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Posts Tagged ‘francia’

Il mappamondo tragico, triste realtà

17 novembre 2015 1 commento

Parigi: “la beautè est dans la rue”. La xenofobia non ha terreno.

16 novembre 2015 Lascia un commento

Ancora una volta possiamo dire che queste parola rappresentano la Francia,
non il suo governo, non il suo stato d’emergenza, non la chiusura delle frontiere, non i bombardamenti.
Ma la bellezza per le strade.

La città di Parigi ha subito un attacco pesante, simultaneo, militare: si è trasformata in pochi secondi nella capitale del terrore occidentale. Pensate se fosse stata Roma, o Milano, Verona, Torino, Bari.
Provate ad immaginare se fossero entrati all’Olimpico, e magari contemporaneamente avessero falciato tutti quelli seduti ai tavolini del Marani, o del bar dello sport di qualche quartiere, uno a caso tra i tanti.
Immaginate le reazioni, le prime pagine (che già a distanza abbiamo dato il massimo),
immaginate la fuoriuscita dei nazisti dell’Illinois, della xenofobia,
immaginate i titoli oltre alle sirene, le ambulanze, le perquisizioni, i posti di blocco, gli elicotteri bassi, l’assedio. Non c’è cosa che più rappresenta il “terrore”.

Io se penso a Roma protagonista di una cosa simile immagino solo il terrore del giorno dopo,
il terrore che solo la fascistizzazione di un intero popolo può mettere, altro che i Kalashnikov.

Pensate alla prima pagina di Libero, pensate agli interlocutori in televisione, pensate a quante volte avete sentito dire la parola Islam nei nostri telegiornali, articoli, editoriali, blablabla vari: qui parliamo della Fallaci, e altre parole non servono.
Date un occhiate, oltre che al sangue sui marciapiedi, a come i francesi e la stampa descrivono la situazione: cerchiamo di imparare almeno a parlare da un popolo che mai si è fatto fregare nella quotidianeità delle sue strade, alla faccia delle decisioni dei suoi governi.

E per dimostrare questo basta questo piccolo video,
basta vedere quattro fascistelli xenofobi come son stati trattati dalla piazza:

la beautè est dans la rue, si urlava nel ’68 lanciando sampietrini.
Questo video dimostra che ce ne è rimasta un po’ di quella bellezza: questa è la sola risposta possibile e non certo la polverizzazione della centrale elettrica di Raqqa. Spazzare via dalle nostre strade l’esclusione, la xenofobia, i fascismi vecchi e nuovi.
Proteggere i rifugiati, il loro diritto al cammino, abbattere le frontiere, distruggere i centri di detenzione.

Ucciso Remi Fraisse: uno di noi.

27 ottobre 2014 1 commento

Sarebbe stato ucciso da una granata assordante,
Rémi, 21 anni, uno di noi. Previste per oggi manifestazioni in tutta la Francia, mentre nel pomeriggio si avranno notizie più approfondite sulla causa della morte, già così palesemente chiara.

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Durante la notte di domenica 26 ottobre Remi Fraisse, giovane studente di Tolosa di 21 anni, è morto durante gli scontri con la polizia a Testet, nei pressi del cantiere dove le autorità francesi vogliono costruire la mega- diga di Siviens.

Questa grande opera da 1,3 milioni di metri cubi d’acqua sarà un affare per le grandi aziende d’agricoltura industriale (a discapito dei piccoli contadini) e comporterà la distruzione di tutto quel territorio che ospita molte specie protette di animali.

La ZAD (zona a defendre-zona da difendere) durante l’estate era stata più volte attaccata dalla polizia e sabato migliaia di persone avevano risposto all’appello di manifestazione in difesa del territorio e contro le grandi opere.

Gli scontri con la polizia sono incominciati sabato pomeriggio, verso le 16, con la polizia presente in grandi numeri e già durante le prime ore molti sono i feriti tra i manifestanti (5 portati in ospedale).

Il sangue di Remi trovato a terra dai compagni

Durante la notte, tra le 2 e le 3 del mattino, i manifestanti raccontano di lacrimogeni sparati ad altezza uomo e di granate stordenti fino a quando, prima di un lancio intensivo, un plotone di polizia è avanzato per raccogliere una persona a terra. Questa scena è stata vista chiaramente da  tutti, poiché la grande presenza di mezzi dalla polizia illuminava “a giorno” l’area degli scontri. Diversi video su quella notte stanno girando sul web.

l corpo di Remì è stato quindi subito preso dalla polizia e l’autopsia renderà note ai più le ragioni della morte lunedì pomeriggio anche se chi è stato sul luogo degli scontri, chi ha partecipato a quella notte di lotta, riferisce già da ieri la dinamica di quanto è successo, lasciando pochi dubbi su cosa abbia ucciso Remi: una granata stordente lanciata dalla polizia lo ha colpito lasciandolo a terra.

Guardando quelle immagini di scontri non possiamo non riconoscere una situazione vissuta da noi tante volte, i gas lacrimogeni lanciati ad altezza uomo che infestano l’aria e rendono le persone facili bersagli per chi gioca a fare la guerra. Riconosciamo nei ragazzi di ZAD, che abbiamo avuto modo di incontrare più volte anche qui in valle, quella stessa determinazione e quello stesso coraggio che anche noi abbiamo dovuto mettere in campo molte volte sfidando divieti e le truppe di occupazione.

Leggiamo nella loro testardaggine l’amore per la propria terra e la volontà di difenderla, di non cedere il passo a polizia e potenti di turno.

Vediamo in Remì uno dei nostri ragazzi e per questo ci stringiamo attorno ai suoi compagni, familiari ed amici.

La lotta sarà la risposta a questa inaccettabile morte.

Forza ZAD!

L’impatto di una granata assordante a terra…

Prospero Gallinari, un anno fa

13 gennaio 2014 5 commenti

Prospero ci ha lasciati il 14 gennaio dello scorso anno,

Foto di Valentina Perniciaro : i funerali di Prospero Gallinari, Coviolo 2013

si è accasciato poco dopo esser uscito di casa e se ne è andato, quel rivoluzionario di altri tempi, di altri luoghi, di storie di cui la memoria collettiva sembra scordarsi, se non quando qualche deriva dietrologica o giustizialista li trascina fuori.
Non ci si ricorda della “brigata ospedaliera” che di lui si prese cura, non ci si ricorda di tante cose…

Prospero Gallinari, rivoluzionario, uomo del 900, contadino, uomo più unico che raro,
che come ultimo regalo ci ha donato i suoi funerali, che per ognuno di noi sono stati una grande emozione.
Chiunque ha calpestato quella neve, in quella fredda giornata di un gennaio emiliano, porta dentro di sè un calore raro,
il calore della “generazione più felice e più cara“, che noi abbiamo avuto solo modo di sfiorare,
di aspettar fuori dalle galere, di osservare invecchiare ed ora lentamente morire.
In un oblio che fa tanta rabbia.
Prospero ci ha fatti stare tutti insieme quel giorno, ha permesso un funerale non solo suo, ma anche di tutti gli altri, di tutti quelli che non hanno potuto ricevere lo stesso saluto, di quelli caduti sull’asfalto o lasciatisi morire penzoloni in una cella.
Quel giorno, tra i nostri canti stonati, li abbiamo urlati tutti i nomi di quelli che non avevamo mai potuto seppellire così, tutti insieme, cantando piangendo e ridendo: quel giorno abbiamo seppellito Mara e Walter, quel giorno Annamaria, come Riccardo o Ennio, come tanti e tanti altri sono stati seppelliti nel calore dei loro compagni, della loro storia.

Altri nomi sono stati urlati poi… i nomi degli assenti;
di tutti coloro che ancora scontano quegli anni sulla propria pelle e non possono spostarsi.
I detenuti come gli esuli, quel giorno eravamo tutti insieme.
Chi si è fatto fino all’ultimo giorno di carcere,  chi ha rosicchiato libertà usufruendo della clemenza di Stato: quel giorno per un po’ si è stati tutti insieme, e la neve s’è sciolta d’emozione.
E allora grazie, che mi hai regalato un pezzettino di voi, anche a me, che vengo da un mondo altro.
Che fa pure un po’ schifo.

Un funerale che ha dato fastidio, almeno alla Procura di Bologna, forse a corto di lavoro interessante: ben 4 son le persone indagate per “istigazione a delinquere in concorso” per aver partecipato al funerale.
Un funerale, scambiato per terrorismo … pensa che risata ti sarai fatto.

CIAO GALLO!

Voglio lasciarvi con una carrellata di link, con i racconti di quei giorni, con del materiale su Prospero Gallinari…
tutte cose che ogni tanto fa bene rileggere…

Link
A Prospero Gallinari volato via troppo presto
Ciao Prospero
Fine di UNA storia, LA storia continua
Chi era Prospero Gallinari
Mai alcuna confessione di innocenza, Prospero
In memoria di Prospero Gallinari di Oreste Scalzone
Su Prospero Gallinari di Salvatore Ricciardi
Prospero Gallinari, un uomo del 900
Gallinari è morto in esecuzione pena. Dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari

Gallinari e Caselli, il confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
Scalzone: Gallinari come Prospero di Shakespeare, “la vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”

“Volevo dirgli grazie per avermi fatto capire la storia di quegli anni”. Una testimonianza sui funerali di Prospero Gallinari
Perché sono andato ai funerali di Prospero Gallianari by Stecca
Al funerale di Gallinari la generazione più felice e più cara

Eurosur: la nuova “fortezza Europa” con droni, satelliti, muri… altro che Grande Fratello!

