre compagnie europee grazie al modulo di guida del doppio macchinista che, salvo gli ultimi anni del fascismo, è stato da sempre adottato nelle nostre ferrovie.
Questi investimenti, dovuti anche a leggi dello Stato che impongono ai datori di lavoro di dotarsi per la sicurezza della massima strumentazione tecnologica esistente, non possono però essere motivo per ridurre ad un solo macchinista la guida dei treni, come il nostro amministratore delegato ing. Moretti con forza intende attuare. Non solo perché questa tecnologia ancora non è conforme alle leggi (mancanza di soccorso in caso di malore, ecc.) ma perché si tratterebbe di una oggettiva una riduzione di sicurezza – rispetto agli attuali livelli – per noi e per i viaggiatori che porterebbe certamente più disservizi e forse anche a più tragedie, come a Crevalcore, dove la nuova tecnologia (e già un solo macchinista) ha causato 17 morti (su questo ricordiamo che sono sotto processo molti dirigenti delle ferrovie). Si dice che in Europa c’è già un solo macchinista, ma gli esperti sanno che le loro ferrovie sono strutturate per quel modello di guida e soprattutto che esse presentano un’incidentalità molto superiore in termini sia assoluti che relativi ! Perché dovremmo regredire ad una minor sicurezza? Sarebbe come dire che, siccome c’è in alcuni paesi la pena di morte, ce la dobbiamo avere anche noi?
Poiché l’unico argomento concreto è il risparmio, per altro ben modesto rispetto ai grandi risparmi che si potrebbero fare nelle nostre ferrovie, noi macchinisti siamo anche disponibili a ulteriori mansioni pur di mantenere una sicurezza maggiore per la nostra vita e per quella dei viaggiatori.

Infine si sappia che in presenza di nuove tragedie con un solo macchinista la colpa politica e morale non potrà ricadere su di noi ma su coloro che, per risparmiare, ci hanno imposto questo pericoloso modello produttivo per la guida dei treni, come purtroppo anche la tragedia ThyssenKrupp e tante altre insegnano.

Ad Antonio Lo Muscio

1 luglio 2009 13 commenti

ANTONIO LO MUSCIO
– Nasce a Trinitapoli (FG) il 28 marzo 1950
– Non risponde alla chiamata per il servizio militare ed è quindi arrestato nel 1970 dove rimane per 2 anni
– torna in carcere più volte
– nel 1975 lavora alla Fargas di Novate milanese per qualche tempo
– milita nei Nuclei Armati Proletari
– viene ucciso dai carabinieri a Roma, il 1 luglio 1977

Scritture di Antonio Lo Muscio
– “Lettera ad un amico”, carcere di Procida, 5 Marzo 1974
Caro compagno spero tanto che tu stia sempre bene. Quando uscirò oltre a lavorare normalmente, cercherò di svolgere anche un certo lavoro politico coinvolgendo se sarà possibile gli stessi elementi che ieri come me vivevano al di fuori della realtà. In un mondo diverso da quello reale dove si vede nel denaro la sola via d’uscita, così come ci ha insegnato la borghesia, che con i soldi fa e disfa a suo piacimento. Bisogna far capire loro come ho capito io che chi ha il potere di fare e disfare a suo piacimento è uno solo, il popolo. E’ questa la vera forza che fa cambiare il mondo, e non il denaro. Tutte le soddisfazioni ce le potremo prendere una volta abbattuti gli sporchi capitalisti e tutte le forze reazionarie esistenti. Solo quando questo sarà attuabile tutti gli uomini si potranno ritenere uomini, oggi siamo sulla via di transizione, cioè uomini lo stiamo diventando solo ora.

– “Lettera ad un amico”, carcere di Perugia, 5 Gennaio 1975

Antonio Lo Muscio, appena giustiziato

Antonio Lo Muscio, appena giustiziato

Carissimo compagno, come sai fra non molto sarò fuori precisamente fra 18 giorni. Di questo sono contentissimo per il fatto che uscendo potrò veramente dedicarmi alla lotta politica e in questo modo darò un significato alla mia stessa vita. Dico questo in riferimento a ciò che ero prima, cioè prima che entrassi in carcere. Sono del parere, se il tempo della detenzione viene usato bene, che, almeno una volta, tutti, senza escludere nessuno, dobbiate venire in carcere a vedere da vicino quello che veramente è l’istituzione carceraria e la sua violenza.

