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Milano: 14 arresti tra i migranti in rivolta
La rivolta è per ora terminata con 14 arresti: scoppiata subito dopo che 15 migranti costretti in cattività senza aver compiuto alcun reato, hanno ricevuto la notifica del proungamento del trattenimento in base alle nuove norme del pacchetto sicurezza. Dopo due giorni di proteste all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Via Corelli a Milano, la protesta s’è protratta per tutta una lunga notte con l’ingresso dei reparti antisommossa, da dove gli uomini da caschi e manganelli hanno dichiarato di essere usciti feriti.
La rivolta è partita dai reparti femminili (5 arresti sono tra le donne) per poi dilagare rapidamente in tutto il centro, fino all’arrivo sui tetti da dove sono stati lanciati oggetti (termosifoni staccati e suppellettili), mentre la polizia tentava di entrare nelle gabbie con l’uso di idranti e il massiccio lancio di lacrimogeni.
Nel corso della notte, intorno alle 24 un presidio di solidarietà con i rivoltosi organizzato dai centri sociali e dalle associazioni milanesi, si è svolto sotto i cancelli, senza alcun momento di tensione con la Polizia. Arrivano notizie di diversi feriti, soprattutto tra le donne, ma sono stati tutti divisi nei diversi reparti e non si riescono ad avere numeri e dati specifici sulla situazione. Nel frattempo prosegue lo sciopero della fame.
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Per amore della storia…
Sono passati diversi giorni dall’editoriale di Magris sul Corriere della Sera e da alcune risposte comparse su altre testate. Volevo riportare questa di Marco Clementi, comparsa qualche giorno dopo sulle pagine de L’Altro. La libertà di parola, la libertà di fare storia va difesa a denti stretti!
La storia è plurale. La memoria vittimaria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione
Marco Clementi L’Altro 4 agosto 2009
Un’intera generazione italiana, quella che ha fatto la lotta armata negli anni ‘70 e ‘80, scontate quasi tutte le pene dopo i secoli di carcere con i quali lo Stato l’ha punita, deve tacere. Questo, se non ho capito male, è il centro del discorso che sviluppa Claudio Magris sulle pagine del Corriere della Sera del 31 luglio. Lo studioso ammette che il brigatista può recuperare i pieni diritti civili e politici (anche se ciò, una volta scontata la pena, non avviene automaticamente ma bisogna attivare la procedura di “riabilitazione”), può esprimere la sua sulle piattole, se nel frattempo il carcere gli avesse fornito l’istruzione adeguata per farlo, ma non può dire una parola sul suo passato di combattente. Certo, di fronte ad espressioni come quelle riportate nell’articolo e attribuite al militante di Prima Linea Sergio Segio – giustamente definite «pappa del cuore, vecchio vizio retorico italiano, posta sentimentale rosa vicina al rosso sangue versato» -, consiglierei al suo autore di tacere, ma non si vede perché tale raccomandazione debba essere estesa a tutti gli altri. In letteratura, come nel processo penale, la responsabilità è personale.
E così, il brigatista è un brigatista, e non un SS, un mafioso, uno stragista impunito. A ognuno il suo, per cominciare. E di brigatisti e brigatismo si deve allora parlare visto l’elenco di alcune delle vittime che fa Magris (non tutte peraltro colpite dalle Brigare rosse) considerate «le figure dell’Italia migliore, quella più libera e aperta e democratica, che avrebbe potuto e dovuto essere diversa da quella di oggi». Come se il motivo per cui oggi siamo qui è perché in Italia c’è stata la lotta armata. Intanto mi sembra uno strano recupero dei diritti quello di chi, riabilitato, può andare a votare per il Parlamento italiano ma non deve dire una parola sugli anni in cui fu protagonista. Da sempre i reduci hanno raccontato della propria guerra. Ma c’è dell’altro.
I brigatisti, primi e unici nella storia di questo paese, scelsero di rivendicare i propri delitti e di assumersene la responsabilità di fronte alla legge, indipendentemente dal loro coinvolgimento concreto. Al punto che molti sono stati condannati all’ergastolo per il sequestro Moro senza essere stati in via Fani, né in via Montalcini, né in via Caetani. Se avessero deciso di difendersi singolarmente, senza dichiararsi rei, la storia giudiziaria delle Br sarebbe andata molto diversamente e le condanne si sarebbero contate con numeri più piccoli. Che dire, poi, delle continue riforme del codice penale per adeguare la legge alla nuova situazione creata in Italia dalla presenza di questo gruppo armato? Tutto ciò induce a pensare che si trattò di una storia politica. Nessuno degli uccisori di allora lo fece per questioni personali; nessuno aveva un “conto aperto” da chiudere. Come ipotizza Magris, «pensava di costruire un’Italia migliore».