3 dicembre 2013 5 commenti

Nessun in questo paese sembra accorgersi di certe notizie,
non hanno spazio nemmeno minimo, non creano nè indignazione nè tantomeno un minimo di dibattito,
non arrivo a pensare ad una rivolta o sommossa popolare.

Centro di controllo Eurosur a Varsavia

E’ il silenzio che mi sconcerta, l’incapacità di capire (e siamo i primi, compà!) che il grimaldello è l’immigrazione.
Sono i confini, la segregazione di corpi colpevoli di movimento, la xenofobia che latente e nemmeno troppo silenziosa si intrifula nella nostra quotidianità.
Vivo da 4 mesi in un reparto molto delicato del Bambin Gesù, vi assicuro che nemmeno lì, nemmeno tra mamme si è esenti dal vedere segregazione e xenofobia: la solitudine che vivono le “mamme” straniere, da tutti (DA TUTTI, soprattutto quelli dai santini ovunque e dal pregare senza sosta) isolate, impossibilitate ad avere un aiuto, una traduzione, un sorriso.
Niente: nemmeno lì,
nemmeno in una terapia intensiva neonatale le sovrastrutture anti “diverso” perdono terra sotto i piedi, anzi, si incancreniscono in modo osceno.

Vi lascio quindi con la notizia, in questo articolo di Michele Vollaro, che ringrazio.

Sembra banale e ripetitivo, ma la “Fortezza Europa” si avvicina sempre più a quella società distopica con a capo un Grande Fratello, immaginata da George Orwell in 1984. L’ultimo sviluppo in questo senso è l’entrata in funzione ieri 2 dicembre, primo lunedì del mese, di Eurosur, un sistema che grazie a satelliti, elicotteri e ovviamente droni senza pilota consentirà di ampliare le capacità di monitoraggio delle frontiere dell’Unione Europea da parte dell’attuale Frontex, l’Agenzia incaricata della gestione della cooperazione internazionale lungo i confini esterni degli stati membri dell’UE.
Nei documenti ufficiali, fra gli obiettivi dell’Eurosur viene indicata la riduzione del flusso dei migranti irregolari, oltre alla diminuzione, grazie a delle più vaste operazioni di salvataggio, del numero delle vittime fra chi cerca di giungere in Europa attraversando il Mediterraneo. Altra finalità sarebbe poi quella di consolidare la sicurezza all’interno dell’UE con una sinergia nel constrasto alla criminalità transnazionale, al traffico della droga e delle persone. Come ottenere tutto ciò? Grazie ad un budget iniziale di 244 milioni di euro da utilizzare tra il 2014 ed il 2020, anche se non è escluso che lo stanziamento finanziario venga aumentato in caso di necessità. In ogni caso una cifra di tutto rispetto considerando che è quattro volte le spese sostenute negli ultimi sei anni per tutti i programmi Frontex nel mar Mediterraneo.

un giorno la guerrà finirà ed io tornerò alla mia poesia (di Eva Ziedan)

Ieri il sistema Eurosur è entrato in funzione in Bulgaria, Estonia, Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia e Finlandia, cioè intanto in quei paesi le cui frontiere rappresentano il confine “esterno” dell’UE. Gli altri stati membri seguiranno soltanto a partire dal dicembre del prossimo anno, quasi come a dire un regalo di Natale alla volta.

Nonostante sui media italiani – almeno sui principali, i cosiddetti main-stream – non vi sia praticamente traccia della notizia, che invece occupa ampio spazio in Germania e Francia, le critiche al nuovo programma sono state aspre e numerose. Su tutte credo basti il commento di Human Right Watch, che in un comunicato diffuso dal suo ufficio di Berlino ha semplicemente scritto “Eurosur rafforza soltanto il ruolo di Grande Fratello che l’agenzia Frontex porta avanti nella regione del Mediterraneo, sigillando la ‘fortress Europe’ ancora più di quel che già è”.

Un ruolo, quello del grande fratello, che i funzionari di Frontex non rigettano, anche se giustamente (da parte loro) preferiscono mettere l’accento sull’impossibilità di monitorare le frontiere esterne dell’UE nella loro interezza, a meno dell’utilizzo della tenologia più moderna. Lo stesso coordinatore del progetto, Michael Juritsch, ha ammesso che la scelta del nome Eurosur possa essere stata leggermente infortunata: dall’inglese “European surveillance”, il nome ufficiale in italiano è “sistema europeo di sorveglianza delle frontiere”.

“In realtà Eurosur è giusto un quadro normativo – ci tiene a specificare Juritsch all’emittente radiofonica tedesca Deutsche Welle – per rendere disponibili agli stati membri nuovi e differenti strumenti e garantire lo scambio delle informazioni”. 244 milioni di euro in sei anni per garantire l’istituzione di un quadro normativo…
E’ significativo leggere nel regolamento istitutivo di Eurosur, approvato dal Parlamento europeo lo scorso 10 ottobre e poi dodici giorni più tardi dal Consiglio UE, che il compito di Eurosur oltre a “prevenire e combattere l’immigrazione clandestina” sia anche quello di “garantire la protezione e la salvezza della vita dei migranti”.

mare nostrum

Questa frasetta che chiude il primo articolo del regolamento istitutivo di Eurosur illumina infatti ciò che sta succedendo al di là di queste frontiere esterne della nostra cara UE, anche se prima di uscirne vorrei segnalare un altro interessante programma finanziato da Bruxelles, questa volta con poco meno di una ventina di milioni di euro in sette anni.
Traduco soltanto la prima frase della didascalia al video presente sul sito dello Spiegel e le parole del responsabile per progetto ‘Talos’, David Gutierrez Gonzales, al minuto 2:20, più o meno: “Potrebbe portare alla protezione ottimale delle frontiere esterne dell’UE contro fastidiosi flussi di migranti” e “Nella fase di sviluppo del progetto avevamo pensato di aggiungere anche delle armi non-letali, ma l’UE ha detto che in questa fase non è necessario”.

Bene! Le nostre frontiere esterne da ieri quindi sono più sicure grazie alla videosorveglianza con satelliti, droni e robot. Ma ricordiamoci che tutto ciò è stato fatto per salvaguardare la vita dei migranti… Infatti è per questo motivo che in Turchia stanno costruendo un muro lungo il confine con la Siria (e qui bisognerebbe aprire anche una lunga parentesi, perché poco si parla dei negoziati tra Turchia ed Unione Europea riguardo all’armonizzazione delle politiche sull’immigrazione in vista di un futuro ingresso tra gli stati membri o dei finanziamenti europei ad Ankara per costruire in territorio turco nuovi centri di identificazione ed espulsione dei migranti, per evitare che questi arrivino in Europa e possano essere espulsi direttamente prima). Ma torniamo al muro in Turchia, ufficialmente in via di costruzione per evitare che i militanti jihadisti che combattono in Siria contro il regime di Assad possano infiltrarsi nel territorio turco, ma costruito evidentemente per impedire ai cittadini della Siria di fuggire da un conflitto che va avanti da oltre due anni e che avrà ripercussioni negative anche nel dialogo con il popolo curdo, disperso tra i vari paesi che compongono oggi la Mesopotomia.

Ma evidentemente quella dei muri è una tendenza recente, una moda a cui stati e governi ai margini della fortezza Europa sembrano guardare interessati in questa stagione autunno-inverno. Dopo le prime notizie a metà ottobre sul muro turco, infatti, qualche settimana fa si è saputo che lungo la linea di demarcazione tra le enclaves spagnole di Ceuta e di Melilla e il Marocco le autorità di Madrid avevano eretto di nuovo la barriera di filo spinato che era stata tolta una prima volta nel 2007, dopo le proteste per le profonde lesioni che questo filo spinato provocava ai migranti che tentavano la traversata. Come si è saputo? Ah beh, un migrante che cercava di raggiungere Melilla è morto lo scorso 5 novembre dopo aver provato a scavalcare la rete… Una prova evidente che il sistema funziona ed è quindi per questo motivo che ora è il turno del Marocco, che avrebbe intenzione di alzare una rete di filo spinato lunga 450 chilometri lungo la sua frontiera settentrionale con l’Algeria, proprio allo scopo di evitare che i migranti possano provare poi a raggiungere Ceuta e Melilla.

Che altro dire? Videosorveglianze e fili spinati per salvaguardare la vita dei migranti, almeno finché l’Unione Europea non riterrà necessario cominciare a piazzare anche un paio di armi su quei droni e quei robot teleguidati che pattugliano i nostri sacri confini. Poi forse sarà il caso di togliere quella frasetta su “garantire la protezione e la salvezza della vita dei migranti”…

Michele Vollaro

LEGGI:
Siamo tutti ASSASSINI
Mare nostrum: un cimitero liquido
Il mare della morte
La strage di Catania
I corpi sugli scogli

Sonja Suder e la libertà, FINALMENTE!

