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Caso Cucchi: medici indagati, reintegrati
«Abbandono terapeutico». Messi sotto inchiesta per omicidio colposo
Reintegrati i medici indagati per la morte di Stefano Cucchi
di Paolo Persichetti, Liberazione 1 dicembre 2009
Sono stati reintegrati nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini i tre medici indagati per omicidio colposo dopo la morte di Stefano Cucchi. Eppure quanto è trapelato dagli accertamenti medico-legali sul corpo riesumato del giovane, deceduto il 22 ottobre scorso all’interno della struttura ospedaliera dopo una settimana di agonia seguita ad uno, o più, pestaggi e sevizie violentissime (sul numero esatto, e gli autori delle percosse subite, ancora oggi permane l’incertezza), confermerebbe le responsabilità dei sanitari nella sua morte. Il blocco della vescica riscontrato su Stefano Cucchi sarebbe, infatti, compatibile con la paralisi dell’ultimo tratto della colonna vertebrale.
Mentre le lesioni alla schiena e alla testa, seppur serie, non sarebbero state letali se adeguatamente curate. Insomma tutto lascia seriamente supporre che nei confronti di Cucchi vi sia stato un «abbandono terapeutico», una situazione di lassismo e incuria, una sottovalutazione grave e colposa delle sue condizioni di salute e delle cause che le avevano originate. Nonostante ciò, l’indagine amministrativa interna condotta da una commissione, apparentemente composta da personale della medesima Asl, ha sbrigativamente liquidato l’accaduto come «un evento non prevedibile». Nella relazione depositata ieri, si può leggere che l’analisi dei fatti, a fronte del «carattere improvviso e inatteso del decesso, non ha messo in luce, sul piano organizzativo e procedurale, alcun particolare elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l’evento avverso in questione. Contestualizza e configura pertanto l’oggetto dell’indagine sotto il profilo di evento non prevenibile». Per questo motivo Il direttore generale dell’Asl RmB, Flori Degrassi, ha disposto la revoca dell’ordine di trasferimento, preso in via provvisoria il 18 novembre scorso, nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponetti. La diffusione della notizia ha subito suscitato sconcerto e raccolto i commenti negativi del lagale della famiglia, Fabio Anselmo, di Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, e di Luigi Nieri, assessore al Bilancio della regione Lazio, che ha censurato una «decisione affrettata e profondamente sbagliata», rilevando come sia piuttosto inusuale «che la Asl concluda la propria inchiesta amministrativa prima di quella penale».
La decisione presa dalle strutture dirigenti dell’ospedale Pertini non si discosta molto da quello spirito corporativo che ha fino ad ora caratterizzato il comportamento di tutti gli altri attori coinvolti in questo terribile esempio di violenza istituzionale.
Chiusura a riccio e omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio che vorrebbe imporre l’idea della insindacabilità dell’operato di chi agisce in uniforme di Stato. Un atteggiamento viziato da una visione autoreferenziale della legalità e della morale. Alcuni apparati molto potenti non hanno mai accettato di essere messi sul banco dei sospetti e fin dall’inizio hanno operato nell’ombra, mettendo le briglie a un’inchiesta che altrimenti rischiava di mostrare il «re nudo». Mentre negli ultimi giorni nuove testimonianze di detenuti, presenti nell’infermeria di Regina Coeli con Stefano Cucchi, hanno riaperto scenari su violenze precedenti l’arrivo in tribunale, che la procura ha sempre evitato di approfondire ritenendoli privi di riscontri (ma l’inchiesta serve per trovare eventuali riscontri, non per escluderli a priori), da parte degli indagati emerge una nuova strategia. Non più scarica barile tra penitenziaria e carabinieri, ma fuoco concentrico sulla figura di Cucchi, dipinto come uno che entrava e usciva dal pronto soccorso degli ospedali. Un modo per dire che era già «rotto» prima di essere arrestato. E come se non bastasse, vengono diffuse minacce a mezzo stampa facendo circolare notizie sull’apertura di una inchiesta contro i legali della famiglia Cucchi per calunnia nei confronti dei carabinieri. Un modo per dire che gli apparati dello Stato sono santuari intoccabili.
Bruciature di sigarette sul corpo di Cucchi. E un 17enne si suicida in carcere, in attesa di giudizio
Mentre le pagine dei giornali ci comunicano che sul martoriato corpo di Stefano Cucchi ci sono anche bruciature di sigarette, arriva la notizia di un ragazzo, di un minorenne di 17 anni che s’è impiccato con un lenzuolo nelle docce del carcere minorile di Firenze.
Era in attesa di giudizio, per un tentato furto: uno non può morire a 17 anni per un tentato furto! E’ la dimostrazione di quanto sia assassino questo stato.
