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Albania: la morte va in diretta
Orribile il video che sta girando attraverso da poche ore su internet. Ripreso da un cameraman della televisione albanese News24, il luogo e le modalità in cui sono morti uno due dei tre manifestanti già uccisi dalla rivolta esplosa ieri a Tirana s’è fatto più comprensibile a tutti. I primi video che giravano a riguardo focalizzavano l’immagine sui manifestanti, ma queste nuove immagini, allargando la visuale, permettono a tutti di vedere come andavano le cose qualche secondo prima dello sparo, da dove è stato sparata e cosa stava facendo l’uomo che è rimasto ucciso da quel colpo di fucile. A sparare è inequivocabilmente un membro della Guardia Repubblicana, appostato e accovacciato in una nicchia all’interno della sede del governo.
Le immagini parlano chiaro e vi invito a guardarle: lo si vede inginocchiato, perfettamente al riparo dal lancio di oggetti rivoltogli contro. Si vede bene la fiammata dello sparo e immediatamente dopo il corpo di un dimostrante cadere a terra esanime: non stava facendo nulla, con le mani lungo il suo corpo, osservava gli accadimenti rivolto con lo sguardo verso il suo assassino. Nelle stesse immagini si vede anche un secondo cadavere a terra, ucciso negli stessi istanti di quelli di cui abbiamo le immagini in diretta del suo assassinio: non si sa se a sparare sia stato lo stesso agente perchè non esistono immagini che lo dimostrino, ma non serve molto altro per capire com’è andata.
Altri 5 manifestanti hanno raggiunto gli ospedali feriti da armi da fuoco, mentre per i 6 poliziotti ricoverati le ferite sarebbero state causate solamente dal lancio dei sassi. Rama, sindaco di Tirana e capo dell’opposizione socialista, ha definito queste immagini la “pistola fumante” che inchioda Berisha e il ministro dell’interno Basha alle loro dirette responsabilità. Questa notte, proprio nella capitale, ci sono state molte retate e perquisizioni ed alcuni arresti su disposizione della procura e il numero dei fermi sembra si aggiri intorno ai 110 “manifestanti coinvolti in atti di violenza, accusati di aver colpito gli agenti e di aver dato alle fiamme alcune auto della polizia”, ci riferisce una portavoce della polizia di stato.
Un altro paese del nostro Mediterraneo che alza la testa, con manifestazioni di piazza e rabbia a non finire: la rivolta ci sfiora e si avvicina… noi per ora stiamo a guardare, tanto per cambiare: l’Algeria e la Tunisia ora stanno riempiendo ancora le loro strade di rabbia…
Tunisia (6): ancora tumulti in strada. Un saluto al reporter francese ucciso.
Ahmed Fria, nuovo ministro dell’Interno tunisino ieri ha dato i numeri della rivolta, quelli ufficiali e dichiarabili: ben 46 posti della Guardia Nazionale dati alle fiamme, 85 posti di polizia, 43 banche e 66 negozi. I morti sarebbero 78, i feriti altri 94.
Mentre avevo iniziato a scrivere questa mezza riga, stavo appunto per battere quello che i media principali riferivano dal risveglio, cioè di una Tunisi tornata alla calma e solamente presidiata in alcuni punti chiave…ma, come si poteva immaginare, erano chiacchiere, facilmente smentite pochi secondi dopo. Ad Avenue Bourghiba stavano marciando centinaia di persone in un corteo e pochi minuti fa sono stati dispersi da una carica della polizia, arrivata massicciamente, e dal lancio di numerosi e potenti lacrimogeni. Gli slogan sono sempre gli stessi, oltre a manifestare contro il partito dell’ex presidente Ben Ali, tenevano nelle mani molti filoni di pane! Insomma, la calma totale di cui parla la Bbc da ore è una barzelletta.
Anche Biserta è in piazza con centinaia di persone che chiedono senza mezzi termini le dimissioni di Mohammed Ghannouchi, attuale primo ministro e lo scioglimento del Rassemblement Constitutionnel Democratic (Rdc), partito dell’ex presidente e dell’attuale premier. Elicotteri sorvolano minacciosi il centro città.
Nel frattempo nei dintorni l’aria si surriscalda…in Algeria ieri 4 disoccupati si sono dati fuoco e uno, Maamir Lofti, è morto poco dopo, in Mauritania stessa cosa…in Libano in questa settimana ci sono state molte manifestazioni contro il carovita e qualche ora di coprifuoco notturno nei quartieri meridionali di Beirut; in Giordania c’è stato un grosso corteo davanti la sede del parlamento con gli stessi slogan che rimbombano nel Maghreb ed il re Abdallah II ha ordinato la riduzione immediata del 10% dei prezzi degli alimenti e della benzina. Cosa che non ha molto cambiato la situazione.
Un lancio d’agenzia “simpatico” viene da quel miracolo della natura che è l’isola di Lampedusa, attuale sede di una prigione per migranti. E’ sbarcato un lussuosissimo yacht, venerdì sera, dopo una richiesta di soccorso per un’avaria ai motori. Una volta attraccato i due componenti dell’equipaggio hanno detto che la proprietà era del nipote di Ben Ali e che loro avevano il compito di “portarlo in salvo”. Hanno poi presentato domanda di asilo politico, ora al vaglio della Questura di Agrigento.
E’ morto invece Lucas Mebrouk Dolega, fotografo dell’Epa che venerdì scorso era stato colpito da un lacrimogeno: è stata dichiarata la sua morte celebrale a causa dell’encefalogramma piatto. Trentadue anni, fotografo con una grande esperienza di tumulti e di Maghreb, è morto sul lavoro, sulle strade dove amava scattare. Lo salutiamo con i suoi ultimi scatti.
Qui le pagine precedenti dedicate alla rivolta del carovita tunisina: LINK!
Tunisia (4): Stato d’emergenza in tutto il paese dalle 17

Davanti al ministero dell'Interno di Tunisi, poco fa (Photo credit should read FETHI BELAID/AFP/Getty Images)
FLASH ORE 19: AL-JAZIRA COMUNICA CHE BEN ALI STAREBBE PER LASCIARE LA GUIDA DEL PAESE. TRA POCHI MINUTI DOVREBBE ESSERCI L’ANNUNCIO UFFICIALE, MENTRE GIRANO VOCI CHE LUI SIA GIA’ A PARIGI o a MALTA SOTTO PROTEZIONE LIBICA. I SUOI FAMILIARI SONO STATI ARRESTATI
Ieri sera e questa mattina i nostri media cercavano di dirci che la situazione stava tornando sotto controllo, che il presidente avrebbe abbassato i prezzi, ordinato ad esercito e polizia di smettere di sparare, che non si sarebbe ricandidato alle prossime elezioni…addirittura cercavano di dire che le settimane turistiche primaverili prenotate nelle coste tunisine non dovevano essere annullate perchè la situazione sarebbe velocemente rientrata in tutto il paese. In realtà sono stati rimossi tutti i membri dell’attuale governo con la promessa di elezioni anticipate entro 6 mesi, in pieno pomeriggio è stato dichiarato lo stato d’emergenza (quindi anche il coprifuoco) in tutto il paese a partire dalle 17 e il conto dei morti solo a Tunisi degli scontri della tarda serata di ieri è di 13 ragazzi uccisi dai proiettili di polizia ed esercito. E’ stato tentato l’assalto da parte di molte centinaia di persone della sede della banca centrale e del Ministero dell’Interno che la polizia ha difeso con un massiccio lancio di lacrimogeni e molti spari.
Le ultimissime parlano di spazio aereo chiuso e aereoporto di Tunisi occupato dall’esercito, coprifuoco in TUTTO il paese dalle 18 alle 6 di domani mattina per “preservare la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia dei beni”. “E’ vietata ogni riunione di più di tre persone sulla pubblica via.
Le forze di sicurezza e dell’esercito nazionale possono fare uso delle armi contro qualsiasi persona sospetta che non rispetti l’ordine di fermarsi o che cerchi di fuggire”. Poco dopo l’annuncio dello stato d’emergenza, alle 17, si sono udite sparatorie nel centro di Tunisi di cui ancora si sa poco, mentre sta bruciando in questi minuti la stazione centrale (a pochi passi dall’ambasciata italiana) e una concessionaria di auto di proprietà di un familiare di Ben Ali. Ansamed ci dice da pochi minuti di incendi in corso a Le Kram (periferia settentrionale di Tunisi) vicino alla zona fieristica dove la popolazione sta accorrendo sulla spiaggia per sfuggire al fumo asfissiante di cui ancora non si conosce l’origine. Incendi anche a Radsh, dove bruciano due banche, il commissariato, il municipio e la sede locale dell’ufficio delle finanze, senza che alcun uomo in divisa si veda nei paraggi.
L’unica notizia positiva è la liberazione di Hamma Hammami, leader del Pcot, arrestato mercoledì mattina a Tunisi nella sua abitazione poco dopo aver rilasciato un’intervista.
