7 APRILE 1979: processo all’Autonomia
7 aprile 1979.
Stampa e tv danno notizia della maxi-retata che da poche ore ha portato in galera il presunto vertice delle Brigate Rosse. Gli arresti, avvenuti su tutto il territorio nazionale, sono stati ordinati dal sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero.
Quasi tutti gli accusati sono intellettuali: docenti universitari, scrittori, giornalisti e leaders dei diversi movimenti post-’68. Tra i più noti vi sono: Antonio “Toni” Negri, docente di Dottrina dello Stato all’università di Padova, indicato come capo e ispiratore di tutta la galassia sovversiva italiana; Nanni Balestrini (latitante), poeta e scrittore, già nel Gruppo 63 e poi autore del romanzo-culto “Vogliamo tutto”; Franco Piperno (latitante), docente di fisica all’università di Cosenza; Oreste Scalzone, insieme a Piperno leader storico del ‘68 romano; Luciano Ferrari Bravo, Guido Bianchini,
Sandro Serafini e Alisa del Re, tutti assistenti di Negri all’università di Padova; Giuseppe “Pino” Nicotri, giornalista del “Mattino” di Padova, di “Repubblica” e de “L’Espresso” (in passato si è occupato della controinformazione su Piazza Fontana, e le sue scoperte sugli spostamenti di Franco Freda sono state preziose per le indagini di Calogero); Emilio Vesce, redattore delle riviste “Rosso” e “Controinformazione. L’elenco prosegue con diversi militanti dell’Autonomia Operaia ed ex-membri del gruppo Potere Operaio, scioltosi nel 1973. Secondo gli inquirenti, Potere Operaio non si sarebbe sciolto, piuttosto sarebbe divenuto un’organizzazione clandestina, una vera e propria “cupola” della sovversione. Inoltre, malgrado l’evidenza di insanabili contrasti teorici e politici, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono ritenute la stessa cosa, o meglio: la “illegalità di massa” propugnata dalla prima non sarebbe che il mare magnum in cui sguazza l’avanguardia clandestina rappresentata dalle seconde. Per alcuni degli arrestati vale solo la seconda parte del mandato, cioè l’accusa di associazione sovversiva. Al contrario, su Negri e alcuni altri sta per rovesciarsi una valanga di fantasiosi mandati di cattura per gli episodi più diversi. Nei giorni successivi il processo si estende ai redattori della rivista romana “Metropoli”, su cui scrivevano anche Scalzone e Piperno. I nuovi inquisiti sono Libero Maesano, Lucio Castellano e Paolo Virno. Anche loro apparterrebbero in blocco all’organizzazione eversiva “costituita in più bande armate variamente denominate”, per il semplice motivo di… aver scritto su “Metropoli”. Pleonasmi a non finire. Davvero curiosa questa “guerra civile” combattuta a colpi di saggi, editoriali, recensioni… e anche fumetti: su “Metropoli” è comparsa una drammatizzazione a fumetti del caso Moro. Secondo gli inquirenti, alcune vignette contengono l’esatta riproduzione della “prigione del popolo” in cui era rinchiuso Moro. Poi si verrà a sapere che l’autore si è ispirato a un fotoromanzo di “Grand Hotel”. Ormai sappiamo tutti che Toni Negri non era il capo delle Brigate Rosse, né il telefonista dei rapitori di Moro, né l’assassino di Carlo Saronio. Eppure un giudice, su basi così palesemente assurde, imbastì nel 1979 il processo simbolo del periodo dell’ “emergenza”, rimasto noto come “il caso 7 aprile”. Vi furono coinvolti prima una ventina di imputati, quasi tutti docenti e ricercatori della facoltà di Scienze Politiche di Padova, poi divenuti oltre un centinaio. Molti furono incarcerati, altri costretti all’esilio, uno (“Pedro”) perse la vita, ucciso dalle forze dell’ordine mentre era armato di un semplice ombrello. Inutile dire che gli assassini di Pedro rimasero impuniti, e che il magistrato che gestì il processo ha tranquillamente fatto carriera.