14 novembre 2013 2 commenti

Una bella notizia dopo settimane di gelo.
Assaporo un po’ di libertà, ormai lontana sconosciuta, attraverso le foto del tuo volto finalmente libero.
Sono felice Sonja,

Splendida! Sonja Suder, 12 novembre 2013

Grazie a quelle immagini viste quasi per caso; nella mia nuova vita fuori dal mondo, dove lo schermo del computer è mutato in altro tipo di monitor,
dove il wi-fi è stato sostituito da milioni di cavi e tubi e fili e cavi, che circondano corpi per legarli a monitor, macchine, aghi (corpi piccolissimi)…
grazie a quelle tue rughe impegnate in un sorriso ho vissuto qualche istante di felicità intensa.

SEI LIBERA!
Posso pensare che a breve sentirò il tuo abbraccio, fortissimo e vibrante che tanto mi aveva colpito.
Mi hai parlato subito come una sorella, hai pianto tra le mie braccia chiedendomi di portare la carrellata di emozioni che mi passavi al di là del confine, sulle labbra di un uomo che aveva finito il suo esilio tra le sbarre, nuovamente.
E’ toccato a te poco dopo, in un arresto surreale che ci ha lasciati tutti basiti, non solo per la follia giudiziaria ma anche per la tua età (ora sono 81), e quella di Christian.

Tra i tuoi compagni…

Sei libera cavolo, la montatura si è sbriciolata, la libertà è di nuovo infilata tra le pieghe del tuo viso.
Qui, anche se la felicità non sappiamo più da che lettere è composta, sentiamo il brivido di chi sa che tra un po’ ci si riabbraccia tutti.
Alla faccia dei confini, delle galere, dei tribunali …

Qui un po’ di link sulla  storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione

Mobilitazione internazionale per Sonja Suder: LA VOGLIAMO LIBERA!

29 agosto 2013 2 commenti

Ho seguito la loro vicenda dal primo istante,
e non solo perché ho lo sguardo e il sorriso di questi due compagni ancora nel cuore,
non solo perché ricordo il vino bevuto assieme attorno ad un tavolo di rifugiati che lottava per bloccare la loro imminente estradizione. Una battaglia andata male, perché poche settimane dopo son stati catturati,

Manifesto ad Amburgo: “_Oggi come allora – mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l’accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _”

malgrado gli 80 anni di Sonja (ora sono 81) e le non buone condizioni di salute di Christian, che infatti ha avuto un arresto cardiaco poco dopo il suo arresto.
Scopro solo ora, provbabilmente con infinito ritardo (come tutto in questi giorni) di questa mobilitazione internazionale per loro, e soprattutto per la liberazione IMMEDIATA di Sonja.

Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione

14 Settembre 2013 – Mobilitiamoci ovunque per protestare contro la legittimazione della tortura nel processo a Sonja Suder e per la sua liberazione.

Il 14 Settembre 2011, Sonja ed il suo amico Christian sono stati estradati dalla Francia e consegnati agli sbirri tedeschi per poi essere incarcerati. Christian è stato liberato, ma Sonja resta ancora dentro.
Hanno lasciato la Germania nel 1978 quando, dopo una dura repressione contro i movimenti rivoluzionari, ogni persona coinvolta nelle proteste radicali doveva temere di essere il bersaglio della vendetta di stato.

Per due anni, Sonja è rimasta in custodia nella prigione di alta sicurezza di Francoforte-Preungesheim; per un anno è stata sotto processo in base a due testimonianze: una di un pentito e l’altra fornita sotto tortura nel 1978 da un uomo sospettato di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Se il pentito (infame) Hans-Joachim Klein ha testimoniato senza vergogna nel tribunale di Francoforte dando l’ennesima versione piena di contraddizioni (che comunque il giudice crede di accettare), Hermann F., al contrario, ha sempre contestato il contenuto della sua testimonianza: ciò che ha detto fu solo il risultato di quattro mesi di torture al di fuori di ogni procedura legale.

Dopo un gravissimo incidente venne interrogato poco dopo l’amputazione delle gambe e l’essere rimasto totalmente cieco. Dolore, trauma, droghe, isolamento, confusione, disorientamento lo hanno costretto a riempire 1300 pagine di dichiarazioni forzate. Detenuto illegalmente in una stazione di polizia senza contattare un avvocato, senza aiuto, in oltre cieco e gravemente invalido, ciò che ha subito può essere definito solo tortura.

Il 13 Agosto 2013, il tribunale di Francoforte ha iniziato la lettura di queste testimonianze date da Hermann nel 1978. La lettura continuerà nelle prossime udienze. L’ottantenne Sonja, dopo più di 35 anni dai fatti che le vengono contestati, potrebbe essere condannata in base a delle dichiarazioni il cui uso significa legittimare legalmente la tortura
poliziesca.

Sonja è stata accusata dalla polizia e dalla giustizia tedesca fin dalla fine degli anni 70. Sospettata di aver fatto parte delle Cellule Rivoluzionarie, il suo processo riguarda tre attacchi che hanno causato solo limitati danni materiali nel 1977 e 1978: Contro M.A.N. che contribuiva all’armamento atomico per il Sud Africa (durante l’apartheid), contro KSB che costruiva impianti per le centrali nucleari; contro il castello Heidelberg per protestare contro la gentrificazione; è inoltre sospettata di aver preso parte all’organizzazione logistica dell’attacco al OPEC a Vienna nel 1975.

Oggi, tenendola sotto processo e prigioniera, la minaccia di farla morire in carcere, lo stato federale non mira solo a Sonja. Lo stato vuole vendicarsi di una storia rivoluzionaria e far capire alla gente che non si protesta impunemente.
La condanna di Sonja sarà la condanna alla ribellione: rifiutandosi di collaborare e parlare lei continua ad accusare lo stato e il suo carnevale giuridico. La prigionia di Sonja sarà uno spauracchio usato per spaventare tutti quelli che lottano oggi. Non è una donna ottantenne il bersaglio della vendetta, lo sono tutti quelli che, come lei, non vogliono sottomettersi.

Sonja deve tornare libera! Per una mobilitazione internazionale il 14 Settembre 2013!

Port Said: quando l’Egitto parla di autogestione e lotte operaie

27 febbraio 2013 2 commenti

Leggo questo reportage da Port Said col cuore sospeso.
Perché appena caduto Mubarak, dopo nemmeno 4 giorni,
siamo corsi proprio lì a vedere come la rivoluzione procedeva (in quei giorni si gioiva e basta) in quel territorio e in quello di Mahalla al-Kubra e Tanta, due importanti centri industriali e tessili del paese.
Mahalla aveva vissuto i grandi scioperi,
la chiusura forzata e continuativa delle fabbriche, le braccia incrociate nei campi di cotone…
Port Said era una città praticamente a rilento.
Il canale di Suez che mai per decenni e decenni si era fermato non vedeva muoversi una goccia d’acqua : gli scioperi che avevano bloccato tutto stavano terminando ma il giubilo era troppo perchè si potesse tornare ai ritmi soliti in poco tempo.
Una situazione elettrizzante, che poi ha subito anche lo sventramento di tutta la vicenda dei 75 morti allo stadio: pagina buia, molto buia del nuovo Egitto, soprattutto con le 21 condanne a morte.
Dove a pagare son sempre gli stessi, e non i mandanti e i responsabili politici.

Col cuore sempre in subbuglio seguo le vicende di quelle città, sempre obnubilate dallo spazio dato a Tahrir, almeno sulla stampa europea.
quindi queste righe pubblicate oggi da Infoaut sono una boccata d’aria: a dir poco bella!
buona lettura

Egitto. L’autogestione di Port Said e le lotte operaie

Una realtà senza precedenti si sta realizzando nella città di Port Said: una completa autogestione, un rifiuto di tutto ciò che rappresenta l’autorità. Una realtà che i protagonisti delle lotte egiziane di questo momento – i lavoratori – stanno cercando di riprodurre anche in altre città.

Port Said è diventato un luogo completamente nelle mani del popolo. All’entrata della città, se in passato molti erano i posti di blocco della polizia, adesso si trova un check-point formato però dagli abitanti, soprattutto lavoratori in sciopero, autoproclamatisi “polizia popolare”. La stessa cosa vale per il traffico: non più vigili urbani, ma giovani, studenti e lavoratori che autogestiscono il traffico urbano. photo P1000147_3308x2481_zps07e33c93.jpg

Disobbedienza civile: ciò che caratterizza adesso la città è un completo rifiuto del governo di Morsi in tutte le sue forme, dunque cacciata della polizia, rifiuto del lavoro e del sistema scolastico governativo.

Per quanto riguarda il fattore “sicurezza”, con l’autogestione, le strade risultano adesso più sicure che mai. La polizia – a seguito delle proteste di piazza, della rabbia popolare seguita alle 21 condanne a morte legate alla strage di Port Said e alle 40 vittime dei successivi scontri – la settimana scorsa si è vista costretta ad accettare di lasciare la città nelle mani del popolo.
Il governo Morsi ha accettato di richiamare la polizia sia per le inconfutabili prove video che mostrano poliziotti del regime sparare ed uccidere a  photo P1000148_3308x2481_zpsc574a820.jpgsangue freddo i manifestanti, ma anche perché convinto che una città da sola non avrebbe potuto autogestirsi e che Port Said avrebbe richiesto l’intervento del governo per sedare le probabili rivolte. Invece la realtà è molto diversa e mostra che una città senza le “forze dell’ordine” è più sicura e vive meglio. 

