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Mobilitazione internazionale per Sonja Suder: LA VOGLIAMO LIBERA!
Ho seguito la loro vicenda dal primo istante,
e non solo perché ho lo sguardo e il sorriso di questi due compagni ancora nel cuore,
non solo perché ricordo il vino bevuto assieme attorno ad un tavolo di rifugiati che lottava per bloccare la loro imminente estradizione. Una battaglia andata male, perché poche settimane dopo son stati catturati,

Manifesto ad Amburgo: “_Oggi come allora – mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l’accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _”
malgrado gli 80 anni di Sonja (ora sono 81) e le non buone condizioni di salute di Christian, che infatti ha avuto un arresto cardiaco poco dopo il suo arresto.
Scopro solo ora, provbabilmente con infinito ritardo (come tutto in questi giorni) di questa mobilitazione internazionale per loro, e soprattutto per la liberazione IMMEDIATA di Sonja.
Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione
14 Settembre 2013 – Mobilitiamoci ovunque per protestare contro la legittimazione della tortura nel processo a Sonja Suder e per la sua liberazione.
Il 14 Settembre 2011, Sonja ed il suo amico Christian sono stati estradati dalla Francia e consegnati agli sbirri tedeschi per poi essere incarcerati. Christian è stato liberato, ma Sonja resta ancora dentro.
Hanno lasciato la Germania nel 1978 quando, dopo una dura repressione contro i movimenti rivoluzionari, ogni persona coinvolta nelle proteste radicali doveva temere di essere il bersaglio della vendetta di stato.Per due anni, Sonja è rimasta in custodia nella prigione di alta sicurezza di Francoforte-Preungesheim; per un anno è stata sotto processo in base a due testimonianze: una di un pentito e l’altra fornita sotto tortura nel 1978 da un uomo sospettato di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Se il pentito (infame) Hans-Joachim Klein ha testimoniato senza vergogna nel tribunale di Francoforte dando l’ennesima versione piena di contraddizioni (che comunque il giudice crede di accettare), Hermann F., al contrario, ha sempre contestato il contenuto della sua testimonianza: ciò che ha detto fu solo il risultato di quattro mesi di torture al di fuori di ogni procedura legale.
Dopo un gravissimo incidente venne interrogato poco dopo l’amputazione delle gambe e l’essere rimasto totalmente cieco. Dolore, trauma, droghe, isolamento, confusione, disorientamento lo hanno costretto a riempire 1300 pagine di dichiarazioni forzate. Detenuto illegalmente in una stazione di polizia senza contattare un avvocato, senza aiuto, in oltre cieco e gravemente invalido, ciò che ha subito può essere definito solo tortura.
Il 13 Agosto 2013, il tribunale di Francoforte ha iniziato la lettura di queste testimonianze date da Hermann nel 1978. La lettura continuerà nelle prossime udienze. L’ottantenne Sonja, dopo più di 35 anni dai fatti che le vengono contestati, potrebbe essere condannata in base a delle dichiarazioni il cui uso significa legittimare legalmente la tortura
poliziesca.Sonja è stata accusata dalla polizia e dalla giustizia tedesca fin dalla fine degli anni 70. Sospettata di aver fatto parte delle Cellule Rivoluzionarie, il suo processo riguarda tre attacchi che hanno causato solo limitati danni materiali nel 1977 e 1978: Contro M.A.N. che contribuiva all’armamento atomico per il Sud Africa (durante l’apartheid), contro KSB che costruiva impianti per le centrali nucleari; contro il castello Heidelberg per protestare contro la gentrificazione; è inoltre sospettata di aver preso parte all’organizzazione logistica dell’attacco al OPEC a Vienna nel 1975.
Oggi, tenendola sotto processo e prigioniera, la minaccia di farla morire in carcere, lo stato federale non mira solo a Sonja. Lo stato vuole vendicarsi di una storia rivoluzionaria e far capire alla gente che non si protesta impunemente.
La condanna di Sonja sarà la condanna alla ribellione: rifiutandosi di collaborare e parlare lei continua ad accusare lo stato e il suo carnevale giuridico. La prigionia di Sonja sarà uno spauracchio usato per spaventare tutti quelli che lottano oggi. Non è una donna ottantenne il bersaglio della vendetta, lo sono tutti quelli che, come lei, non vogliono sottomettersi.Sonja deve tornare libera! Per una mobilitazione internazionale il 14 Settembre 2013!
L’accanimento giudiziario contro Paolo Persichetti, da Radio Black Out
Un’intervista di Paolo Persichetti a Radio Black Out sul rigetto della sua richiesta di affidamento ai servizi sociali a meno di tre anni dal suo fine pena e a 25 dai fatti per cui è stato condannato.

Odio questa fotografia
Difficile parlare con distacco, su un blog, di un qualcosa che attanaglia la mia vita, il mio cuore e anche la crescita del nostro bimbo, che speravamo di tener lontano almeno ora da quelle mura con garitta, ma che invece sarà costretto a comprenderle, per i prossimi anni.
Difficile ma necessario, quindi non scrivo altro, vi lascio un po’ di link e ringrazio la redazione di Radio Black Out, infinitamente, ancora una volta.
Su questo blog molto, ovviamente, a riguardo:
– Saviano e il brigatista
– Solidarietà a Paolo Persichetti
– Dovrò spiegare il carcere a mio figlio. Il rigetto dell’affidamento a Paolo Persichetti
– Paolo Granzotto e il funzionario di Rebibbia
Da RadioBlackout:
Una vicenda inquietante che getta una luce ancor più sinistra sui criteri di valutazione con cui operatori e magistrati di sorveglianza valutano l’accesso dei detenuti ai benefici previsti dalla legge. Si giudicano “immorali” le opinioni del detenuto, gli si dice chiaramente che il “giusto” atteggiamento è il cieco adempimento di qualunque richiesta provenga dalla direzione carceraria.
Ascoltate la diretta con Paolo Persichetti, attore dell’ultima fase della storia delle Brigate Rosse nella metà degli anni ’80, estradato dallo stato francese e ad oggi unica vittima della sospensione della dottrina Mitterand.
Paolo Granzotto, il funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia e l’immoralità
Pubblico questo articolo perché non posso non farlo.
Per il suo contenuto di denuncia, puntuale e pignolo come è giusto che sia,
e per la sua firma. E’ un testo di Paolo, Paolo Persichetti, che la scorsa settimana s’è visto rigettare la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali, che significava semplicemente la fine del regime di semilibertà.
il rientro a casa la notte, da noi. [Leggi: Dovrò spiegare il carcere a mio figlio]
Nulla di fatto, la sentenza parla chiaro e tra poco la renderemo pubblica su questo e sul suo blog.
Abbiamo già pubblicato la “relazione di sintesi sul detenuto”, e siete stati in molti a rimaner sconcertati dalle parole che avete letto…il carcere sconvolge, perché chi non lo conosce non immagina che possa invadere ogni meandro della propria esitenza. Quelle frasi sulla forma mentis del Persichetti vi hanno fatto rabbrividire…
e allora vi consiglio di leggere quel che segue..
che analizza le parole dell’educatore, firmatario di quella surreale relazione di sintesi, “scientifica” per altro.
D’altronde, se i loro punti di riferimento sono certi giornalismi il cerchio si chiude, tutto torna comprensibile anche nella sua illogicità.
Buona lettura, preparatevi come sull’aereo, con il sacchetto per contenere il vomito
Uno dei passaggi della relazione di sintesi postata nei giorni scorsi (Vedi qui), nella quale il Gruppo d’osservazione e trattamento della Casa di reclusione di Rebibbia ha chiesto al Tribunale di sorveglianza di Roma di non concedermi l’affidamento in prova al servizio sociale (articolo 47 dell’ordinamento penitenziario), obiezione accolta dal collegio giudicante che nella camera di consiglio del 3 maggio scorso ha ritenuto: «la misura dell’affidamento non idonea allo stato della rieducazione del condannato e ad assicurare esigenze di prevenzione, apparendo necessaria un consolidamento del processo avviato ed una verifica dello stesso», merita un’attenzione tutta particolare.
Il funzionario giuridico-pedagogico (comunemente definito “educatore”), estensore del testo, scrive a proposito del mio lavoro di giornalista presso la redazione del quotidiano Liberazione che «Tale condizione gli ha consentito e gli consentirà di effettuare legittimamente esternazioni che a taluno (vedasi su internet) sono parse, come detto, ideologiche ed immorali: ci si riferisce, nello specifico, alla difesa del Persichetti della decisione presa alcuni mesi fa dall’allora Presidente del Brasile, Ignazio “Lula” Da Silva, di non estradare in Italia il terrorista Cesare Battisti».
1) Notate il singolare impiego del termine “esternazione”, entrato nel linguaggio comune nei primissimi anni 90 a seguito dei numerosi, e all’epoca inusuali, interventi pubblici in sede non istituzionale del presidente della Repubblica Francesco Cossiga (in realtà aveva cominciato Sandro Pertini nel settennato precedente). Da allora il “Potere di esternare” è diventato uno degli attributi politici più importanti del capo dello Stato, come oggi sottolineano molti costituzionalisti che attribuiscono un significato positivo a questa consuetudine, ritenuta uno strumento di «garanzia ed equilibro» delle istituzioni. Giudizio esattamente opposto a quello espresso ai tempi di Cossiga, quando invece le esternazioni venivano stigmatizzate come un’azione destabilizzatrice. Per questa abitudine l’allora capo dello Stato venne definito «picconatore», al punto che Eugenio Scalfari al comando del partito di Repubblica promosse, seguito a ruota dal Pci-Pds, un tentativo di impeachment contro il Quirinale sulla scorta di quanto previsto dall’articolo 90 della costituzione.
Il potere di esternazione è dunque una innovazione “presidenzialista” della funzione di capo dello Stato che nella originaria interpretazione a centralità parlamentare della carta costituzionale era invece legata ad un maggiore dovere di riserbo: il presidente della Repubblica parlava solo in circostanze solenni o inviando lettere alla camere. Il ricordo di duci, monarchi e imperatori aveva spinto i costituenti ad attribuire alla figura del presidente della Repubblica un ruolo di mera rappresentanza simbolica, diffidando della eccessiva personalizzazione e della concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo.
Definire esternazioni gli articoli o le interviste di un detenuto che fa il giornalista, insinua dunque l’idea di una appropriazione eccezionale e privilegiata della possibilità di parola che altrimenti – si lascia intendere – dovrebbe essere relegata al più stretto riserbo. Come a voler dire che i detenuti non sono cittadini come gli altri, non hanno diritto di libera espressione.
2) Nello stesso passaggio, le cosiddette “esternazioni” vengono sottoposte all’insigne parere di un certo professor «Taluno», che il funzionario giuridico-pedagogico scrive di aver pescato in internet. A detta di questa autorevole fonte i miei articoli e le mie interviste avrebbero caratteristiche «ideologiche ed immorali». Poco prima, il funzionario aveva citato un’altra eminente opinione: quella del signor «Qualcuno», per il quale le mie posizioni non «riflettono un’idea» ma «piuttosto un’ideologia» (segnalata in corsivo nel testo).
Quali fossero le ragioni di questa dotta distinzione (platonico-marxista) tra il mondo sano delle idee e la gramigna dell’ideologia, sia il signor «qualcuno» che il funzionario giuridico-pedagogico non lo dicono.
Andiamo oltre. Incuriosito da tali eminenti pareri dopo aver letto la relazione del Got ho chiesto al funzionario giuridico-pedacogico dove avesse rintracciato i giudizi del signor «Qualcuno» e del professor «Taluno», perché su internet avevo trovato solo l’opinione di un certo «Talaltro», che stranamente prendeva le mie parti. Nel corso della lunga chiacchierata telefonica che fece seguito alla mia chiamata, il funzionario mi ha confessato che il professor «Taluno» altri non era che Paolo Granzotto del Giornale.
L’educatore sosteneva di essersi ispirato per quel giudizio ad un articolo di Granzotto, un giornalista le cui posizioni – come è noto – non riflettono un’ideologia ma un’idea, che poi questa sia di estrema destra, o peggio razzista, non importa.
Ma chi è Paolo Granzotto (leggete qui)? Biografo di Indro Montanelli, con il quale ha lavorato al Giornale dove è rimasto dopo l’arrivo di Berlusconi, Granzotto è stato sanzionato dall’Ordine dei giornalisti per aver scritto in un articolo del 2009, pubblicato su Il Giornale, che bisognava rispedire al mittente «la feccia rumena» (vedi qui). Per queste espressioni xenofobe ha ricevuto la sanzione della censura che viene inflitta nei casi di «abusi o mancanze di grave entità» e «consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata». La fonte battesimale ideale per esprimere giudizi di moralità e liceità sul pensiero altrui. Davvero un’ottima scelta quella del funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia penale.
Ma non è ancora finita. Ho cercato l’articolo di Granzotto (che potete leggere qui), e cosa ho scoperto?
Granzotto non scrive mai la parola immorale. Non pronuncia mai quella frase. Quanto sostiene il funzionario giuridico-pedagogico non c’è. Nel pezzo del 3 gennaio 2011 Granzotto, come suo solito, scrive un sacco di fesserie. In poche righe riesce a piazzare due grossolane falsità: pur di spingere sul tasto dell’impunità dimezza gli anni di carcere da me scontati all’epoca, 6 anziché 12, e mi attribuisce una frase mai detta in una intervista che avevo rilasciato il 2 gennaio 2011 a Repubblica. Nell’articolo non c’è altro.
L’educatore di Rebibbia mente quando dice di aver trovato su internet giudizi che stigmatizzavano i miei articoli. Privo del coraggio delle proprie opinioni, ha cercato malamente di attribuirle ad altri tentando goffamente di fornire loro un manto d’autorità. E quale autorità: il signor «Taluno», alias Paolo Granzotto… che poi non è.
Nell’Ordinamento penitenziario questo lavoro viene pomposamente definito: «osservazione scientifica della personalità».
Link
Sarò costretta a spiegare il carcere a mio figlio
Cattivi maestri e bravi bidelli: le carte truccate di Paolo Granzotto
Paolo Granzotto: “Cacciamoli, Bucarest si riprenda le sue canaglie”
Paolo Granzotto sanzionato per razzismo. Aveva scritto: “Rispedire al mittente la feccia rumena”
Granzotto il reggibraghe degli imprenditori
Sarò costretta a spiegare il carcere a mio figlio: maledetti!
Per nuovi merdosi aggiornamenti: QUI
Dovrò spiegare il carcere a mio figlio.