E le vittime, mi si dirà? E i parenti delle vittime? Perché è questo, in fondo, il contesto all’interno del quale si chiede, ovvero si impone ai brigatisti di tacere. Ma a quali brigatisti ci si riferisce? Ai pentiti, ai dissociati o ai cosiddetti “irriducibili”?
Le confessioni dei pentiti e quelle dei dissociati sono state qualitativamente differenti: i pentiti hanno offerto parole utili alle tesi dell’accusa in sede processuale (oltre che permesso in casi clamorosi l’arresto di decine di militanti), I dissociati hanno fornito ricostruzioni politiche della propria esperienza militante in linea con quella desiderata dello Stato. Lo hanno fatto molti anni dopo il loro arresto, contribuendo alla sconfitta politica della lotta armata, non a quella militare. A quanto risulta a chi scrive, i pochi ex-militanti della lotta armata che hanno partecipato in modo attivo alla memorialistica appartengono in maggioranza alla schiera dei cosiddetti pentiti o dissociati. Per quanto concerne, invece, gli irriducibili, essi per lo più tacciono (e spesso i commentatori li accusano proprio per questo!) e anche quando parlano, come nel caso di Mario Moretti con un libro sulle Br per nulla apologetico, si sottolinea quello che non sarebbe stato ancora detto, perché è una verità predeterminata, quella che si vorrebbe ascoltare, non il pensiero di Moretti. Veniamo alla questione delle vittime e dei loro parenti. Il 9 maggio è il giorno della memoria delle vittime del terrorismo in Italia. Di tutte le vittime, senza distinzione di matrice, tipologia di attentato, obiettivo. Quest’anno, per l’occasione, la vedova Pinelli è stata invitata al Quirinale, dove ha incontrato la vedova Calabresi. L’iperbole è complessa, e va analizzata e spiegata. Da tempo ormai il calendario italiano si è riempito di giorni della memoria e del ricordo e si cerca di far passare l’idea che la memoria abbia una sorta di dignità parallela a quella della storia. Forse perché la memoria appartiene alle vittime, mentre la storia ai vincitori? In realtà non è così. La differenza è un’altra e ben più sostanziale. La memoria appartiene alla sfera privata, mentre la storia è pubblica. La memoria non si può verificare, laddove la storia attende un riscontro da parte della comunità scientifica. La memoria non sostituisce la storia, né si affianca ad essa; offre delle fonti, tutte da vagliare. Per questo, un incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi può avere luogo solo nel giorno della memoria. Perché nella memoria si perdono i ruoli e Pinelli e Calabresi sono visti semplicemente come vittime. Nella storia, però, i ruoli sono attribuiti in un altro modo. L’assassinio di Pinelli è stato perpetrato all’interno di una struttura dello Stato nel corso di un’indagine sulla strage di piazza Fontana. Quello di Calabresi, in un contesto diverso e qualcuno che potrebbe spiegarcelo non vuole farlo. E, stranamente, a questi non si chiede di tacere. Ora, nel diritto moderno è lo Stato che regola il rapporto tra il reo e la giustizia, tanto che il pubblico ministero non difende i parenti delle vittime, ma sostiene l’accusa in nome del popolo italiano. La vittima, o i suoi parenti, si possono costituire parte civile, con un avvocato a rappresentarli. Il giudice, quindi, è terzo rispetto alle parti e non potrebbe essere altrimenti, da quando la dottrina giuridica e le costituzioni moderne hanno tolto alla famiglia il diritto di vendetta, sostituendolo con quello della giustizia. La memoria rientra nella sfera privata e sembra più vicina alla vendetta che alla giustizia, se usata come rivendicazione. Ovviamente i parenti di una vittima hanno tutto il diritto di scrivere, appellarsi e indignarsi. Non lo ha però lo Stato, che ha compiuto il proprio dovere arrestando i brigatisti e riuscendo a farli condannare, debellando il fenomeno. Dato però che lo Stato non dovrebbe vendicarsi, non può condannare nessuno né al silenzio, né all’oblio. Anzi, ne guadagnerebbe se, ora che la guerra è finita da tempo, si impegnasse per capire il motivo che ha indotto una generazione e una classe sociale a dire «mai più senza fucile», agendo di conseguenza. Gli ex lo possono spiegare, ed è interesse di tutta la comunità che lo facciano.