Vi è poi un tacito accordo che permette all’esercito (maggiormente rispettato dal popolo in quanto tradizionalmente meno legato al regime rispetto alla polizia, emanazione questa del potere e dei servizi segreti) di presidiare i punti nevralgici della città, ma senza potere di intervento.

Dunque la realtà è questa: militari inermi a presidiare luoghi come il tribunale e l’importantissimo porto (adesso in sciopero) e la “polizia popolare” che si occupa della sicurezza nella città.
Il rifiuto di tutto ciò che rappresenta l’autorità si ritova nella pratica di non pagare tasse governative e bollette, rifiutando anche qualunque comunicazione con il governo sia centrale che locale.

La chiusura del governo centrale e l’autorganizzazione di mezzi e modi di produzione, rendono l’esperienza di Port Said una realtà senza precedenti ed una sperimentazione di un nuovo modo di vivere, di produrre, di esistere.

Le fabbriche sono chiuse, il traffico marino è bloccato, si produce ciò solo che serve e rimangono aperti solo i servizi necessari.
 photo P1000156_3308x2481_zpsd8cf9433.jpgSi produce il pane (nella foto a destra un negozio che vende pane a prezzi popolari; i cartelli indicano le ragioni della protesta); gli alimentari, gli ospedali e le farmacie rimangono aperti. In ogni fabbrica, sono gli operai a decidere se continuare la produzione o meno e la risposta generale adesso è NO. Prima giustizia, prima completamento della rivoluzione e poi, semmai, ripartirà la produzione.

Una nuova forma di autorganizzazione si sta sperimentando anche nelle scuole. Queste rimangono aperte ma le stesse famiglie di Port Said rifiutano di mandare i propri figli nelle scuole del governo. Proprio in queste ore insegnanti e comitato popolare stanno cercando di organizzare scuole popolari nella piazza centrale, rinominata la Piazza Tahrir di Port Said, in cui, accanto alle materie scolastiche si vorrebbero insegnare la giustizia sociale e i valori della rivoluzione egiziana.

Una realtà che può sembrare impossibile. Anche sulle pagine di questo portale abbiamo in passato raccontato l’esperienza di Port Said con altri occhi. Ma dopo la condanna a morte dei 21 imputati per la mattanza dello stadio, una nuova coscienza popolare è sorta in questa città, probabilmente in passato molto tradizionalista. Infatti, ad essere condannati sono stati 21 giovani, prevalentemente studenti, mentre la colpa della mattanza va ricercata in ambito politico; la sentenza sembra essere stata più un contentino dato a chi cercava giustizia. Nessuno degli imputati proviene dalle fila della polizia o dello stato e dei suoi servizi segreti. Questo Port Said l’ha capito e, appena le condanne a morte sono state emesse, sono scoppiati forti proteste che hanno portato all’uccisione di una quarantina di manifestanti, alcuni dei quali addirittura durante i funerali delle vittime degli scontri di piazza. Da qui è iniziato lo sciopero, la disobbedienza civile.

Una realtà che anche noi stessi, prima di vederla con i nostri occhi, non avremmo mai immaginato.

Una rabbia, inizialmente nata da una voglia di giustizia per le condanne a morte e per le successive 40 vittime, ma che poi è cresciuta ed è diventata politica. Il forte protagonismo operaio, la crescita di coscienza della popolazione di Port Said hanno reso questa protesta una lotta senza precedenti che tanto fa tremare il regime di Morsi. Una lotta che, se realizzata anche in altre città, potrebbe veramente mettere il regime in ginocchio.

Adesso non si chiede più, come era appena una settimana fa, di non punire i cittadini di Port Said per colpe che invece ha commesso il regime. Adesso si chiede una giustizia per tutte le vittime della rivoluzione, adesso si chiede a gran voce la caduta del regime. 

Nella giornata di lunedì una grande manifestazione si è tenuta nelle strade di Port Said: photo P1000180_3308x2481_zps582517b6.jpg sindacato indipendente dei lavoratori, studenti, movimento rivoluzionario, in molti sono scesi in piazza, in molti sono partiti dal Cairo per portare solidarietà ai lavoratori ed alla città in lotta. Un grande corteo ha invaso le strade della città, appellandosi ad uno sciopero generale in tutto il paese. 

Intanto altre città egiziane hanno in queste ultime settimane sperimentato grandi scioperi: a Mahalla, Mansoura, Suez gli operai di molte fabbriche hanno incrociato le braccia per settimane. Allo stesso modo in centinaia sono scesi in piazza per invocare lo sciopero generale in tutto il paese, molte le scuole e le università che hanno annunciato un prossimo sciopero generale. Molti i lavoratori ed i settori sociali che stanno scioperando senza però riuscire – per adesso – a generalizzare lo sciopero e la lotta, come avvenuto invece a Port Said.

Non si sa quanto quest’esperienza, chiamata “la comune di Parigi egiziana”, possa continuare. Sicuramente è difficile portare avanti una lotta di questo genere in un momento in cui il potere centrale potrebbe staccare acqua ed elettricità e, per ora, se non lo fa è solo perché teme maggiori espolosioni di rabbia. Inoltre, il proseguimento o meno dello sciopero dei lavoratori, è fortemente legato alla possibilità che questo si generalizzi e si riproduca anche in altre città.

Inizialmente gli abitanti di Port Said avevano annunciato di voler continuare lo sciopero fino al 9 prossimo marzo – data in cui verranno confermate le 21 condanne a morte – adesso, con il protagonismo dei lavoratori, il futuro si presenta incerto, ma sicuramente ricco di potenzialità.
Le difficoltà al momento potrebbero sembrare tante, ma la presa di coscienza di tutto il popolo (dunque non solo operaia), la pratica del rifiuto del regime, l’autorganizzazione, sono tutti elementi che sembrano dare delle prospettive positive a queste lotte.

La corrispondente di Infoaut dall’area mediorientale

Leggi anche: Lo stupro del branco come arma politica

Egitto: sciopero generale !

12 febbraio 2012 1 commento

Così come lo scorso anno la caduta del regime non è stata frutto solamente dello spontaneismo e dell’imponenza di Tahrir,
ma dell’enorme lavoro portato avanti in anni di lotte sui posti di lavoro, nei campi, negli scioperi generali, nel canale di Suez e nelle fabbriche…
Così ora è nelle loro mani l’avanzata di un processo rivoluzionario.
Nessuna altra strada esiste se non il portare il conflitto e la lotta nella quotidianeità dei posti di lavoro, tutti; con la nascita costante di organizzazioni capaci di canalizzare le energie e creare una coscienza di classe e operaia in grado di spazzar via gli anfibi del regime, così come quelli dell’esercito che dovrebbe garantire la transizione,
e che ovviamente sta garantendo solo la repressione, il terrore, l’annullamento del processo rivoluzionario.
LUNGA VITA ALLA RIVOLUZIONE EGIZIANA… TAHRIR IN OGNI POSTO DI LAVORO!

Vi allego, come sempre 😉 un articolo di Infoaut

Secondo gli organizzatori è stato “un vero successo!” lo sciopero generale del movimento rivoluzionario egiziano. E a parlare sono anche le cifre, come sempre ridotte all’impossibile, che sono state costrette a rendere note le fonti ufficiali: “almeno il 60% dei lavoratori”. La grande iniziativa di lotta era stata lanciata in un percorso politico e sociale tutto in salita perché se è vero che sabato scorso era il primo anniversario delle dimissioni di Mubarak non era affatto scontato che l’occasione da farsa celebrativa (per il potere) si tramutasse in giornata di lotta in continuità con il processo rivoluzionario.
Gli Imam e gli esponenti politici di spicco del movimento islamista moderato dei Fratelli Musulmani si erano sgolati tutta la settimana per sabotare lo sciopero
condannandolo duramente e invitando gli egiziani a non prendere parte all’iniziativa che avrebbe potuto trascinare nel caos l’economia egiziana. In perfetta sintonia con la fazione islamista anche i rappresentanti politici e clericali della comunità cristiana che si sono uniti al coro del ritorno all’ordine e alla pace sociale.
Eppure lo sciopero c’è stato e ha fatto male alla controparte individuata dal movimento nella giunta militare, lo Scaf, che venerdì in una nota si era detto molto preoccupato per i complotti in corso contro lo stato e per uno sciopero che a dir loro avrebbe messo a repentaglio gli esiti della rivoluzione.