Ora lo dovrò fare e mi sembra di non averne gli strumenti, di fallire in partenza.

Caro bimbo mio, ecco il tuo papà, ancora…..
Ma mi costringete a farlo, col vostro accanimento, con la vostra ingiustizia perpetrata continuamente sullo stesso corpo: quello che amo.
Mi costringete a spiegare a mio figlio cos’è il carcere perché sta crescendo e le scuse di ogni sera non reggono più,
le sue domande si fanno più insistenti, più bisognose di verità, di dettagli, di immagini che possa comprendere.
Ma come si fa a comprendere la porta blu di Via Bartolo Longo?
Come si fa a spiegare ad un bimbo che papà ogni giorno viene mangiato dal cemento, dagli anfibi e dal ferro delle sbarre,
che papà prima di dormire viene chiuso con qualche mandata,
che il suo sonno è scandito dalla chiusura e dall’apertura del blindo.
Che i cornetti che la mattina è abituato a trovare sul tavolo, come se fosse normale che un papà alle 7.30 sbuchi tipo cornettaio di fiducia, sono a discrezione di un magistrato, di una direttrice, di un educatore, di qualche inutile assistente sociale.
Tutto inutile, piccolo amore mio.
Tutto inutile questo percorso faticoso che abbiamo fatto tutti insieme,
perché la sola risposta che sembra meritare tuo padre è quel blindo che continua a chiudersi ogni notte alla stessa ora…
quel blindo che non so come descriverti, che non so come farti immaginare.
Una società costruita sulle vittime…
eppure mi guardo intorno e mi chiedo se mai hanno pensato a te,
nato a trent’anni da tutto quel che coinvolge la fedina penale di tuo padre. Mi chiedo se hanno mai pensato a te, alle privazioni che già hai conosciuto e a tutte quelle che nei prossimi due anni comprenderai molto meglio.
Mi chiedo se tu hai diritto ad esser considerato una vittima di un meccanismo infernale.
Ma che ci frega, il vittimismo lasciamolo a loro.
Sono le 6.51 di mattina, tra poco la porta blu si apre.
Papà corre a darti il buongiorno, alla faccia loro.
Quello che leggete qui è uno stralcio della relazione di sintesi del “detenuto Paolo Persichetti”…una pagina ottima per comprendere il carcere.
DIREZIONE “CASA DI RECLUSIONE REBIBBIA – ROMA”
Vis Bartolo Longo, 72 – 00156 Roma. Tel. 06415201, fax 064103680
RELAZIONE DI SINTESI
In data odierna si è riunito il Gruppo di Osservazione e Trattamento, nella seguente composizione:
Direttore di Reparto Dott.ssa A. T. Presidente
Funzionario giuridico-pedagogico A3F1, F. P. Segretario tecnico
Vice Responsabile di P.P. di Reparto, Isp. G. B. Componente
Asistente sociale L. R. Componente
(si allega copia di relazione del 09.02.2012 dell’UEPE di Roma, uale parte integrante della presente)
La riunione si è tenuta al fine di redigere relazione di sintesi sul detenuto semilibero PERSICHETTI Paolo, nato il 06 Maggio 1962 a Roma, per l’Udienza di discussione dell’Affidamento in prova ai Servizi Sociali, prevista per il 05.05.2012 dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma
Il Persichetti, ammesso a fruire della Semilibertà il 23.05.2008 dal Tribunale dì Sorveglianza di Roma, è giunto in questa sede il 24.05.2008.
II 26.05.2008 è stato redatto il primo Programma di Trattamento, ed 31.05.2008 il detenuto ha iniziato a lavorare come giornalista presso la redazione del quotidiano politico “Liberazione“, sita in Roma – zona Castro Pretorio: occupazione tuttora svolta.
Va subito detto, circa il lavoro e le sue logiche implicazioni, che ovviamente il soggetto gode di una legittima possibilità di esternare e dibattere, la quale gli consente di prendere e manifestare posizioni che riflettono un’idea (qualcuno ha detto, piuttosto, un’ideologia).
Tale condizione gli ha consentito e gli consentirà di effettuare legittimamente esternazioni che a taluno (vedasi su internet) sono parse, come detto, ideologiche ed immorali: ci si riferisce, nello specifico, alla difesa del Persichetti della decisione presa alcuni mesi fa dall’allora Presidente del Brasile, Ignazio “Lula” Da Silva, di non estradare in Italia il terrorista Cesare Battisti.
Prendendo lo spunto dalla vicenda in questione, sui media nacque un dibattito sugli “anni di piombo”sulla posizione assunta allora ed ora dalle Istituzioni e sulle vicende personali di alcuni terroristi.
Nell’ambito di tale dibattito, tra l’altro, dal soggetto furono poste su internet – e sono tuttora acquisibili – riflessioni condotte dal Persichetti anche in ordine alla propria vicenda, per certi aspetti simile a quella di Battisti, fuggito anch’egli in Francia. Si tratta di alcuni articoli e di almeno un’intervista radiofonica.
Si premette ciò in quanto i contenuti e le valutazioni di cui si è detto, le quali ovviamente riflettono un’idea e quindi anche una certa “difesa” del passato, da parte del soggetto, da un lato possono indicare in lui la presenza o meno di una revisione critica ma , dall’altro, rappresentano la concreta attuazione del Programma di Trattamento, caratterizzato proprio dalla previsione poter svolgere da parte del soggetto l’attività giornalistica, caratterizzata proprio dal diritto di espressione e limitata uniocamente dalla commissione di illeciti civili e/o penali (si dirà più avanti della querelle tra il Persichetti e lo scrittore Roberto Saviano).
[…]
Si è accennato alla diatriba con lo scrittore Roberto Saviano.
All’inizio del 2011, come riportato sulla stampa e in internet (che ospita vari articoli al riguardo), si è verificata una schermaglia tra il Persichetti ed il suo editore da una parte, ed il Saviano dall’altra: schermaglia originata da affermazioni di quest’ultimo sul caso dell’omicidio di Giuseppe Impastato, affermazioni ritenute dalla controparte false o, quanto meno, superficiali.
La vicenda è sfociata nella presentazione di una querela per diffamazione da parte del Saviano nei confronti del Persichetti e del suo editore. La Direzione dell’Istituto ne è stata informata formalmente dalla Polizia di Stato con nota del 17.02.2011.
Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto sulla vicenda, è stato da questi invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di fornirgli un quadro della situazione.
La richiesta è stata percepita come atteggiamento “censorio” che per tutta risposta ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui.
Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza.
[…]
A questo punto è doveroso rappresentare quanto segue.
La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona.
Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori.
[…]
Il GOT pur prendendo atto senz’altro atto di una buona evoluzione dell’andamento della misura, ritiene proficua l’effettuazione di un ulteriore periodo –anche breve – di osservazione, al fine di consentire al soggetto di consolidare un percosro le cui premesse sembrano positivamente avviate.
Roma, lì 16 aprile 2012
L’estensore
Funzionario giuridico-pedagogico A3 F1
F. P.
Per il Gruppo di Osservazione e Trattamento
IL DIRETTORE DELEGATO
Dott.ssa A. T.
Link
Roberto Saviano
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo
Negato un permesso all’ex-br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto
Permessi all’ex br: No se non abiura
Anche il Manifesto, quasi per ultimo, si accorge della tortura. Un articolo di Mauro Palma
Ci volevano le righe di Sofri per mobilitare un po’ di penne..una cosa che mette tristezza, vista la fatica fatta su questo argomento,
ma ben venga tutto sulla Tortura..anche dopo trent’anni, tutto contribuisce a togliere dall’oblio un pezzo di storia d’Italia la cui rimozione è palese e collettiva.
Oggi finalmente se ne accorge il Manifesto,che ha fatto in modo di non farlo fino a questo momento …
lo dico così,per pignoleria! L’articolo è firmato da Mauro Palma, ex presidende del comitato europeo contro la tortura, e ve lo posto qui sotto…
Mauro Palma*
il manifesto, 18 Febbraio 2012Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina.
Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi – diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato – che fanno capire tale distanza.Asti, 2012
Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferti da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come «abuso di autorità contro arrestati e detenuti» ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che «i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura» (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamenteCalabria, 1976
Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce «metodi persuasivi eccessivi») ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra – si diceva allora extraparlamentare – nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile.Il caso «De Tormentis», 1978
Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da Chi l’ha visto? ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «De tormentis», osceno come il suo operare.
Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia – l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce – e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva, contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità.
Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato – «prestato» alla bisogna da Napoli al nord – ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’altra luce al tutto.La tortura è una pratica «sistemica»
Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da «episodico» a «sistemico» e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia.
L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto.
Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi – penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale – avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita «legislazione d’emergenza».
Spataro, Battisti e la magistratura
Anche recentemente – esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti – il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che «l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo» e che «è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo». Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste.
Perché non è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi.
Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti «inverosimili». E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza?
La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità di mettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi – fortunatamente la larga maggioranza – ha agito e agisce nella piena correttezza.
In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un «io so» detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada.
Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi.* Fino allo scorso dicembre presidende del comitato europeo contro la tortura
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti sulla Tortura
Due firme importanti, sulla tortura degli anni ’70 / ’80
“Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contrastare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. Il muro del silenzio comincia lentamente a mostrare le sue crepe”
dal blog Insorgenze (dove potete leggere interamente l’articolo di Sofri)
Pier Vittorio Buffa, il giornalista del gruppo Espresso intervistato da me e Paolo Persichetti sul tema delle torture, oggi, dopo Adriano Sofri, apre il suo blog per tornare, dopo trent’anni a scrivere di torture.
La sua storia è raccontata in questo blog, e vi consiglio di leggerla:
– L’arresto di Pier Vittorio Buffa
– Intervista a Pier Vittorio Buffa
Ecco il testo di Buffa, comparso oggi sulle pagine del suo blog :
Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent’anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all’Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c’è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e L’Espresso, non e’ gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre.
Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l’essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell’articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell’intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent’anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verita’. Confermano che la tortura programmata e’ davvero esistita nel nostro paese. Che l’acqua e il sale non erano l’invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verita’.
A me resta l’amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice.
Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze.
Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent’anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta.
E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.
PER UNA PANORAMICA SULLA TORTURA QUI UNA CARRELLATA DI LINK:
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
13) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
14) La sentenza esistente
15) Le torture su Sandro Padula, 1982
16) La prima parte del testo di Enrico Triaca
17) Seconda parte del testo di Triaca
18) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
19) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
20) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
ESTRADATI SONJA E CHRISTIAN IN GERMANIA! Fate girare la notizia
NE ABBIAMO PARLATO SPESSO SU QUESTO BLOG.
VI HO RACCONTATO LA STORIA DI QUESTI DUE ANZIANI SIGNORI, DI QUESTA BELLA COPPIA CRUCCA, PERCHE’ HO AVUTO IL PIACERE DI DIBATTERE CON LORO, DI SCHERZARE E ABBRACCIARSI.
HANNO CONOSCIUTO IL MIO PANCIONE, SI SON PRESENTATI AL MIO BIMBO NON POTENDO ABBRACCIARE IL SUO PAPA’, ANCHE LUI ESTRADATO DALLA FRANCIA VERSO L’ITALIA.
INSOMMA…SONJA E CHRISTIAN PER ME NON SONO SOLO DUE NOMI, MA SON DUE SORRISI TRA MILLE RUGHE, SON DUE SGUARDI AFFASCINANTI E MOLTO DIVERSI TRA LORO, SONO LA FORZA DI QUELL’ABBRACCIO CHE DOVEVA ARRIVARE FINO AL MIO AMORE PRIGIONIERO, CHE LORO AVEVANO IL TERRORE DI NON VEDERE PIU.
E INVECE OGGI E’ TOCCATO A LORO, MALGRADO L’ETA’, MALGRADO SIANO ABBONDANTEMENTE SUPERATI I 30 ANNI DAI FATTI DI CUI SI PARLA, MALGRADO SIA STATO SENTENZIATO CHE LA LORO NON ERA UNA CONDIZIONE COMPATIBILE CON UN’ESTRADIZIONE E POI UNA DETENZIONE. MA ORA CONTA POCO.
STAMATTINA SONO STATI PRESI E PORTATI IN GERMANIA…DOVE AD OTTANT’ANNI DOVREBBERO ATTENDERE UN NUOVO PROCESSO.
UNA FOLLIA, UNA FOLLIA COLOSSALE…. DA CUI CI AUGURIAMO SOLO DI VEDERLI USCIRE.
VI METTO QUI SOTTO UN MESSAGGIO DI ORESTE… [QUI UN PO’ DI MATERIALE SU SONJA E CHRISTIAN]
Alla fine, oggi gli avvocati tedeschi hanno avvertito che stamattina all’alba hanno estradato Sonja e Christian, che si trovano a Francoforte.
Partito stamattina per Napoli per un dibattito, avevo aperto il computer e internet per mandare l’invito a qualche compagno/a, amici, di Napoli, e ho trovato questa “doccia fredda”.
Mi diranno i compagni di Parigi, pugno di uomini e donne che si son battuti con le unghie e coi denti contro quest’abiezione, resa iperbolica dal fatto che si estradano una donna di 79 anni e il suo compagno che una perizia medica aveva appena definito “incompatibile per stato fisico con un’estradizione”, per metterli in detenzione preventiva in vista di un processo per farri che risalgono a 35 anni fa!!!!
Cio’ che aveva detto Sarkozy a proposito del caso di figura rappresentato dall’affare Polanskij, era colo un argomento surrettizio, una privatizzazione censita ria, discriminatoria – una porcata, insomma – di qualcosa posto come “indivisibile, <eguale-astratto>”, come la presunzione d’innocenza, che vale per sé e la propria cosca, e contro <nemici>, come noi, nonché anche contro cosche concorrenti, o semplici malcapitati…
Penso alla frase di Jean Genet di ritorno da Stammheim nel 79 ( <Non saro’ mai neutrale tra la violenza degli oppressi che si ribellano, e la brutalità degli oppressori>).
Questa estradizione poi non è atto di <ostilità> in qualche modo limpida ; non è forma dell’inimicizia, violenza, guerra : è crudeltà, vendetta da tagliagole, “morto che vuole sotterrare il vivo”…
Noi non ci rinchiudiamo nella “denuncia” frustrata : intanto, esprimiamo tutto il nostro disprezzo anche per figure personali, delle quali si potrà dire, con Joseph K, che “soltanto la vergogna gli sarà sopravvissuta”.
E poi, con “disperata vitalità”, resistenze, persistenza, certo micro-molecolari, ma…altrimenti non c’è aria per respirare.