Testimonianze al Progetto Memoria
– Silvana Innocenzi, Testimonianza al Progetto Memoria, Firenze 1995
“Un ragazzo intelligente, timido e sensibile. Un sorriso spontaneo, carico di tenerezza e di entusiasmo per la vita. Così la mia mente ricorda il primo incontro con Antonio. Mi colpì la disponibilità e la generosità che aveva nei confronti degli altri, la sua capacità di ascoltare.
Bello, dicevano le compagne che lo incontravano o che hanno avuto modo di conoscerlo nella sua passione politica. Io ero rimasta affascinata dal suo carattere, dal suo mondo interiore.  […]
Arrivò il servizio militare e venne inviato a Como proprio mentre era nata un’intensa storia d’amore. La ragazza rimane incinta ( un figlio che poi non nascerà a causa di un aborto spontaneo )… e lui la raggiunge… la classica fuga.
Viene raggiunto a casa e dichiarato in stato di arresto. Ne nasce un tafferuglio… processato e condannato venne rinchiuso nel carcere di Forte Boccea e poi a Gaeta. E’ l’inizio dell’impatto con il carcere.
Il padre iscritto al PCI discuteva spesso con lui. Discussioni animate in cui Antonio, con la passione politica che aveva maturato contestava al padre la politica riformista e revisionista del PCI. In quegli anni lui era ideologicamente più vicino alla sinistra extraparlamentare. Fin da ragazzo era alla continua ricerca di un mondo diverso, più giusto, con meno differenze sociali, con meno sfruttamento e meno emarginazione.
Il suo primo sguardo l’ho incrociato dietro un bancone di una sala colloqui del carcere di Perugia. Era finito lì, dopo la detenzione militare, per un reato definitivo di furto.
9788882924300pA Perugia insieme ad altri compagni aveva dato vita al Collettivo delle Pantere Rosse, sull’onda del movimento delle Black Panthers americane. […]
I nostri incontri a colloquio, erano dei momenti intensi di confronto e scambio, di comunicazione tra realtà diverse. Io che frequentavo il movimento di liberazione della donna e lui che mi parlava dell’assurda vita coatta. Delle vite e delle sofferenze che erano rinchiuse all’interno delle mura di un carcere. Dell’uso dei letti di contenzione e dei manicomi giudiziari per le persone che meno si adattavano alla vita del carcere, alle sue regole.
Era felice quando poteva comunicarmi una piccola conquista interna, sia che si trattasse di spazi di socialità, di condizioni lavorative migliori o della possibilità di far entrare libri e altro materiale scritto senza l’intervento della censura.
Era felice perché stava cambiando qualcosa e si rendeva contro che poteva farlo anche all’interno di un’istituzione così totale come è, ed era, il carcere.
Mi regalò il libro Col sangue agli occhi di Jackson. “Leggilo, mi disse, dimmi cosa ne pensi, secondo me è stupendo”.
Lo lessi e capii che lui lì ritrovava tutte le sue emozioni più forti: rabbia, odio, amore. Non amava il sottoproletariato di Marx, amava il proletariato di Fanon.
Intanto le rivolte nelle carceri aumentavano e quella del carcere di Alessandria fece discutere più di tutte. C’erano stati dei morti tra il personale civile sequestrato.
Alcuni detenuti della rivolta finirono anche a Perugia e iniziò anche lì un’attiva campagna di controinformazione su quanto era realmente accaduto durante il sequestro degli ostaggi,
Sognare, realizzare un’evasione è il desiderio più vivo di ogni recluso per sottrarsi ad una situazione che, per quanto può essere vivibile, toglie il bene più importante: la libertà dell’individuo.
“Liberare tutti” era il messaggio più radicato tra i detenuti di quegli anni.1240659796514_f
Alla rabbia istintiva, individuale, cosciente di molti detenuti, i Nuclei Armati Proletari diedero una progettualità collettiva e rivoluzionaria.
Antonio ci si ritrovò.
Un giorno con discrezione mi diede un foglietto dattiloscritto, voleva sapere cosa ne pensavo. Erano delle riflessioni sulla lotta armata, sulla sua possibilità e necessità. Non riuscii subito a dargli una risposta, ero solo cosciente che lì, in carcere più che altrove, le mediazioni non erano possibili.
Uscì nel 1974. Mi presi dei giorni di ferie dal lavoro e l’aspettai all’uscita. Fu sorpreso. Aveva i capelli lunghi, la barba e un cappotto lungo che gli davano un aspetto particolare, tra l’originale e il demodé. […] Furono momenti stupendi. E solo oggi che ho anche io vissuto l’esperienza del carcere posso coglierne ulteriori sfumature.
Cercò i compagni che conosceva, gli amici che da tempo non rivedeva. Alcuni lavoravano in fabbrica e lo invitarono alle loro riunioni. Io a Roma, lui a Milano, ma continuammo a vederci circa ogni 15 giorni.
Il carcere però non lo aveva dimenticato, soprattutto non aveva dimenticato le persone che aveva lasciato e che voleva aiutare ad uscire da quei luoghi di non vita. Continuammo ad andare ai colloqui e a seguire alcuni compagni nei bisogni più immediati.
Intanto nel suo cuore c’era la speranza di entrare in contatto con i compagni dei NAP che iniziavano a fare le loro prime azioni.
Ma il passaggio decisivo alla lotta armata avvenne quando la polizia uccise a Roma, sul pianerottolo di casa, la compagna Anna Maria Mantini (presto questo blog dedicherà una pagina anche a lei). L’aveva conosciuta, apprezzata, stimata moltissimo. Ne discutemmo a lungo di questa sua morte. Non ci volle molto a capire che avrebbe continuato la sua lotta. […] La mia scelta non tardò ad arrivare.
Vivere con lui un periodo della mia militanza nei NAP è stato di un’enorme ricchezza. Era la prima volta che dividevamo insieme più cose, dalla quotidianità al grande sogno di un mondo diverso. Non c’è mai stata tra noi una grande divisione di ruoli, ci alternavamo in molte cose; quello che detestava era fare acquisti, anche quanto le cose servivano a lui. Non viveva la sua scelta separata alle altre dimensioni della vita. La sua concezione di guerriglia conciliava con tutto: azioni, amore, famiglia e figli. Tutto era un unico grande filo rosso.
Viaggiavamo sempre molto uniti, tanto da diventare oggetto di simpatica ironia per gli altri compagni.
L’ultima immagine che ho di lui vivo è quella della separazione alla stazione Termini. Io partivo per Torino, per incontrare dei compagni, e lui mi aveva accompagnato. Non voleva farmi partire, ma io insistetti. Mi girai più volte a guardarlo andare via e giurammo che al ritorno avremmo mollato tutto per festeggiare il mio compleanno.
Ma non potemmo farlo. Appena arrivata a Torino fui arrestata.
Mi raggiunge anche in carcere con simpatiche cartoline, brevi, affettuose, cariche di emotività, quasi a voler colmare il vuoto e la distanza che si era creata materialmente tra noi.
Intanto i compagni continuavano ad essere arrestati, la caccia all’uomo era diventata sempre più accerchiante, e la vita per lui e per gli altri non deve essere stata facile negli ultimi periodi.
Poi un giorno, il primo luglio 1977, la terribile notizia appresa da un banale giornale radio tra le mura di una cella di Marassi, a Genova.
Ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri a Roma, piazza san Pietro in Vincoli, vicino alla facoltà di ingegneria, all’età di 27 anni, mentre tentava di sfuggire all’arresto con altre due compagne.
Falciato dalle raffiche di mitra fu poi freddato con una pallottola sparata a pochi centimetri dalla nuca. Non volevano arrestarlo, ma ucciderlo.
Non ci rivedemmo più.
Da una testimonianza raccolta da un giornalista del Corriere della Sera e pubblicata il 2 luglio: “Prima è passato di corsa quel giovane, Lo Muscio, inseguito da un carabiniere che sparava raffiche di mitra. E’ caduto proprio a pochi metri dall’ingresso della facoltà, cercando di sostenersi con le braccia e urlando per il dolore.
E’ a questo punto che il carabiniere, fatti pochi passi, ha lasciato partire un’altra raffica e Lo Muscio è stato fulminato. Gli ultimi colpi sono stati sparati dal carabiniere con una pistola.”