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Magris – Anni di piombo quei terroristi pentiti con la pappa nel cuore
Miccia corta e cervello pure
Il CIE di Gradisca in rivolta
Il Pacchetto Sicurezza è realtà da 2 giorni. Una manciata di ore prima che entrasse in vigore, una giovane migrante in Italia da diverso tempo ha deciso di lanciarsi nel fiume Brembo proprio perchè non riusciva a regolarizzarsi ed era terrorizzata dall’idea di dover affrontare le nuove leggi razziali che regolamentano la permanenza dei migranti nel nostro paese. Si chiamava Fatima Aitcardi, 27 anni, proveniente dal Marocco, bagnato dal nostro stesso mare.
Introducendo il reato di clandestinità l’Italia ha deciso di porsi in fondo alla lista dei paesi civili, ha deciso di girare i tacchi ai diritti fondamentali dell’uomo, di rendere illegali i corpi e non le eventuali azioni delittuose.
Ieri, com’era prevedibile, è scoppiata la rivolta in uno dei Centri di Identificazione ed Espulsione presenti sul nostro territorio: centri che vedranno moltiplicare di molte volte il numero di migranti reclusi, per l’inasprimento delle pene causato dall’aggravante della clandestinità e l’estenzione del trattenimento da 60 a 180 giorni. Il primo ad espodere è stato il CIE di Gradisca d’Isonzo, con una rivolta iniziata subito dopo le 21 e protrattasi fino alle 2 di notte, con la presa dei tetti, da dove urlavano verso la statale, che poco dopo è stata chiusa e lanciavano oggetti contro la polizia che arrivava con diverse volanti a circondare il centro. Più della metà dei presenti nel campo ha preso parte alla rivolta, poi la polizia è intervenuta con un massiccio lancio di lacrimogeni che hanno causato l’intossicazione di alcuni rivoltosi.
di Valentina Perniciaro, L’altronline
San Paolo e il suo attacco al cuore dello Stato: fantastico Erri De Luca
Nella scrittura sacra si legge di incontri improvvisi con la rivelazione, sconvolgenti da far cadere faccia a terra. Solo nel caso di Saulo di Tarso detto Paolo la caduta ebbe conseguenze cliniche, un ricovero per accecamento.
Dal buio di tre giorni, come quello di Giona in corpo al bestione marino, emerge pronto. Ebreo di Tarso, città della Cilicia, predica cristianesimo, variante tutta interna al monoteismo ebraico. Ebreo sarà il primo papa, Pietro, e alcuni successivi. Ebrea è la terra da dove proviene, ebreo il suo messìa iscritto all’anagrafe da suo padre, discendente di David, primo re di Gerusalemme. Il cristianesimo si fonda su base epistolare. Chi vuole capire come mai una variante dell’ebraismo riuscì a diventare religione dell’impero romano, deve leggere la posta di Paolo. Più che ai quattro vangeli, il cristianesimo deve il suo successo all’impegno militante di Paolo, fondatore e organizzatore delle prime comunità cristiane. Scrive in greco lettere che insegnano regole di condotta e di uniformità. Sua mossa strategica è puntare su Roma, convertirne i cittadini. Diversa dalla spedizione occasionale di Giona, profeta scaraventato a predicare il finimondo a Ninive, Paolo inaugura una lotta di lunga durata nel centro nevralgico del politeismo. Può pure fare fiasco nella scettica Atene, ma non fallisce dentro la tumultuosa capitale del mondo di allora, carnaio di stirpi e di popoli vari. Affronta la prova da prigioniero, è preparato, è stato altre volte detenuto e processato. A Roma è giudicato, insieme alla notizia del Cristo liberatore di oppressi, venuto a proclamare e dare ai vinti la più inaudita precedenza. Le magistrature procedono volentieri contro i reati di opinione. Stanche di avere a che fare con malavita reticente, gustano la variante di interrogare rei confessi, fieri di ammetterlo. Al cristianesimo applicano sentenze da tribunale speciale per reato associativo. Non importa la responsabilità individuale, basta per la condanna la semplice appartenenza, l’atto di fede. Paolo viene condannato e giustiziato a Roma. Il cristianesimo entrò in clandestinità, si praticò criptato e in catacombe. Mise il suo seme nel sottosuolo di Roma e si propagò nell’ombra. Il disegno di un pesce contrassegnava i luoghi di riunione. Meno di tre secoli dopo diventò religione dell’impero, in seguito all’editto di Costantino. La croce, patibolo d’infamia inventato dai romani per esporre i condannati in piena vista, sfrattò dal cielo e dagli stemmi l’aquila imperiale. Paolo aveva vinto. Il suo attacco teologico al cuore dello stato aveva ottenuto il potere politico.