QUI le precedenti notizie sulla rivolta del carovita tunisina di questi ultimi giorni
Tunisia: un resoconto di queste ultime ore
Alle 16 il bilancio della giornata parla già di “almeno dieci morti” in tre diverse città tunisine: Douz, Dagache e Qabali. E’ difficile seguire le notizie proprio per la quantità di mobilitazioni simultanee presenti in numerosissime città del paese. Proprio a Douz è stato registrato anche il suicidio di un docente universitario dopo i due morti avvenuti, questo è quanto viene riferito dalla tv satellitare Al-Arabiya. A Sfax, dove già dalla prima mattinata sfilavano in piazza più di ventimila manifestanti, ci sarebbero due ragazzi colpiti alle gambe da pallottole esplose dai militari: la polizia si sta ritirando per lasciare la città in mano all’esercito. Nemmeno Tunisi è stata risparmiata: violenti scontri e l’uso di pesanti lacrimogeni che stanno torturando i ribelli, insieme al fischio dei proiettili che sempre più spesso taglia l’aria anche a pochi passi dalla sede del Consiglio dei ministri. Qui si è parlato per un paio d’ore di due giornalisti del Tg3 aggrediti dai manifestanti proprio nel centro della capitale, ma poco fa è stata la stessa Maria Cuffaro a raccontare all’Adnkronos che l’aggressione subita da lei e dal suo operatore è stata opera di poliziotti in borghese, che hanno preso e danneggiato la telecamera, manganellato l’operatore e lanciando a terra la giornalista.
Ben Ali, riferisce poco fa Al-Jazira, ha convocato il Parlamento per domani alle 14, per discutere della situazione. Chissà quanti altri morti ci saranno da qui a domani; le immagini che sempre più numerose affollano la rete, provengono sempre più spesso dagli ospedali che non riescono a reggere il numero dei feriti in continuo arrivo.
La nottata è stata pesante come le precedenti: retate e perquisizioni, estremamente violente, sono avvenute in molte località del paese e ancora non si riesce ad avere un numero preciso delle persone in stato di fermo o arresto. Oggi invece, il neo ministro dell’Interno Ahmad Faria, ha ordinato l’arresto di Hama al-Hamami. Ex detenuto politico scarcerato nel 2002, portavoce del Partito Comunista del Lavoro (fuorilegge nel paese) e leader della rivolta dei disoccupati: sarebbe stato prelevato dalla sua abitazione insieme al suo avvocato, trovato all’interno dell’appartamento.
Nell’attesa di nuovi aggiornamenti segnalo una notizia da Tozeur, città alle porte del deserto del Sahara, dove da circa tre ore il tribunale è avvolto dalle fiamme.
Ai miei fratelli e sorelle arabi in lotta…
Non ho avuto tempo nè energie..
Questo blog marcia a rilento da settimane, come un po’ tutta me stessa.
Ma non per questo il cuore non batte nelle strade tunisine ed algerine, non per questo il sangue non ribolle nel vedere certe immagini.
Shabab! Sono con voi in ogni sasso e bottiglia lanciata!
Più di cinquanta morti, più di cinquanta giovani ammazzati mentre manifestavano contro il carovita, per un diritto al futuro, per la propria libertà di scegliere che vita fare. Una rabbia sociale che è esplosa in Tunisia ed Algeria e si allargherà al resto del Maghreb, ma qui non si fa altro che parlare dei cristiani copti d’Egitto, delle “guerre sante” contro i cattolici e niente più.
A fianco di questi ragazzi, che rivendicano quello che rivendichiamo tutti noi: che il Mediterraneo in lotta si unisca!
Una generazione che da perdere non ha praticamente nulla: yalla shabab, mettiamo un po’ di paura al potere!*
Che Tunisi e Algeri, Atene e Salonicco, Roma e Londra capiscano che la lotta da portare avanti è una.
Uguale per tutti.
L’ennemi interieur, di Mathieu Risouste
L’Ennemi interieur, La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine, di Mathieu Rigouste
di Paolo Persichetti
La temperatura sociale delle periferie francesi è sempre alta. La cronaca non esita restituirci immagini non molto lontane dalle scene di guerra. Ed, in effetti, i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del «nemico interno». Dispiegamento delle più aggiornate tecnologie antisommossa (elicotteri, micro-droni, telecamere di sorveglianza), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa, introduzione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato» e i giudizi processuali per direttissima; creazione di una branca specifica dei Servizi (appartenenti alla nuova Direction centrale du renseignement intérieur, Dcri), con competenza sulle banlieues, sui moti urbani, il cosiddetto fenomeno delle «bande», la nascita di nuove banche dati centrali, come il sistema Edvige-Edvirsp e Cristina (Cf. Liberazione – Queer del 5 ottobre 2008), finalizzati alla schedatura «di ogni persona d’età superiore ai 13 anni che abbia sollecitato, esercitato o stia esercitando un mandato politico, sindacale o economico o che rivesta un ruolo istituzionale, economico, sociale o religioso significativo». Insomma un intero arsenale tecnico, giuridico e poliziesco che rinvia apertamente al regime dello stato d’eccezione.
È indubbio che tutto ciò ricalca un immaginario di guerra che conduce a rappresentare alcune zone della società come dei teatri bellici dove l’intervento pubblico non si concepisce più nei termini della politica e del welfare ma unicamente sotto l’aspetto repressivo, per giunta nella sua forma più intensa: quella militare. Questo «nuovo ordine sicuritario» contemporaneo avrebbe una genealogia ben precisa rintracciabile nell’esperienza coloniale e militare della Francia. È quanto dimostra Mathieu Rigouste in un recente volume edito dalla casa editrice La Découverte, L’Ennemi interieur. La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine. Il caso francese deve intendersi in questo caso come un laboratorio, un’esperienza pilota, l’anticipazione di scenari e comportamenti esportabili nel resto del mondo.
In fondo è già accaduto in passato, quando la «dottrina della guerra rivoluzionaria», elaborata dagli stati maggiori francesi nel corso delle guerre coloniali d’Indocina e d’Algeria, popolarizzata nel libro del colonnello Roger Trinquier, pubblicato nel 1961 col titolo, La Guerre Moderne (ripubblicato da Economica nel 2008) e da cui la Cia ispirò il suo primo manuale antisovversione, è diventata la madre di tutte le dottrine contro-inssurrezionali del dopoguerra impiegate dalle forze Nato come da tutte le dittature militari e fasciste, in particolare in Sud America. La counterinsurgency statunitense altro non è che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi hanno insegnato nelle scuole di guerra del Nord America. Si veda in proposito il lavoro di Marie-Monique Robin, Escadrons de la mort, l’école française, La Découverte 2004, che ritraccia l’inquietante percorso di alcuni ufficiali maggiori dell’esercito di Parigi, reduci dall’Indocina e dall’Algeria, che hanno formato alla controguerriglia gli ufficiali Usa a Fort Bragg e nella famigerata Scuola delle Americhe. Un apostolato antisovversivo segnato da varie tappe: lo sbarco come consigliere militare in Argentina, nel 1957, del colonnello Bentresque; il suo primo giro di conferenze (1962) nelle caserme sudamericane per insegnare le strategie antisovversive; Il manuale Instruction pour la lutte contre la subversion, scritto sempre dai colonnelli Ballester e Bentresque; la proiezione, nel 1971, all’interno della famigerata scuola di meccanica della Marina a Buenos Aires (dove furono torturati migliaia di cittadini sospettati d’essere militanti di sinistra) delle scene di tortura presenti nel film la Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo, per rendere più efficaci i corsi di tortura impartiti ai presenti. La missione in Brasile del generale Paul Aussaresses, il gran maestro della tortura in Algeria, l’uomo che ha perfezionato e insegnato a tutti gli eserciti e polizie dell’Occidente l’uso degli elettrodi (sui genitali e le tempie) e della waterboarding (l’annegamento simulato) durante gli interrogatori. Metodi impiegati diffusamente anche dalla nostra Digos contro i militanti della lottarmata arrestati nel biennio 1982-83, ben prima che suscitassero scandalo perché impiegati dalla Cia nelle prigioni di Guantanamo e Abu Ghraib.
La dottrina della guerra rivoluzionaria sostituita da De Gaulle, non senza difficoltà, grazie all’arma nucleare acquisita nel 1960, e sostituita dalla dottrina della dissuasione del «debole verso il forte», non sarebbe mai stata rimossa definitivamente, anzi avrebbe mantenuto solide radici all’interno di alcuni settori militari per trasmigrare nelle forze di polizia ispirando le politiche di «mantenimento dell’ordine», utilizzate “ufficiosamente” nell’area d’influenza africana e nella gestione del controllo interno dopo il 1968 e da qui, soprattutto dopo l’11 settembre, assorbite anche dal mondo della politica fino a dare forma ad un modello di potere militarizzato.
Al vecchio nemico geopolitico comunista dell’epoca dei blocchi, dopo l’89 si sarebbero venuti a sostituire una proliferazione di «nuove minacce», terrorismo, islamismo, violenze urbane, incivilités (qualcosa che assomiglia al nostro bullismo) che hanno giustificato la riedizione di una nuova figura di nemico interno, l’immigrato post-coloniale in grado di riattivare il risorgere di passate rappresentazioni razziste. Un nemico socio-etnico, locale e globale al tempo steso, dissimulato nei quartieri popolari, residente nelle periferie, soprattutto tra i «non bianchi poveri».