– Amici di Antonio, testimonianza collettiva al Progetto Memoria, Roma 1995
“Antonio l’ho conosciuto in carcere, nelle prime lotte. E’ diventato un compagno dei NAP proprio stando insieme a noi. Antonio era un compagno generoso, molto disciplinato. Quando si accostò al collettivo di Perugia doveva uscire di lì a poco. Gli dissi, se vuoi conoscere un compagno eccezionale, vai a questo indirizzo, e gli diedi l’indirizzo di Luca Mantini (anche di Luca ne parleremo presto ). Lui uscì. E per quanto sembri incredibile, era la sera di Piazza Alberti, del giorno in cui Luca era morto in piazza Alberti. Naturalmente non poteva saperlo e andò in casa di Luca. Lì trovò Annamaria.
Vennero a casa mia insieme quella sera e fu la prima volta che lo vidi. Dopo di allora ci siamo incontrati molte volte. Con me non aveva un rapporto politico, era una cosa un po’ strana, un rapporto molto umano. Antonio era un tipo gioviale, festoso. Cantava. In macchina cantava sempre. Ricordo di un viaggio con Antonio.
Me lo ricorderò tutta la vita. Prendemmo un vassoio, pesante come un macigno. E partimmo. Attraversando mezza Italia. E durante tutto il viaggio, sebbene spossato di stanchezza, cantava. […] Si fermò all’alba in un negozio di alimentari, comprò un po’ di gnocchi di patate. Poi, da un’altra parte, del pomodoro crudo. Li condimmo così, a mano. Al controllo dei cibi, in carcere, comunque mi restituirono il vassoio con tutti quegli gnocchi, e mi dissero seraficamente di metterli in un contenitore di plastica… Mi ricordo quest’ episodio perché dice come era fatto Antonio: se c’era da fare una cosa, lui partiva all’una di notte, attraversava l’Italia e la faceva, con allegria. Antonio era subito disponibile, sempre allegro, ti sapeva mettere subito a tuo agio.

QUI, un’intervista a Franca Salerno, arrestata e pestata (con un bel pancione) insieme Maria Pia Vianale mentre Antonio veniva giustiziato.

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