L’impianto dell’inchiesta crollò solo grazie alle confessioni di Patrizio Peci, che dimostrarono come Negri, Piperno, Scalzone e gli altri del 7 aprile, con le Brigate Rosse, non avessero nulla a che spartire. Il teorema Calogero è rimasta la più impressionante montatura mediatico-giudiziaria dell’Italia repubblicana.
A trent’anni da quel giorno, martedì 7 aprile 2009 Filorosso organizza un’iniziativa dal titolo “Una storia da ricordare” con alcuni dei protagonisti, loro malgrado di quella vicenda: Franco Piperno, Oreste Scalzone (in collegamento da Parigi) e Francesco Febbraio, che in quel periodo era studente e attivista politico all’Università di Padova.
La discussione si terrà alle ore 17:30 presso il Capannone del Filorosso nell’edificio Polifunzionale dell’Unical di Cosenza. L’iniziativa è rivolta agli studenti universitari che nel ’79 non erano ancora nati e che avranno l’occasione di ascoltare una pagina di storia raccontata dalla voce viva di chi l’ha vissuta sulla sua pelle.
QUI UN BRANO DI FORTINI SUL 7 APRILE
“…NON VOGLIAMO DISCUTERE DI FRONTE AL NEMICO LA LORO MORTE…”
A 35 ANNI DALLA MORTE DI ANTONIETTA, LORENZO, ANGELO, ALBERTO
(Gianni Sartori)*
Negli anni settanta del secolo scorso il protagonismo politico e sociale delle classi subalterne conobbe una forte radicalizzazione.
Anche nel Veneto, considerato una sorta di “Vandea” bianca e bigotta, ma che era stato periodicamente percorso da stagioni di lotte significative: dal “furto campestre di massa” a La Boje, dalle “Leghe bianche” (che in genere operavano come quelle “rosse”) alla Resistenza (v. i durissimi rastrellamenti del 1944: Malga Zonta, Asiago, il Grappa, il Cansiglio…).
Senza dimenticare la rivolta operaia di Valdagno del 19 aprile 1968. E non mancarono, dalla Bassa padovana all’Alto Vicentino, componenti libertarie. All’inaugurazione di una delle prime sedi sindacali a Schio partecipò Pietro Gori (l’autore di Addio Lugano bella). Una tradizione testimoniata da personaggi come il compagno anarchico “Borela”, un Ardito del Popolo che accolse i fascisti in marcia verso Schio a pistolettate. Per non parlare di uno dei fondatori del Pcd’I, Pietro Tresso (“Blasco”, comunista dissidente, ucciso in Francia da agenti della Ghepeù stalinista) e di Ferruccio Manea (il “Tar”), eroico comandante partigiano ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”. Tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta a Vicenza era presente un gruppo anarchico, il MAV, molto attivo nella denuncia delle istituzioni totali. Altri gruppi a Schio, Valdagno e Marano vicentino (Circolo operaio anarchico).
Di questa tradizione si alimentarono le lotte di autodifesa proletaria contro i devastanti progetti capitalisti degli anni settanta. Progetti che trasformarono gran parte della terra veneta in un’alienante territorio urbanizzato, il modello nordest della “fabbrica diffusa”. Contro la drastica ristrutturazione produttiva (licenziamenti, lavoro nero e precario, intensificazione dello sfruttamento, inquinamento ambientale…) sorsero alcune inedite forme di autorganizzazione come i Gruppi Sociali, i Coordinamenti Operai, l’Opposizione Operaia. I metodi non furono sempre “eleganti”, ma sappiamo che “non è un pranzo di gala”.
La nuova Resistenza fu particolarmente attiva lungo la fascia pedemontana dell’Alto Vicentino in località come Schio, Piovene, Thiene, Lugo, Chiuppano, Calvene, Bassano…
Il 7 Aprile 1979 è passato alla Storia come la data dell’arresto di alcuni esponenti dell’area dell’Autonomia Operaia organizzata (Negri, Vesce, Ferrari Bravo…). Nel vicentino la mobilitazione è immediata. Per l’11 aprile è prevista una manifestazione nazionale a Padova e la sera precedente a Schio si organizza un’affollata assemblea del movimento. Da segnalare che in seguito i partecipanti rischieranno di essere incriminati perché l’assemblea pubblica verrà classificata come “riunione del servizio d’ordine” in cui sarebbero stati pianificati futuri attentati. L’11 aprile la manifestazione nazionale si svolse al Palasport dell’Arcella (Padova) con la partecipazione di circa seimila persone. Ma contemporaneamente a Thiene esplodeva una bomba rudimentale uccidendo i tre giovani che la stavano confezionando. Si trattava di Antonietta Berna, Angelo Dal Santo e Alberto Graziani, tre noti e attivi militanti dell’Alto Vicentino.