Un abbraccio, Oreste Scalzone
per scrivere a Sonja Suder: JVA III OBERE
KREUZACKERSTR 4
604350 FRANKFORT
ALLEMAGNE
Tortura e leggi speciali: botta e risposta con Miguel Gotor
AGGIORNAMENTO 18 GIUGNO 2013: LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA DICHIARA AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI REVISIONE DEL PROCESSO TRIACA.
IL 15 OTTOBRE 2013 LE TORTURA ANDRANNO ALLA SBARRA E LA VERITA’ VERRA’ RISTABILITA.
LEGGI QUI LE NOVITA’, OTTIME: LEGGI
Da uno storico avrei accettato del cinismo, un commento come “infondo facevate la guerra allo Stato e quello non poteva far altro che usare i mezzi che solitamente gli Stati usano per combattere i propri nemici: tortura, galera e morte.
Invece nell’articolo di risposta a Cesare Battisti, comparso sulle pagine di Repubblica il 29 agosto, compie un vero e proprio atto di negazionismo.
ASCOLTA LA CORRISPONDENZA
sperando che il dibattito prosegua
1) Introduzione al libro di Alleg di Jean-Paul Sartre
2) breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
3) Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
4) Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
5) Arresto del giornalista Buffa
6) Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
7) Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
8 ) Il pene della Repubblica
9) Ma chi è il professor “De Tormentis”?
10) Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
11) De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
12) Una lettera all’albo degli avvocati di Napoli
13) Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
14) Le torture su Alberto Buonoconto 1975
15) La sentenza esistente
16) Le torture su Sandro Padula, 1982
17) La prima parte del testo di Enrico Triaca
18) Seconda parte del testo di Triaca
19) L’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini
20) ” Chi l’ha visto? ” cerca De Tormentis, alias Nicola Ciocia
21) Due firme importanti: Adriano Sofri e Pier Vittorio Buffa
22) Mauro Palma, sulle pagine de Il Manifesto
23) L’interrogazione parlamentare cade nel vuoto
24) L’intervista mia e di Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa
25) Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista
Un commento di Oreste Scalzone sulla scarcerazione di Battisti
Un commento a caldo sulla scarcerazione di Cesare Battisti e quindi la sua mancata estradizione, sull’assurdità del concetto di ergastolo, sulla bile italiana ormai quasi ridicola.
Dai microfoni di Radio Onda Rossa, mentre loro si rosicchiano il fegato, ascoltate Oreste!
🙂

Cesare è libero!
“e in culo a tutto il resto” come diceva il buon vecchio Guccini!
Cesare Battisti scarcerato, rifiutata definitivamente l’estradizione. Il governo annuncia un ricorso all’Aja. L’Italia resuscita la linea della fermezza
Paolo Persichetti Liberazione 10 giugno 2011
Battisti non torna e in Italia scoppia l’ennesima bufera mediatica, nonostante fosse ampiamente scontato l’esito finale sfavorevole per le autorità italiane. Non c’era partita. Che in materia estradizionale la decisione finale appartenga alla sfera del politico, e dunque dell’esecutivo, lo sanno anche le matricole di giurisprudenza; sta scritto in tutti i trattati internazionali, vale per l’intera comunità giuridica mondiale. Nemmeno all’interno dello spazio giudizario europeo, nonostante l’introduzione di alcuni micidiali automatismi, come il mandato d’arresto comunitario e il mutuo riconoscimento delle decisioni di giustizia, è stato eliminato del tutto il ruolo giocato dagli esecutivi. E dunque perché in Brasile le cose sarebbero dovute andare diversamente? Tanto più che il governo italiano, in passato, si è avvalso delle sue prerogative rifiutando di attivare le procedure di estradizione per i cittadini statunitensi, tutti agenti della Cia, coinvolti secondo quanto accertato dalla procura di Milano nel rapimento per le vie della città dell’imam della moschea di via Quaranta, Abu Omar. Ragioni di opportunità politica (non certo giuridica), dovute agli accordi segreti e alla sudditanza strategica che lega l’Italia agli Usa, hanno giustificato la scelta dell’esecutivo di non avviare le richieste di estradizione. Circostanza che fece allora infuriare il capo del pool antiterrorismo della procura milanese, Spataro. Negli ultimi sei mesi la coppia di giudici, Mendes e Peluso, di cui sono note le simpatie per la destra, che nel corso del lungo iter estradizionale si sono alternati nella carica di presidente e relatore della causa, è ricorsa ad ogni escamotage dilatorio per ritardare l’udienza finale. In effetti, dopo la decisione di Lula di rigettare l’estradizione, presa il 31 dicembre scorso, l’unico argomento rimasto nelle mani dei sostenitori della consegna di Battisti alla giustizia italiana era lo status quo: congelare la situazione per allungare a dismisura la sua permanenza in carcere, fino a rasentare una sorta di sequestro di persona. Gesto di servile cortesia offerto agli amici della destra italiana e ultimo sgarbo a Lula; prova ormai che in Brasile l’affare Battisti da controversia giuridica si era ridotto a materia di scontro politico.
Alla fine, quando mercoledì si è tenuta l’udienza plenaria, dopo una discussione di 7 ore tutta in diretta tv, su un canale interamente dedicato ai lavori del Stf (una trasparenza impensabile nelle opache stanze dei tribunali italiani), i giudici hanno prima respinto, ritenendola illegittima, la pretesa delle autorità italiane, formulata in un ricorso, di sindacare la decisione sovrana presa da Lula e quindi ribadito, con 6 voti contro tre (tra cui Mendes e Peluso), l’irrevocabilità della decisione presa dal capo dello Stato. Battisti è stato scarcerato poco prima della mezzanotte. Ora dovrà attendere la regolarizzazione amministrativa essendo venuto meno l’asilo politico inizialmente concessogli del ministro della Giustizia, Tarso Genro. Battisti si ritroverà nella situazione di “rifugio di fatto”, con un normale permesso di soggiorno in tasca come quando viveva a Parigi dopo la decisione di Lionnel Jospin di regolarizzare, nel 2007, la posizione amministrativa dei fuoriusciti italiani degli anni 70. La decisione dei giudici brasiliani ha suscitato in Italia una sorta di revival del film Zombie. Dal cimitero della storia è stato resuscitato il cadavere putrefatto dell’union sacrée vertici istituzionali, Napolitano in testa, maggioranza e opposizioni si sono saldati in un demagogico e ipocrita coro di grida sdegnate e dichiarazioni sgangherate. Il giurista Antonio Cassese (già membro di giurisdizioni internazionali), senza timore di palesare un suo personale conflitto di interessi, ha rilanciato su Repubblica la via del ricorso alla Corte di giustizia internazionale dell’Aja. Intenzione confermata dal governo ma che rischia di provocare l’ennesima figuraccia internazionale dell’Italia. Quella dell’Aja è una corte d’arbitrato che dirime controversie tra Stati. L’Italia non sottoporrebbe mai materie afferenti alla sua sovranità interna ad una controversia arbitrale. Ancora una volta non si capisce perché dovrebbero farlo i brasiliani. Il ceto politico italiano delira e resta drammaticamente incapace di un esame di coscienza serio su quanto è accaduto negli anni 70, proprio quando sul quel periodo si stanno aprendo squarci importanti, come il recente libro di Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, mostra. Per contrastare la lotta armata, descrive lo storico con impressionate dovizia documentale, si fece ricorso ad uno «stato di eccezione non dichiarato»: corpi speciali, investigatori e magistratura operarono nell’opacità più assoluta e nella sistematica violazione di regole e procedure.
ASCOLTA: Il commento di Oreste Scalzone
LEGGI: Il diritto virtuale italiano
LA BELLEZZA E’ PER LA STRADA!
COPIO QUESTA PAGINA DA UNO DEI MIEI BLOG PREFERITI
Memoria simbolica
Risate gioiose salgono su col fresco della notte.
Due ragazze si affacciano nella vetrina illuminata della bettola alternativa, giù dall’altra parte della strada. Le due eleganti silhouettes ora si annusano, le mani in tasca. Gli altri passanti sono arredamento che si allontana. Una protende il viso verso l’altro, la bacia, si baciano, e s’incamminano come se il marciapiede fosse improvvisamente diventato un tappeto di nuvole.
La bellezza è per strada.
Era lo slogan apparso in un manifesto del ’68 francese, una di quelle serigrafie che, emulando le scritte murali senza grigi e senza compromessi, dicevano tutto in una botta.
Come il sampietrino lanciato dalla ragazza: la ribellione è giusta, è violenta, è bella, è ciò che conta.
I cubetti di porfido, i selci, il pavé delle strade
ritrovavano la propria storica vocazione a volare. Del resto, come recita l’altro slogan ricordato nei decennali inventari per liquidazione del ’68, quando li si toglie dal suolo, al posto della strada si trova la spiaggia (sous le pavé, c’est la plage). E “chiude la strada ma apre la via”
-che pare una definizione tipo ‘1 orizzontale, nove lettere’- era uno dei modi di celeberare la barricata.
Il ‘piccolo San Pietro’ era ovviamente anche cantato. Tra i pezzi più famosi, quelli di Gianfranco Manfredi sul/nel movimento del 1977:
Ultimo mohicano
sampietrino in mano
solo qui nella via
e la barricata
dove l’han portata? non c’è proprio piùUltimo mohicano
sampietrino in mano
non c’è più polizia
ora a chi lo tiro?
vado a fare un giro,
entro in un caffè
Oggi, la bella lanciatrice di sampietrini dell’ultraquarantenne manifesto francese è ripresa e rieditata in omaggio ad un altro movimento, quello degli studenti iraniani.
Il risultato: fondo verde (in omaggio alla ‘rivoluzione verde’…), pantaloni anziché gonna (adeguamento o moda?), e lingua inglese, dove ‘freedom’ rimpiazza ‘beauté’.
Lo scarto con la reinvenzione della bellezza -identificata con l’immagine dell’azione e del movimento, non con quella di una cariatide- del poster del maggio ’68 (prodotto da un collettivo situazionista a Montpellier, come tra l’altro ricorda la tesi di Master di Victoria Scott), è grosso. E in fin dei conti, non si tratta qui del prodotto di una memoria collettiva che riprende, rielabora o fa tradizione del prodotto di un’altra memoria collettiva. Questo poster non nasce nel movimento degli studenti iraniani, ma su un sito americano, le strade cui è destinato sono solo quelle di facebook…
Buoni Bidelli versus Cattivi Maestri
Accade poi che una ragazza per strada lanci non un sampietrino, ma un ‘fumogeno’.
E subito tutti gridano al terrorismo, ché è ormai chiaro come non occorra impugnare armi di distruzione di massa per farsi etichettare così.
In un editoriale su La Stampa del 30.9.10, brillantemente intitolato “Tornano i cattivi maestri”, Luigi La Spina ci spiega quanto siano confuse le menti di molti giovani che non sanno distinguere la realtà dei nostri giorni dalla memoria degli anni 70 e 80. E che ripetono i “tre perversi schemi mentali che provocarono tanti lutti”. Il primo di quelli che chiama pure ‘tre peccati capitali’, è la “trasformazione di una persona in un simbolo”. Il secondo, è il “pretendere di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato”. E infine “il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo (…) in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta…”, insomma “l’esagerazione della potenza avversaria”.
Ora, queste ch’egli chiama “catene linguistiche”, sono tratti comuni di qualsiasi attività politica. In politica, tipicamente si fanno analisi, collegando fatti singoli secondo una propria lettura, e se ne produce un discorso in relazione ad un interesse che è necessariamente collettivo. Chi fa e porta questo lavoro simbolico, si presenta come simbolo.
La Spina lamenta che molte menti siano imprigionate da quelle odiose catene linguistiche, che fanno sì che una persona sia “ridotta alla generica categoria di un nemico senza volto”, insomma un simbolo cui si finisce per sparare.
E per dirlo usa una simbologia più trita di una foglia di Betel nella bocca di un paria: quella del ‘cattivo maestro’. Bisognerà ricordarglielo ancora, che i cattivi maestri non tornano, come pretende il titolo del suo articolo, perché I CATTIVI MAESTRI NON SONO MAI ANDATI VIA.
Ci sono sempre, sono sempre presenti perché esistono solo in articoli come questo, spiriti chiamati in ogni occasione in cui non si sa che dire su quanto sostiene o pratica chi nel sistema di potere non è integrato.
L’espressione di ‘cattivo maestro’ non solo non appartiene, né linguisticamante né concettualmente, ad un movimento che rivendica l’egualitarismo, che rifiuta i ruoli gerarchici -padrone/servo, medico/paziente, e appunto maestro che inculca e alunno che esegue-, non solo gli è incomprensibile, ma gli si oppone, esiste solo per stigmatizzarlo. Nasce cucita addosso a Toni Negri, professore universitario che con altri docenti di scienze politiche di Padova viene arrestato il 7 aprile 1979, con l’accusa di essere la mente del terrorismo.
Come ricorda la tesi di laurea di Luca Barbieri, I giornali a processo: il caso 7 aprile, (pubblicata a puntate da Carmilla e che vale la pena di leggersi per intero), “cattivi maestri” è un’espressione che da allora non è mai caduta in disuso.
E tanto per rammentare qualche esempio negli ultimi anni:
Su il Messaggero del 25 agosto 1999, Franco Frattini, allora presidente del comitato parlamentare sui servizi di sicurezza, se la prende con la sentenza di assoluzione di Adriano Sofri, perché distingue la responsabilità dei cattivi maestri “che educavano alla lotta rivoluzionaria e gli esecutori dei loro insegnamenti”. “Come Toni Negri, tra gli altri”. Su questa falsariga, Sofri è dichiarato cattivo maestro da Marco Travaglio (Sette, 15.4.2004); dal procuratore generale al processo di revisione Gabriele Ferrari (la Repubblica 30.12.1999: “cattivi maestri due volte responsabili, per quello che hanno fatto e quello che hanno fatto credere”); da Marcello Veneziani (il Giornale 19.7.2003, “Ritornano i cattivi maestri”) che lo mette accanto a Herbert Marcuse, Eric Hobsbawn e… Toni Negri. Questi, che è il cattivo maestro per antonomasia, si può davvero permettere una rivendicazione, chiamandoli alla moltiplicazione e alla moltitudine. Lo ha fatto in Apologia del cattivo maestro, pezzo tratto da una sua pubblicazione in memoriam del compianto Luciano Ferrari Bravo, e che merita di restare in memoria.