L’immaginario, la costruzione e proiezione di raffigurazioni che vanno ad arricchire il repertorio delle classi pericolose e delle leggende ansiogene, costituiscono un elemento decisivo di questo nuovo ordine sicuritario che ispirandosi ai criteri della «guerra totale», ricorre alla cosiddetta «guerra psicologica», ovvero alla mobilitazione delle coscienze, alla costruzione di consenso, lì dove lo Stato-nazione è concepito come un organismo che la difesa nazionale deve immunizzare dalle malattie sociali, dai contagi rivoluzionari, dalla piaga del crimine, l’epidemia del vizio, e rassicurare dalle paure.
Questo nuovo ordine collima con una nuova formazione sociale che Mathieu Rigouste definisce «capitalismo sicuritario», dove il controllo oltre a riprodursi in forma allargata ha ingenerato un proprio mercato. La forma più inquietante di questo modello descrittivo è la constazione del grado di adesione dei controllati ai controllori. Non si tratta di un semplice modello di dominazione, ma di un processo di adesione dal basso, di controllo reciproco e autocontrollo. Quello che il sociologo Philippe Robert coglie descrivendo l’emergere di un «neoproletariato della sicurezza», reclutato grazie al precariato di massa all’interno di quel sistema di polizia sociale che è il mondo della sicurezza e della vigilanza privata, un sottosistema del controllo brulicante di sorveglianti dei metrò e dei supermercati, subalterni della sicurezza di vario ordine e natura, fino ai mediatori sociali, gli stuart degli stadi, gli assistenti sociali eccetera. Un sistema dove il povero è preso a controllare l’altro povero e non alza più la testa.
Fortini, questione palestinese ed “eredità” (di classe)
Ancora oggi mi avviene di leggere, scritto da rispettabilissime persone rimaste con la testa nel nostro Partito d’Azione del dopoguerra, quando la pensavo proprio come loro, che la nascita dello stato d’Israele fu “una delle più alte creazioni della nostra età”.
Già, perché non sapevamo, allora, quasi nulla sulle vicende politiche e militari di quella nascita e il mondo arabo ci appariva identificato con i suoi capi, amici dei fascisti e dei nazisti.
I sentimenti di colpa e di pietà impedirono allora a quasi tutti, a cominciare da chi scrive, di vedere a quale prezzo avvenne la fondazione di quello stato.
In uno studio sui rapporti fra questione ebraica e sinistra in Italia si distingue tra vittime e vittimismo.
E certo noi consideravamo, allora, gli ebrei come vittime. Lo erano.
Quel che, con la sua goffaggine mistica, dice la parola “olocausto” era quella innocenza simbolica. Oggi, leggo, sarebbero i palestinesi a fruire di quella eco simbolica (il giusto come vittima) e intorno a loro si farebbe del “vittimismo” ossia della retorica emotiva sulla condizione di vittima.
Ma i palestinesi dell’Intifada non sono vittime. Sono gente che si ribella ad una condizione che è stata loro fatta e che paga per la loro ribellione. Non sono vittime almeno fino a quando si ribellano. Debbono essere considerati come i combattenti dei ghetti. Non dobbiamo loro pietà ma – e possiamo scegliere- indifferenza o ostilità o aiuto.
Coloro ( e non sono pochi fra gli ebrei italiani e i loro amici) i quali ritengono che non si debba seguire innanzitutto una logica di schieramento ma una di mediazione e di pace, dicono in realtà che quel conflitto non può né deve coinvolgere questioni di principio. Come se si trattasse, che so, della terribile e sanguinosa guerra tra Iran e Iraq o di un conflitto fra la Libia e il Ciad.
Se così fosse, avrebbero assolutamente ragione. Ma così non è. Possono non saperlo gli israeliani, non possono non saperlo qui, o in Francia o negli Stati Uniti. E non solo per motivi non troppo diversi da quelli che costrinsero la coscienza di molti francesi (ma anche d’altre nazioni) a scegliere di stare dalla parte degli algerini e di aiutarli e quella di tanta parte degli europei e dei cittadini degli Stati Uniti di stare dalla parte dei vietnamiti e di aiutarli; ossia perché si faceva rientrare quel conflitto in un processo mondiale di lotta anticolonialista. Per quanto è di me non ho dubbi che quel conflitto rientri in un momento del processo mondiale di emancipazione dei popoli in senso anticapitalistico. Ma a chi mi obiettasse che questo non basta a spiegare il sovraccarico di attenzione e di passione che non pochi portano a quel conflitto, bisogna convenire che sì[1], il rapporto che la cultura nella quale mi sono formato e viva ha con l’ebraismo (e quest’ultimo ha con lo stato d’Israele) aggiunge motivi di attenzione e partecipazione ad un conflitto che non è riducibile a quello che i due popoli sembrano combattere ossia un conflitto di nazionalità.
Per me, stare dalla parte dei palestinesi, quindi contro la politica militare del governo israeliano, e chiedere pronunce di parte immediatamente prima che di pace, vuol dire ricordare ai miei connazionali –non dunque solo agli ebrei, anzi e soprattutto non a costoro ma a chi, nella sinistra italiana, è loro amico- che esistono cause ( di giustizia o di solidarietà, di lotta anticolonialista o antimperialista internazionale; e ognuno scelga tra queste quella che meglio gli si confà) per le quali può essere necessario rompere i legami più cari e ardui; ossia scegliere che cosa mettere al primo posto: la fedeltà ad una patria, a un’etnia, a una cultura, a una tradizione religiosa o familiare, ai propri morti oppure altro. Questo “altro”, io che scrivo l’ho messo al primo posto, ogni volta che mi si è presentato un conflitto di doveri e di fedeltà. Non vorrei che si scambiasse, ancora una volta e secondo l’andazzo pseudo democratico oggi di moda, il rispetto per l’espressione del pensiero altrui col rispetto per un pensiero, o per azioni, che si ritiene sbagliate o false. E aggiungo che, poco paradossalmente, compete ai palestinesi, alla loro cultura assai diversa (nel senso di non-europea) da quella cui si richiama Israele, di rappresentare e richiamare noi ai principi di libertà di coscienza e di diritto all’insurrezione contro la tirannia, che hanno celebrato a Parigi il proprio secondo centenario.
Non chiedo, va da sé, che siano seguite le mie scelte; ma di riconoscere come delle scelte esistano e che la sofferenza da esse indotta è tanto salubre quanto corruttrice ogni sofistica per evitarle. Più leggo ormai da vent’anni il complicatissimo, e sovrabbondante (e spesso mistificatore) discorso degli ebrei su se stessi ( e dei non ebrei sulla questione ebraica) con le loro mille correnti, più ho evitato di dire la mia, dopo I cani del Sinai (1967). Ma si danno situazioni e circostanze in cui mi è impossibile dimenticare che, foss’anche solo per il cognome della mia famiglia, ho forse un po’ più d’altri ( ma appena un poco) qualche dovere di parola.
Non posso rispettare il silenzio e neanche il possibile dolore di persone che stimo e amo e che hanno, si diceva una volta, cura d’anime. Non ho rispettato, a suo tempo, le belle anime di sinistra straziate dallo stalinismo e dalle sue sequele. Non mi rispetterei se non avessi parlato. Non riesco a capire perché dovrei non interferire nelle scelte di coscienza sul conflitto tra palestinesi ed ebrei quando quel diritto ce lo riconosciamo, fino a farcene un dovere, per quanto è delle opinioni e delle scelte in materia di attività professionali, valori culturali, atteggiamenti politici.
Un ulteriore discrimine è infine proprio questo: nulla è meno “privato” di quel che è classificato come tale da una cultura fondata proprio sulla distinzione e opposizione di “pubblico” e “privato”, di bourgeois e citoyen.
Non chiedo partecipazione per i “poveri” palestinesi ma per i falsi ricchi che saremmo noi.
Ma non è forse, quello che domando, una passione per la scelta in quanto tale invece che per i suoi contenuti? Non è forse privilegiare quel che è più difficile in luogo di quel che è più necessario o utile? Mi pare di sentire la risata di Brecht. Non sono forse molto meno interessato alla sorte reale dei ragazzi palestinesei e dei soldati israeliani di quanto sia desideroso di costringermi, e di costringere, ad atteggiamenti di sfida e di oscuramente desiderata sconfitta, di “eroismo” e di antagonismo?
Sì, questa è una mia eredità (di classe, dovrei dire). Dai miei anni, la vedo come si vede un’immagine in acqua bruna. Essa è all’origine dei miei errori e, nel medesimo tempo, di quel che ho di meglio da proporre e chiedere.
___FRANCO FORTINI: Extrema Ratio, 1989____
[1] In termini non molto diversi scrivevo sul Manifesto del 24 maggio 1989 attirandomi molte critiche e ingiurie: “[..] sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’Indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, non diversamente dalla Francia in Algeria o gli Usa in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quello del 1775 e i sovietici quello del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri casi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà. […]La distinzione tra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno,quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va corrosa una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e pa cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti..
Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria comune. […] La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nell’educazione degli israeliani. E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici.
Uno dei quali sono io. Se ogni nostra parola può togliere una cartuccia dal mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.
Jean-Paul Sartre sulla Tortura
Nel 1943, in via Lauriston, erano dei francesi a gridare d’angoscia e di dolore.