Erri De Luca
Francia: il servizio d’ordine del sindacato spranga i sans papiers
Segnalo due articoli che parlano di quello che sta accadendo a Parigi in questi giorni ma soprattutto di quello che ha accaduto una manciata di giorni fa, quando la Bourse du travail di Parigi è stata sgomberata (con il pestaggio di decine e decine di sans papiers) dagli uomini del servizio d’ordine del corrispettivo francese della CGIL.
Balordi picchiatori e bastonatori del sindacato.
Via, via, la nuova polizia!
Liberazione 25 giugno 2009, di Paolo Persichetti
Quando il servizio d’ordine del sindacato, di un sindacato che si dice «comunista», fa il lavoro della polizia e si mette al posto dei Crs, i reparti celere francesi, sgombera con le maniere forti, innaffiando di gas lacrimogeno, pugni e calci, donne e bambini, famiglie disperate e orgogliose di sans papiers, colpevoli solo di lottare per avere il diritto di vivere, e che per questo occupavano da 14 mesi i locali della Bourse du travail di Parigi, vuol dire che questa sinistra non ha più nulla da dire. È morta. È un cadavere putrefatto. Una sinistra che è solo apparato. Che pensa solo ai suoi «beni». È successo mercoledì scorso verso le 12.30, quando una cinquantina di uomini col cranio rasato, il volto coperto, gli occhi protetti da occhialini da piscina e una fascia rossa al braccio, sono entrati con la forza nei locali della camera del lavoro vicino place de la Republique, e armati di bastoni hanno cosparso di gas lacrimogeno, inseguito e pestato i presenti, trascinandoli verso l’esterno (il grosso degli occupanti era impegnato a manifestare davanti alla prefettura). I testimoni raccontano di aver assistito a scene d’intensa violenza. «Era previsto e l’abbiamo fatto!», dichiara soddisfatto uno dei picchiatori. Increduli e scioccati, i circa 800 sans papiers carichi di fagotti e materassi fanno molta fatica a credere che la violenta aggressione abbia come origine proprio la Cgt, per altro spalleggiata dall’arrivo di decine di furgoni e centinaia di uomini della polizia schierati in assetto antisommossa. All’inizio molti passanti e commercianti avevano temuto un’aggressione lepenista. «Dopo aver tentato per mesi di negoziare una soluzione abbiamo deciso di mettere fine all’occupazione», si è giustificato Patrick Picard, segretario generale dell’Unione dipartimentale di Parigi. Da tempo il sindacato intratteneva relazioni molto tese con gli occupanti, in massima parte lavoratori di ditte di pulizie. Questi avevano deciso di riunirsi in un collettivo autonomo, il coordinamento sans papiers 75, rivendicando una regolarizzazione generale e non dei soli aderenti al sindacato.
Sgomberata con la forza dal servizio d’ordine della Cgt la camera del lavori di Parigi da 15 mesi occupata da un collettivo di sans paiers
Oreste Scalzone
L’Altro, 27 giugno 2009
Alle tre del mattino, poco prima del canto degli uccelli che risveglia il sole, sul largo marciapiede bagnato e corso da rigagnoli, un po’ sopraelevato che ha visto passare sul filo del tempo moltitudini di genti, fiumane di cortei di quelle classi pericolose che discendevano i faubourgs dalle ban-lieues, luoghi del bando e dei banditi, verso i cronotopi dei poteri costituiti, era coperto per duecento metri da fagotti di cenci. Un ammasso di cenci circondato da transenne metalliche guardate a vista da sagome nere di poliziotti in tenuta antisommossa, a loro volta con le spalle coperte da teorie di camion. Avvicinandomi, comincio a distinguere facce, sagome, qualche brace di sigaretta, iskra che buca la notte. Potrebbero essere corpi – morti o ancor vivi, eccola la nuda vita ! – di deportati, respinti, cacciati a forza verso esodo forzato, in fuga senza fine. O corpi decisamente morti, di massacrati, di sterminati, di espulsi dall’umano, “sotto-uomini”. Sono bambini, donne, uomini avvolti in coperte, in sacchi a pelo o in niente, sdraiati su qualche brandina più o meno da campo, chi raggomitolato in un sonno che s’immagina buio, pesto e pesante e chissà se senza sogni, e incubi, o forse no. Parecchi stanno sollevati, appoggiati sul gomito a parlare. Overload di sottovoce, con qualche acuto, scoppio, abreazione, ragionamento. Quel marciapiede di corpi non è il fondo del peggio, navigando in rete si può trovare dell’incommensurabilmente più grave, più significativo, più tremendo. Ma, questo marciapiede, è qui, ora, su un piano di consistenza immanente, non più consistente di altri in sé, di per sé, ma per noi si.