“Il ritorno dei cattivi maestri” è un titolo che ritorna, come un rigurgito di stampa: per esempio quello di un pezzo di Paolo Chiariello, su Roma 14.4.2001, lì in occasione della protesta dei disoccupati napoletani;
Su la Repubblica del 4 marzo 2004 è Mario Pirani che si dedica ai cattivi maestri: sono quelli come Erri De Luca, Daniel Pennac e Philippe Solliers, che hanno osato opporsi alla estradizione di Cesare Battisti dalla Francia;
Su il Sole 24 ore del 21 marzo 2002, Andrea Casalegno ci spiega che “i dirigenti dell’estrema sinistra furono tutti, chi più chi meno, cattivi maestri”;
Ruggero Guarini, su il Tempo dell’8.3.2003, trova una variante ai cattivi maestri che non devono salire in cattedra: dice che non devono più andare in TV “a narrare e interpretare a modo loro questa o quell’altra Notte della Repubblica”.
Questa teoria dei cattivi maestri è una delle più imbecilli che abbiano mai attraversato un discorso pubblico, e che l’espressione piaccia, tra i tanti bidelli della società, anche ai magistrati d’accusa, non è certo una sorpresa, in Italia. Il pubblico ministero Stefano D’Ambruoso ha trovato cattivi maestri in alcuni centri sociali (Avvenire, 30.8.2001), il p.m. Rosario Priore invoca contro di loro il pugno di ferro (il Giorno, 26.8.2001) e così pure il p.m. Antonio Marini, che però ‘non vuole fare nomi’ (il Messaggero, 12.8.2001). Lo stesso recidiva qualche anno dopo sulla ‘tolleranza zero’, e così duetta con la giornalista che lo qualifica di “giudice storico” (?): “-Ci sono ancora 160 primule rosse del terrorismo… -Che possono diventare i cattivi maestri per le giovani leve.” (n.b.: i casi citati sono Cesare Battisti e Alessio Casimirri, il Giorno 21.3.2007: come ‘primule’, piuttosto appassite, ma poco importa a chi ha imparato a scrivere alla sagra del luogo comune).
E, a proposito di Battisti, s’è detto in un altro post di come Arrigo Cavallina si sia rivendicato suo cattivo maestro. C’è però ancora il guru della dissociazione, il Comandante Sergio Segio, secondo cui la teoria dei cattivi maestri è uno scudo giustificazionista; perché a rigor di logica se c’è un maestro cattivo, il pupillo che egli ha traviato non è così colpevole. E no, tuona l’ex-capo di Prima Linea, è una categoria che non va utilizzata (la Repubblica 26.2.2005).
Bisogna precisare che gli articoli qui citati sono solo una minima parte di tutti i pezzi in cui vengono evocati i cattivi maestri, a proposito ormai di ogni genere di occasione e persona: ma di un uso giustificazionista come quello contestato dal superbo Comandante non si trova davvero traccia.
Poco dopo l’episodio del fumogeno lanciato al comizio del segretario CISL Raffaele Bonanni, un altro episodio attizzò la ripetizione del concetto: il non-attentato al direttore del quotidiano Libero, Maurizio Belpietro. I non-fatti, lo si è capito, costituiscono un fondamento perfetto per parlar di cattivi maestri, e permettono pure di accedere all’universo vittimario; così Bonanni: “Io e Belpietro vittime dei cattivi maestri” (Libero, 3.10.2010)
Così conclude l’analisi di Mario Ajello (“I cattivi maestri e l’accusa di ‘servitù’ ritorna la sindrome degli anni di piombo” in il Mattino e il Messaggero del 2.10.2010) su “un allarme che si credeva sepolto nelle caverne della storia” (sic): “La prima riforma da fare -e negli anni di piombo funzionò- sarebbe quella della riconciliazione nazionale fra leader e partiti”.
Fra leader e partiti, appunto.
Tutti gli altri, che non sono né leader né partiti, non appena vedranno un articolo sui cattivi maestri, potranno ricordarsi che, se la monnezza è sulla stampa, la bellezza è senz’altro per strada.
‘Dire che la bellezza è per strada, è essere capaci di recepire tutte quelle pratiche d’invenzione e di libertà che vi nascono’ (L. Sagradini, Théorie critique 2008).
Intervista a Paolo Persichetti sul caso Cesare Battisti e sulla politica italiana rispetto agli anni di piombo
via Insorgenze
Estradizione di Battisti: «Il no di Lula è una decisione giusta» (via Insorgenze)
Sonja e Christian: altre 2 estradizioni annunciate
Quando la memoria si fa vendetta
dal blog Damnatio Memoriae prendo questo lungo articolo. Finalmente del materiale in italiano -OTTIMO- su questi due compagni rifugiati in Francia.
Ancora due estradizioni
Fatta a pezzi la dottrina Mitterrand, la Francia non si vergogna più di tradire la parola data, di rinnegare l’ospitalità concessa.
Stavolta sono due ex-militanti tedeschi degli anni ’70 a subire la vendetta di Stato.
La loro storia ripropone le assurdità di quella di Paolo Persichetti, Cesare Battisti e Marina Petrella.
Come i militanti italiani, anche Sonja Suder (oggi 76 anni) e Christian Gauger (68) si erano rifugiati in Francia, dopo aver militato nelle Revolutionäre Zellen (RZ), organizzazione autonoma di cui s’è parlato nel post sulla strage di Bologna.
Sonja e Christian arrivano in Francia nel 1978 e vivono a Lille, una cittadina di provincia, dove campano da ‘brocante’ con pochi soldi, recuperando, riparando e rivendendo oggetti al mercato delle pulci.
Nel 2000, vengono arrestati su mandato estradizionale della Repubblica Federale Tedesca, che rimprovera loro la partecipazione a tre azioni incruente : nell’agosto 1977 le esplosioni contro la ditta MAN di Norimberga e la ditta KSB di Frankenthal, e nel maggio 1978 l’incendio al castello di Heidelberg.
Gli attacchi furono rivendicati dalle Revolutionäre Zellen (RZ), che accusavano le due imprese di produrre compressori e pompe per il nucleare, esportandole tra l’altro verso il Sud Africa, dove vigeva l’apartheid razzista (siamo al tempo del massacro del ghetto di Soweto, con Nelson Mandela incarcerato come terrorista), ed il sindaco di Heidelberg della politica di distruzione di quartieri cittadini per farne delle zone destinate ai ricchi. [‘Gentrificazione’, dall’inglese gentry, nobile, è il neologismo che oggi si usa per indicare questi processi di modificazione classista del territorio urbano.]
Ulteriore accusa contro Sonja, era di aver contribuito al reclutamento nelle RZ di Hans-Joachim Klein e all’organizzazione logistica dell’attacco alla sede dell’OPEP a Vienna nel 1975. Tre mesi dopo quel primo arresto sono messi in libertà provvisoria su cauzione ed in seguito la corte parigina emette un ‘avviso sfavorevole’ all’estradizione. La possibilità di perseguire i due viene negata alla Germania poiché i reati sono, secondo il diritto francese, prescritti per i molti anni passati dagli avvenimenti.
Sonja e Christian, il cui rifugio in Francia sembra solidamente garantito da una sentenza definitiva, riprendono così una vita ‘normale’ da esiliati, per la prima volta alla luce del sole. Per la prima volta dopo 22 anni, possono allacciare rapporti sociali apertamente, senza nascondersi, ed entrare in contatto anche con altri esiliati, tra cui gli italiani, che offrono loro appoggio solidale.
Per Christian la ritrovata condizione di legalità è inoltre particolarmente importante, poiché gli permette di accedere alle cure mediche di cui ha urgente bisogno, per i gravi problemi cardiaci di cui soffre.Ciò che invece sta proprio in quegli anni cominciando a cambiare, è la politica di asilo del governo.
Dall’elezione del socialista François Mitterrand alla Presidenza della Repubblica, nel 1981, la Francia aveva preferito non estradare gli ex-militanti rifugiatisi sul suo territorio. Il principio seguito era quello dell’ospitalità verso chi, esiliandosi apertamente e quindi rispettando le leggi del paese che li accoglie, avesse rinunciato alla lotta armata.
Quali che fossero le sentenze nelle procedure d’estradizione verso l’Italia, e cioè anche in caso di “parere favorevole all’estradizione”, la Francia non rimpatriava i rifugiati politici di fatto. Indifferenti a tentativi e proteste delle autorità italiane, tutti i governi francesi continuarono a seguire questo principio, che aveva del resto un aspetto utilitario di un certo rilievo, almeno nei primi anni: evitare la clandestinità sul proprio territorio di centinaia di ex-militanti, ed evitare così di spingerli di nuovo all’illegalità.
Dopo i famosi attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, tutto cambia: ora il principio si chiama ‘tolleranza zero’. Il 25 agosto 2002 viene eseguita nel giro di poche ore l’estradizione di Paolo Persichetti, che da 8 anni era stato lasciato lavorare e studiare alla luce del sole.
Seguirà Cesare Battisti, anche lui ‘legalizzato’ con un permesso di soggiorno, dopo aver subito, 13 anni prima, un processo estradizionale risoltosi con un “parere sfavorevole”, che è ri-arrestato nel 2004 e ri-processato fino ad ottenere un “parere favorevole” (per gli stessi reati del precedente “parere sfavorevole”).
Nel 2007 è di nuovo la volta di Sonja e Christian.
Vanno in farmacia a prendere delle medicine e vengono catturati: “un agguato puro, come nel caso di Paolo”, commentano.
E come nel caso di Cesare, di nuovo un processo estradizionale per le stesse accuse, fino ad ottenere un “parere favorevole”, che arriva nel febbraio 2009.
Questa volta, per cappottare la prima sentenza, i giudici dicono che i termini di prescrizione applicabili sono quelli tedeschi.
E subito, nel luglio 2009, il Primo ministro François Fillon firma il decreto d’estradizione, che viene comunicato a fine ottobre.
Accuse senza atti
Sonja e Christian, difesi dall’avvocato Irène Terrel, hanno ancora un ricorso aperto al Consiglio di Stato. Il loro pessimismo è purtroppo legittimo.
“Se ci estradano, finiamo in prigione a Hessen. Gli avvocati tenteranno ovviamente di tirarci fuori, ma chissà quando tempo occorrerà per il processo. Sarà messo in cantiere quando saremo nel paese. Anche gli atti non li si riceve prima, e così non si può neppure preparare una strategia difensiva.”
Ciò che si sa, è che il loro coinvolgimento nei procedimenti penali contro le RZ (sui gruppi Revolutionäre Zellen e Rote Zora si è detto nel post sul caso Thomas Kram), è dovuto alle dichiarazioni del 1978 di un altro militante, Hermann Feiling.
Hermann Feiling, all’epoca studente di 26 anni, venne colpito dall’esplosione di una bomba che era destinata al consolato argentino di Monaco per protesta contro la feroce repressione scatenata dalla dittatura militare. Quel 23 giugno 1978, l’esplosivo, che avrebbe al più rotto qualche mattone del muro consolare, lo ridusse in fin di vita. Il suo ‘interrogatorio’ cominciò meno di 24 ore dopo le operazioni chirurgiche d’urgenza che dovette subire. Le autorità volevano approfittare della situazione per “penetrare nelle Cellule Rivoluzionarie” -come dichiarò il Procuratore federale Kurt Rebmann in una conferenza stampa il 4 luglio- di cui conoscevano poco o niente. Ti è esplosa una bomba sulle ginocchia: hai perso le gambe (amputazioni sopra la coscia), e gli occhi (estrazione dei bulbi oculari). Sei rintronato, letteralmente (epilessia post-traumatica), e i tuoi sensi sono alterati (lesioni cerebrali alla funzione della memoria).
Un essere umano in queste condizioni ha bisogno di aiuto, di cure, di protezione. Negargliele per intero, esercitando un potere assoluto sulle sue condizioni, è un trattamento inumano.Nel buio in cui hai paura di essere abbandonato, qualcuno ti fa capire di volerti aiutare, di essere dalla tua parte. Sei circondato solo da investigatori, procuratori, guardiani e personale medico, ma hai sentito un nome che credi sia del tuo avvocato, e quelli sono tutto il ‘tuo’ ambiente sociale che ti ‘sostiene’, l’unico contatto che ti racconta il mondo che non vedi più. Hai un male cane, ti riempiono di medicine (Dipidolor, a base di morfina, Valium a siringate) che ti rendono ancora più strano, ma ti alleviano il dolore, e loro ti parlano, ti chiedono.
Così è stato ‘sentito’ Heiling, a cominciare dalla clinica universitaria in cui venne ricoverato d’urgenza, isolato per quattro mesi da ogni contatto con familiari, amici e difensori; questa misura di ‘Kontaktsperre’, usata nei regimi di reclusione più duri per i ‘terroristi’, non era neppure basata su un ordine di arresto, e addirittura ‘Der Spiegel’, il settimanale del gruppo Springer nemico giurato dei terroristi, se ne mostrò sorpreso.
L’articolo che lo Spiegel pubblicò a commento del processo, nel novembre 1980, si chiedeva: Un uomo senza gambe né occhi sul banco degli accusati. Combattere i terroristi a qualsiasi prezzo?
Nella sua dichiarazione al processo, Hermann Feiling ebbe a dire: La mia condizione di pericolo di vita, il traumatismo dopo l’accecamento, il mio assoluto disorientamento, la mia totale impotenza capitarono al momento giusto per investigatori, dopo anni di frustrazioni. Le 1330 pagine di verbali, che proverrebbero da me, sono il frutto di quella situazione. Lì ci sono anche persone del mio fantastico mondo dei sogni di allora che vengono chiamate in causa in relazione alle RZ, o vengono accusate persone che io non ho mai conosciuto.Un paio di luminari della contro-guerriglia media attesteranno che Hermann era in perfette condizioni per rispondere coscientemente agli interrogatori, magari non da subito, ma quasi. (vedi le perizie del Prof. Mentzos e del Prof. Jacob)
Dell’uso della malattia come strumento di indagine, di cui s’è parlato recentemente in Italia (per il suicidio di Diana Blefari Melazzi) c’è un altro episodio che sembra ricalcare quello di Hermann Feiling.
Nel 2002, in Grecia, il pittore di icone Savvas Xiros ebbe pure lui un incidente con una bomba, che gli costò tra l’altro le mani.
E pure lì la polizia brancolava nel buio da anni e saltò sull’occasione. L’organizzazione clandestina cui davano la caccia si chiamava 17 Novembre, e nessuno dei suoi membri era stato mai identificato. Con le ‘interviste’ ad un uomo in brandelli riuscirono a prenderne i militanti e ad irrorarli di ergastoli. Giustificarono poi i metodi da ‘Guantanamo greca’ dicendo che Savvas non era in stato di arresto, e tutti quegli incappucciati che lo circondavano erano li ‘per proteggerlo’.