Resasi indipendente dalla famiglia, Antonietta viveva di lavoro nero svolto a domicilio. Angelo Dal Santo, operaio, nel 1978 era entrato nel consiglio di fabbrica della RIMAR. Grazie al suo impegno i lavoratori di questa fabbrica metalmeccanica di Lugo avevano ottenuto migliori condizioni normative e salariali. Aveva poi organizzato picchetti e ronde contro gli straordinari. Partecipò all’occupazione di case sfitte e della “Spinnaker”. Ai suoi funerali, oltre a centinaia di compagni, erano presenti tutte le operaie di tale fabbrica.
Angelo Graziani, studente universitario, aveva preso parte a tutte le iniziative del movimento: lotte per la casa e contro gli straordinari, organizzazione di precari e disoccupati…
In un comunicato del 1° maggio 1979 i tre militanti vennero ricordati dal “Comitato per la liberazione dei compagni in carcere”:
“Come movimento comunista, al di là delle attuali differenze interne, rivendichiamo la figura politica di questi compagni. Maria Antonietta Berna, Angelo Dal Santo, Alberto Graziani sono stati parte integrante nella loro militanza di tutte le lotte dei proletari della zona. Sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata e organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nessuna disputa di linea politica e le differenziazioni di impostazione e di analisi e di pratica dentro il movimento possono offuscare e negare l’appartenenza di questi compagni all’intero movimento rivoluzionario, a tutti i comunisti. Di fronte all’iniziativa del nemico di classe, alle iniziative repressive, al terrore fisico e psicologico, al terrorismo propagandistico, allo stravolgimento e strumentalizzazione dei fatti, l’intero movimento di classe deve rivendicare a sé questi compagni caduti, per non dimenticare, per ricordare. Non vogliamo discutere di fronte al nemico la loro morte, essa vive oggettivamente e soggettivamente dentro il movimento di classe in Italia, alla sua altezza e nelle sue difficoltà, nel suo sviluppo fatto con la vita e con la morte di migliaia di compagni lungo una strada che porti fuori dalla barbarie capitalistica e dalla miseria del socialismo reale, per il comunismo. A questa strada difficile questi tre compagni hanno dato comunque il loro contributo, la loro vita. Per questo, oggi più che mai, sono con tutti noi”.
La sera stessa arrivano i primi arresti. Vengono incarcerati Chiara, moglie di Angelo; Lucia, compagna di Alberto; Lorenzo, compagno di Antonietta. Nel giro di poche ore anche Corrado e Tiziana che abitavano con Chiara e Angelo. Un altro ordine di cattura viene spiccato contro Donato, al momento irreperibile. Nel frattempo vengono eseguite decine di perquisizioni e si effettuano numerosi fermi. Un gran numero di posti di blocco trasforma i dintorni di Thiene in un quartiere cattolico di Belfast. Tutti coloro che in qualche modo avevano a che fare con il Gruppo Sociale di Thiene rischiano ora l’incriminazione per banda armata. A tutti gli arrestati vengono contestati: l’appartenenza ad una associazione sovversiva costituita in banda armata; il concorso nella fabbricazione dell’ordigno esplosivo e nella detenzione di armi; il concorso in tutti gli episodi avvenuti nel Veneto negli anni precedenti. Fino al concorso morale nella morte dei tre giovani di Thiene. In un documento presentato da un imputato alla Corte d’Assise (“Quegli anni, quei giorni, autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”) viene riportato che “la sera dell’11 aprile Chiara, Lucia e Lorenzo vengono condotti all’obitorio dell’ospedale di Thiene e lì costretti al riconoscimento dei corpi straziati e devastati”. E aggiunge “…il riconoscimento venne effettuato con criteri infami usandolo come deterrente per tutti i compagni”.
