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il 7 aprile, una data tutta da leggere
Ci son date in cui la memoria si accavalla, con stratificazioni di anni e di capitoli importanti della storia del movimento operaio e rivoluzionario, come della resistenza romana.
Il 7 aprile è una data che dal 1944, con l’eccidio delle donne di Ponte di Ferro,
al 1976 quando l’agente penitenziario Velluto uccise Mario Salvi, compagno del Comitato Proletario di Primavalle,
al 1979 con l’ondata di arresti causati dalla delirante inchiesta Calogero, dal suo “teorema”.
E allora non faccio altro che mettervi una carrellata di link di materiale già presente in questo blog,
perché la memoria, tutta, sia un arma di formazione e approfondimento, e non uno sterile e trasversale delirio commemorativo e vittimistico.
7 aprile 1944:
– Le donne di Ponte di Ferro
7 aprile 1976:
– A Mario Salvi, ucciso da un agente penitenziario
7 aprile 1979:
– Processo all’autonomia
– Franco Fortini sul 7 aprile
– Quando lo Stato si scatenò contro i movimenti
– Il 7 aprile 30 anni dopo
– Scalzone risponde a Gasparri sul 7 aprile
LA BELLEZZA E’ PER LA STRADA!
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Memoria simbolica
Risate gioiose salgono su col fresco della notte.
Due ragazze si affacciano nella vetrina illuminata della bettola alternativa, giù dall’altra parte della strada. Le due eleganti silhouettes ora si annusano, le mani in tasca. Gli altri passanti sono arredamento che si allontana. Una protende il viso verso l’altro, la bacia, si baciano, e s’incamminano come se il marciapiede fosse improvvisamente diventato un tappeto di nuvole.
La bellezza è per strada.
Era lo slogan apparso in un manifesto del ’68 francese, una di quelle serigrafie che, emulando le scritte murali senza grigi e senza compromessi, dicevano tutto in una botta.
Come il sampietrino lanciato dalla ragazza: la ribellione è giusta, è violenta, è bella, è ciò che conta.
I cubetti di porfido, i selci, il pavé delle strade
ritrovavano la propria storica vocazione a volare. Del resto, come recita l’altro slogan ricordato nei decennali inventari per liquidazione del ’68, quando li si toglie dal suolo, al posto della strada si trova la spiaggia (sous le pavé, c’est la plage). E “chiude la strada ma apre la via”
-che pare una definizione tipo ‘1 orizzontale, nove lettere’- era uno dei modi di celeberare la barricata.
Il ‘piccolo San Pietro’ era ovviamente anche cantato. Tra i pezzi più famosi, quelli di Gianfranco Manfredi sul/nel movimento del 1977:
Ultimo mohicano
sampietrino in mano
solo qui nella via
e la barricata
dove l’han portata? non c’è proprio piùUltimo mohicano
sampietrino in mano
non c’è più polizia
ora a chi lo tiro?
vado a fare un giro,
entro in un caffè
Oggi, la bella lanciatrice di sampietrini dell’ultraquarantenne manifesto francese è ripresa e rieditata in omaggio ad un altro movimento, quello degli studenti iraniani.
Il risultato: fondo verde (in omaggio alla ‘rivoluzione verde’…), pantaloni anziché gonna (adeguamento o moda?), e lingua inglese, dove ‘freedom’ rimpiazza ‘beauté’.
Lo scarto con la reinvenzione della bellezza -identificata con l’immagine dell’azione e del movimento, non con quella di una cariatide- del poster del maggio ’68 (prodotto da un collettivo situazionista a Montpellier, come tra l’altro ricorda la tesi di Master di Victoria Scott), è grosso. E in fin dei conti, non si tratta qui del prodotto di una memoria collettiva che riprende, rielabora o fa tradizione del prodotto di un’altra memoria collettiva. Questo poster non nasce nel movimento degli studenti iraniani, ma su un sito americano, le strade cui è destinato sono solo quelle di facebook…
Buoni Bidelli versus Cattivi Maestri
Accade poi che una ragazza per strada lanci non un sampietrino, ma un ‘fumogeno’.
E subito tutti gridano al terrorismo, ché è ormai chiaro come non occorra impugnare armi di distruzione di massa per farsi etichettare così.
In un editoriale su La Stampa del 30.9.10, brillantemente intitolato “Tornano i cattivi maestri”, Luigi La Spina ci spiega quanto siano confuse le menti di molti giovani che non sanno distinguere la realtà dei nostri giorni dalla memoria degli anni 70 e 80. E che ripetono i “tre perversi schemi mentali che provocarono tanti lutti”. Il primo di quelli che chiama pure ‘tre peccati capitali’, è la “trasformazione di una persona in un simbolo”. Il secondo, è il “pretendere di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato”. E infine “il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo (…) in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta…”, insomma “l’esagerazione della potenza avversaria”.
Ora, queste ch’egli chiama “catene linguistiche”, sono tratti comuni di qualsiasi attività politica. In politica, tipicamente si fanno analisi, collegando fatti singoli secondo una propria lettura, e se ne produce un discorso in relazione ad un interesse che è necessariamente collettivo. Chi fa e porta questo lavoro simbolico, si presenta come simbolo.