Le ragioni dell’accusa
Le narrazioni di Hermann Feiling sono dunque il primo pilastro dell’accusa, che vorrebbe fare a Sonja e Christian un ennesimo ‘ultimo processo alle RZ’. Ennesimo, perché già il processo conclusosi il 19 febbraio 2009 a Stammheim era stato chiamato così dalla stampa (vedi Il processo a Thomas K., anche per alcuni tratti storici e politici delle RZ).
Il secondo pilastro dell’accusa è costituito dalle dichiarazioni di un pentito, Hans-Joachim Klein, che ha raccontato che Sonja lo avrebbe messo in contatto, nel 1975, con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina ‘External Operations’(PFLP-EO) per organizzare l’attacco alla sede dell’OPEP di Vienna.
Klein fece da ‘testimone della corona’ (Kronzeuge, delatore premiato) in quel processo e ne ottenne in cambio la libertà (fece 3 degli 8 anni di condanna, anziché tre ergastoli).
Il tribunale di Francoforte assolse però Rudolph Schindler, altro ex-militante delle RZ accusato degli stessi fatti rimproverati ancora oggi a Sonja, perché ritenne Hans-Joachim Klein completamente inattendibile.Anche questo secondo ‘pilastro’ è di sabbia, tanto che ci si chiede che senso abbia mantenere un mandato di cattura internazionale, perché spingere tanto una procedura d’estradizione, per accuse così fragili e dopo 34 anni dai fatti? “Mancanza di pentimento e di disponibilità a cooperare vanno punite, altrimenti non non si faranno più accordi e nemmeno paura. Quando dei militanti della sinstra se la cavano, è una piccola, ma fondamentale trasgressione della ragion di Stato.” Così commenta Analyse&Kritik (‘Non perdonare nulla, non dimenticare nulla’ Nr. 538/17.4.2009), e che ci sia voglia di esemplarità in è l’unica spiegazione sensata di questo caso. La vedono anche Sonja e Christian: “… si crede, con un processo come questo, di poter dimostrare alla nascente resistenza che nessuno se la cava.”
La memoria giudiziaria
Da parte sua, il Ministero pubblico di Francoforte si nasconde dietro il dito della legalità: “Noi dobbiamo perseguire fino alla prescrizione”, dice la sua portavoce Doris Möller-Scheu “e da noi l’omicidio non va in prescrizione.” Omicidio? Allude alle vittime dell’attacco all’OPEP, cui Sonja non ha partecipato, non ve ne sono altre possibili perché la violenza praticata dalle RZ escludeva il ricorso all’assassinio politico.
Ciò che è in realtà successo, è che la seconda richiesta di estradizione si è basata soprattutto su una nuova, grande disponibilità francese a collaborare nella repressione a tolleranza zero, ed ha approfittato di un nuovo accordo bilaterale che consente di tenere conto dei termini di prescrizione non del paese richiesto, come è stato sino ad ora in tutte le Convenzioni d’estradizione, ma del paese richiedente. E in Germania i termini di prescrizione per reati con uso di esplosivo sono stati aumentati a 40 anni, mentre in Francia, come si è visto, tutti i reati di cui sono accusati Sonja e Christian sono ormai prescritti. Con l’istituto della prescrizione lo Stato sancisce un termine temporale oltre il quale esso rinuncia a perseguire e punire un reato. Il trascorrere del tempo assume dunque il ruolo di recidere definitivamente il legame tra reato e pena. Tra le ragioni che fondano la memoria giudiziaria come limitata nel tempo -e inevitabilmente seguita dall’oblio giudiziario- spiccano due orientamenti: uno è di prospettiva garantista, che vede la prescrizione come una forma di tutela del cittadino dall’ingerenza dello Stato (senza necessariamente esplicitare un diritto soggettivo alla prescrizione); un altro è di ordine utilitaristico, che vede nel lungo trascorrere del tempo la perdita dell’interesse dello Stato a punire, stante che non può più invocare la necessità di integrare l’ordine pubblico turbato dal reato.
Sul piano che il diritto chiama di ‘prevenzione speciale’, si considera che il tempo, incidendo anche sulla natura psichica della persona, la trasformi, sicché la pena che arrivi tardi, quando il legame tra autore e fatto è ormai dissolto, colpirà un individuo ormai diverso, sul quale non avrà alcun effetto rieducativo. Una punizione tardiva rispetto al reato, priva d’una ragione di essere, non può che apparire una vendetta.
Salvo che la concezione della pena come controllo sociale non necessiti di un ‘esempio’, del monito ‘puniremo sempre e comunque ogni atto di ribellione sociale’: una scelta integralmente politica che non ha più nulla a che vedere con considerazioni giuridiche.
La prescrizione, che costituisce una rinuncia preventiva al potere repressivo dello Stato, non esiste nei paesi anglosassoni ordinati secondo la ‘common law’. La loro memoria giudiziaria è in questo senso assoluta e senza fine. L’oblio lì interviene prima, poiché essi conoscono la discrezionalità dell’azione penale, che pure permette la rinuncia preventiva alla repressione. Gli USA hanno così chiesto ed ottenuto l’arresto estradizionale, in Svizzera, del regista franco-polacco Roman Polanski, per il reato di rapporti sessuali illeciti con una minorenne.Per l’ordinamento svizzero, il reato è largamente prescritto, ma la Confederazione si è pecorescamente sottomessa ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che fa prevalere la legge statunitense, e dovrà estradarlo.
Che c’entra, è presto detto.
Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, che deve autorizzare la consegna di Sonja e Christian, ha pubblicamente protestato contro l’arresto estradizionale di Polanski, scandalizzandosi del fatto che il giudizio venga dopo 32 anni, quando ormai l’interessato ne ha 76. Ne ha parlato in un’intervista a Le Figaro il 15.10.09, poi Le Monde del 27.10.09 ha messo in relazione la su affermazione con il caso di Sonja Suder e Christian Gauger. L’articolo di Le Monde sul caso ripete però un luogo comune che non corrisponde alla realtà storica, poiché dice che le Cellule Rivoluzionarie erano “un’organizzazione vicina alla Rote Armee Fraktion”, mentre in realtà le due formazioni non avevano legami, né organizzativi né politici. Ma erano senz’altro assai poco conosciute fuori dalla Germania. In un riquadro, Le Monde segnalava ancora che era in preparazione una lettera a Sarkozy. Ora è stata fatta e gli è stata inviata. Eccola.
Lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica da alcune persone senza qualità né titoli particolari
Signor Presidente della Repubblica,
Lei ha affermato, a proposito dell’affare Polanski: “Pronunciarsi trentadue anni dopo i fatti, ora che l’interessato ha settantasei anni, non è buona amministrazione della giustizia” (Le Figaro del 16.10.2009). In questo enunciato Lei non ha espresso una semplice opinione, ma ha invece richiamato un principio fondamentale del diritto, evocando la necessità imperativa di limiti temporali all’esercizio della giustizia penale, principio affermato ‘in dottrina, norma e giurisprudenza’. Senza il quale, una giustizia che si pretendesse ‘infinita’ diverrebbe una teologia della vendetta.
Sul caso che è all’origine della Sua essenziale messa a punto, è stato scritto, Signor Presidente: “esiste un solo argomento a favore di Polanski, ma decisivo: il tempo…”.
Già il diritto romano considerava che il trascorrere dei decenni estingue progressivamente la turbativa provocata dall’atto originario, “e ciò traduce, in tutte le culture, un più alto principio di civiltà”. Se ci si attiene a questo principio, nessun privilegio quindi, per chicchessia, soltanto ‘una difesa logica, generale, uguale per tutti’.
Converrà, Signor Presidente che evocarlo in un caso per derogarne in seguito l’applicazione in un altro caso sarebbe peggio ancora che ignorarlo.
Orbene, nel momento stesso in cui Lei rilasciava questa dichiarazione, due cittadini tedeschi, Sonja Suder e Christian Gauger, rispettivamente di settantasei e sessantotto anni di età, si vedevano notificare un decreto di estradizione in forza di accuse risalenti a più di trent’anni e riguardanti fatti a carattere politico, sopravvenuti nel contesto dei movimenti sociali radicali degli anni settanta in Germania.ScrivendoLe, signor Presidente, ci siamo fatti divieto di far valere come argomenti i nostri affetti e i nostri specifici giudizi di valore sui contesti storici e sociali e a fortiori sulle persone: ci siamo imposti di attenerci qui alla sola lettera del diritto.
Con questa decisione che spetta esclusivamente all’esecutivo, lo Stato di cui Lei è il primo magistrato, potrebbe a termine consegnare alla giustizia tedesca due persone in vista di un processo che si svolgerebbe ben al di là dei ‘termini ragionevoli’ richiesti per un ‘processo equo’.
L’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger significherebbe comunque consegnarli a una lunga detenzione preventiva, dal momento che in forza delle disposizioni in vigore in Germania, rimangono pur sempre degli imputati in attesa di giudizio. Ci sembra inoltre importante ricordare che quest’uomo e questa donna hanno già sofferto di questa ‘giustizia che non rinuncia mai’.
Nel 2001 infatti, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Parigi li ha dichiarati non estradabili poiché la Germania imputava loro fatti prescritti in diritto francese. Ciononostante, questa stessa sezione li ha giudicati estradabili per gli stessi fatti, sulla base della Convenzione di Dublino, appena introdotta, secondo la quale i dispositivi di prescrizione che governano l’estradizione sono ormai quelli del paese richiedente. Orbene, l’applicazione di questa convenzione al caso di Sonja Suder e Christian Gauger calpesta due principi essenziali dei diritto: ‘l’autorità della cosa giudicata’ e il carattere non retroattivo dei testi repressivi allorché essi aggravano la situazione degli imputati.
Non possiamo credere, signor Presidente, che Lei non applicherà a queste due persone il criterio che ha pubblicamente difeso. Tanto più che esse rientrano pienamente nella ‘clausola umanitaria’ prevista dai testi internazionali. Non fosse che per questi due motivi, s’impone l’annullamento dei decreti di estradizione nei confronti di Sonja Suder e Christian Gauger.
Ci sembra inoltre signor Presidente che da questo principio di ‘civiltà giuridica’ che la Francia rivendica, derivi inoltre la decisione di non procedere a nessuna estradizione per fatti risalenti a più di un quarto di secolo.
Ecco quello che volevamo dirLe signor Presidente, noi che siamo oggi inquieti per le minacce che pesano sulla vita di Sonia Suder e Christian Gauger.
La ringraziamo dell’attenzione che vorrà riservare al nostro appello.Parigi, 5 novembre 2009
Jean-Michel Arberet
Emmannuelle Bastid
Jean-Pierre Bastid
Claire Blain-Cramer
Gilles Berard
François Chouquet
Guido Cuccolo
Claudio Di Giambattista
Aitor Fernández-Pacheco
Claudio Ielmini
Mouloud Kaced
Janie Lacoste
Ezio La Penna
Lucia Martini-Scalzone
Elda Necchi
Isabelle Parion
Claudine Romeo
Luigi Rosati-Elongui
May Sanchez
Oreste Scalzone
Gianni Stefan
Hanlor Tardieu …
L’indirizzo email per sottoscrivere la lettera è: contact[at]stopextraditions.info
Sito per Sonja e Christian
Battisti, Genro: L’italia è stata arrogante e autoritaria
Intervista al ministro della Giustizia brasiliano
di Paolo Persichetti, Liberazione 14 Novembre 2009
Il supremo tribunale brasiliano si è spaccato in due come un cocomero. Quattro giudici hanno ritenuto l’asilo politico concesso a Cesare Battisti dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, <corretta sotto il profilo costituzionale>.
Hanno poi respinto la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia perché i reati contestati «hanno una natura politica» che cade sotto la protezione della legge brasiliana e dei trattati internazionali ratificati dal loro Paese. Altri quattro giudici, con argomenti esattamente opposti, si sono pronunciati per il via libera alla estradizione. Questa cristallizzazione, come da più parti si è osservato, palesa in modo eclatante uno scontro istituzionale molto duro. In ballo c’è l’interpretazione della costituzione brasiliana e soprattutto quale debba essere la gerarchia dei poteri in materia estradizionale. Decide e prevale, in ultima istanza, il potere politico, dunque l’Esecutivo, come accade in tutti i Paesi del mondo, compresa l’Italia, oppure deve essere il Giudiziario a dire l’ultima parola?
Attorno alla battaglia giuridico-politica che si è tenuta fino ad ora nelle aule di giustizia brasiliane, la destra – oggi all’opposizione – alleata con una parte significativa della magistratura, sta tentando un assalto al potere politico legittimamente eletto, rappresentato dal presidente della repubblica Ignazio Lula da Silva. Uno scenario esattamente rovesciato rispetto a quello italiano. Il nostro governo, che per voce del suo premier raglia contro i «magistrati comunisti», non esita oltre oceano a costruire trame di corridoio con pezzi di magistratura per strappare con ogni mezzo l’estradizione di Battisti, dando una mano ai suoi amici della destra brasiliana per fare fuori Lula.
Degli scenari che si aprono dopo la situazione di stallo, venuta a crearsi tra i giudici della Supremo tribunale federale di Brasilia, abbiamo parlato con il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro.
Ministro, cosa accadrà ora? Il presidente del Stf, Gilmar Mendes, voterà oppure come accaduto in altre occasioni, rispetterà il principio dell’habeas corpus?
Ha dichiarato che voterà.
Ha idea di come si pronuncerà?
È un’incognita perché ad oggi non ha ancora avuto l’opportunità di presentare pubblicamente la sua posizione.
È vero, come alcuni quotidiani hanno scritto, che se il Presidente Lula non ratificherà l’eventuale voto favorevole alla estradizione di Battisti, si potrebbe aprire una procedura di impeachment contro di lui?
Impossibile. Dietro questo scenario c’è una concezione completamente distorta della costituzione brasiliana. Le decisioni del Supremo tribunale sulla concessione dell’asilo non hanno forza di legge. Sono pareri privi di effetto vincolante. La decisione finale è riservata dalla costituzione al Presidente della repubblica. Se il voto finale del Supremo tribunale dovesse pendere per l’estradizione, la decisione passerà nelle mani del Presidente della repubblica. Decisione che comunque si farebbe attendere perché sul capo del signor Battisti pesa un procedimento penale per possesso e falsificazione di documenti d’identità. Per questo, quale che sia il risultato finale del voto, non vi può essere nessuna immediatezza della estradizione prima che non sia concluso il processo.