La Francia intera li udiva. L’esito della guerra non era certo, e non si voleva neppure pensare al futuro; ma una sola cosa ci pareva comunque impossibile: che si sarebbero fatti urlare altri uomini, un giorno, in nostro nome.
Ma impossibile non è francese: nel 1958, ad Algeri, si tortura abitualmente, sistematicamente; tutti lo sanno, da Lacoste ai contadini dell’Aveyron. Nessuno ne parla, o quasi: fili di voce si estinguono, nel silenzio. La Francia non era più muta di oggi sotto l’occupazione; ma aveva almeno la scusa di essere imbavagliata. All’estero, il caso nostro è già giudicato: la Francia continua a degradarsi: dal ’39 secondo alcuni, dal ’18 secondo altri.
Io non credo però così facilmente alla degradazione di un popolo; credo ai suoi marasmi e alle sue ottusità. Durante la guerra, quando la radio inglese o la stampa clandestina ci parlavano dei massacri di Ouradour, guardavamo i soldati tedeschi che passeggiavano per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare tra noi: “Eppure sono uomini che ci rassomigliano: come possono fare quello che fanno?” Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli.
Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro se stessa -né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi,- se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento.
Felici quelli che sono morti senza aver mai dovuto domandarsi: “Se mi strappano le unghie, parlerò?” Ma più felici quelli che non sono stati costretti, usciti appena dall’infanzia, a porsi l‘altra domanda: “Se i miei amici, i miei compagni d’armi, i miei capi strappano le unghie a un nemico dinanzi ai miei occhi, cosa farò?”
Che sanno di loro stessi questi giovani messi con le spalle al muro dalle circostanze? Essi indovinano che qualsiasi decisione possano prendere qui, sembrerà loro astratta e vuota nel momento decisivo; che tutto il loro essere sarà rimesso in gioco da situazioni imprevedibili; e che le loro decisioni per la Francia, per se stessi, dovranno prenderle laggiù, da soli. Essi partono. Altri ritornano, dopo aver sperimentato la propria impotenza, serbando nella maggior parte dei casi un silenzio pieno di rancore. Nasce la paura: la paura degli altri e di se stessi, e dilaga in ogni ambiente. La vittima e il boia si confondono nella nostra stessa immagine. Poiché, nei casi estremi, l’unica maniera di rifiutare una delle due parti consiste nell’accettare l’altra.
Una tale scelta non si impone -almeno non ancora- ai francesi in Francia. Ma proprio queste indeterminatezza ci pesa: noi siamo la ferita e il coltello: l’orrore di questo e il terrore di quella si bilanciano e si rafforzano reciprocamente. I ricordi riaffiorano. Quindici anni or sono i migliori della nostra Resistenza avevano paura di non resistere alla sofferenza, più che della sofferenza stessa. Essi dicevano :” Quando tace, la vittima salva ogni cosa; ma quando parla, nessuno ha diritto di giudicarla, neppure colui che non ha parlato: essa s’accoppia col suo carnefice, diventa la sua femmina, e questa coppia allacciata sprofonda nella notte dell’abiezione”. L’abiezione ritorna.
A El-Biar, essa ritorna ogni notte. In Francia è la fuliggine dei nostri cuori. Ecco, una propaganda sussurrata insinua appunto che “tutti parlano”; e così la tortura si giustifica con l’umana ignoranza: ciascuno di noi essendo un traditore potenziale, il boia che è in ciascuno di noi trova giustificazione. Tanto più che la gloria della Francia lo esige, come voci suadenti insinuano ogni giorno. Un buon patriota non può avere che buona coscienza. Solo un disfattista può averla cattiva.
Allora, lo sbigottimento diviene disperazione: se il patriottismo deve precipitarci all’abiezione, se nessuna sorveglianza, mai, ha impedito alle nazioni e all’umanità tutta di perdersi in una follia disumana, allora, a che scopo tormentarci per divenire o rimanere degli uomini? Essere disumani è la nostra verità.
Ma se di vero non c’è altro che il terrore, terrorizzare o essere terrorizzati, a che scopo vivere e restare patrioti?
Questi pensieri sono stati seminati in noi con la violenza. Nella loro oscurità e nella loro falsità, discendono tutti da questa premessa: l’uomo è inumano. Il loro obiettivo è convincerci della nostra impotenza, e ci riusciranno, finché non li guarderemo in faccia. Ma bisogna che all’estero si sappia che il nostro silenzio non significa consenso. Esso deriva da angosce provocate, esasperate, sapientemente dirette. Lo sapevo da tempo, ma aspettavo la prova decisiva.
Essa è venuta.
Quindi giorni fa, presso le Editions de Minuit, usciva un libro: La Tortura.
Il suo autore, Henri Alleg, tuttore detenuto in una prigione di Algeri, racconta senza commenti inutili, con precisione ammirevole, gli “interrogatori” che ha subito. I carnefici, come gli avevano promesso, lo hanno “curato”: “telefono da campo”, supplizio dell’acqua come al tempo della Brinvilliers, ma coi perfezionamenti tecnici del nostro tempo, supplizio del fuoco, della sete, etc.
E’ un libro che sconsigliamo alle anime tenere.
Finora, solo qualche richiamato alle armi e soprattutto qualche sacerdote avevano osato portare testimonianze. Avevano vissuto in mezzo ai torturatori, loro e nostri fratelli. Delle vittime, per lo più. Non conoscevano che le urla, le ferite, le sofferenze; additavano i segni del sadismo su brandelli di carne. Ma che cosa ci distingueva da questi sadici? Nulla, dal momento che tacevamo.
La nostra indignazione poteva anche parerci sincera: ma avremmo saputo provarla vivendo laggiù, o non ci saremmo piuttosto abbandonati a una cupa rassegnazione, a un universale disgusto? Per mio conto, leggevo talvolta per dovere e magari pubblicavo, ma detestandomi, quei racconti, che ci mettevano spietatamente in causa, e che non ci lasciavano speranza.
Con La Tortura, tutto cambia. Alleg ci risparmia vergogna e disperazione, perché è una vittima e ha “vinto” la tortura. C’è un sinistro umorismo, in questo rovesciamento di posizioni; lo hanno martirizzato in nome nostro, e noi, grazie a lui, ritroviamo un poco della nostra fierezza: siamo fieri che sia un francese. I lettori si incarnano in lui con passione, l’accompagnano sino al passo estremo della sofferenza. Con lui, soli e nudi, lottano e resistono. Sarebbero questi lettori, saremmo noi capaci davvero di tanto? Questo è un altro affare. Quello che conta è che la vittima ci libera facendoci scoprire, come lo scopre lei stessa, che abbiamo la possibilità e il dovere di sopportare tutto.
Eravamo come affascinati dalla vertigine dell’inumano, ma basta che un uomo duro e ostinato -ostinato nel suo mestiere d’uomo- a strapparti all’incantesimo: la “tortura” non è nulla di inumano, è soltanto un crimine ignobile e lurido, commesso da uomini contro altri uomini, e che altri uomini ancora possono e debbono reprimere. L’inumano non esiste, se non negli incubi generati dalla paura. Basta il calmo coraggio di una vittima, la sua modestia, la sua lucidità, per liberarci dalla mistificazione. Alleg ha strappato la tortura alla notte che la ricopriva:; avviciniamoci, guardiamola alla luce.
Questi carnefici, prima di tutto, che cosa sono? Dei sadici? Degli arcangeli irritati? Dei signori della guerra con i loro terrificanti capricci? A creder loro, sarebbero una mescolanza di tutto questo. Ma Alleg, appunto, non li crede. Quel che risulta da quanto egli ci riferisce è che essi vorrebbero convincere se stessi e convincere la vittima di una loro piena sovranità: ora come superuomini che tengono dei semplici uomini in loro potere, ora come uomini forti e severi, incaricati di addomesticare la bestia più oscena, più feroce e più vile che ci sia, la bestia umana. S’indovina che non fanno tuttavia scelte sottili: l’essenziale è far sentire al prigioniero che non è della loro razza_ lo si spoglia, lo si imbavaglia, lo si beffeggia. Intanto, dei soldato vanno e vengono, pronunciando insulti e minacce con una disinvoltura che vorrebbe apparire terribile.
Ma Alleg, nudo, tremante di freddo, legato a una tavola ancor nera e viscida di vecchi vomiti, riduce tutte queste manovre alla loro miserabile verità: sono commedie recitate da imbecilli. Commedia, la violenza fascista delle loro parole, i il giuramento di “buttare all’aria la Repubblica”. Commedia, il discorso dell’aiutante di campo del generale M., che termina con queste parole: “Non vi resta più che suicidarvi”. Commedie grossolane, sempre quelle, che ricominciano senza convinzione ogni notte, con ogni prigioniero, e che poi si smettono per mancanza di tempo. Perché questi orribili lavoratori sono sovraccarichi di lavoro e fatica: i prigionieri fanno la coda davanti alla tavola del supplizio, si legano, si slegano, si portano in giro le vittime da una camera di tortura all’altra. A guardare con gli occhi di Alleg questo immondo alveare ci si accorge che gli stessi torturatori sono soverchiati da ciò che fanno.