Lorenzo Bortoli subisce l’isolamento totale per quasi un mese. Dopo l’isolamento viene messo in cella con un altro imputato che starebbe già collaborando con i giudici, all’insaputa di tutti. Ricorda un suo amico che “gli si è voluto spezzare violentemente ogni possibilità di socializzazione, di vivibilità, di solidarietà all’interno del carcere, costruendogli addosso e attorno una realtà che solo attraverso la decisione di darsi la morte poteva negare”. Il primo tentativo di suicidio è dell’11 maggio con una ingestione di Roipnol. La direzione del carcere cercherà, invano, di farlo passare come un episodio di uso di sostanze stupefacenti. Numerose mozioni del Comitato Familiari
che esprimono preoccupazione per la vita di Lorenzo, saranno sottoscritte da consigli di fabbrica e di quartiere. Anche sindacati e partiti intervengono affinché si ponga fine alla detenzione del giovane garantendogli la possibilità di ricostruirsi un equilibrio psico-fisico. Ma tra il primo e il secondo tentativo di suicidio (22 maggio) i magistrati spiccano un nuovo mandato di cattura accusandolo di aver preso parte ad alcune rapine. In realtà in quei giorni Lorenzo si trovava al lavoro. Il 29 maggio l’avvocato Carnelutti, suo difensore, presenta un’istanza con cui chiede la libertà per Lorenzo Bortoli e per Chiara Dal Santo che tra l’altro aspetta un figlio. La richiesta è motivata da “gravi e preoccupanti motivi di salute”. E ancora, quasi una premonizione: “Un possibile irreparabile danno all’integrità psico-fisica dei due giovani peserebbe sul processo”.
Ma il 31 maggio l’istanza viene respinta e le accuse ribadite, anche l’omicidio colposo nei confronti di Antonietta Berna. Il 18 giugno Lorenzo Bortoli viene trasferito con destinazione Trento. Sosta nel carcere di Verona e viene sistemato in una cella da solo. L’avvocato Carnelluti deposita a Vicenza un’istanza (che fa arrivare direttamente al G.I.) in cui segnala “il delicato stato di salute di Lorenzo Bortoli (fra l’altro reduce da due autentici tentativi di suicidio e da provocazioni di un coimputato assai sospetto) e mi preoccupo per l’atmosfera squallida di un carcere che non è certamente tra i migliori. Perché questa scelta? Da chi viene?”. Raccomanda inoltre di “valutare attentamente l’intenzione del mio difeso di restare solo in cella dal momento che le esperienze negative del passato legittimano il sospetto che ogni compagno di cella possa essere un provocatore”. Ma ormai il destino di Lorenzo sta per compiersi. Si toglie la vita impiccandosi nella notte tra il 19 e il 20 giugno. Il suo ultimo desiderio, quello di poter essere sepolto con Antonietta si realizzerà solo in parte: le due tombe sono distinte ma comunque vicinissime.
Gianni Sartori
*nda Per una serie di vicende personali chi scrive non ha partecipato di persona alle lotte della seconda metà degli anni settanta di cui si parla nell’articolo. Credevo anzi di aver concluso la mia militanza, iniziata davanti alla Ederle nell’ottobre 1967, con le manifestazioni del settembre 1975 al consolato spagnolo di Venezia per protestare contro la fucilazione di due etarras e di tre militanti del FRAP. A farmi ricredere, nel 1981, la morte per sciopero della fame di Bobby Sands e di altri nove repubblicani dell’IRA e dell’INLA (contemporaneamente a quella di un prigioniero politico basco dei GRAPO).
Quindi soltanto negli anni ottanta ho conosciuto alcuni di quei compagni dell’Alto Vicentino che avevano subito la repressione del 7 aprile. La mia prima impressione fu che in questa area pedemontana la “breve estate dell’Autonomia” avesse avuto caratteristiche simili a quelle dell’Irlanda del Nord e di Euskal Herria, sviluppando un’idea di “società molto orizzontale” (così Eva Forest mi spiegava la lotta dei baschi).