Eppure, in una dichiarazione il Presidente del Stf, ha evocato chiaramente il rischio di un impeachment (procedura di rimozione) contro Lula, se questi non si atterrà all’esito della decisione della Suprema corte.
Questa dichiarazione non l’ho mai letta da nessuna parte, mi è stata solo riferita. Se fosse vera, sarebbe espressione di una concezione profondamente sbagliata del sistema legale, dell’equilibrio e della divisione che presiede alle diverse competenze tra potere esecutivo e giudiziario.
Ministro, secondo lei perché Toffoli (il giudice nominato in sostituzione di un suo collega scomparso Ndr) non ha votato?
Non lo so. Ha parlato di un problema di coscienza, ma non saprei dire esattamente quale sia la ragione personale che gli ha impedito di esprimere il voto.
Forse perché ci sono state pressioni da parte italiana?
Pressioni da parte dell’Italia ci sono state fin dall’inizio.
Secondo lei si è andati ben oltre la legittima difesa dei propri interessi, fino alla vera e propria ingerenza negli affari interni?
Sì, da parte di persone appartenenti al governo italiano. Pressioni totalmente inaccetabili dal punto di vista politico e giuridico. In questa vicenda l’Italia ha dimostrato di avere una visione autoritaria e arrogante, inaccettabile per un paese democratico.
Caso Battisti: altra udienza sospesa
Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni
di Paolo Persichetti, Liberazione 13 novembre 2009
Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre. Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro.
Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata l’intensione del governo italiano di presentare ricorso contro la sua nomina. Voce che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». Di fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.
Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole all’estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano, e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla dovrebbe passare nelle mani di Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. L’Italia, infine, dovrebbe comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa esser possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione.
Cesare Battisti: ultima udienza in corso…
Dias Toffoli, giudice appena nominato al Supremo Tribunal Federal di Brasilia, ha formalmente annunciato che non prenderà parte alle votazioni che si terranno oggi e che decideranno se estradare o no Cesare Battisti. Come avvocato generale di stato si era espresso a favore della concessione di status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano; per questo precedente non voterà.
Senza il suo voto, il pronostico non è certo favorevole per l’ex militante dei PAC che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo.
L’udienza è in corso da meno di un’ora; l’intenzione di alcuni membri del tribunale è di bypassare completamente il presidente brasiliano Lula, che dovrebbe comunque avere l’ultima parola.Durante l’udienza il ministro giudice Cezar Peluso, ha dichiarato che Lula dovrebbe automaticamente inviare l’imputato verso le prigioni italiane.
Il procuratore generale Roberto Gurgel, tra i tanti, sostiene invece che Lula come capo di stato e del governo, responsabile delle relazioni internazionali in Brasile e garante della Costituzione, abbia il diritto di decidere se estradare o no Cesare Battisti in Italia.
Tra poco si saprà qualcosa…
Intervista a Tarso Genro sull’asilo politico a Cesare Battisti
«Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo»
di Paolo Persichetti, Liberazione 11 ottobre 2009
Quando nel gennaio scorso il ministro della Giustizia brasiliana, Tarso Genro, concesse l’asilo politico a Cesare Battisti, una reazione carica di astio coprì la sua decisione. Dai vertici istituzionali, sui media, dalla magistratura, senza mai veramente controargomentare vennero risposte spesso fuori dalle righe. Addirittura nel corso di una cerimonia, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, rivolto carabinieri, disse: «se ci potesse essere un gruppetto che vuole andare in Brasile…». Oggi, per la prima volta, il guardasigilli brasiliano si spiega su un quotidiano italiano. Lo fa estesamente e con molta pacatezza. Evita le riposte polemiche. Tempo fa, Armando Spataro, il pm milanese che condusse l’inchiesta contro i Pac, noto per essere uno dei cuori di pietra dell’emergenza, domandò ai giudici brasiliani di «decidere col cuore». In Brasile, a leggere questa intervista, pare che continuino a preferire il Diritto, la Filosofia, la Storia.
Quali sono le fonti giuridiche della sua decisione di concedere l’asilo a Cesare Battisti?
Il Brasile ha sottoscritto la convenzione sullo Statuto dei rifugiati del 1951 e il Protocollo del 1967, che amplia la possibilità di riconoscimento dello status di rifugiato anche per fatti diversi da quelli accaduti fino al 1951, e legati alla seconda guerra mondiale.
Nella legislazione brasiliana, la mia decisione trova sostegno nella Legge n. 9.474 del 1997, che disciplina il riconoscimento della condizione di rifugiato. Questa legge riconosce l’asilo ad ogni persona che, a causa di fondati timori di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, gruppo sociale od opinioni politiche, si trovi fuori dal suo paese di origine e non possa o non voglia avvalersi della protezione di tale paese. Sempre secondo questa legge, il ministro della Giustizia è l’istanza di ricorso nella concessioni dell’asilo e la sua decisione è inappellabile.
Inoltre, considerando che la carta delle Nazioni unite e la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo affermano il principio secondo il quale gli esseri umani senza distinzione alcuna debbano godere dei diritti e delle libertà fondamentali, e che gli stessi principi sono riconosciuti dalla Costituzione brasiliana, ritengo che la mia decisione sia ampiamente fondata.
Nel testo in cui lei concede l’asilo politico cita importanti autori nel campo della filosofia politica e del dirittocostituzionale, come Norberto Bobbio, Carl Schmitt, Jurgen Habermas, il sociologo Laurent Mucchielli. Si dilunga con un’analisi molto dettagliata sulla particolare natura dello stato d’eccezione che è venuto a crearsi. Una disamina che assomiglia, per taluni aspetti, alle analisi condotte dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1991, quando avviò la procedura di grazia (poi bloccata) a Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Gran parte delle obiezioni che si sono levate contro le sue argomentazioni riguardano i passaggi sui «poteri occulti», citazione di Norberto Bobbio. I suoi argomenti, tutt’altro che grossolani e affrettati, sono stati stravolti fino ad accusarla di aver definito l’Italia degli anni 70 una dittatura fascista. Può spiegare meglio cosa intendeva?
Non ho mai definito l’Italia degli anni 70 un regime dittatoriale o fascista. I fatti da me richiamati sono pubblici e ampiamente argomentati dagli autori sopracitati. Ho sostenuto invece la legittimità della reazione dello Stato di diritto italiano di fronte ad una situazione storica di rivolta sociale. Quella reazione venneportata avanti applicando le norme giuridiche in vigore all’epoca. Tuttavia è impossibile negare che avvenne anche ricorrendo alla creazione di un regime di eccezioni che ha ridotto le prerogative di difesa degli accusati di sovversione o di azioni violente. L’introduzione del “pentitismo remunerato” è un esempio di queste eccezioni restrittive del diritto di difesa, e, nel caso in questione, fu la base principale della condanna di Cesare Battisti. Inoltre è notorio che i meccanismi di funzionamento dell’eccezione operarono, a quell’epoca, anche fuori dalle regole della stessa eccezionalità prevista dalla legge. Circostanza che suscitò ripercussioni in diversi paesi, anche fuori dall’Europa, che per questo concessero asilo politico ad attivisti italiani, e che spinse organismi internazionali che si occupano dei diritti umani, come Amnesty International e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, a elaborare dei rapporti su quanto accadeva.
La decisione del presidente Lula di nominare il giurista José Antonio Dias Toffoli nuovo giudice del Supremo tribunal federal al posto di Carlos Alberto Menezes Direito, deceduto il primo settembre, ha suscitato polemiche perché considerato vicino al Pt (partito del presidente ndr). Secondo i critici, questa nomina modificherebbe gli equilibri interni al tribunale a ridosso di un voto controverso, come quello sul caso Battisti. E’ vero?
L’indicazione di un nome per ricoprire l’incarico nel Stf suscita sempre polemiche. E’ impossibile che un nome sia gradito a tutti i settori politici. E’ però una prerogativa attribuita dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Lo stesso presidente del Stf, Gilmar Mendes, ha dichiarato che Toffoli è una persona “qualificata” per divenire componente della Corte, e che ha “un buon dialogo nel tribunale”. L’indicazione attuale non provocherà cambiamenti significativi nell’equilibrio interno della corte. Il Presidente Lula ha già designato in passato 8 ministri del Tribunale, il che non significa che ciò gli permetta una qualsiasi ingerenza nel lavoro del Stf. Perché mai la designazione di Toffoli dovrebbe avere conseguenze diverse dalle precedenti? Anche Menezes Direito era stato designato dal Presidente Lula, eppure allora nessuno sollevava critiche.
La stampa di destra, riprendendo un’opinione del presidente del Tribunale Gilmar Mendes, ha sostenuto che Toffoli difficilmente potrà votare sul caso Battisti perché non ha assistito fin dall’inizio alla discussione. Cosa dice la legge in proposito?
Fino alla nomina al Stf Toffoli ha esercitato il ruolo di avvocato generale dell’Unione. Vi potrà essere un impedimento a votare solo sull’eccezione di incostituzionalità, poiché l’Avvocatura generale si è espressa in proposito. Ma nel processo di estradizione non esiste nessun ostacolo alla sua partecipazione.
In caso di parità tra i voti dei Ministri all’interno del Tsf, cosa succede?
Sarà il presidente della corte ad esprimere il voto decisivo.
Secondo il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, è il Tribunale e non l’Esecutivo che deve dire l’ultima parola sulla procedura di estradizione. A suo avviso è corretta questa interpretazione? E’ in corso un conflitto istituzionale?
In concreto, l’estradizione rappresenta la proiezione del diritto di punire di uno Stato sul territorio di un altro Stato. Proprio per questo suo costituire un atto di disposizione sulla propria sovranità, si tratta di un fatto politico, e dunque di competenza del capo del potere esecutivo, che è il legittimo rappresentante del paese negli affari internazionali. Ciò non è una novità nel Diritto: né di quello brasiliano, né di quello straniero. Anche l’Italia possiede un sistema simile. Il procedimento esaminato dal Tsf è diviso in due fasi distinte. Una giudiziaria, dove il Tribunale funziona come garante dei diritti individuali della persona richiesta per l’estradizione, e verifica la possibilità giuridica di mandare avanti la procedura di estradizione. E’ una fase di autorizzazione, in cui la decisione è senza dubbio di competenza del tribunale. La decisione finale, invece, è di competenza dell’autorità amministrativa. Conseguenza del potere politico conferito dal voto al suo rappresentante, eletto anche per rappresentare il paese nelle sue relazioni esterne.
Il procuratore generale Antonio Fernando De Souza, che pure nell’aprile 2008 si era detto favorevole all’estradizione di Battisti, a patto che l’Italia commutasse la pena dell’ergastolo a 30 anni, aveva riconosciuto che la concessione dell’asilo estingueva la procedura d’estradizione. Il presidente del Tsf, Gilmar Mendes, ha ritenuto il contrario. Esiste una diversità di vedute anche all’interno del mondo giudiziario?
Nel mondo giuridico ci saranno sempre divergenze interpretative. Tuttavia la posizione del Procuratore generale non è una interpretazione isolata.Corrisponde al giudizio dei più capaci giuristi del nostro paese e fa parte della tradizione giuridica del nostro paese. Ciò che sorprende. in questo caso, è l’incompatibilità tra questa decisione e la giurisprudenza precedente del Stf. Ad esempio, nel caso Medina (esponente delle Farc), dove la richiesta di estradizione da parte del governo colombiano venne estinta dalla concessione dell’asilo.
Se, come ha detto il relatore Cesar Peluso nella sua requisitoria, la legge del 1997, che attribuisce al potere politico il compito di concedere l’asilo politico, è corretta, perché la corte pretende di sindacare nel merito della singola concessione?
La verifica di merito da parte di un altro potere costituisce senz’altro un danno al regime costituzionale della separazione dei poteri.
In Brasile, la vicenda Battisti non corre il rischio di favorire un’offensiva del potere giudiziario contro quello politico-elettivo? In Italia, la supplenza giudiziaria concessa dal potere politico alla magistratura sul finire degli anni 70, per combattere la sovversione politica della sinistra armata, si è poi trasformata in una “interferenza” teorizzata dagli stessi giudici, autoinvestitisi “nuovo soggetto” politico negli anni 90, fino a paventare scenari di «democrazia giudiziaria», di «repubblica penale», per dirla con Antoine Garapon. C’è il rischio che in Brasile si arrivi ad uno scenario simile?
La Costituzione del 1988 garantisce un ampio ricorso al potere giudiziario. La giudiziarizzazione è un fenomeno interessante perché promuove un ampio dibattito pubblico su temi importanti. Ovviamente c’è sempre il rischio di cadere in una giudiziarizzazione della politica, cosa che non sarebbe salutare. Però non credo che questo processo sia in corso. Il Brasile è una democrazia recente, e ancora in fase di maturazione, ma avanziamo rapidamente nel consolidamento delle nostre istituzioni.
Poche ore alla sentenza Battisti
Si è aperto poche ore fa il dibattimento sul caso Cesare Battisti a Brasilia, di fronte al Supremo Tribunale del Brasile (STF) che dee pronunciarsi sul ricorso presentato dall’Italia contro la concessione dell’asilo politico all’ex militante dei PAC (proletari armati per il comunismo) per cui è stata invece chiesta l’estradizione. Cesare non è presente in aula, al contrario di un rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia italiano, Italo Ormanni e l’ambasciatore italiano a Brasilia Gherardo La Francesca.
Il ministro della giustizia Tarso Gendro ha ribadito questa mattina la sua posizione a riguardo, augurandosi che sia mantenuta la giurisprudenza in vigore, sulla quale lui aveva basato la concessione dell’asilo politico.
Cosa che ci auguriamo tutti… anche il Procuratore generale del Brasile, Roberto Gurgel, ha affermato che la decisione del ministro della Giustizia Genro di concedere l’asilo politico a Battisti «è fondata sulla Costituzione, le leggi e i trattati internazionali».
IN BOCCA AL LUPO!
Il coraggio dell’amnistia
Oggi il nuovo quotidiano L’Altro, ha aperto con un editoriale di Sansonetti decisamente importante, che riporterò qui sotto.
In questi giorni proverò a mettere un po’ di materiale sull’amnistia: perchè è una battaglia che dovremmo sentire nel sangue.