Raggiungiamo i capannelli, si materializzano facce di compagni e compagne. Cerchiamo, troviamo quelli di noialtri che in questi quattordici o quindici mesi hanno dedicato passione, applicazione, tempo di vita a questa sorta di zattera ferma nel cuore di Parigi, fatto con i sans-papier giornali, radio, televisioni porta-a-porta, un sito nella Tela, dibattiti nella grande corte della Bourse de Travail di rue Charlot occupata, divenuta come una piazza di villaggio africano. Le Bourse de Travail sono antiche istituizioni territoriali dei movimenti operai, presto “formattate” dalle strutture sindacali. Cerchiamo, troviamo o ci dicono che sono qua o là – bisogna stare attenti a camminare per non calpestare coperte, quando non corpi –, Claudio, François o Michel, complici nella facitura di un aperiodico Quotidién des sans-papiers, poi del Journal de la Bourse du travail occupée, e altro ancora… Incontriamo un sacco di gente, sans-papiers, “compagnerìa”. Ci dicono tutti quello che poi stamattina troviamo, chiunque può trovare, confermato sulla stampa, nella rete, addirittura sfrontatamente rivendicato nei comunicati. É stata una squadraccia, una squadra d’azione del servizio d’ordine della Cgt, la Confederazione generale del lavoro, padrona dei luoghi, gerente dell’edificio, che – dopo aver “schiumato” per tutti i quattordici mesi dell’occupazione – ieri verso mezzogiorno è passata all’atto. Tutti i disagi, i disfunzionamenti, le ragioni accampate hanno un loro fondamento (ma questo vale sempre, o comunque in tanti altri casi…).
Al limite, per uno come me, forse sarebbe stato ancora peggiore se avessero fatto la stessa cosa per interposta polizia invece che passando all’azione diretta, terrorizzando in proprio per primi i bambini, con una brutalità che a torto si usa – con termine etnocentrista e civilizzatore – definire «barbara» e «selvaggia». Ma queste sono sfumature, dettagli. Resta, che hanno compiuto un passo, un salto mortale, uno strappo, che non è nuovo ma è sempre un po’ nuovo e un po’ diverso. Fa di nuovo irruzione sulla scena lo chauvinismo del «socialismo dai colori della Francia» che aveva spinto al crimine trent’anni fa il sindaco Pcf di Vitry, il quale aveva rotto un tabù mandando le ruspe a radere al suolo un foyer d’immigrati magrebini (con il pretesto – che, come sempre, o quasi, aveva anche degli elementi di fondamento: e allora? Non è qui il nodo della cosa! – che gl’immigrati doveva prenderseli il sindaco giscardiano del comune attiguo, che la dislocazione delle residenze degli immigrati veniva fatta dalle autorità in modo non casuale, e provocava la spirale viziosa dell’impoverimento crescente dei comuni le cui entrate fiscali si abbassano in modo corrispondente alla modificazione della composizione sociale dei residenti, con i relativi effetti di degrado).
La breccia aperta allora dal sindaco di Vitry aveva creato le pre-condizioni per l’irruzione del lepenismo, di questo risentimento intruppato in mentalità e comportamenti da white-shit, di populismo xenofobo, nutrito d’antiche ossessioni antisemite e di più recenti pozzi neri viscerali e mentali colonialisti, post-colonialisti, corporativi, servo/padronali. Comportamenti e mentalità che in Francia, in generale, non sono passati all’azione diretta ma sono rimasti piuttosto su un piano ideologico-elettorale. Comunque più grave dei picchi lepenisti arrivati a sfiorare il 20%, era soprattutto per il loro effetto indiretto, quello di scatenare una corsa a “rasar l’erba sotto i piedi di Le Pen” facendo proprie, le rivendicazioni e proposte che incarnava. Quasi un modello di fascismo per motivi antifascisti….