Bibliografia minima:
1)“Quegli anni, quei giorni – autonomia operaia e lotte sociali nel Vicentino: 1976-1979”
(E’ un testo ricco di informazioni di carattere storico, indispensabili per comprendere il contesto dei tragici avvenimenti del 1979. Realizzato da un imputato vicentino del processo “7 Aprile-Veneto”, fotocopiato in proprio, pro manuscripto, forse reperibile in qualche Centro di documentazione ndr)
2)“E’ primavera. Intervista a Antonio Negri” di Claudio Calia, BeccoGiallo edizioni, 2008
(a fumetti)
3) “Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie” (2 volumi) a cura di S. Bianchi e L. Caminiti, DeriveApprodi, 2007
4) ed eventualmente per conoscere anche l’altra campana: “Terrore Rosso – dall’autonomia al partito armato” Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, editori Laterza, 2010.
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TRA REVISIONISMO SPICCIOLO E PERDITA DELLA MEMORIA
(Gianni Sartori)
Sempre più spesso ci tocca dover leggere interpretazioni e ricostruzioni artefatte, mistificanti (quantomeno superficiali, in qualche caso semplicemente false) sugli anni 60-70-80….
Vabbè, abbiamo perso e la Storia la riscrivono i vincitori, ma almeno siate plausibili.
O forse mistificare, stravolgere, infamare…serve ancora per esorcizzare la “grande paura” delle classi dominanti nei confronti di un possibile ritorno delle rivolte popolari? Il guaio è che a furia di insistere su alcune falsità queste diventano moneta corrente, luoghi comuni e le ritrovi anche dove non te lo aspetteresti. Qualche esempio alla rinfusa (ma volendo l’elenco sarebbe lunghissimo). Parlando su La Repubblica dei funerali di Pino Rauti Alessandra Longo (in genere osservatrice intelligente e preparata) definiva il fondatore di Ordine Nuovo un esponente del “fascismo di sinistra, anticapitalista e antimperialista”. Delirante. In che cosa sarebbe stato “antimperialista” questo ammiratore dell’OAS? Antimperialisti i neofascisti che si arruolarono nell’esercito sudafricano per combattere la resistenza indipendentista della SWAPO in Namibia? O quelli che in Libano collaboravano con la Falange maronita?
“Antimperialista” anche Concutelli che in Angola divenne il vice del collaborazionista Jonas Savimbi, uomo della CIA, dopo aver fornito manovalanza alle squadre della morte antibasche in Spagna (con Rognoni, Delle Chiaie e Guerin Serac, come ha ricordato il giudice Salvini nella sentenza ordinanza della strage di piazza Fontana)? E poi, perché avvallare, sempre su La Repubblica, la favola di un Ordine Nuovo “anticapitalista”? Forse per il coinvolgimento nelle bombe del 12 dicembre 1969 nelle banche? Ma per favore! Incomprensibile poi che venga definito “il Gramsci di destra” (!?!). Forse per aver denominato la sua organizzazione “Ordine Nuovo” come il giornale del comunista sardo-torinese vittima del fascismo? Ma Gramsci pensava ad una nuova forma di organizzazione sociale che doveva sorgere dai consigli operai (“soviettista”) mentre per Rauti era la versione italica dell’Ordre Nouveau francese che si ispirava all’Ordine Nero delle SS (nel senso di confraternita, gruppo chiuso dell’aristocrazia guerriera dominante, come i cavalieri teutonici). Gli unici tentativi (comunque taroccati) di “gramscismo di destra”, che io sappia, sono quelli del francese De Benoist e di quel Tarchi che fu redattore della “Voce della Fogna” e tra gli ideatori dei campi Hobbit. Si parva licet, vorrei citare anche un’intervista (apparsa sul settimanale diocesano vicentino) ad Achille Serra da cui si ricava che l’inizio degli “anni di piombo” (termine abusato preso in prestito dalla Germania e inizialmente utilizzato per definire il biennio 1977-1978) risalirebbe addirittura al novembre del 1969 e alla morte dell’agente Annaruma “morto in uno scontro tra la polizia e gli anarchici”. A parte che Annaruma, presumibilmente, potrebbe essere rimasto vittima di uno scontro tra gipponi impegnati nei famosi “caroselli” (come sembrerebbe da un video visto in Francia, ma censurato dalla Rai, un metodo che costò la vita negli anni sessanta all’Ardizzone e nel 1975 a Giannino