Certo, sanno che atteggiarsi alla calma, bere birra, tranquilli e decisi, accanto a un corpo martirizzato, e poi d’un tratto balzano in piedi, corrono dappertutto, bestemmiano e urlano di rabbia: dei nevrotici che sarebbero delle vittime eccellenti, e alla prima sferzata confesserebbero.
Malvagi, rabbiosi, certo. Sadici? No, nemmeno sadici: hanno troppa fretta. E’ quella che li salva, del resto: resistono grazie alla velocità acquistata: debbono correre senza requie o crollare.
Eppure amano il lavoro ben fatto: se lo giudicano necessario, spingono la coscienza professionale fino ad uccidere. Ed ecco quello che colpisce, nella narrazione di Alleg: dietro questi chirurghi squallidi e sgomenti senti una inflessibilità che li supera, loro e i loro capi.
Sarebbe troppa fortuna, se questi delitti fossero l’opera di un pugno di pazzi. In verità è la tortura, che fa i carnefici. Dopo tutto, questi soldati non si erano arruolati in un corpo scelto per martirizzare il nemico vinto.
Alleg, in pochi tratti, ci descrive quelli che ha conosciuto, e questo basta a segnare le tappe delle metamorfosi.
Ci sono i più giovani, sbigottiti, incapaci di resistere, che mormorano “è orribile” quando la loro torcia illumina un suppliziato. E poi ci sono i sotto-boia, che non mettono ancora mano alla tortura, ma sostengono e trasportano i prigionieri, alcuni già induriti e altri no, ma tutti già presi nell’ingranaggio, e tutti imperdonabili.
C’è un biondino del Nord con un viso così simpatico, che può parlare delle sedute di tortura che Alleg ha subito, “come di una partita di cui si ricorda con piacere, e che non prova disagio a congratularsi con la vittima come farebbe con un campione ciclista”. Qualche giorno dopo, Alleg lo ritroverà congestionato, sfigurato dall’odio, mentre percuote, su per una scala, un musulmano. E poi ci sono gli specialisti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti, i duri che fanno tutto il lavoro, che si compiacciono ai soprassalti delle scosse elettriche, ma che non sopportano le grida. E infine i pazzi che corrono intorno come foglie morte nel turbine della loro propria violenza.
Nessuno di questi uomini ha una vita sua, nessuno resterà quello che è: non sono che i momenti di una trasformazione inesorabile. Tra i migliori e i peggiori v’è una sola differenza: i primi sono reclute, i secondi veterani. Tutti finiranno per andarsene e, se la guerra continua, altri li sostituiranno: biondini del Nord o piccoli bruni del Mezzogiorno, che faranno lo stesso tirocinio o ritroveranno la stessa violenza con lo stesso nervosismo.
In quest’affare gli individui non contano; una specie di odio errante e anonimo, un odio radicale dell’uomo s’accanisce a un tempo sui carnefici e sulle vitime per degradarli insieme, gli uni mediante gli altri. Quest’ odio è la tortura eretta a sistema, creatrice dei suoi stessi strumenti.
Quando questo vien detto, sia pur timidamente, sui banchi dell’Assemblea, la canea si scatena, e urla: “E’ un insulto all’esercito”. Ma una volta per tutte, questi cani ringhiosi ci dicano: che c’entra l’esercito? Nell’esercito ci sono dei torturatori, senza dubbio. La commissione inchiesta, nel suo rapporto pur indulgente, non lo ha nascosto. Ma questo non vuol dire che sia l’esercito a torturare.
Che insensatezza! Forse che i civili non conoscono il metodo? Basta lasciar fare alla polizia di Algeri. E poi ci vuole un capo-carnefice, l’Assemblea intera l’ha designato: non è il generale S., e neppure il generale E., e neppure il generale M., di cui tuttavia Alleg fa il nome: è Lacoste, l’uomo dai pieni poteri.
Tutto si fa attraverso di lui e con lui, a Bona come a Orano: tutti gli uomini che sono morti di sofferenze e di orrore nell’immobile di El-Biar, nella villa S., sono morti per sua volontà. Non sono io che lo dico: sono i deputati, è il governo.
E del resto la cancrena si estende, ha attraversato il mare. Si è sparsa anche la voce che si pratica la tortura in certe prigioni civili del “territorio metropolitano”: non so se sia fondata, ma dev’essere stata raccolta anche dai poteri pubblici, visto che il procuratore, al processo di Ben Saddok, ha domandato solennemente all’accusato se avesse subito sevizie. Beninteso, la risposta era conosciuta in anticipo.
No, la tortura non è né civile né militare né specificatamente francese: è come una sifilide che devasta l’intera epoca. All’est come all’ovest ci sono carnefici. Non è passato tanto tempo da quando Farkas torturava gli ungheresi. I polacchi non nascondono che la loro polizia , prima di Poznan, torturava anch’essa volentieri; e su ciò che accadeva in URSS al tempo di Stalin abbiamo la testimonianza irrecusabile del rapporto Krusciov. Ieri si “interrogavano” così, nelle prigioni di Nasser, degli uomini politici che poi sono stati, con qualche cicatrice, elevati a cariche eminenti. L’elenco potrebbe continuare. Oggi, comunque, è il momento di Cipro e dell’Algeria; e Hitler, insomma, non era che un precursore.
Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, la tortura può definirsi un’istituzione semiclandestina. Ha forse le stesse cause dappertutto? No, probabilmente. E poi poco importa: qui non si tratta di giudicare il nostro tempo; si tratta di guardare in faccia le cose nostre per cercar di capire che cosa è successo a noi, a noi francesi.
Sapete quel che si dice a volte per giustificare i carnefici: bisogna pur ridursi a torturare un uomo se dalla sua confessione possono dipendere centinaia di vite umane. E’ un bell’espediente da Tratuffe. Alleg, come Audin, non era un terrorista. Tanto è vero che è stato accusato di “attentato alla sicurezza dello Stato e di ricostruzione di una lega sciolta”.
Era per salvare delle vite umane che gli si bruciavano i capezzoli e i peli del pube? No, si voleva soltanto estorcergli l’indirizzo dell’amico che lo aveva ospitato. Se avesse parlato, si sarebbe messo un comunista di più sotto chiave: ecco tutto.
E poi si arresta a casaccio: qualsiasi musulmano è “interrogabile” a piacere: la maggior parte dei torturati non dicono nulla perché non hanno nulla da dire, a meno che non acconsentano, per non soffrire di più, a fare una falsa testimonianza o accusarsi gratuitamente di un delitto rimasto impunito, del quale diventa comodo accusarli. In quanto a quelli che potrebbero parlare, si sa bene che tacciono. Tutti, o quasi tutti.
Né Audin, né Alleg, né Guerroudji hanno disserrato i denti. “Ha comunque guadagnato una notte per dar tempo ai suoi amici di tagliare la corda”, constata uno dei carnefici dopo il primo interrogatorio di Alleg. E un ufficiale, qualche giorno più tardi: “Da dieci o da quindici anni sanno che se vengono presi non devono dire nulla. Non c’è niente da fare per togliere loro quest’idea della testa.” Forse volevan parlare soltanto dei comunisti; ma credono forse che i combattenti dell’ALN (l’Armata di Liberazione Nazionale) siano di un’altra tempra? Queste violenze non rendono: gli stessi tedeschi, nel 1944, avevano finito per convincersene; costano vite umane, e non ne salvano.
L’argomento, tuttavia, non è del tutto falso, e comunque ci illumina sulla funzione della tortura , istituzione clandestina o semiclandestina indissolubilmente legata alla clandestinità della resistenza o dell’opposizione.
In Algeria, il nostro esercito è schierato in tutto il territorio. Abbiamo per noi il numero, il denaro, le armi. Gli insorti non hanno nulla, salvo la fiducia e l’appoggio di una gran parte della popolazione. Siamo stati noi, nostro malgrado, a dare a questa guerra popolare attentati nelle città, imboscate nelle campagne; il FLN non ha scelto lui questa forma di attività, fa quello che può e basta.
Il rapporto fra le sue forme e le nostre lo costringe ad attaccarci di sorpresa: invisibili, inafferrabili, inattese, devono colpire e scomparire, per non essere sterminate. Di qui il nostro malessere: lottiamo contro un avversario segreto, una mano lancia una bomba in una strada, una fucilata ferisce un nostro soldato, si accorre: non c’è più nessuno. Più tardi, nei dintorni, si troveranno dei musulmani che non hanno visto niente. Tutto è legato: la guerra popolare, guerra dei poveri contro i ricchi, è caratterizzata dallo stretto vincolo delle unità insurrezionali con la popolazione. Per l’esercito regolare e o poteri civili, questo nugolo di miserabili diventa il nemico quotidiano, innumerevole. Le truppe d’occupazione si preoccupano del mutismo che esse hanno generato. Si indovina una inafferrabile volontà di silenzio, un segreto circolare, onnipresente. I ricchi si sentono braccati in mezzo ai poveri che tacciono. Imbarazzate dalla loro stessa potenza, le “forze dell’ordine” non possono opporre nulla alle guerriglie, se non i rastrellamenti e le spedizioni punitive, nulla da opporre al terrorismo, se non il terrore- Qualche cosa è nascosto: in qualsiasi luogo e da tutti.
Bisogna farli parlare.