Foto di 3arabawy

All’indomani della strage dello Stadio di Port Said il movimento ultras di Piazza Tahrir aveva fatto appello alla vendetta contro la giunta militare ritenendola responsabile della punizione contro una delle tifoserie più attive della piazza rivoluzionaria. Ne erano seguiti giorni di scontri violentissimi nei pressi del Ministero degli Interni in cui erano stati uccisi dalla polizia anche numerosi manifestanti. Lo sciopero generale di sabato era stato indetto proprio in questo contesto altamente conflittuale anche con l’obiettivo di dare uno sbocco alla forza politica che il movimento stava esprimendo sulle barricate. Solo venerdì decine di migliaia di manifestanti erano riusciti a raggiungere il Ministero della Difesa scandendo lo slogan delle ultime settimane “il popolo vuole giustiziare il federmaresciallo” esortando a continuare la lotta e a costruire per il giorno dopo (il sabato dello sciopero) una importante iniziativa.

Allo sciopero generale, oltre a settori del pubblico e del privato, hanno preso parte anche diverse università e moltissimi studenti medi che fin dalle prime ore del mattino hanno presidiato gli edifici dei propri istituti per poi muoversi in corteo scandendo slogan contro lo Scaf. In questo modo il processo rivoluzionario si è mostrato per quello che è: radicatissimo nel cuore dei rapporti sociali del paese, tra fabbriche, università e quartieri.

Lo sciopero generale di sabato è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi: ha mostrato la completa autonomia del movimento, è riuscito a dare sbocco politico e sociale all’alta conflittualità raggiunta negli scontri di piazza degli ultimi giorni, e, elemento decisivo, sta continuando a provocare le controparti (Scaf, potere esecutivo, e Fratelli Musulmani, potere legislativo) facendole emergere per quello che sono: il blocco reazionario in marcia. Viste le cifre di adesione allo sciopero c’è da chiedersi quanti elettori del movimento islamista vi hanno preso parte non curanti degli appelli ad andare al lavoro ripetuti dalla fratellanza, e come avranno digerito le dichiarazioni dei propri eletti all’assemblea parlamentare che per alcuni giorni hanno parlato in sintonia con le dichiarazioni della giunta militare evocando complotti contro lo stato di chissà quale potenza oscura.

Un nuovo goal per il movimento rivoluzionario egiziano, che c’è da crederlo fino a quando non raggiungerà l’obiettivo minimo di scacciare i militare dal potere non lascerà la piazza, ma anzi sembra proprio ben attrezzato per raggiungere anche ben altri e importanti grandi scopi.

LEGGI IL RESTO SULL’ EGITTO: QUI

Egitto: scoppiati ora pesanti scontri davanti al ministero dell’interno. “Taglieremo le vostre teste con le nostre mani, non con mani straniere” si legge nel volantino degli Ultras in piazza

2 febbraio 2012 3 commenti

La rabbia e il desiderio di vendetta dopo i morti di ieri a PortSaid si son riappropriate delle strade del Cairo,
sempre le stesse, in un deja vu di mobilitazioni che vedono incrementare vertiginosamente il livello di scontro.
Poi oggi è 2 febbraio, l’anniversario della battaglia dei cammelli raccontata dalle televisioni di tutto il mondo,
la giornata storica in cui tutta la città, da giorni in piazza, s’è vista un esercito di servi di regime attaccarli con ogni mezzo a loro disposizione. Un anniversario di decine di morti, molti uccisi a coltellate da chi, in borghese e senza una divisa da indossare andava a difendere gli interessi di un regime immobile mannaia alla mano.
L’anniversario della battaglia dei cammelli ha visto scendere in piazza la rabbia Ultras, ma non solo.
non certo solamente le tifoserie delle squadre di Al-Ahly e dello Zamalek, ma tutti coloro che in quest’anno non hanno mai smesso di ribellarsi,
Contro Mubarak e i suoi apparati di sicurezza,
contro la baltagheyya e le sue lame infami,

Foto di Valentina Perniciaro _le fiamme di Tahrir_

contro l’esercito e la sua finta transizione fatta di tribunali e prigioni militari.
tutti sono ora in piazza, da mezzora (18 ora italiana ) sotto i continui lanci di gas lacrimogeni,
che sappiamo che effetti producono su chi li respira: i nuovi acquisti, a partire da novembre hanno fatto diverse vittime,
tra le convulsioni e i polmoni ustionati.
Le componenti ultras si sono immediatamente lanciate sul muro costruito dallo SCAF su Mohammed Mahmoud, la strada che porta alla sede del Ministero dell’Interno, terreno di battaglia e purtroppo di decine di cadaveri, appena due mesi fa.
AL secondo mattone caduto, tra uno slogan e l’altro che chiedevano la caduta di Tantawi e l’abbattimento del Consiglio Supremo delle Forze Armate, c’è stato il primo attacco, tutt’ora in corso.
I blindati cercano di avanzare per ributtare tutti verso Tahrir, mentre due ospedali da campo già lavorano a pieno regime,
uno in Midan Falaki e l’altro in Bostan Street, parallela alla via del Ministero dell’Interno.
Sarà una notte lunghissima.
Lunga vita alla rivoluzione,
che la terria sia lieve a tutti coloro rimasti uccisi ieri e in quest’anno di orgogliosa rivoluzione.
Cercate di tornare TUTTI a casa: non vogliamo altri morti, shabab!

LEGGI IL VOLANTINO DEGLI ULTRAS AL-AHLY, tradotto dalla redazione di InfoAut

Si! Sono martiri, sono diventati martiri i compagni insieme ai quali, per 5 anni, abbiamo condiviso gioia e dolore.
Oggi il maresciallo e i suoi complici hanno voluto mandare un chiaro messaggio, vogliono punirci e condannarci a morte perché ci uniamo alla rivoluzione, perché lottiamo contro l’oppressione e i crimini, come quelli di oggi.
Signori, questa è una nuova serie delle tante serie di crimini della repressione del regime, repressione che vuole uccidere la rivoluzione dei giovani egiziani e aumentare il numero dei martiri.
E non sapevi che ogni goccia di sangue versata, avrebbe riacceso la nostra rivoluzione, e avrebbe riacceso le nostre urla che chiederanno la tua testa, caro maresciallo traditore?

E avete creduto che l’Egitto e il suo popolo potessero fare un passo indietro?
Non si sono presentati né il governatore, né il capo della sicurezza, non trovammo né la polizia militare né la sicurezza centrale.
Per la prima volta nella storia degli incontri di entrambe le squadre, la polizia s’è ritirata.
Sì, il vostro piano è chiaro.
D’ora in poi inizieremo una nuova guerra per difendere la nostra rivoluzione e i diritti dei nostri martiri, e ci prepareremo a ricordare il 28 gennaio.

Vi faremo riassaporare i momenti in cui, chi come voi appoggiava il precedete governo si dovette fermare e si dovette arrendere mentre osservava i rivoluzionari egiziani, di cui noi facciamo parte, seminare la propria libertà.
Sapete benissimo cosa significa affrontarci e sapete pure che noi fummo la rivoluzione, ancora prima che essa avvenisse.
La vostra repressione non ci spaventa e non ci è nuova.
Numerose sono state le iniziative per risolvere le divergenze tre Ultras delle squadre egiziane; questo non vi è bastato e avete iniziato a mettere in atto la vostra strategia.
Per questo vi comunichiamo che anche noi abbiamo una nostra “strategia”, ed è quella di tagliare le vostre teste con le nostre mani, e non con mani straniere.

Non aspetteremo che ci opprimiate volta per volta: difenderemo la nostra rivoluzione, difenderemo e ricorderemo i nostri martiri con tutti i mezzi possibili.
Si, il vostro messaggio ci è arrivato. La nostra risposta arriverà presto.

Memoria e gloria per i nostri martiri.

Ultras Tahrir Squares

Egitto: la mattanza di Port Said

2 febbraio 2012 7 commenti

Una tragedia immane, di cui non riesco a scrivere.
Malgrado io non conosca minimamente una curva, uno stadio, uno scontro dentro o fuori uno stadio,
sono senza parole. Incapace a raccontare, figuriamoci a commentare.
Conosco PortSaid, mi ha accolto a una manciata di giorni dalla caduta di Mubarak, col suo canale ancora bloccato dagli scioperi,
con le persone per la strada e tanti sorrisi pieni di futuro, intrisi di aspettative.
Oggi PortSaid vive una tragedia indescrivibile dai numeri folli: più di 70 morti, più di 1000 feriti.
E le responsabilità della polizia, già così palesemente evidenti, nel bloccare le vie di fuga e permettere la mattanza.
Come dicevo all’inizio non me ne intendo minimamente, non conosco le dinamiche ultras,
ma conosco la tifoseria egiziana.
L’ho vista in piazza, l’ho continuata a seguire dall’Italia, nella sua costante e radicale partecipazione alle mobilitazioni,
nella capacità di tener testa all’esercito e di organizzare un po’ la piazza, sempre così drammaticamente spontanea.

E quindi ancora una volta lascio la parola ai compagni di Infoaut, che dal primo giorno seguono la primavera araba e l’Egitto,
ma che da sempre hanno avuto un occhio puntato su queste componenti di giovani tifosi,
rivoluzionari.