Zibecchi, per citarne un paio) resta il fatto che in quel momento davanti al Lirico di Milano si trovavano gli operai metalmeccanici dei tre sindacati confederali e un gruppetto di maoisti (tanto per la precisione). Certo, far iniziare gli “anni di piombo” venti giorni prima della strage di Stato a Piazza Fontana (e almeno sei o sette anni prima di quelli realmente e storicamente definibili come tali) permette di annacquare il tutto, stendere un velo sulla strategia della tensione e sul ruolo di manovalanza svolto dai fascisti, alzare una cortina fumogena indistinta sulla “violenza” e nascondere le responsabilità di apparati più o meno occulti in quelli che caso mai si dovrebbero chiamare “anni del tritolo di stato” (vedi, oltre al 12 dicembre, le stragi di Brescia e dell’Italicus nel 1974). Fermo restando che all’epoca il piombo statale aveva già fatto le sue vittime tra i manifestanti (Avola e Battipaglia, fine 1968-inizi 1969) nel solco di una tradizione ben consolidata. Ricordo che all’epoca ho personalmente distribuito i volantini che denunciavano l’uccisione di oltre un centinaio di manifestanti dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta. Se non ricordo male, perfino i sindacati chiedevano il disarmo della polizia! Altro esempio di blando “revisionismo” (stavolta ritengo del tutto inconsapevole) dove non me lo sarei mai aspettato, su “A, Rivista anarchica”. Parlando della recente autobiografia del fondatore di Avanguardia Nazionale (dove questo collaboratore storico dei regimi fascisti di mezzo mondo si sforza di paludarsi con un’immagine da “rivoluzionario tercerista”, quasi un montonero) l’autore della recensione lamenta che Stefano Delle Chiaie non abbia ben chiarito quali fossero le sue attività nei periodi trascorsi in Spagna e in Bolivia. Beata ingenuità! Mai sentito parlare della consistente presenza di neofascisti italiani nelle squadre della morte contro i rifugiati baschi? E della mitraglietta Ingram già in dotazione alla Guardia Civil (”sottratta” a Delle Chiaie, nella versione di Concutelli) e poi utilizzata per assassinare il giudice Occorsio? O delle foto che ritraggono il “caccola” con altri neofascisti italiani al raduno di Monte Jurra (Jurramendi in euskara) dove vennero assassinati alcuni esponenti della componente democratica dei Carlisti? Quanto alla Bolivia, è noto che Delle Chiaie fornì le sue competenze al regime golpista e torturatore.
Nel libro (con il titolo “L’aquila e il condor” preso in prestito da un testo iniziatico di sciamanesimo; forse era più indicato “L’avvoltoio e la iena” con tutto il rispetto per i due simpatici necrofagi) viene pubblicato un esempio da manuale di “intossicazione e propaganda”. Un volantino per il Primo maggio dove si strumentalizzano perfino i Martiri di Chicago (anarchici, condannati a morte del tutto innocenti) per dare un’immagine “sociale” e antimperialista della giunta militare.
Forse, oltre al classico “La strage di Stato” (per quanto da aggiornare in base alle nuove informazioni che il compianto Edgardo Pellegrini all’epoca non poteva certo scovare) andrebbero riletti almeno “La destra radicale” (a cura di Franco Ferraresi, Feltrinelli ed.) e il libro di Stuart Christie “Stefano Delle Chiaie, portrait of a black terrorist”, black papers n.1, Anarchy magazine/refract publitions, London 1984. Non c’è tutto, ma quanto basta per farsi un’opinione. Una boccata di aria fresca dopo le ambigue rivalutazioni del neofascismo operate dai vari epigoni di Giampaolo Pansa (Luca Telese, Nicola Rao…forse più il primo che il secondo).
Gianni Sartori
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vedo che avete qualche problema a “moderare” l’ultimo commento-contributo
toglietelo pure e tanti saluti
ciao
GS
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http://www.alternativacomunista.it/content/view/2216/1/
segnalo questo esperimento di “fumetto proletario”. Il 19 aprile 1968 è un precedente che spiega ,in parte, come mai l’Alto Vicentino negli anni settanta fu terra di conflitti sociali
ciao
Gianni Sartori
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