Potremmo dire, tagliando rozzamente, che una serie di parole composte più radicali che una lama di rasoio possono essere applicate, come definizioni critiche e criticissime, sia alla socialdemocrazia che – a maggior ragione data la sua potenza di mi[s]tificazione, e innanzitutto il potere di contraffazione onomastica e di manipolazione nel profondo delle soggettività, fino alle passioni, agli affetti più viscerali – alla variante boscevica, social-©omunista, del corpus del “marxismo volgare anti-marxiano”, kautsko-lassalliano, vera e propria controrivoluzione contro il comunismo comunardo. Possiamo parlare di socialismi lavoristi/padronali, capitalistici, statali, e dunque anche nazionalisti, colonialisti, imperialisti, xenofobi, razzisti, fascisti. D’altronde, il fascismo, il nazional-socialismo non sono forse, tra l’altro, nella loro effettualità sociale, l’intruppamento di milioni di proletari, e di operai, in forme stornate, deformate, mostruose che formattano l’odio di classe corrompendolo, snaturandolo, trainandolo verso una conseguenza abietta, il rifarsela sugli ancor più deboli, il riprodurre relazioni di sopraffazione, di sottomissione, a catena, a cascata, in una corsa miserabile spinta da concorrenza mimetica, in un gioco di scaricabarile o comunque, al massimo, di specularità subalterna, come ritorsione?
Senza rischiare di doverci sentir accusare di «banalizzazione», non possiamo vedere nell’uovo del serpente del cumulo di ambivalenze risolventisi in ambiguità a premessa di successive decantazioni, che connotava le prime scorribande delle SA nelle strade di Weimar, l’embrione di quello che sarà lo scenario risolutamente apocalittico degli ultimi anni ’30 e della prima méta dei ’40 ? Niente si ripete mai identicamente (e la frase di Marx sulla farsa come calco e replica della tragedia non è certo una regoletta catechistica). Niente si ripete identicamente, ma questo non vuol dire che ogni volta si debba cercare l’assolutamente inedito – è per questo che, nel finale dell’Arturo Ui, Brecht attira l’attenzione sul grembo sempre fertile che partorì la bestia immonda. Dev’essere però mostrato con chiarezza che ciò che ha deciso e fatto eseguire da elementi della sua truppa la Cgt ieri, è della stessa natura di ciò che la Lega Nord o i caricaturali nazistoidi di Saja, stanno inscenando nelle strade delle città italiane. Si tratta di formattazione del male di vivere nelle forme che, in una luminosa definizione benjaminiana, sono le più antitetiche all’autocognizione come classe, che è dunque forma autopoïetica. Soldataglia coloniale, turba fascista, teppa shalamoviana – ognuna inquadrata dai corrispondenti gerarchi e relative catene: queste sono le definizioni appropriate.
I Thibaud (il segretario generale della Cgt) non sono, in sé, migliori o peggiori dei Maroni o Hortefeux (il suo omologo di Francia) – questa problematica comparatista su migliori, peggiori, men-peggiori ci sembra insensata. Sono – e chi non lo aveva rivelato interamente prima, in questo passaggio e momento della verità lo mostra inequivocabilmente – dei veri e propri nemici. Ma rispetto ad autorappresentazioni e proiezioni d’attesa e fiducia che essi irradiano, a partire dall’onomastica, i Thibaud rappresentano la componente dell’infamia. Non perché realmente «tradiscano» qualcosa (che, per come si ponevano ed erano, son sempre stati, c’era poco o niente da tradire…), ma perché la lunga persistenza del peso delle parole, quel dirsi comunisti, li ha legati per ragioni di catene genealogiche di cui resta comunque una conseguenza onomastica pregna di mistificazione ed equivoco, una conseguenza di omonimia. Se si farà un corteo sotto la sede della Cgt, non sarà questione di psicodrammi e di “lacrime e parole amare”, ma il dirigere la lotta, di volta in volta, là dove risiede il potere costituito responsabile di un atto d’ostilità, di vera e propria guerra sociale. Una nota – non già di speranza, ma di scommessa: dopo più di ventiquattrore, sono ancora tutti e tutte lì, su quel marciapiede, e a rischio di una retata che li porti in un centro di detenzione e di smistamento per la deportazione. La vita nuda mostra così la sua irriducibile potenza, la sua disperata vitalità, potenza di persistere nel proprio essere
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