73 morti e più di mille feriti. E’ il bilancio provvisorio degli scontri scoppiati al termine della partita tra una delle squadre di calcio del Cairo, El Ahly e la squadra El Masryla cui tifoseria ha invaso il campo al fischio di conclusione del match attaccando sia la squadra che la curva avversaria. Durante i primi minuti degli scontri la polizia schierata in assetto antisommossa non è intervenuta lasciando ripetere gli attacchi dei tifosi de El Masry. Solo in un secondo momento i celerini hanno preso parte agli incidenti unendosi all’assalto contro la curva dell’ El Ahly. Secondo fonti mediche molti ragazzi uccisi riportano ferite da armi da taglio.

La curva de El Masry e la polizia sono responsabili di una delle più gravi carneficine dall’inizio della rivoluzione, una vera e propria punizione contro una delle tifoserie più attive e coinvolte nel movimento rivoluzionario. Una provocazione omicida al movimento e a uno dei suoi bracci più generosi perché sempre in prima fila durante ogni appuntamento di lotta e conflitto contro Mubarak prima e lo Scaf (giunta militare) oggi. Non a caso la tifoseria dell’altra squadra cairota, lo Zamalek è subito scesa nelle strade della capitale scandendo slogan contro lo Scaf e annunciando di volersi dirigere verso lo stadio a Port Said per aiutare e difendere i tifosi dell’Ahly.

Entrambe le squadre del Cairo dai primi giorni della rivoluzione hanno siglato una sorta di “fratellanza rivoluzionaria” dimenticando le rivalità e unendosi per difendere i cortei dalle provocazioni e dalle aggressioni della polizia.

La tensione sale alle stelle in Egitto e dopo che ieri il movimento rivoluzionario si era scontrato nei pressi del parlamento con il servizio d’ordine dei Fratelli Musulmani con la mattanza dello stadio di Port Said il ritorno del faccia a faccia tra potere e piazza rivoluzionaria sembra essere ad un passo. Intanto le mura dello stadio continuano ad essere avvolte dalle fiamme ed è di questi minuti la notizia della sospensione del campionato. Voci parlano dell’arrivo di elicotteri per trasportare i tifosi dell’Ahly e nei pressi dei club sparsi per le città iniziano a radunarsi ultras e solidali.

Una lunga notte per l’Egitto rivoluzionario che con odio e rabbia ripete uno degli ultimi slogan scanditi dalla curva dell’Ahly: “Sento la madre di un martire che dice: i cani dei militari hanno ucciso mio figlio! Abbasso la giunta militare!”. [guarda il video della curva dell’Ahly mentre scandisce lo slogan]

Carlos Latuff commenta con una vignetta...

Rap e Islam: quando l’hip hop incontra Maometto

3 dicembre 2011 1 commento

Articolo di Luca Gricinella, Alias 3 dicembre 2011

Dai due paesi rappresentanti il primo e secondo mercato al mondo dell’hip hop arrivano altrettante opere che si occupano del rapporto tra la forma musicale di questa cultura urbana, il rap, e l’Islam: la prima è stata pubblicata negli Usa nel 2008 ma in Italia solo lo scorso marzo, la seconda ha iniziato a circolare nel suo paese d’ori- gine, la Francia, durante la primavera passata. E’ Arcana Edizioni ad aver tradotto in italiano il saggio di Naeem Mohaiemen, Paura di un pianeta musulmano: la storia nascosta dell’hip hop, pubblicato all’interno di Sound Unbound, raccolta di scritti critici musicali curata da Paul D. Miller, nell’ambiente musicale meglio conosciuto come Dj Spooky.
Il capitolo dell’artista e autore originario del Bangladesh è disponibile anche in lingua originale in free download sul suo sito ufficiale, www.shobak.org. Il documentario della regista francese di origine algerina Keira Maameri, Don’t Panik (Derniers de la classe prod.), invece è stato proiettato in anteprima all’Institut du Monde Arabe di Parigi lo scorso maggio. Se il titolo del saggio di Mohaiemen prende spunto da uno storico album dei Public Enemy, Fear of a Black Planet (Def Jam/Columbia, 1990), quello del terzo documentario di Maameri riprende il motto del rapper francese Médine, «I’m muslim, don’t panic», vero slogan diretto contro l’islamofobia diffuso anche tramite una linea d’abbigliamento. Mohaiemen conclude il suo scritto con una lista di artisti hip hop «che professano la fede musulmana» seguendo specifiche correnti della fede islamica come il sufismo o aderendo ad alcuni movimenti e sette come Nation of Islam e Five Percent.
La lista riguarda solo artisti statunitensi, tratto che non le impedisce di essere molto nutrita, basti citarne alcuni per farsi un’idea: i precursori del rap Last Poets, uno dei tre padri principali dell’hip hop, Afrika Bambataaa, il compianto Guru dei Gang Starr, il radicale Paris, vere e proprie star come Busta Rhymes Common, Eve, Lupe Fiasco, Nas, Q-Tip, Roots e Ice Cube, e ancora Krs-One, Big Daddy Kane, Brand Nubian, Brother Ali, Capital D, Everlast, Jeru the Damaja, Mobb Deep, Mos Def, Rakim e la maggioranza dei membri del Wu-Tang Clan. Aggiungere alcuni artisti francesi tra i più popolari oltralpe magari fa meno effetto dalle nostre parti ma aiuta a inquadrare meglio la dimensione del fenomeno: Abd Al Malik, Akhenaton e Freeman degli Iam, Ali, Diam’s, Disiz (ex Disiz La Peste), i Map, Médine e Rohff.
Il breve saggio di Mohaiemen parte dall’assunto del giornalista Harry Allen che definisce l’Islam «la religione non ufficiale dell’hip hop». Mohaiemen sostiene e dimostra che la cultura islamica è molto presente nell’hip hop, anche quando non prodotto da artisti di fede musulmana, ma nel contempo la sua influenza è altrettanto snobbata dalla critica e dalla storiografia. Il suo è un discorso esclusivamente statunitense che dunque mette in evidenza come negli Usa la maggioranza dei fedeli di Maometto sia di origine africana, conseguenza sia del divieto imposto ai primi predicatori musulmani di frequentare le «zone in cui abitavano i bianchi e dove si trovavano le chiese» sia della concordia di questi con gli ideali del «radicalismo nero». Se si aggiunge la storia dei «testimonial» eccellenti della fede islamica, a partire da Muhammad Ali fino ad arrivare ai Last Poets, gruppo seminale del rap, e nel contempo si prende in considerazione la demonizzazione del rap promossa da una buona fetta di cristiani, il gioco è fatto. È così che i brani dei rapper su citati e di tanti altri colleghi sono intrisi di Islam e di tutte le letture socio-politiche di questa fede che nel corso degli ultimi decenni si sono diffuse negli Usa.

Il rap statunitense insomma è pieno di campionamenti di Malcolm X, richiami all’afrocentrismo, riferimenti alla numerologia dei Five Percenter e c’è addirittura chi giura, ma per molti fedeli questo è un azzardo, che presenta delle analogie con la metrica del Corano. Il documentario di Keira Maameri si sviluppa su un altro piano: tramite l’esperienza personale di sei artisti provenienti sia dall’Europa, sia dall’Africa, sia dagli Usa, indaga sulla maniera di conciliare rap e Islam.
Anche qui si parte dalla paura del musulmano affiancandole quell’approssimazione che identifica gli arabi con la religione islamica. L’algerino Youss, la cui musica spazia tra hip hop, reggae e soul, parafrasa il profeta Maometto invitando ad an- dare a cercare il sapere, senza farsi imboccare l’essenza dell’Islam per formarsi un’opinione in proposito. Médine rilancia: tra i suoi intenti c’é quello di arrestare il processo per cui oggi, in qualsiasi parte del mondo, un musulmano è considerato «il nemico pubblico numero 1». La sua opera così come le sue attività pubbliche extra musicali sono connesse all’Islam ma anche a una concezione cosciente e impegnata del rap: la sua volontà di reazione tesa ad arginare l’immagine demoniaca dei musulmani promossa dai media dall’11 settembre in poi, la dice lunga.
Detto ciò, il rapper di Le Havre che con una provocazione ha anche intitolato un suo album Jihad (Din records, 2005) per poi specificare nel sottotitolo «la più grande battaglia è contro se stessi», prende le distanze dal proselitismo. La presenza dell’Islam nel rap del belga Manza invece non è  premeditata: i versi trattano vari soggetti ed esprimono i valori dell’autore così  è facile trovare traccia anche della sua spiritualità. Ma la controversia non é tanto sulla genesi del connubio tra rap e Islam e la forma che questo può prendere, risiede a priori: il dibattito sulla possibilità di convivenza tra musica e Islam é ancora in corso, non solo tra i teologi. «Mi prendo tutte le mie responsabilità – dice Médine nel documentario di Maameri -, d’altronde non c’è niente di esplicito che ho letto o che proibisca chiaramente di praticare un’attività artistica. Io ho voglia di rivolgermi ai giovani, magari anche di rappresentarli, anche se non so in quale maniera, e il solo mezzo che ho e soprattutto la cosa che so fare é il rap». Anche il rapper sangue misto svedese-caraibico Adl, molto popolare in Svezia anche perché sulla scena da quasi trent’anni, si prende le proprie responsabilità ma in un altro senso: dalla sua lettura dell’Islam la musica non é ammissibile. Continuare a produrla gli crea un conflitto interiore ma non ritiene sia ipocrita: concentrandosi su quanto é permesso dalla sua fede per essere creativo, segue queste regole anche tenendo presente quanto oggi un rapper sia per forza di cose un modello. E si rimette al giudizio di Allah.