La Spina lamenta che molte menti siano imprigionate da quelle odiose catene linguistiche, che fanno sì che una persona sia “ridotta alla generica categoria di un nemico senza volto”, insomma un simbolo cui si finisce per sparare.
E per dirlo usa una simbologia più trita di una foglia di Betel nella bocca di un paria: quella del ‘cattivo maestro’. Bisognerà ricordarglielo ancora, che i cattivi maestri non tornano, come pretende il titolo del suo articolo, perché I CATTIVI MAESTRI NON SONO MAI ANDATI VIA.
Ci sono sempre, sono sempre presenti perché esistono solo in articoli come questo, spiriti chiamati in ogni occasione in cui non si sa che dire su quanto sostiene o pratica chi nel sistema di potere non è integrato.
L’espressione di ‘cattivo maestro’ non solo non appartiene, né linguisticamante né concettualmente, ad un movimento che rivendica l’egualitarismo, che rifiuta i ruoli gerarchici -padrone/servo, medico/paziente, e appunto maestro che inculca e alunno che esegue-, non solo gli è incomprensibile, ma gli si oppone, esiste solo per stigmatizzarlo. Nasce cucita addosso a Toni Negri, professore universitario che con altri docenti di scienze politiche di Padova viene arrestato il 7 aprile 1979, con l’accusa di essere la mente del terrorismo.
Come ricorda la tesi di laurea di Luca Barbieri, I giornali a processo: il caso 7 aprile, (pubblicata a puntate da Carmilla e che vale la pena di leggersi per intero), “cattivi maestri” è un’espressione che da allora non è mai caduta in disuso.
E tanto per rammentare qualche esempio negli ultimi anni:
Su il Messaggero del 25 agosto 1999, Franco Frattini, allora presidente del comitato parlamentare sui servizi di sicurezza, se la prende con la sentenza di assoluzione di Adriano Sofri, perché distingue la responsabilità dei cattivi maestri “che educavano alla lotta rivoluzionaria e gli esecutori dei loro insegnamenti”. “Come Toni Negri, tra gli altri”. Su questa falsariga, Sofri è dichiarato cattivo maestro da Marco Travaglio (Sette, 15.4.2004); dal procuratore generale al processo di revisione Gabriele Ferrari (la Repubblica 30.12.1999: “cattivi maestri due volte responsabili, per quello che hanno fatto e quello che hanno fatto credere”); da Marcello Veneziani (il Giornale 19.7.2003, “Ritornano i cattivi maestri”) che lo mette accanto a Herbert Marcuse, Eric Hobsbawn e… Toni Negri. Questi, che è il cattivo maestro per antonomasia, si può davvero permettere una rivendicazione, chiamandoli alla moltiplicazione e alla moltitudine. Lo ha fatto in Apologia del cattivo maestro, pezzo tratto da una sua pubblicazione in memoriam del compianto Luciano Ferrari Bravo, e che merita di restare in memoria.
“Il ritorno dei cattivi maestri” è un titolo che ritorna, come un rigurgito di stampa: per esempio quello di un pezzo di Paolo Chiariello, su Roma 14.4.2001, lì in occasione della protesta dei disoccupati napoletani;
Su la Repubblica del 4 marzo 2004 è Mario Pirani che si dedica ai cattivi maestri: sono quelli come Erri De Luca, Daniel Pennac e Philippe Solliers, che hanno osato opporsi alla estradizione di Cesare Battisti dalla Francia;
Su il Sole 24 ore del 21 marzo 2002, Andrea Casalegno ci spiega che “i dirigenti dell’estrema sinistra furono tutti, chi più chi meno, cattivi maestri”;
Ruggero Guarini, su il Tempo dell’8.3.2003, trova una variante ai cattivi maestri che non devono salire in cattedra: dice che non devono più andare in TV “a narrare e interpretare a modo loro questa o quell’altra Notte della Repubblica”.
Questa teoria dei cattivi maestri è una delle più imbecilli che abbiano mai attraversato un discorso pubblico, e che l’espressione piaccia, tra i tanti bidelli della società, anche ai magistrati d’accusa, non è certo una sorpresa, in Italia. Il pubblico ministero Stefano D’Ambruoso ha trovato cattivi maestri in alcuni centri sociali (Avvenire, 30.8.2001), il p.m. Rosario Priore invoca contro di loro il pugno di ferro (il Giorno, 26.8.2001) e così pure il p.m. Antonio Marini, che però ‘non vuole fare nomi’ (il Messaggero, 12.8.2001). Lo stesso recidiva qualche anno dopo sulla ‘tolleranza zero’, e così duetta con la giornalista che lo qualifica di “giudice storico” (?): “-Ci sono ancora 160 primule rosse del terrorismo… -Che possono diventare i cattivi maestri per le giovani leve.” (n.b.: i casi citati sono Cesare Battisti e Alessio Casimirri, il Giorno 21.3.2007: come ‘primule’, piuttosto appassite, ma poco importa a chi ha imparato a scrivere alla sagra del luogo comune).