Per allontanare “dar catenaccio” chi ancora è costretto dentro un carcere…
IL CORAGGIO DELL’AMNISTIA di Piero Sansonetti (editoriale del quotidiano L’Altro di sabato 16 maggio 2009)
Giampiero Mughini ha raccontato ieri al Corriere della Sera (articolo di Aldo Cazzullo) i suoi ricordi e le sue riflessioni sull’uccisione del commissario Luigi Calabresi (anno 1972), Mughini all’epoca era vicino al gruppo dirigente di Lotta Continua, e quindi basa la sua ricostruzione (ipotetica) dei fatti su elementi di conoscenza personale (di abitudini, idee, rapporti, modi di comportarsi di quel periodo). Mughini avanza l’ipotesi che Sofri non sia colpevole diretto, ma che sapesse. E che conosca i nomi di chi uccise Calabresi. Tesi che già in passato aveva sostenuto. Personalmente questa ricostruzione non mi convince. Penso che Sofri sia innocente. E constato che, in ogni caso, contro di lui non sono state raccolte prove, e i processi che si sono conclusi con la sua condanna erano processi indiziari, tutti fondati sulle dichiarazioni di un pentito (non verificate e non verificabili) il quale in cambio della condanna di Adriano Sofri ha ottenuto per se la libertà dopo pochissimi mesi di prigione (pur essendo stato condannato come autore materiale dell’uccisione).
Sono assolutamente convinto del principio secondo il quale in mancanza di prove non si può condannare. E credo che un certo numero dei processi che si sono svolti negli anni ’80 (e in parte ’90) contro gli imputati di lotta armata o di reati politici, siano stati processi “zoppi”, poco convincenti, senza garanzie. Influenzati dal clima politico dell’epoca e condizionati da una legislazione speciale, basata sull’esaltazione del pentitismo, che non dava garanzie né di verità né di equanimità. Che le cose stiano così è abbastanza evidente. E ce ne accorgiamo ogni volta che le nostre autorità chiedono l’estradizione di qualcuno che fu condannato in quegli anni, con quei processi, e non la ottengono (recentissimo caso Battisti), Come mai non l’ottengono? Perché la Francia, il Brasile, il Canada, la Gran Bretagna, la Svezia, la Spagna eccetera eccetera sono paesi filo terroristi? Non mi pare una spiegazione ragionevole. Non la ottengono perché i processi sono considerati non affidabili. Tutto qui. Vedete bene che il problema esiste, e va affrontato seriamente. In che modo? Riprendendo la riflessione su quegli anni di fuoco, nei quali la lotta politica, in Italia, convisse con la lotta armata; e trovando il modo dì uscire definitivamente da quel clima e da quella storia. C’è un solo modo di uscire da quel clima e da quella storia.
Chiudendone tetti gli strascichi giudiziari e penali. Cioè con l’amnistia. Solo l’amnistia può relegare finalmente nel passato gli anni di piombo e di conseguenza permettere l’apertura di una discussione e di una riflessione seria. Quali sono gli argomenti contro l’amnistia?
In genere se ne sentono tre.
Il primo è il cosiddetto “diritto dei parenti delle vittime”.
Il secondo è la certezza della pena e il rischio che gente che ha seminato il male non paghi per il male, la faccia franca.
Il terzo è la paura che l’amnistia ci impedisca di scoprire cosa davvero è successo in quegli anni, cosa c’era dietro i delitti,
Il primo argomento mi sembra che non riguardi il diritto. Riguarda semmai la politica. I parenti delle vittime non hanno il diritto dì influire sulle pene dei colpevoli (o, talvolta, dei sospetti). Hanno il diritto ad essere risarciti, aiutati, assistiti. E spesso questo diritto non viene loro riconosciuto dallo Stato, ma l’amnistia non c’entra niente.
Il secondo argomento è sbagliato. Per un motivo molto semplice: la lotta armata degli anni settanta è l’unico capitolo della storia del delitto italiano che ha prodotto un numero altissimo di condanne e di pene. I ragazzi che furono coinvolti nella lotta armata, nella loro quasi totalità hanno pagato con anni e anni di galera. Non esistono altri “rami” del delitto dei quali si possa dire altrettanto. Qualcuno ha pagato per le stragi di Stato? Qualcuno per la corruzione politica? Qualcuno per le responsabilità dell’ecatombe sul lavoro? Ho fatto solo tre esempi, ì più clamorosi» ma potrei continuare. E allora è curioso che si chieda la cer-tezza della pena per gli unici che la pena l’hanno scontata. Giusto?
Il terzo argomento è il più controverso. E’ la famosa questione del complotto. Qual è il problema? Una parte dell’opinione pubblica italiana (specialmente di sinistra) si era convinta, negli anni scorsi, che il fenomeno della lotta armata fosse troppo grande e vasto e potente per potere essere il semplice prodotto dell’impegno diretto e un po’ delirante di alcune migliaia di giovani. E che allora dovesse essere il risultato di un complotto nazionale o internazionale. Devo dire che per molti anni anche io mi ero convinto di qualcosa del genere. Avevo sospettato che il rapimento e l’uccisione di Moro fosse una losca congiura del potere. Però poi, di fronte alla realtà, bisogna arrendersi. I colpevoli sono stati tutti arrestati, sono state raccolte tonnellate di testimonianze, prove, documenti. Sono passati 30 anni. È chiaro che non ci fu complotto. Semplicemente avevamo sottovalutato la forza della rivolta armata. E allora perché negare l’amnistia con la scusa della ricerca della verità? È chiaro che le cose stanno in modo molto diverso. La verità che ancora non conosciamo, che vorremmo conoscere, è quella sulle stragi di Stato (da piazza Fontana 1969 fino alla Stazione di Bologna 1980). Cioè su quella parte di lotta armata (di controguerriglia) che fu organizzata direttamente dalle istituzioni e dal potere e che, tra l’altro, ebbe un peso forte nella nascita – per reazione – delle brigate rosse e delle altre formazioni eversive di sinistra. Nessuno è in prigione per quelle stragi (tranne alcuni estremisti d destra per la strage di Bologna, ma moltissimi esperti ritengono che essi siano innocenti). Con questi misteri l’amnistia non c’entra niente. E probabilmente se ci si decidesse a vararla potrebbe essere un aiuto per riaprire la discussione e la ricerca su quel buco nero della storia italiana.
Torture: l’arresto del giornalista Buffa e i comunicati dei sindacati di polizia _ITALIA 1982_
[Leggi anche l’intervista a Pier Vittorio Buffa fatta da me e Paolo Persichetti: QUI ]
Pier Vittorio Buffa: “Il rullo confessore” in L’Espresso 28 febbraio 1982
“All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano, e con la singolare ‘spesa’ rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’era l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits: vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza avere più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “L’ho fatto pisciare addosso”. “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese” [Il funzionario ucciso dalle B.R.].
Quest’ultimo piano era infatti diventato -secondo alcune accuse e deposizioni di cui parleremo- il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona.
Non hanno subìto tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in grande quantità, pugni e calci per ore, per notti intere. Sono fatti, questi, dei quali si sta cominciando a discutere anche all’interno del sindacato di polizia. La voglia di picchiare aveva infatti totalmente contagiato gli agenti di quel distretto ( molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta poco a poco estendendo, come un contagio.
Molte sono ormai le testimonianze raccolte dai magistrati sui trattamenti riservati agli arrestati da polizia e carabinieri. Molte e circostanziate. Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni ha già smentito tutto in Parlamento.
Ma dalla lettura dei verbali emerge l’esistenza di un sistema di pestaggio, con i suoi passaggi prestabiliti, i suoi locali appositamente allestiti, i suoi esperti. Cerchiamo di illustrarlo basandoci su sei denunce presentate in diverse città: Roma, Viterbo, Verona. Quelle di Ennio di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai, Nazareno Mantovani e Gianfranco Fornoni, tutti accusati di terrorismo.
Il primo passo è l’isolamento totale in locali che il detenuto non può identificare e senza che nessuno ne sappia niente. Il 12 gennaio scorso una voce anonima ha telefonato allo studio di un avvocato romano: “La persona arrestata in via Barberini si chiama Massimiliano Corsi, è di Centocelle; avvertite la madre, date la notizia attraverso le radio private, lo stanno massacrando di botte.” Solo dopo due o tre giorni si seppe ufficialmente che Corsi era stato arrestato. Il totale isolamento, il cappuccio sempre calato sul viso, le mani strettamente legate dietro la schiena sono la prima violenza psicologica. Poi le
minacce di morte (“Ti possiamo uccidere, tanto siamo in una situazione di illegalità” avrebbero detto a Stefano Petrella) la pistola puntata alla tempia e il grilletto che scatta a vuoto come in una macabra roulette russa (Nazareno Mantovani).
Per arrivare alle violenze fisiche il passo è breve: tutti dichiarano di aver preso calci e pugni subito dopo l’arresto, ma poi si arriva alla descrizione di sevizie vere e proprie, di torture. Sigarette spente sulle braccia (Di Rocco). Acqua salatissima fatta ingerire a litri, sempre con lo stesso sistema: legati a pancia in su sopra un tavolo, con mezzo busto fuori e quindi con la testa che penzola all’indietro ( Di Rocco, Petrella e Mantovani). Calci ai testicoli (racconta Fornoni: ‘Con certe pinze a scatto hanno effettuato diverse compressioni sui testicoli, minacciando di evirarmi’). Tentativi di asfissia con vari sistemi. Misteriose punture: il sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica ha constatato la presenza di “un segno di arrossamento con escoriazione centrale” sul braccio destro di Di Rocco.
Dopo giorni e giorni di trattamento di questo tipo gli arrestati vengono condotti davanti al magistrato e alcuni verbali sono ricchi di dettagliate descrizioni, fatte dai giudici, dello stato fisico dei detenuti: Di Rocco aveva il polso destro sanguinante per via della manetta troppo stretta, cicatrici fresche in varie parti del corpo.
Lino Vai si è tolto una scarpa davanti al giudice mostrandogli le “spesse croste ematomiche” presenti sul dorso dei piedi. Due istruttorie per accertare la verità sono già iniziate; una a Viterbo, dopo la denuncia di Fornoni, e una a Roma, iniziata dopo le deposizioni di Petrella e di Di Rocco dal sostituto procuratore Niccolò Amato che ha disposto le perizie. In attesa che queste indagini si concludano, c’è chi ha già chiesto al ministro Rognoni di avviare un’indagine amministrativa e chi sostiene che lo stato democratico non può fare della violenza fisica e psicologica uno strumento di lotta. […]
NOTA INFORMATIVA: A seguito della pubblicazione dell’articolo sopra riportato, Pier Vittorio Buffa, il 9 marzo 1982, viene arrestato su ordinanza emessa dalla Procura della Repubblica di Venezia, con l’imputazione “del reato p. e p. dell’art. 372 C.P. perché deponendo innanzi al procuratore della Repubblica di Venezia, Cesare Albanello, taceva in parte ciò che sapeva intorno alla fonte da cui apprese le notizie riportate nell’articolo ‘Il rullo confessore’ apparso sul settimanale L’Espresso del 28 febbraio 1982 e del quale egli era autore” [N. 520/82 del Reg. Gen. del Procuratore della Repubblica di Venezia]
SIULP di Venezia, Comunicato, 10 marzo 1982
“Il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Venezia esprime profondo stupore e rammarico per l’arresto del
giornalista de L’Espresso Pier Vittorio Buffa, rifiutatosi di rivelare la fonte di alcune notizie da lui riportate nell’articolo comparso sul numero del 28/02/82 del settimanale suddetto. In proposito si fa rilevare che le voci di maltrattamenti durante gli interrogatori di persone arrestate nell’ambito delle indagini sul terrorismo sono giunte al sindacato. Il sindacato dei lavoratori della polizia, pur condividendo il convincimento di quanti ritengono ingiustificabili tali pratiche, esprime la propria preoccupazione per l’orientamento delle inchieste in corso che tendono alla individuazione di responsabilità di singoli appartenenti alle forze dell’ordine, non tenendo conto del clima che ha suscitato tali episodi, e di cui molti devono sentirsi direttamente o indirettamente responsabili.
Non v’è dubbio infatti che tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese, impedendone il pacifico sviluppo. Il sindacato auspica che le indagini siano indirizzate a rompere il clima di timore venutosi a determinare fra gli appartenenti alle forze dell’ordine più direttamente impegnate nelle difficili indagini e che potrebbero risultare coinvolti in tali episodi. Si auspica inoltre che si punti a far sì che tali pratiche restino un caso isolato determinato da una particolare contingenza.
Allo scopo di dare un contributo per fare la necessaria chiarezza in tale direzione, il sindacato di Venezia, in sintonia con la segreteria nazionale, ha inviato un telegramma al magistrato dott. Albanello per un incontro urgente.
NOTA INFORMATIVA. L’11 marzo 1982, una delegazione del Sindacato di Polizia Siulp di Venezia, deponendo davanti al PM, libera il giornalista Pier Vittorio Buffa dal vincolo del segreto professionale, e pertanto egli, in sede di interrogatorio, indica nel capitano Riccardo Ambrosini e nell’agente Giovanni Trifirò le due persone che gli hanno dato le informazioni relative all’articolo. Riportiamo di seguito il dispositivo della sentenza che lo assolve: “Visti gli art. 479 c.c.p. e 376 c.p., assolve l’imputato perchè il fatto non costituisce reato perché non punibile per avvenuta ritrattazione. Ne ordina l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.”
Dopo questo comunicato una riunione con il questore e tutti i dirigenti della questura di Venezia stila un comunicato in cui si chiede che i poliziotti che hanno scagionato il giornalista de L’Espresso siano trasferiti perchè ‘la loro presenza provocherebbe uno stato di tensione e amarezza in tutto il personale’.
Qui sotto alcune dichiarazioni del capitano Filiberto Rossi, uno dei quadri dirigenti del Sap (il Sindacato Autonomo di Polizia): ” Non ci sono state torture ai terroristi arrestati. Se qualche episodio di violenza fosse avvenuto, sarebbe un fatto isolato. I responsabili, una volta accertata la loro colpa, dovrebbero essere puniti secondo la legge. Nella polizia non ci sono aguzzini o squadre speciali, ma solo persone normali e padri di famiglia. […]
La lotta al terrorismo da parte della polizia è sempre stata condotta nei limiti della legalità. Non bisogna dimenticare che su 1300 terroristi in carcere, soltanto alcuni hanno denunciato di aver subìto violenze. E queste denunce possono essere strumentali, posso essere state fatte per giustificarsi con i loro complici.
I poliziotti non ammettono che si possa ricorrere alle torture, ma non si possono certo trattare i terroristi con i guanti bianchi. Noi siamo convinti della necessità di esercitare pressioni psicologiche.”