Un ragazzo che era in carcere dal 3 agosto in attesa di giudizio: tutto ciò è inaccettabile.
Un giovane ragazzo proveniente dal Marocco, ancora privo di nome nei comunicati ufficiali.
E adesso poi non ci venissero a dire che Cucchi è stato pestato dentro il Tribunale di Piazzale Clodio: non accollassero quest’ omicidio alla penitenziaria (corpo che non è che sto difendendo, ovviamente) perché la mano è dei Carabinieri. Non si spengono sigarette sul corpo di una persona se non per “sapere” qualcosa, magari per sapere dov’era quel kg di hashish che poi è stato ritrovato dalla sua famiglia.
Spegnere sigarette sul corpo di una persona non è pestaggio: ma TORTURA!
Non c’è altro modo di definire questa pratica, si chiama TORTURA. Quella contro cui in questo paese non esiste una legge, quella per cui mai nessuno ha pagato in questo paese.
Corteo per Stefano Cucchi
La tragica vicenda di Stefano Cucchi sta sconvolgendo la coscienza civile della nostra città e del paese tutto. Un giovane uomo di 31 anni è stato arrestato dai carabinieri per il possesso di una modica quantità di sostanza stupefacente e viene riconsegnato morto alla famiglia dopo un calvario di sei giorni trascorso tra una camera di sicurezza dell’Arma, il carcere di Regina Coeli e il reparto per detenuti dell’ospedale Pertini. Sul suo corpo gli evidenti segni di un brutale pestaggio, reso di pubblico dominio dalla coraggiosa decisione della famiglia di consegnare alla stampa le foto che documentano l’accaduto. Tanti sono ancora i lati oscuri della vicenda, tanta la voglia di verità e giustizia che sta spingendo alla mobilitazione e alla presa di parola molte persone preoccupate della svolta autoritaria che sta prendendo questo paese.
Purtroppo la storia terribile di Stefano Cucchi è solo la punta di un iceberg. Chi vive quotidianamente il disagio sociale di questa città sa bene che non si tratta di un caso isolato. L’uso della violenza contro le persone sottoposte a provvedimenti restrittivi è cosa comune, una “prassi” consolidata perpetrata contro soggetti deboli, lontana dai riflettori dei mass media, ignorata da un opinione pubblica in questi anni incattivita dalla retorica della sicurezza e della legalità. Come è ormai data per scontata l’impunità per coloro che, forti di una divisa e dell’appoggio senza remore del potere costituito, si permettono di tutto.
In questi giorni stanno venendo alla luce un’infinità di episodi tragicamente simili a quello che ha spezzato la vita di Stefano, episodi che richiamano alla memoria i nomi di Federico Aldrovandi, di Aldo Bianzino e dei tanti che sono incappati nella violenza istituzionale ma che non sono assurti agli onori delle cronache perché privi di una famiglia coraggiosa alle spalle, di buoni avvocati, di giornalisti sensibili, di comitati attivi nel perseguire un percorso di verità. E tante sono le storie di persone che sono rimaste in silenzio perché sole, spaventate, minacciate.
E’ ora di dire basta. E’ ora di dire mai più violenza sulle persone detenute; mai più violenza nelle caserme, nei commissariati, nelle carceri, nei CIE.
E’ anche ora di dire basta all’anonimato di cui godono le forze dell’ordine nello svolgimento del loro servizio, una circostanza che garantisce loro l’impunità nella stragrande maggiorana dei casi.
Ma è anche ora di dire con chiarezza che esistono delle leggi in questo paese che costringono alla detenzione persone che hanno l’unica colpa di essere in possesso di modiche quantità di sostanze stupefacenti: la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, la legge Bossi-Fini, il pacchetto sicurezza, strumenti normativi che non fanno altro che riempire le carceri. Provvedimenti legislativi che riducono le criticità sociali a mera questione di ordine pubblico Tutto ciò si verifica in un contesto che non esitiamo a definire di deriva autoritaria e che vede il progressivo restringimento degli spazi di libertà.
Questa ennesima vita spezzata deve trovare la coscienza civile di questa città e di questo paese attenta e vigile. E’ per tutti questi motivi che invitiamo tutte e tutti quelli che non rinunciano ad esercitare la loro coscienza critica, a manifestare nelle strade del quartiere di Stefano, Tor Pignattara. Per esprimere la massima solidarietà alla famiglia, per rivendicare verità e giustizia per Stefano Cucchi e per tutte le persone che subiscono quotidianamente la violenza istituzionale.