La tortura è una vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare, ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo. Se applica la question dovrà sempre ricominciare.
Ma nemmeno questi silenzi, queste paura, questi pericoli sempre invisibili e sempre presenti possono giustificare completamente l’accanimento dei carnefici, la loro volontà di ridurre all’abiezione le loro vittime, questo odio dell’uomo, infine, che si è impadronito di loro senza il loro consenso e li ha plasmati.
Uccidersi a vicenda, è la regola; ci si è sempre battuti per interessi collettivi e particolaristici. Ma nella tortura, questo strano match, la posta sembra essere totale: è per il titolo di uomo che il carnefice si misura col torturato, e tutto si svolge come se i due non potessero appartenere insieme alla specie umana. Scopo dell’interrogatorio non è soltanto quello di costringere un uomo a parlare, a tradire: bisogna che la vittima si auto qualifichi bestia umana attraverso le sue grida e la sua sottomissione: agli occhi di tutti e davanti a se stessa. Bisogna che il suo tradimento la spezzi e la tolga definitivamente di mezzo. Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello del sotto-uomo.
Questa radicalizzazione della posta è uno dei caratteri del nostro tempo. In nessuna epoca la volontà di essere liberi è stata più cosciente e più forte: in nessuna epoca l’oppressione è stata più violenta e meglio armata.
In Algeria le contraddizioni sono irriducibili: ognuno dei gruppi in conflitto esige l’esclusione radicale dell’altro. Abbiamo preso tutto ai musulmani e poi abbiamo proibito loro persino l’uso della loro lingua. Memmi, lo scrittore algerino, ha dimostrato come la colonizzazione si realizza attraverso l’annullamento dei colonizzati. Essi non possedevano più nulla, non erano più nessuno: abbiamo liquidato la loro civiltà rifiutando loro la nostra. Avevano chiesto l’integrazione, l’assimilazione e noi abbiamo risposto di no: grazie a quale miracolo si potrebbe mantenere il supersfruttamento coloniale se i colonizzati dovessero godere degli stessi diritti dei coloni? Sotto-alimentati, incolti, miserabili, il sistema li respingeva spietatamente ai confini del Sahara, ai limiti dell’umano; sotto la spinta demografica il loro tenore di vita si abbassava di anno in anno. Quando la disperazione li ha indotti alla rivolta, questi sotto-uomini non avevano altra scelta che morire o tentare di affermare la loro umanità contro di noi: hanno respinto i nostri valori, la nostra cultura, le nostre pretese superiorità, e in blocco hanno rivendicato il titolo di uomini e rifiutato la nazionalità francese.
Questa ribellione non si limitava a contestare il potere dei coloni. Essi hanno capito che era in causa la loro stessa esistenza. Per la maggior parte degli europei d’Algeria ci sono due verità complementari e inseparabili: i coloni sono degli uomini per diritto divino, gli indigeni sono una sottospecie di uomini. E’ la traduzione mitica di un fatto preciso, poiché la ricchezza degli uni poggia sulla miseria degli altri.
Così lo sfruttamento mette lo sfruttatore alla dipendenza dello sfruttato. E, su un altro piano, questa dipendenza è il nocciolo del razzismo, è la sua contraddizione profonda e la sua acida maledizione: essere uomo, per l’europeo di Algeri, vuol dire, innanzitutto, essere superiore al musulmano.
Ma se il musulmano si afferma a sua volta come uomo, come l’eguale del colono? Ebbene il colono è leso nel suo essere, si sente diminuito, svalutato: l’accesso dei bougnoules (termine dispregiativo per definire gli arabi) alle condizioni di uomini gli ripugna non soltanto perché ne vede le conseguenze economiche ma perché gli si annunzia il suo decadimento personale. Nella sua rabbia il colono sogna il genocidio. Ma è una pura utopia. Egli lo sa, conosce la propria dipendenza. Che cosa farebbe senza un sottoproletario indigeno, senza una manodopera in eccesso, senza la disoccupazione cronica che gli permette di imporre i salari? E poi, se i musulmani sono già degli uomini, tutto è perduto, non c’è nemmeno più bisogno di sterminarli. No: la cosa più urgente, se c’è ancora tempo, è di umiliarli, di stroncare l’orgoglio nel loro cuore, di abbassarli al livello della bestia.
Si lascerà vivere il corpo, ma si ucciderà lo spirito. Domare, addomesticare, castigare, ecco le parole che ossessionano il colono. Non c’è posto in Algeria per due specie umane. Tra l’una e l’altra bisogna scegliere.
Beninteso, non intendo dire che gli europei di Algeri abbiano inventato la tortura, e nemmeno che abbiano incitato le autorità civili e militari a praticarla. Al contrario: la tortura si è imposta da sé, è diventata una pratica prima ancora che ci se ne accorgesse. Ma l’odio per l’uomo che vi si manifesta, è l’espressione del razzismo. Poiché è proprio l’uomo che si vuol distruggere, con tutte le sue doti di uomo, il coraggio, la volontà, l’intelligenza, la fedeltà, quelle stesse doti che il colono rivendica per sé. Ma se l’europeo trascende sino a detestare la propria immagine, vuol dire che essa è rispecchiata da un arabo.
Così, di queste due coppie indissolubilmente legate, il colono e il colonizzato, il carnefice e la sua vittima, la seconda è un’emancipazione della prima. I carnefici non sono coloni, né i coloni sono carnefici. Questi ultimi sono spesso giovanotti che vengono dalla Francia e hanno passato vent’anni della loro vita senza mai preoccuparsi del problema algerino. Ma laggiù l’odio è un campo di forze magnetiche che li ha attraversati, corrosi e asserviti.
La calma lucidità di Alleg ci permette di comprendere tutto ciò. Quand’anche non ci desse altro, bisognerebbe essergliene profondamente grati. Ma in realtà egli ha fatto molto di più: incutendo rispetto ai suoi carnefici ha fatto trionfare l’umanesimo delle vittime e dei colonizzati contro le violenze senza misura di certi militari, contro il razzismo dei coloni. E la parola “vittime” non vale qui a suscitare non so quale lacrimoso pietismo: in mezzo ai loro piccoli caid, fieri della loro giovinezza, della loro forza, del loro numero, Alleg è il solo “duro”, il solo veramente forte. Noi possiamo dire che ha pagato il prezzo più alto per il semplice diritto di rimanere un uomo fra gli uomini. Ma egli non vi pensa neppure. E’ per questo che tanto ci commuove questa semplice frase alla fine di un paragrafo: “Mi sentii tutt’a un tratto fiero e contento di non aver ceduto. Ero convinto che avrei resistito ancora se avessero ricominciato, che mi sarei battuto fino in fondo, che non avrei facilitato il loro compito suicidandomi.”
Si, un duro, che finisce per far paura agli arcangeli dell’ira.
Almeno in alcune delle loro parole, si intuisce che essi presentono e cercano di scongiurare una vaga e scandalosa rivelazione: quando è la vittima che trionfa, addio sovranità, addio diritto divino. Le ali degli arcangeli si fermano e i carnefici si chiedono perplessi: ma io saprei resistere se mi torturassero?
Il fatto è che, al momento della vittoria, un sistema di valori si è sostituito agli altro. Per poco gli stessi carnefici non sono presi dalla vertigine. Ma no: hanno la testa vuota, il lavoro li abbrutisce e credono appena a ciò che fanno.
Perché poi, del resto, turbare la coscienza dei carnefici?
Se qualcuno di loro muovesse obiezione, i loro capi lo sostituirebbero: ne troverebbero dieci per uno perduto. La testimonianza di Alleg infatti – ed è forse il suo maggiore merito – dissipa completamente le nostre illusioni: non basta punire o rieducare alcuni individui.
La guerra d’Algeria non può essere umanizzata. La tortura si è imposta da sé: è stata suggerita dalle circostanze, chiamata dall’odio razzista. In certa misura, come abbiamo visto, essa si trova al centro stesso del conflitto e forse ne esprime la verità più profonda. Se vogliamo mettere fine a queste immonde e lugubri crudeltà, salvare la Francia dalla vergogna e gli algerini dall’inferno, abbiamo un solo mezzo, sempre lo stesso, il solo che abbiamo mai avuto, il solo che avremo mai: aprire dei negoziati, fare la pace.
Jean-Paul Sartre
Del carciofo … tradizioni mediterranee, dai sultani a Lungotevere
Il carciofo è la più misteriosa delle verdure. E anche la più femminile, e senza dubbio una cosa spiega l’altra.
Mentre le verdure di sesso maschile, come il cetriolo, l’asparago o il porro, non si peritano di esibire ai quattro venti la loro arrogante virilità, il carciofo, al contrario, per pudore innato, se non per civetteria, fa di tutto per nascondere la propria intimità sotto sottane e merletti, pieghe e panneggi. Per accedervi, i suoi amanti devono per prima cosa togliergli tutti questi fronzoli, a uno a uno, delicatamente, lentamente, prendendosi il tempo necessario.
Allora il carciofo offre loro il suo cuore carnoso , quella parte che i francesi, in epoche meno pudibonde, non chiamavano come adesso ‘fond‘, ma designavano molto appropriatamente, a causa della consistenza setosa e della forma arrotondata, con la parola ‘cul‘.