È il rapper newyorkese e indipendente Hasan Salaam a oltrepassare questo dibattito: «Non so quanta gente avrebbe saputo qualcosa sull’Islam se il loro primo approccio non fosse costituito dai Brand Nubian o dal Wu-Tang Clan!». Solo questo dato di fatto basterebbe a innescare un dubbio nelle idee precostituite espresse da buona parte del mondo occidentale: si può continuare a ignorare o reputare improbabile il connubio tra la forma musicale dal linguaggio più esplicito in circolazione e considerata spesso violenta, specie dalla borghesia perbenista, e la religione considerata con grande approssimazione la più conservatrice quando non addirittura primitiva? Considerando le opere di Maameri e Mohaiemen, la risposta sembra quanto mai chiara perché è fornita sia da molti testi rap sia dai racconti dei rapper. Così la forma musicale della cultura hip hop assume un potenziale ruolo conciliatore nel conflitto post 11 settembre e, volente o nolente, fa controinformazione cosciente. Il rap insomma sulla scia di una consolidata popolarità gioca una parte sociale importante. Più che mai interessante se si ipotizza il passo successivo a una convivenza tra culture meno conflittuale: un dibattito molto più laico.

 

Parigi: le manifestanti “contro la violenza sulle donne” aggrediscono le sex workers

16 novembre 2011 7 commenti

Arriva da Parigi, tramite il sito del Syndicat du Travail Sexuel, l’ennesima pessima notizia sullo stato della riflessione all’interno dei cosidetti “movimenti” sulle politiche di genere e la violenza.

Durante la manifestazione contro la violenza sulle donne svoltasi il 5 novembre 2011 a Parigi un gruppo di sex worker e di solidali presenti in piazza è stato aggredito, tacitato, insultato e minacciato dalle organizzatrici della manifestazione e da alcune donne presenti in piazza al grido di “voi siete la vergogna della manifestazione“.

Particolarmente indigeste alle organizzatrici della manifestazione sembra siano state le riflessioni portate in piazza da STRASS sull’inutilità delle norme che colpiscono i clienti delle prostitute che finiscono per essere esclusivamente l’ennesima forma di violenza contro le donne che si prostituiscono.

Il comunicato (in francese) contenente maggiori dettagli e alcune riflessioni firmato da STRASS, Act Up Paris e Étudions gayment è disponibile cliccando qui

Amburgo: solidarietà per Sonja Suder e Christian Gauger

10 novembre 2011 Lascia un commento

AMBURGO _Oggi come allora - mille ragioni per la rivolta! Solidarietà a Sonja e Christian. Dal 1978 Sonja e Christian erano ricercati dallo stato tedesco, con l'accusa di aver preso parte ad attentati contro energia nucleare, bomba atomica e gentrificazione e di far parte delle Cellule Rivoluzionarie (RZ). Entrambi hanno scelto la fuga e una vita in esilio sotto falsa identità e deciso di non scendere a compromessi e cooperazione con lo stato e i suoi aiutanti. _

Christian fortunatamente è stato scarcerato pochi giorni fa, viste le sue condizioni di salute, completamente incompatibili con il carcere.
Sonja malgrado l’età avanzata è di una forza incredibile, vive la sua carcerazione con serenità, scrivendo che l’aveva sempre immaginato che prima o poi l’avrebbero presi, quindi è preparata e sollevata che Christian sia lontano dal carcere.
Informationen:
verdammtlangquer.org/
abc-berlin.net
freilassung.de

Qui un po’ di link sulla lorio storia:
Due estradizioni annunciate
Erri De Luca su Sonja e Christian
Una loro intervista
Estradati Sonja e Christian
Oreste Scalzone commenta l’estradizione

Un audio di Oreste Scalzone sull’estradizione di Sonja e Christian

18 settembre 2011 3 commenti

Noi compagni ne parliamo a malapena, mentre “gli altri”, quelli che ci vorrebbero tutti in galera hanno l’occhio lungo e non si fanno sfuggire nulla:
Il Giornale si è accorto dell’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger, molto più dei siti di controinformazione, molto più dei militanti della sinistra italiana. Sono in grado, meglio di noi, di capire le connessioni e le implicazioni che potrebbero sorgere da quest’estradizione, per i rifugiati italiani in Francia.
Insomma, ancora una volta il nemico è un po’ più avanti di noi. (leggi l’articolo)

Intanto dai microfoni di Radio Onda Rossa, un commento di Oreste Scalzone, che tanto si è battuto per evitare questa “doccia fredda” di Sonja e Christian…così come aveva fatto per Paolo Persichetti, per Marina Petrella e tanti altri…

ESTRADATI SONJA E CHRISTIAN IN GERMANIA! Fate girare la notizia

15 settembre 2011 10 commenti

La giustizia, per quel grand'uomo di Ali Ferzat

NE ABBIAMO PARLATO SPESSO SU QUESTO BLOG.
VI HO RACCONTATO LA STORIA DI QUESTI DUE ANZIANI SIGNORI, DI QUESTA BELLA COPPIA CRUCCA, PERCHE’ HO AVUTO IL PIACERE DI DIBATTERE CON LORO, DI SCHERZARE E ABBRACCIARSI.
HANNO CONOSCIUTO IL MIO PANCIONE, SI SON PRESENTATI AL MIO BIMBO NON POTENDO ABBRACCIARE IL SUO PAPA’, ANCHE LUI ESTRADATO DALLA FRANCIA VERSO L’ITALIA.
INSOMMA…SONJA E CHRISTIAN PER ME NON SONO SOLO DUE NOMI, MA SON DUE SORRISI TRA MILLE RUGHE, SON DUE SGUARDI AFFASCINANTI E MOLTO DIVERSI TRA LORO, SONO LA FORZA DI QUELL’ABBRACCIO CHE DOVEVA ARRIVARE FINO AL MIO AMORE PRIGIONIERO, CHE LORO AVEVANO IL TERRORE DI NON VEDERE PIU.
E INVECE OGGI E’ TOCCATO A LORO, MALGRADO L’ETA’, MALGRADO SIANO ABBONDANTEMENTE SUPERATI I 30 ANNI DAI FATTI DI CUI SI PARLA, MALGRADO SIA STATO SENTENZIATO CHE LA LORO NON ERA UNA CONDIZIONE COMPATIBILE CON UN’ESTRADIZIONE E POI UNA DETENZIONE. MA ORA CONTA POCO.
STAMATTINA SONO STATI PRESI E PORTATI IN GERMANIA…DOVE AD OTTANT’ANNI DOVREBBERO ATTENDERE UN NUOVO PROCESSO.
UNA FOLLIA, UNA FOLLIA COLOSSALE…. DA CUI CI AUGURIAMO SOLO DI VEDERLI USCIRE.

VI METTO QUI SOTTO UN MESSAGGIO DI ORESTE… [QUI UN PO’ DI MATERIALE SU SONJA E CHRISTIAN]

Alla fine, oggi gli avvocati tedeschi hanno avvertito che stamattina all’alba hanno estradato Sonja e Christian, che si trovano a Francoforte.
Partito stamattina per Napoli per un dibattito, avevo aperto il computer e internet per mandare l’invito a qualche compagno/a, amici, di Napoli, e ho trovato questa “doccia fredda”.
Mi diranno i compagni di Parigi, pugno di uomini e donne che si son battuti con le unghie e coi denti contro quest’abiezione, resa iperbolica dal fatto che si estradano una donna di 79 anni e il suo compagno che una perizia medica aveva appena definito “incompatibile per stato fisico con un’estradizione”, per metterli in detenzione preventiva in vista di un processo per farri che risalgono a 35 anni fa!!!!
Cio’ che aveva detto Sarkozy a proposito del caso di figura rappresentato dall’affare Polanskij, era colo un argomento surrettizio, una privatizzazione censita ria, discriminatoria – una porcata, insomma – di qualcosa posto come “indivisibile, <eguale-astratto>”, come la presunzione d’innocenza, che vale per sé e la propria cosca, e contro <nemici>, come noi, nonché anche contro cosche concorrenti, o semplici malcapitati…
Penso alla frase di Jean Genet di ritorno da Stammheim nel 79 ( <Non saro’ mai neutrale tra la violenza degli oppressi che si ribellano, e la brutalità degli oppressori>).

 Questa estradizione poi non è atto di <ostilità> in qualche modo limpida ; non è forma dell’inimicizia, violenza, guerra : è crudeltà, vendetta da tagliagole, “morto che vuole sotterrare il vivo”…
Noi non ci rinchiudiamo nella “denuncia” frustrata : intanto, esprimiamo tutto il nostro disprezzo anche per figure personali, delle quali si potrà dire, con Joseph K, che “soltanto la vergogna gli sarà sopravvissuta”.
E poi, con “disperata vitalità”, resistenze, persistenza, certo micro-molecolari, ma…altrimenti non c’è aria per respirare.