SABATO 7 NOVEMBRE 2009
ORE 15 CORTEO CITTADINO A TOR PIGNATTARA
CONCENTRAMENTO A VIA DELL’ACQUEDOTTO ALESSANDRINO ANGOLO VIA DI TORPIGNATTARA
Il proibizionismo fa un altro morto…
Un’altra vittima innocente della stupidità proibizionista. Si chiamava Stefano Frapporti, cinquantenne, muratore con una mano persa dopo un brutto incidente sul lavoro. Pare che sia stato fermato dai carabinieri mentre andava in bicicletta. Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero trovato dell’hashish. Hashish, non pistole, non mitra, non eroina. Secondo i carabinieri ne aveva in tasca circa un etto. Un etto di spinelli a loro è sembrato troppo. E’ così arrestato e condotto nel carcere di Rovereto. Dopo poche ore si ammazza. Era stato ubicato nel reparto osservazione. Pare che Frapporti fosse un consumatore di hashish. Un innocente consumatore di hashish. Si è ammazzato dopo una notte passata in carcere. Ce la potremmo prendere con i carabinieri che hanno applicato una legge ingiusta. Ce la potremmo prendere con l’amministrazione penitenziaria che non ha prestato l’attenzione adeguata che necessitano i nuovi giunti in carcere. Ce la potremmo prendere con il destino. Invece ce la prendiamo con questo cocciuto e brutto Paese che criminalizza tutti, che criminalizza gli stili di vita e gli status individuali. Ce la prendiamo con chi mette sullo stesso piano consumatori di droghe leggere e spacciatori di droghe pesanti. Ce la prendiamo con chi non ha il coraggio del pragmatismo antiproibizionista. Ce la prendiamo con Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi autori di una legge che – visto quanto successo a Rovereto – non esimiamo a definire assassina.
di Patrizio Gonnella
Tratto da Linkontro.info
Ancora su Simone, corrispondenza con Francesco Romeo
Dopo aver pubblicato l’articolo di Paolo Persichetti uscito ieri su Liberazione, pubblico una corrispondenza effettuata questa mattina da Radio Onda Rossa con l’avvocato Francesco Romeo, che sta seguendo l’allucinante storia di Simone, minorenne incensurato romano attualmente rinchiuso a 600 km di distanza da casa per un’irrisoria ed irrilevante quantita’ di hashish.
Corrispondenza con Francesco Romeo
La storia di Simone, minorenne incensurato detenuto per due canne a 600 km da casa in una comunità
Di questi tempi si raccontano grandi favole sulle scarcerazioni facili. A sentire certi telegiornali della sera, a leggere alcuni quotidiani che sembrano stampati nei retrobottega delle questure, ad ascoltare i discorsi forcaioli e giustizialisti dei politici della maggioranza, come dell’opposizione che non c’è, l’Italia sarebbe una specie di bengodi del malaffare. Assassini, stupratori, ladri, soprattutto se migranti in situazione amministrativa irregolare, cosiddetti «clandestini», ancora di più se romeni, scorazzerebbero impunemente per il paese protetti da leggi compiacenti, al punto che «cittadini onesti» hanno dovuto organizzarsi in ronde, formare delle «squadrette di vigilanza» per far regnare ordine e tranquillità.
Poi però quando si squarcia il velo dell’informazione costruita, spiattellata bella e pronta dalle agenzie che affogano le redazioni dove un giornalismo sempre più pigro ha ridotto la propria professione al copia e incolla, si precipita nel gorgo del paese reale.
Ci si imbatte così in una giungla di storie che fanno fatica ad emergere e diventare notizia come quella di Simone, un ragazzo romano diciassettenne arrestato lo scorso 8 ottobre all’uscita di una fermata della metropolitana perché trovato in possesso di un pezzetto di hashish, che le successive perizie hanno poi quantificato in 0,368 mg di sostanza attiva. Una percentuale derisoria, nemmeno due spinelli, ammessa anche dalle draconiane norme vigenti (la legge Fini-Giovanardi) come uso personale.
Quella che doveva essere una banale vicenda, una di quelle piccole disavventure che spesso animano le biografie adolescenziali e si chiudono velocemente con un rimbrotto e il perdono giudiziale (Simone è incensurato), si è via via trasformata in una odissea.
Non sarebbe stato così se Simone avesse avuto alla spalle una tranquilla famiglia borghese, se invece di vivere in una di quelle lande sperdute della periferia della capitale, costellata di palazzoni dormitorio, avesse avuto casa in un quartiere residenziale. Ma Simone non ha avuto questa fortuna, alle spalle ha una situazione familiare complicata. Ha perso la mamma da bambino e il padre è in una condizione psicologica critica, per questo era conosciuto dai servizi sociali che in passato si erano dovuti occupare di lui a causa di seri problemi di convivenza con il genitore (al punto da dover sporgere delle denuncie perché veniva picchiato).