Non è tuttavia per la sua femminilità, come si può facilmente indovinare, che il carciofo è stato a lungo proibito in Francia alle ragazze di buona famiglia. Il Cynara scolymus, che nel XVI secolo aveva attraversato le Alpi proveniente dall’Italia, era considerato, al pari di altre piante fino ad allora sconosciute, come il pomodoro, potente afrodisiaco.
All’epoca, è un fatto, questo tipo di ghiottonerie era molto di moda, e l’aesempio veniva dall’alto: secondo la comica testimonianza di Brantome, dalla regina madre in persona, Caterina de’ Medici, assai incline alla scappatella. Costei aveva dunque una passione per i cibi creduti a torto o a ragione stimolanti, come i cuori di carciofo e le creste di gallo, tanto che, nel 1575, durante un banchetto di nozze rischiò di scoppiare. Questo non bastò comunque a ostacolare l’esaltante carriera del carciofo. Si racconta per esempio che a Parigi, sotto Enrico IV, i venditori ambulanti di frutta e verdura ne vantavano ancora le incomparabili virtù ‘per il signore e per la signora’. Ma la ‘signora’, che quando mangiava carciofi veniva mostrata a dito, sarebbe stata abbastanza arguta, come prova una poesia popolare della metà del XVIII secolo, da rivolgersi al ‘signore’ in questi termini:
…Mangiali tu, amore mio,
così meglio faranno
che se li mangiassi io.
Questa seducente reputazione ovviamente non poggia su alcunché di solido. Ed è un puro caso che Enrico VIII, colui che fondò davanti all’Eterno la Chiesa anglicana, consumasse mogli e carciofi con eguale appetito. Certo, nel mondo islamico, Rhazes aveva attirato l’attenzione sugli effetti stimolanti del
prezioso ortaggio sin dal X secolo, nel suo Libro dei correttivi sugli alimenti, Ma non ho letto da nessuna parte né ho mai sentito dire che i califfi, sultani o re delle nostre parti, che pur avevano tutti il temibile obbligo morale di soddisfare un intero harem, ne abbiano fatto largo uso. Mi chiedo del resto se kangar di cui parla Rhazes fosse davvero il carciofo. E mi pongo la stessa domanda di fronte a termini come harshaf, kharshaf, kharshuf, qinariya… Quanto al ‘akkub‘, che compare nell’opera del geografo palestinese Muqaddasi, e che il mio amico André Miquel traduce con ‘carciofo’, sono sicuro che si tratta di un cardo spinoso, e per altro delizioso, lo stesso che insanguinava le mani di mia nonna quando si ostinava a prepararcelo.
Veniamo così a un altro mistero del carciofo: quelle delle sue origini. In effetti, attraverso i secoli, nei paesi di lingua araba sono stati dati nomi diversi a una stessa pianta o famiglia di piante, che potevano o meno essere identiche al carciofo, a volte, al contrario, un solo nome a ogni sorta di acanti, cardi e carciofi selvatici o coltivati. Sfido chiunque a raccapezzarsi tra queste piste orribilmente confuse, prima per colpa degli stessi botanici, da Dioscoride a Ibn al-Baytar, quindi dei loro traduttori, e infine della coorte dei commentatori, i quali, inutile dirlo, non hanno affatto contribuito a fare chiarezza. Quel che mi sembra più o meno certo, in questo ginepraio, è che il carciofo è nato nell’Africa del Nord, da un cardo selvatico , e che sono stati i nostri cugini maghrebini ad allevarlo e prendersene cura. Erano interessanti alle costole più che alla testa, somigliante a quella del cardones, altro cardo commestibile.
Gli andalusi, incontestati maestri giardinieri, hanno cercato in seguito di ingrandirne la testa, come lascia intendere, alla fine del XII secolo, l’agronomo sivigliano Ibn al-Awwam. Dalla Spagna, quel che ormai conviene senz’altro chiamare carciofo passò in Sicilia, e quindi a Napoli, donde arrivò a Firenze nel 1466. La parola arava al-harshaf, designante il cardo, diviene alcarchofa in spagnolo, anticcioco in lombardo, artichaut in francese. Nel XIX secolo, riscoprendolo al termine di questa lunga evoluzione, gli arabi del Levante lo chiamarono ardishoki, parola veramente geniale perché chiude il ciclo delle derivazioni arricchendone al tempo stesso il significato, dato che il termine –shoki (come shawk, spina) rinvia per assonanza all’ascendenza spinosa del carciofo.
Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se il Maghreb è oggi, con l’Italia, l’area in cui il carciofo è più valorizzato. Questo è anche vero per il cardo, che i francesi, sfortunatamente, hanno troppo trascurato, malgrado l’avveduto consiglio di grimod de la Reynière, che nel suo Almanach des gourmands lo definisce il “nec plus ultra della scienza umana“. Secondo lui, “un cuoco capace di fare un piatto di cardi squisiti può intitolarsi primo artista d’Europa”.
Di cuochi siffatti non ne esistono più, in Europa, o molto pochi, ma ce ne sono in Marocco, dove il tagin ai cardi, quanariya, è tanto raffinato che viene utilizzato per controllare la qualità dell’olio d’oliva nuovo. E che dire del tagin ai cuori di carciofo selvatico, con eventuale aggiunta di fave verdi o piselli, se non che si tratta di uno dei piatti più prelibati che esistano sul pianeta terra?
Per prepararlo, ci vogliono indubbiamente molto coraggio e abnegazione, perché questo tipo di carciofo somiglia a una corona di spine, ma alla fine del calvario c’è il Paradiso. Tuttavia, se non siete disposti a sacrificarvi per i vostri convitati, pure volendo far loro piacere, non esitare a tentare il tagin ai carciofi selvatici, o lo spezzatino tunisino ai carciofi ( ganarriyya) e limone, insaporito col peperoncino rosso, o ancora i cuori di carciofo (qarnun) all’algerina farciti di carne tritata, cipolla e prezzemolo, il tutto amalgamato con un uovo e aromatizzato col pepe nero e la cannella.
Ho visto la mia vicina di Costantina metterli in una pirofila, arricchirli con polpette preparate con lo stesso ripieno, e poi cuocerli in una salsa di pomodori freschi. Una ricetta diversa dalla nostra ma che non ha nulla da invidiarle.
Non andate ora a pensare, vedendomi celebrare le virtù dei carciofi maghrebini, che sottovaluti quelli francesi, Al contrario, non ne conosco di migliori, e neppure di equivalenti salvo forse i pinzimoni italiani, che si lasciano sgranocchiare senza tante moine, crudi con un po’ di sale.
Il carciofo è sempre saporito, divertente, ricco di vitamine, povero di calorie, coleretico, diuretico, e molte altre cose ancora. E se non è veramente afrodisiaco, lo può diventare. Basta crederci.
Polpette di carciofo _Mbattan gannariyya_
Tunisia
Ingredienti per 4 persone:
@ 250 gr di cosciotto d’agnello disossato e tritato
@ 12 cuori di carciodo
@ 1/2 limone
@ 2 cipolle tritate sottilmente
@ 2 uova
@ 100 gr di formaggio grattuggiato
@ 1 mazzo di prezzemolo sfogliato e tritato
@ 4 cucchiai di farina e 1/2 cucchiaino di paprika
@ 2 cucchiai di polpa di pomodoro
@ olio d’oliva, harissa, sale e pepe
• Fate cuocere i carciofi in acqua con un po’ di sale e succo di limone, e riduceteli in purè. Mescolate il purè con la carne, il prezzemolo, la cipolla, il formaggio grattuggiato, il sale e le spezie.
• Formate delle polpette e friggetele dopo averle immerse nelle uova battute e nella farina.
• Diluite il concentrato di pomodoro e la harissa in un bicchier d’acqua, aggiungete un po’ d’olio d’oliva e portate a ebolizione. Controllate il sale e fate restringere la salsa a fuoco lento
• Servite caldo con salsa a parte
e adesso passiamo alle tradizioni di casa:
Il carciofo è un ottimo alimento che, soprattutto nel Lazio, gode di un apprezzamento fuori dal comune. Tra i vari tipi di carciofi, di provenienza oltre la campagna romana, si preferisce quello romanesco o cimarolo, coltivato nella zona compresa, grosso modo, tra Roma e Civitavecchia e particolarmente nella campagna di Cerveteri e Ladispoli. Il segreto, ammesso che si tratti di segreto, per ottenere un carciofo tutto da gustare, grazie soprattutto alla sua tenerezza, sta nel saperlo ‘capare’, ossia nel saperlo liberare completamente delle foglie dure, altrimenti, come si dice a Roma ‘ciancichi e sputi’.