Seguiranno aggiornamenti sulla tortura in Italia, con altre testimonianze.
Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi, di alcuni appartenenti ai Proletari Armati per il Comunismo stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Le torture contro i P.A.C. : Italia, febbraio 1979
Non ho profonda stima per Cesare Battisti, ma la verità va detta, sempre.
Proseguirò per molto a scrivere delle torture subite dai militanti dei gruppi armati durante gli anni ’70 e i primi anni ’80 in questo nostro paese.
Questa pagina si concentra soprattutto, dato il momento particolare, sulle dichiarazioni di chi era stato accusato di aver preso parte all’omicidio dell’orefice Torregiani avvenuto il 15 febbraio del 1979 a Milano.
Queste parole chiarificano platealmente come si svolgevano arresti, interrogatori, inchieste e processi durante quegli anni; chiarificano i metodi usati dai nostri apparati di Stato per far rilasciare dichiarazioni dai prigionieri.
Nascondere queste cose è vergognoso. LA TORTURA C’ E’ STATA E C’E’ CHI NON LO DIMENTICA
Seguiranno aggiornamenti su torture subite da militanti di altri gruppi
Sono state precedentemente pubblicate le torture ai danni di Emanuela Frascella e Paola Maturi
e stralci si una sentenza di rinvio a giudizio per 7 agenti di PS con la testimonianza di Ennio di Rocco
LE TORTURE SUBITE DAI MILITANTI DEI PROLETARI ARMATI PER IL COMUNISMO
MILANO 17-18 febbraio 1979
SISINNIO BITTI:
“Era la notte del 16 febbraio 1979, rientrai a casa con Marco verso le due di notte. Appena entrati ci trovammo davanti una squadra di poliziotti in borghese che ci ammanettarono subito. Essendo entrambi attivi nel collettivo autonomo Barona del quartiere, immaginavamo di essere controllati. Il giorno prima nel pomeriggio in Milano venne ucciso l’orefice Torregiani.
Appena arrivati in questura mi portarono su e giù per le scale, dopodiché venni introdotto in un salone ai piani più alti. Lì venni assalito a calci e pugni alla schiena e dietro il collo, venni buttato a terra e picchiato; chiedevo il perché di tutto ciò e loro mi dicevano “lo sai benissimo perché. Ti conviene parlare altrimenti stanotte per te è finita; ti buttiamo giù dalla finestra.”
Venni sollevato da terra e disteso su un tavolaccio, addosso avevo almeno 6 poliziotti in borghese che mi tenevano ben fermo per le mani e i piedi: i calci li alternavano al ventre e al basso ventre. Ricordo vicino al tavolo due lavandini, in uno dei due vi era inserita una canna di plastica; questa canna mi veniva infilata in bocca e veniva aperto il rubinetto con il massimo della pressione costringendomi ad ingoiare acqua fino a riempirmi lo stomaco come un pallone; un poliziotto mi saliva sulla pancia per farmi vomitare l’acqua.
Mi fecero scendere dal tavolo e mi sedettero su una sedia, venni ammanettato e un poliziotto mi schiacciò i piedi per farmi stare fermo. Da notare che allora pesavo 52 Kg per un’altezza di 1.62, mentre i poliziotti erano quasi tutti il doppio di me. Continuarono le torture; volevano sapere dove avevamo lasciato le armi che, secondo loro, avevamo usato per uccidere Torregiani. Ad un certo punto fui costretto a inventare una scusa per sottrarmi alla violenza fisica, così dissi loro che li avrei portati nel luogo dove avrebbero trovato le armi. Li portai così in uno scantinato dove si riunivano i collettivi della zona. Io non avevo minima idea in quel momento dove si trovassero delle armi, tanto meno quelle usate per l’omicidio Torregiani; appena arrivati, in pochi minuti rivoltarono tutto, ma di armi non c’era traccia. A quel punto ebbi veramente paura, infatti due di loro tirarono fuori le pistole minacciando di uccidermi, ma altri due erano contrari al punto che litigarono tra loro, tanto da non poter capire se stessero facendo sul serio o se fosse una farsa. Ormai albeggiava, tornammo in questura e fui sbattuto in una cella senza niente, bagnato e gonfio. Mi accasciai dietro la porta; un poliziotto mi controllava continuamente. Venni prelevato dalla cella credo nel pomeriggio, mi trascinarono per un po’ su e giù per le scale, e dopo un po’ venni portato dentro una camera. Di quella esperienza ricordo solo un tavolo e tante coperte ammucchiate. Mi fecero spogliare completamente e mi sdraiarono supino sul tavolo; mi misero le manette alle caviglie e alle mani.
Incominci a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse la coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le piante dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevo andare dal Magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani.
Mi portarono davanti a due persone in una stanza semi buia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici Deliguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte ciò che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici.
Il pomeriggio che fu ucciso Torregiani mi trovavo in ospedale a lavorare in presenza di medici e infermieri che in seguito testimoniarono a mio favore. I poliziotti in parte avevano creduto e cercarono di convincermi ad accusare Sebastiano, Pietro Mutti e Franco Angelo, persone che loro conoscevano già.
Dopo questo drammatico interrogatorio davanti ai giudici mi venne finalmente offerto un panino dopo ore e ore di digiuno senza mangiare né bere; in seguito venni trasferito al carcere di San Vittore. Accortisi che stavo molto male venni immediatamente sottoposto a visita medica.
Mi riscontrarono varie lesioni, tra cui: otite traumatica, tachicardia, pressione arteriosa alta, tumefazione alle tempie, alle caviglie, tumefazione e lesione allo scroto, e in seguito venni ricoverato al centro clinico.
Dopo qualche giorno mi venne data la possibilità di poter parlare con i giudici Spataro e Deliguori, i quali li vidi dopo qualche giorno, ed in seguito partirono le denunce per i poliziotti.
Venni scarcerato per mancanza di indizi.”
I LINK SULLA TORTURA
breve cronologia ragionata e testimonianza di Ennio di Rocco, B.R.
Testimonianze di Emanuela Frascella e Paola Maturi, B.R.
Testimonianza Di Sisinnio Bitti, P.A.C.
Arresto del giornalista Buffa
Testimonianza di Adriano Roccazzella, P.L.
Le donne dei prigionieri, una storia rimossa
Il pene della Repubblica
Ma chi è il professor “De Tormentis”?
Atto I: le torture del 1978 al tipografo delle BR
De Tormentis: il suo nome è ormai il segreto di Pulcinella
Enrico Triaca, il tipografo, scrive al suo torturatore
Le torture su Alberto Buonoconto
La sentenza esistente
Le torture su Sandro Padula
Intervista a Pier Vittorio Buffa
Enrico Triaca: così mi ha torturato De Tormentis
Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti. Richiamato l’ambasciatore Valensise
DAL BLOG INSORGENZE
Dopo la richiesta di archiviazione fatta dalla procura generale brasiliana, a seguito della concessione dello status di rifiugiato politico, l’Italia richiama l’ambasciatore Valensise a Brasilia per consultazioni
di Paolo Persichetti Liberazione 28 gennaio 2009
Cesare Battisti non verrà estradato, per questo l’Italia ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore in Brasile Michele Valensise. La rappresaglia diplomatica (che nel linguaggio paludato della diplomazia è il segnale di un grave stato di crisi prossimo alla rottura delle relazioni ufficiali) è stata presa dal ministro degli Esteri Franco Frattini dopo la diffusione, nella serata di lunedì, del nuovo parere sulla estradizione – questa volta negativo – espresso dalla procura generale brasiliana. Antonio Fernando De Souza, nell’aprile del 2008, si era detto favorevole; ora però, a seguito della sopravvenuta concessione dell’asilo politico, da parte del ministro della Giustizia Tarso Gendro, non ha potuto fare altro che inchinarsi e domandare l’archiviazione dell’intera procedura.

Genro Tarso
Tra Italia e Brasile non vi è alcun accordo sul riconoscimento reciproco delle sentenze di giustizia e la dottrina giuridica estradizionale è materia che attiene ancora alle decisioni sovrane della politica. Il parere era stato richiesto dal presidente del Supremo tribunale federale (Stf) Gilmar Mendes, dopo le forti reazioni italiane e le pesanti pressioni diplomatiche. Prima il presidente della repubblica Napolitano, poi il presidente della Camera Fini, avevano scritto a Lula per rappresentare lo «stupore e il rammarico» delle autorità italiane. Lo stesso ambasciatore Valensise, accompagnato da un legale brasiliano incaricato dal nostro governo, era stato ricevuto dal presidente del Supremo tribunale federale. Circostanza che ha rasentato l’ingerenza negli affari interni brasiliani. Come avrebbe reagito l’Italia se un ambasciatore estero avesse incontrato il presidente della corte di Cassazione per fare pressione nell’ambito di una procedura in corso?
Lula aveva risposto con una breve ma ferma lettera nella quale ribadiva che la decisione era un atto sovrano del Brasile fondato su indiscutibili basi giuridiche interne e internazionali (art. 4 della costituzione brasiliana, legge post-dittatura del 1997 sul diritto d’asilo e convenzione Onu del 1951, riconosciuta anche dall’Italia). A questo punto la parola torna al Tribunale supremo che si riunirà il prossimo 2 febbraio per pronunciarsi sulla scarcerazione. Per altro l’estradizione di Battisti, se fosse avvenuta, avrebbe sollevato non pochi problemi all’Italia. Infatti la condizione posta dalla procura generale era la commutazione dell’ergastolo comminatogli (abolito dal codice penale brasiliano) a 30 anni di reclusione. Ove mai l’Italia avesse accolto la richiesta (non avrebbe potuto fare altrimenti), si sarebbe posto un problema di uguaglianza di trattamento di fronte a tutti gli altri ergastolani. In questa vicenda l’Italia ha sommato una lunga serie di gaffes e comportamenti arroganti, mostrando di considerare il Brasile una repubblica delle banane che avrebbe dovuto piegarsi supinamente all’attività lobbistica della nostra magistratura, spesso convinta d’essere la fonte battesimale della giustizia mondiale pronta a dare lezioni di legalità al mondo intero. Nonostante il pluridecennale contenzioso aperto con le autorità parigine, quasi 90 procedure di estradizione (accolte solo in due casi), l’Italia non ha mai pensato di mettere in discussione in modo così palese la sovranità interna della Francia. Forse non a caso Gianni Agnelli definiva lo Stivale una «repubblica di fichi d’india».
Questa disfatta diplomatico-giudiziario riapre con forza la questione della mancata chiusura politica degli anni 70. All’estero nessuno riesce a capire come dopo 30 anni permanga ancora una tale volontà di disconoscere la natura sociale del conflitto

La “consegna straordinaria” di Rita Algranati
armato che traversò quel decennio e che, una volta concluso, andava affrontato e chiuso. L’Italia continua a negare l’emergenza giudiziaria, i numerosi casi di tortura denunciati nei primi anni 80 (anche da Amnesty). Fino ad ora ben 7 paesi hanno detto no alle richieste d’estradizione italiane: la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia. Poi il Canada, il Nicaragua, l’Argentina e il Brasile. Solo grazie a degli atti di pirateria internazionale, favoriti dal clima post Torri gemelle, l’Italia è riuscita a riavere alcuni rifugiati. Clamoroso fu il caso di Rita Algranati nel 2004, scambiata con i servizi algerini, complice l’Egitto. Insomma la vera anomalia internazionale continua ad essere quella italiana. Per quanto ancora?
Lula e la pernacchia all’Italia.
Il presidente brasiliano Luiz Inacio da Silva risponde al presidente della repubblica Giorgio Napolitano
«Rispettiamo l’ordinamento italiano ma l’asilo politico riconosciuto a Battisti è un nostro atto sovrano fondato su basi giuridiche interne e internazionali»
di LUIZ INACIO LULA DA SILVA
Signor Presidente, Giorgio Napolitano,
Ho l’onore di rispondere alla lettera di Vostra Eccellenza, del 16 gennaio, riferita alla decisione dello Stato brasiliano di concedere lo status di rifugiato politico al cittadino italiano Cesare Battisti.
“Vorrei, in questa occasione, esprimere a Sua Eccellenza la piena considerazione del potere giudiziario italiano e dello Stato democratico di diritto vigente in questo paese, ed affermare la mia fiducia nel carattere democratico, umanista e legittimo dell’ordinamento giuridico italiano.
“Chiarisco a Sua Eccellenza che la concessione della condizione di rifugiato al signor Battisti è un atto di sovranità dello Stato brasiliano. La decisione è basata nella Costituzione brasiliana (articolo 4°, X) nella Convenzione del 1951 delle Nazioni Unite relativa allo Statuto dei Rifugiati e nella legislazione brasiliana (Legge 9.474/97). La concessione dell’asilo e le considerazioni che la accompagnano sono ristrette ad un processo concreto, essendo state emesse con fondamento in elementi e documenti di un procedimento specifico.
“Voglio, in questa occasione, manifestare a Sua Eccellenza la mia fiducia che i legami storici e culturali che uniscono il Brasile e l’Italia continueranno ad ispirare i nostri sforzi tesi ad approfondire le nostre solide relazioni bilaterali nei più diversi settori.
* * * *
Senhor presidente, Giorgio Napolitano,
Tenho a honra de acusar o recebimento da carta de Vossa Excelência, de 16 de janeiro do corrente, referente a’ decisão do Estado brasileiro de conceder o estatuto de refugiado ao cidadão italiano Cesare Battisti.
Desejaria, nesta ocasião, expressar a Vossa Excelência a plena consideração do Poder Judiciário italiano e ao Estado Democrático de Direito vigente nesse país, bem como afirmar minha confiança no caráter democrático, humanista e legítimo do ordenamento jurídico italiano.
Esclareço a Vossa Excelência que a concessão da condição de refugiado ao senhor Battisti representa um ato de soberania do Estado brasileiro. A decisão está amparada na Constituição brasileira (artigo 4º, X) na Convenção de 1951 das Nações Unidas relativa ao Estatuto dos Refugiados e na legislação infraconstitucional (Lei 9.474/97). A concessão do refúgio e as considerações que a acompanharam restringiram-se a um processo concreto, tendo sido proferida com fundamento nos elementos e documentos constantes num procedimento específico.
Quero, nesta oportunidade, manifestar a Vossa Excelência minha confiança de que os laços históricos e culturais que unem o Brasil e a Itália continuarão a inspirar nossos esforços com vistas a aprofundar ainda mais nossas densas e sólidas relações bilaterais nos mais diversos setores.
Cordiais saudações
per trovare più materiale a riguardo vi consiglio il blog INSORGENZE
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