A Simone la vita non ha mai sorriso. È diventato grande molto presto, ha dovuto arrangiarsi e trovare famiglia fuori dalla famiglia, nella cerchia di amici e compagni del quartiere che animano un centro sociale, il Laboratorio Tana libera tutti, ed ora lo stanno sostenendo. Forse agli occhi di chi lo ha prima arrestato e poi avviato in detenzione domiciliare nel girone dei centri di accoglienza e in una comunità terapeutica in provincia di Catanzaro a 600 chilometri di distanza dal suo mondo, questo contesto «ambientale» non piaceva.
«In casi del genere, dove sono presenti minori incensurati – spiega l’avvocato Francesco Romeo che segue il ragazzo – la prassi comunemente seguita è quella di chiudere la vicenda senza alcuna conseguenza, facendo ricorso alla formula giuridica della “irrilevanza penale del fatto”». Simone invece viene prima messo ai domiciliari in casa del padre, senza tenere conto della manifesta incompatibilità col genitore e della disponibilità ad ospitarlo che in alternativa avevano offerto altre famiglie del quartiere. Ovviamente quella convivenza forzata non dura e Simone se ne va. I servizi sociali leggono l’episodio come un segno di refrattarietà del giovane. La provenienza sociale e il contesto ambientale si trasformano in segni stigmatizzanti della sua personalità, facendolo apparire come un potenziale deviante in età adulta, se non debitamente corretto. Viene così collocato in un centro di prima accoglienza, lo stesso dove si trova il sedicenne di Nettuno accusato di aver picchiato e bruciato l’indiano di Nettuno. Niente male come ambiente rieducativo per un giovane cresciuto al contrario nel rispetto della tolleranza e dell’accoglienza.
Finisce poi in un Cpim (centro di prima accoglienza per minori) e da qui viene spedito in una comunità terapeutica nei pressi di Catanzaro, dove è sottoposto a terapia farmacologica psichiatrica. Il ragazzo è naturalmente ansioso è nervoso per quello che gli sta accadendo. È solo e lontano dai suoi punti di riferimento, ma chi si occupa di lui lo ritiene instabile, drogato, malato. Simone dovrà resistere e dare fondo a tutte le sue energie se vorrà uscire integro da questa storia. Intanto all’udienza del tribunale dei minori, il pm ha chiesto una condanna a 5 mesi e 10 giorni, di cui 4 già scontat. Non soddisfatto, il presidente ha rinviato ogni decisione disponendo una perizia psichiatrica. Il perito ha chiesto 90 giorni per il deposito. A quel punto Simone avrà di gran lunga superato i 5 mesi di condanna richiesti, sempre che il tribunale non decida di internarlo per ragioni psichiatriche. Quella maggioranza morale che ha avuto tanto a cuore il corpo inerte di Eluana non ha nulla da dire per quello pieno d’energia vitale di Simone?
DI PAOLO PERSICHETTI, LIBERAZIONE 10 FEBBRAIO 2009
Un anno dall’assassinio di Aldo Bianzino!
E si, lo hanno detto in tanti, la memoria e’ un ingranaggio collettivo.
Che va lubrificato, animato, fatto girare.
Aldo Bianzino è stato arrestato il 12 ottobre 2008 e condotto nel carcere Capanne di Perugia
La mattina del 14 è stato trovato morto nella cella in cui era stato rinchiuso.
E’ passato un anno dalla morte “misteriosa” di Aldo.
Un anno di solidarietà concreta, di appelli, presidi, volantinaggi, iniziative di informazione, dibattiti , concerti di sostegno, a Perugia e nel resto d’Italia.
Ma anche un anno di inchieste, insabbiamenti, reticenze, richieste di archiviazione.
C’e’ chi vuole dimenticare e chi si ostina a reclamare la verità.
Per questo riprendiamo un percoso di mobilitazione, consapevoli che ora più che mai è necessario fare sentire la nostra voce, perchè la morte di Aldo non passi sotto silenzio:
Martedi 14 ottobre 2008 ore 11, presso la sala della Vaccara a Perugia: Conferenza Stampa dei familiari di Bianzino e del Comitato “Verità per Aldo”.
Venerdi 17 ottobre ore 10, via XIV settembre (Palazzina ex enel): presidio e volantinaggio presso il tribunale dove si trova l’aula del gup, in cui si svolgerà la prima udienza di opposizione all’archiviazione.
Sabato 18 ottobre presso il Centro Sociale ExMattatoio: concerto benefit ore 22
Perchè di carcere non si può morire!
Perchè in carcere per qualche pianta d’erba non si deve finire!
Comitato verità per Aldo http://veritaperaldo.noblogs.org
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