E, a proposito di Battisti, s’è detto in un altro post di come Arrigo Cavallina si sia rivendicato suo cattivo maestro. C’è però ancora il guru della dissociazione, il Comandante Sergio Segio, secondo cui la teoria dei cattivi maestri è uno scudo giustificazionista; perché a rigor di logica se c’è un maestro cattivo, il pupillo che egli ha traviato non è così colpevole. E no, tuona l’ex-capo di Prima Linea, è una categoria che non va utilizzata (la Repubblica 26.2.2005).
Bisogna precisare che gli articoli qui citati sono solo una minima parte di tutti i pezzi in cui vengono evocati i cattivi maestri, a proposito ormai di ogni genere di occasione e persona: ma di un uso giustificazionista come quello contestato dal superbo Comandante non si trova davvero traccia.
Poco dopo l’episodio del fumogeno lanciato al comizio del segretario CISL Raffaele Bonanni, un altro episodio attizzò la ripetizione del concetto: il non-attentato al direttore del quotidiano Libero, Maurizio Belpietro. I non-fatti, lo si è capito, costituiscono un fondamento perfetto per parlar di cattivi maestri, e permettono pure di accedere all’universo vittimario; così Bonanni: “Io e Belpietro vittime dei cattivi maestri” (Libero, 3.10.2010)
Così conclude l’analisi di Mario Ajello (“I cattivi maestri e l’accusa di ‘servitù’ ritorna la sindrome degli anni di piombo” in il Mattino e il Messaggero del 2.10.2010) su “un allarme che si credeva sepolto nelle caverne della storia” (sic): “La prima riforma da fare -e negli anni di piombo funzionò- sarebbe quella della riconciliazione nazionale fra leader e partiti”.
Fra leader e partiti, appunto.
Tutti gli altri, che non sono né leader né partiti, non appena vedranno un articolo sui cattivi maestri, potranno ricordarsi che, se la monnezza è sulla stampa, la bellezza è senz’altro per strada.
‘Dire che la bellezza è per strada, è essere capaci di recepire tutte quelle pratiche d’invenzione e di libertà che vi nascono’ (L. Sagradini, Théorie critique 2008).
Franco Fortini sul caso 7 aprile
Dieci anni fa gli arresti di Padova. Scrive il Corriere: “se gli arresti del 7 aprile si risolsero in un errore giudiziario e in anni di sofferenze per persone che sarebbero state assolte…”.
A chi spiegare che non si trattò di un errore giudiziario ma di uno sporco atto di violenza compiuto, in solido, da tutta la classe dirigente?
Quel che oggi persino ‘il Manifesto’ dimentica di dire è che da allora l’istruttoria è stata gestita e sostenuta da un giudice, Calogero, considerato ‘vicino’ al Partito Comunista. E che il Partito Comunista ha sempre sostenuto la colpevolezza degli uomini del 7 aprile soprattutto perché avversari della sua politica e perché, dirigendo contro le loro tesi l’ostilità e l’attenzione pubblica, di altrettanto si diminuiva la portata delle radici sociali, politiche e storiche comuniste che avevano dato origine alle Brigate Rosse, dico, non in termini sociologici ma storici. E così per non fare i conti con il proprio passato storico, quando c’era ancora Gorbaciov, il maggior partito d’opposizione trascinò l’opinione pubblica contro gli “intellettuali assassini” con il medesimo entusiasmo con cui per quarant’anni aveva infamato Bucharin o Trotzkij. Così, o anche così, si perdono le cause storiche. E poi si rovescia tutto e si vuol far credere che la conseguenza sia la causa.
Il declino del PCI italiano si distende lungo gli anni Ottanta. Gli organismi politici non fanno autocritiche finché sono forti. Ma diventano deboli per non averle fate. I compagni di Autonomia invecchiano a Parigi.
Ferrari Bravo, tornato in cattedra a Padova dopo cinque anni di prigione, rammenta in un’intervista la battuta di un autore cecoslovacco: chi è passato attraverso le guerre del nostro secolo, e fino alla presente distruzione ecologica, senza essere andato in galera per reato di opinione non può dire di aver sperso bene la sua vita.
Non sono andato in galera per reato d’opinione. Per caso, credo.
Quel che ho detto in pubblico tra il 1967 e il 1973 e quel che poi ho scritto e stampato sarebbe stato più che sufficiente per una adeguata detenzione. O ero considerato ingombrante perché ‘poeta’? E’ probabile. Nelle valutazioni di certa gente -almeno alle nostre latitudini, perché sotto altre lo scrittore e l’artista sono caccia prelibata per gli squadroni della morte- valgono i canoni che nelle classi dirigenti da costoro servite hanno per secoli privilegiato il santone o infante (anche per meglio poterlo disprezzare) il Musarum sacerdos.
——–FRANCO FORTINI, Per le Prigioni tratto da “Extrema Ratio” ———
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