La mani esperta, pignola ma non esagerata, taglia la parte più dura delle foglie, quella superiore per intenderci, con un coltellino a punta, ben affilato, cominciando dal fondo che ha le foglie più tenere, per proseguire fino al centro. Il carciofo acquista allora una forma sferica. E’ bene insistere che in particolare, riguardo alle prime foglie da togliere, la mano si affida alle proprie dita e, foglia dopo foglia, le spezza nel punto dove finisce il tenero che, dall’alto verso il basso, viene liberato di quella pellicola leggera che lo ricopre. A questo punto si pulisce il gambo, togliendogli, senza affondare troppo il coltello, la corteccia e lo si immerge in acqua ben acidulata con succo di limone, affinchè non si faccia nero. Successivamente, aperta bene la bocca del carciofo e battuta più volte sulla tavola, se ne estrae dall’interno l’eventuale fieno, a Roma detto ‘pelo’, poi vi si introduce un pezzetto d’aglio, un pizzico di mentuccia, insieme a sale, pepe e all’olio necessario e abbondante. Una strofinata esterna, leggera, di un po’ di sale e pepe non guasta.
Ogni carciofo così preparato si dispone capovolto in un tegame, preferibilmente di terracotta, con i bordi alti affinché i gambi rimangano dritti e fermi durante la cottura. Nel tegame poi si versa tanto olio vergine di oliva quanto ne occorre per coprire a metà i carciofi e si aggiunge inoltre l’acqua necessaria perchè la copertura sia totale.
Queste ricette e notizie sul carciofo e i cardi sono tratte da “La cucina di Ziryab” di Farouk Mardam-Bey e “La cucina romana e del Lazio” di Livio Jannattoni
Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria…”L’Algérie n’est pas la France”
Jean-Paul Sartre e la guerra d’Algeria

L’idea della «sub-umanità» deriva dal fatto che, per Sartre, i colonizzati sono stati «mantenuti da un sistema oppressivo al livello di bestie(7)», il che si è tradotto nella negazione sia del diritto che della cultura, violando il rispetto dei «diritti umani» invocato dalla Francia a ogni piè sospinto. Un famoso testo di Sartre tratta con particolare insistenza queste tematiche della «violenza» e della «sub-umanità»: la prefazione che scrive nel settembre 1961 a I dannati della terra di Frantz Fanon. Psichiatra della Martinica che abbraccia ben presto la lotta indipendentista algerina, membro del Governo provvisorio della repubblica algerina (Gpra), animatore di El Moudjahid clandestino, Fanon si è già guadagnato una certa notorietà scrivendo i saggi Pelle nera, maschere bianche (1952) e L’anno V della Rivoluzione algerina (1959). L’incontro – intellettuale ma anche fraterno fra questi due uomini che diventeranno amici – segnerà profondamente l’itinerario di Sartre.





Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti. Richiamato l’ambasciatore Valensise
DAL BLOG INSORGENZE
Dopo la richiesta di archiviazione fatta dalla procura generale brasiliana, a seguito della concessione dello status di rifiugiato politico, l’Italia richiama l’ambasciatore Valensise a Brasilia per consultazioni
di Paolo Persichetti Liberazione 28 gennaio 2009
Cesare Battisti non verrà estradato, per questo l’Italia ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore in Brasile Michele Valensise. La rappresaglia diplomatica (che nel linguaggio paludato della diplomazia è il segnale di un grave stato di crisi prossimo alla rottura delle relazioni ufficiali) è stata presa dal ministro degli Esteri Franco Frattini dopo la diffusione, nella serata di lunedì, del nuovo parere sulla estradizione – questa volta negativo – espresso dalla procura generale brasiliana. Antonio Fernando De Souza, nell’aprile del 2008, si era detto favorevole; ora però, a seguito della sopravvenuta concessione dell’asilo politico, da parte del ministro della Giustizia Tarso Gendro, non ha potuto fare altro che inchinarsi e domandare l’archiviazione dell’intera procedura.

Genro Tarso
Tra Italia e Brasile non vi è alcun accordo sul riconoscimento reciproco delle sentenze di giustizia e la dottrina giuridica estradizionale è materia che attiene ancora alle decisioni sovrane della politica. Il parere era stato richiesto dal presidente del Supremo tribunale federale (Stf) Gilmar Mendes, dopo le forti reazioni italiane e le pesanti pressioni diplomatiche. Prima il presidente della repubblica Napolitano, poi il presidente della Camera Fini, avevano scritto a Lula per rappresentare lo «stupore e il rammarico» delle autorità italiane. Lo stesso ambasciatore Valensise, accompagnato da un legale brasiliano incaricato dal nostro governo, era stato ricevuto dal presidente del Supremo tribunale federale. Circostanza che ha rasentato l’ingerenza negli affari interni brasiliani. Come avrebbe reagito l’Italia se un ambasciatore estero avesse incontrato il presidente della corte di Cassazione per fare pressione nell’ambito di una procedura in corso?
Lula aveva risposto con una breve ma ferma lettera nella quale ribadiva che la decisione era un atto sovrano del Brasile fondato su indiscutibili basi giuridiche interne e internazionali (art. 4 della costituzione brasiliana, legge post-dittatura del 1997 sul diritto d’asilo e convenzione Onu del 1951, riconosciuta anche dall’Italia). A questo punto la parola torna al Tribunale supremo che si riunirà il prossimo 2 febbraio per pronunciarsi sulla scarcerazione. Per altro l’estradizione di Battisti, se fosse avvenuta, avrebbe sollevato non pochi problemi all’Italia. Infatti la condizione posta dalla procura generale era la commutazione dell’ergastolo comminatogli (abolito dal codice penale brasiliano) a 30 anni di reclusione. Ove mai l’Italia avesse accolto la richiesta (non avrebbe potuto fare altrimenti), si sarebbe posto un problema di uguaglianza di trattamento di fronte a tutti gli altri ergastolani. In questa vicenda l’Italia ha sommato una lunga serie di gaffes e comportamenti arroganti, mostrando di considerare il Brasile una repubblica delle banane che avrebbe dovuto piegarsi supinamente all’attività lobbistica della nostra magistratura, spesso convinta d’essere la fonte battesimale della giustizia mondiale pronta a dare lezioni di legalità al mondo intero. Nonostante il pluridecennale contenzioso aperto con le autorità parigine, quasi 90 procedure di estradizione (accolte solo in due casi), l’Italia non ha mai pensato di mettere in discussione in modo così palese la sovranità interna della Francia. Forse non a caso Gianni Agnelli definiva lo Stivale una «repubblica di fichi d’india».
Questa disfatta diplomatico-giudiziario riapre con forza la questione della mancata chiusura politica degli anni 70. All’estero nessuno riesce a capire come dopo 30 anni permanga ancora una tale volontà di disconoscere la natura sociale del conflitto

La “consegna straordinaria” di Rita Algranati
armato che traversò quel decennio e che, una volta concluso, andava affrontato e chiuso. L’Italia continua a negare l’emergenza giudiziaria, i numerosi casi di tortura denunciati nei primi anni 80 (anche da Amnesty). Fino ad ora ben 7 paesi hanno detto no alle richieste d’estradizione italiane: la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia. Poi il Canada, il Nicaragua, l’Argentina e il Brasile. Solo grazie a degli atti di pirateria internazionale, favoriti dal clima post Torri gemelle, l’Italia è riuscita a riavere alcuni rifugiati. Clamoroso fu il caso di Rita Algranati nel 2004, scambiata con i servizi algerini, complice l’Egitto. Insomma la vera anomalia internazionale continua ad essere quella italiana. Per quanto ancora?
Canti delle donne di Algeri
La boqala è un rito di poesia, un rito femminile delle donne algerine, che si riuniscono attorno al boccale (boqala) della padrona di casa, riempito con l’acqua di sette diverse sorgenti dove ogni donna lascia cadere un gioiello. A quel punto il boccale inizia a girare sette volte sotto un braciere d’incenso.
Ed ecco che nasce l’incantesimo…a turno, una dopo l’altra, recitano una breve poesia di non più di 5 versi che può venire dalla più antica tradizione o essere improvvisata davanti alle compagne e al bicchierino di vetro pieno di thè alla menta. La boqala, poesia strettamente femminile e urbana, è anonima e raramente viene riportata se non oralmente.
Con le mani ho tagliato la carne
con le mani l’ho cosparsa di spezie
e con le orecchie ho ascoltato
le calunnie di chi ho conosciuto.
oh tu, malalingua, cosa vuoi guadagnare?
Il leone nella foresta lascia i cani abbaiare.
Tra me e te una piccola finestra,
grande quanto un bicchiere,
restano tra noi le nostre parole, che c’entra la gente?
La fama è come piombo:
quand’è fuso, si perde.
Da Smirne veniamo; dal mare, siamo infine approdati.
Portiamo il firmano del sultano,
l’han letto l’ufficiale e il capitano.
Gioisci, cuore in attesa, torniamo
e piova l’invidia dagli occhi di chi non ci ama.
Passava un giovane, un ramo scuro tra le mani.
La shashia cadeva bene sulla fronte, la veste era splendente.
I figli miei e lo sposo lascerei per lui
la mia città abbandonerei
fino a esser estranea alla mia gente.
Oh moro, dolce moro, che grazia il tuo vestito,
tu sei tra i gelsomini e rivaleggi coi narcisi.
Per te m’hanno schernito e in seguito invidiato.
Tu sei l’anello d’oro, io la gemma che l’adorna
per contendere il tuo cuore a lottare sono pronta.
L’amore è in casa nostra, l’amore ci alleva.
L’acqua del pozzo dolce, l’amore solleva.
Apre come il basilico, l’amore i suoi rami.
Non asservito al sultano e neppure al qadi.
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