Un abbraccio, Oreste Scalzone

per scrivere a Sonja Suder: JVA III OBERE
KREUZACKERSTR 4
604350 FRANKFORT
ALLEMAGNE

«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici»

31 marzo 2011 4 commenti


Paolo Persichetti intervista lo storico francese Marc Lazar, curatore de “Il libro degli anni di piombo”
«Gli anni 70? E’ ora di affidarli agli storici».

 

Libia e sinistra italiana…

27 marzo 2011 4 commenti

Poco dopo l’inizio di questa ennesima guerra portatrice di democrazia, pace e giustizia sociale eheheheh,
poco dopo quest’altra grande infinita intergalattica presa per il culo,
mi ero chiesta (e mica m’avete risposto però eh?!?!) che fine avesse fatto il popolo viola
Bhé, Ascanio ha fatto un bel quadretto

Libia….e il popolo viola??

21 marzo 2011 10 commenti

Ma che schifo! Io li ho sempre odiati tutti, uno ad uno.

"Perché?" ...in dialetto siriano

Ma oggi mi fanno più schifo del solito i Bersani, i Fassino, i D’Alema e i Vendola… mi fanno schifo tutti coloro che si son riconosciuti dietro le bandiere viola. Tutta quella sinistra giustizialista, razzista, bigotta e fanatica; tutta quella sinistra che è pronta a scendere in piazza con enormi manette gonfiabili, che invoca galera e ancora galera e che ora è muta. Il loro problema è Berlusconi e il bunga-bunga.
Non una parola, non una bandierina di quel merdoso colore viola vedo sventolare contro i cacciabombardieri che prendono il volo, anche battenti il nostro tricolore. Il tricolore si, quello che qualche ora prima dell’ennesima guerra infame a caccia di pozzi di petrolio, veniva sventolato orgogliosamente in un’anniversario, questo “natale della patria”, che nessuno aveva mai notato prima.
Una vergogna, una vergogna infinita, più della guerra, dei bombardamenti all’uranio impoverito…più di tutto è l’appoggio e soprattutto il silenzio.
Un silenzio disarmante avvolge quelle armatissime bombe.
Missili dal mare, bombe all’uranio da aerei che spesso si staccano da una terra che proprio italiana è…
lo stesso uranio che usano nei poligoni sardi, toscani e così via…
l’uranio che ora si abbatte su un suolo da conquistare e depredare, un bottino da dividere e niente di più.
Che voi siate maledetti, non mi stancherò mai di dirvelo

Curious Libyan onlookers take pictures of dead African teenagers, members of Muammar Qaddafi's forces hit by airstrikes by French warplanes in al-Wayfiyah west of Benghazi, on March 20 in al-Wayfiyah. (Patrick Baz/AFP/Getty Images)

 

Libia, 19 marzo 2011: la guerra di chi arriva prima

19 marzo 2011 5 commenti

Un mare che sembra non riuscire ad assistere ad altro che a tragedie…
quotidianamente solcato e affrontato da migliaia di migranti che fuggono da casa, è ora di nuovo attraversato da caccia, portaerei e chi più ne ha più ne metta. La corsa all’oro, proprio così: ancora una volta assistiamo ad una guerra petrolifera spacciata per tutt’altro.
Assistiamo al nostro caro mare sorvolato da caccia francesi, che hanno giocato fino all’ultimo per arrivare per primi… ma c’è voluto nemmeno una manciata di ore, quelli statunitensi non si sono lasciati aspettare per molto. C’è la gara anche di lanci di agenzie per chi fa prima a raccontare le armi usate: “110 missili Tomahawak usati dagli USA”, “Li lanciano anche i sottomarini britannici”!
Questo significa che le basi sul nostro territorio, quello che Frattini ( ma non ce n’era nemmeno tutto questo bisogno) ha prontamente dato, staranno lavorando a pieno regime, che tonnellate di armamenti prendono il volo proprio da casa nostra, come sempre e come tutti sappiamo.
Mica crederemo ancora alla guerra umanitaria no?
L’Arabia Saudita sta invadendo il Bahrain con le sue truppe eppure non mi sembra che nessuno la sta bombardando; eppure il Bahrain vive una rivolta sincera, pacifica e duramente repressa a piombo sulle teste … non c’è una guerra tribale in corso, con milizie armate in ogni angolo di paese.
Ma … tutto tace.
La Francia corre nuovamente per guadagnarsi un pezzo non tanto di terra quanto di oro nero: sembra proprio la guerra a chi arriva prima a prendersi i pozzi e i gasdotti, in un territorio “libero”, non nell’Iraq dell’era Bush.
Nel frattempo il pazzo continua a blaterare e minacciare anche l’Europa, continuando ad attaccare dove gli riesce.
Maledetti voi siate, maledetti i vostri bombardieri che ora gareggiano sul Mediterraneo…

e il popolo viola che dice????

Distrutto il Cie di Marsiglia!

12 marzo 2011 2 commenti

Il Centro di trattenimento amministrativo del Canet [a Marsiglia, NdT] è, adesso come adesso, completamente inutilizzabile», ha constatato Bernard Reymond-Guyamier, direttore di zona della Polizia di Frontiera. Alle 17.02 di ieri gli allarmi antincendio del Centro di trattenimento amministrativo [il Cra, che corrispe ai nostri Cie, NdT] sono entrati in azione, dando il via al protocollo di evaquazione dell’edificio.
«Un trattenuto intossicato dai fumi è stato portato d’urgenza all’ospedale di Lavéran», ha precisato il capitano di fregata Yannik Martin, che dirigeva le operazioni dei marinai-pompieri di Marsiglia. Le altre due persone gravemente intossicate, insieme agli altri 31 trattenuti coinvolti, sono stati curati in un punto di medicina d’urgenza allestito sul posto.

Il centro di "retention" di Marsiglia

L’incendio è scoppiato in una cella al primo piano di una delle ali dell’edificio, mentre alcuni secondi più tardi un altro focolaio è stato acceso al piano terra dellaltra ala. «Queste similitudini non sono casuali», sospetta Bernard Reymond-Guyamier, un’inchiesta è stata aperta dalla polizia del dipartimento. Per attizzare il fuoco sembra siano state utilizzate delle coperte ammassate.
L’incendio si è propagato in tre celle che sono state completamente distrutte dalle fiamme, come pure una sala comune. I muri anneriti e l’aria difficilmente respirabile rendono impossibile il trattenimento dei 52 senza documenti presenti nel Centro. La Prefettura della Regione dovrebbe dunque incaricarsi di trovare una soluzione per ognuno dei trattenuti ammassati in fondo al cortile sotto a delle coperte blu. «Sono le Prefetture che hanno ordinato il trattenimento di ciascuno e che decidono i trasferimenti verso altri Centri, caso per caso», precisa Bernard Reymond-Guyamie. Ma i Cra della regione sono strapieni quasi tutti. «Sono previste delle liberazioni», confessano in Prefettura. […]
da La Marseillaise, tramite Cettesemaine

Questa è sempre Marsiglia, solo due giorni fa, durante uno sciopero di portuali. Idranti contro la celere, non male! (REUTERS/Jean-Paul Pelissier)

Aggiornamento 12 marzo. A parte due reclusi liberati immediatamente e undici portati in ospedale, la maggior parte dei rivoltosi di Marsiglia (37) sono stati trasferiti nel Centro di Nîmes. Di questi, alcuni sono stati liberati il giorno seguente con l’appiglio della non conformità tra la legge francese e le direttive europee. E pure tra quelli in ospedale alcuni sono riusciti ad andare via. Altri 6, tunisini e algerini, sono stati invece arrestati per “distruzione di bene pubblico”: ora sono nella prigione di Baumette. Un presidio solidale si era svolto di fronte al commissariato dove erano in stato di fermo prima che fossero trasferiti in carcere. Oggi, invece, uno dei reclusi portati l’altro giorno a Nîmes è stato accompagnato all’areoporto di Marsiglia: lo aspetta un aereo diretto alle Comore. Solo che lui e la sua famiglia sono molto conosciuti in zona, per cui proprio nel momento in cui scriviamo circa duecento persone sono anche loro all’aeroporto, ma per cercare di fermare la deportazione. Non appena i compagni di là ce lo racconteranno, vi faremo sapere come è andata a finire…
macerie @ Marzo 12, 2011

A questo indirizzo invece le corrispondenze effettuate da Radio Onda Rossa con il presidio in solidarietà ai migranti di questo pomeriggio, davanti al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria

 

Si lotta anche in cielo! Costretto a tornare indietro un aereo “con deportato” a bordo!

24 gennaio 2011 1 commento

Ringrazio la pagina di Scarceranda per questa notizia! E la posto immediatamente, perchè non si può non farlo!
🙂

Dopo una protesta spontanea scoppiata a bordo contro una deportazione in corso, ieri Air France ha ordinato il ritorno indietro del volo decollato da Parigi con destinazione Bamako, in Mali. Otto attivisti e attiviste della “carovana per la libertà di movimento e lo sviluppo sostenibile” così come altri passeggeri e passeggere che avevano partecipato alla protesta, sono stati/e arrestati/e e ora stanno aspettando il prossimo volo.
Parigi/Berlino, 20 gennaio 2011.

Il primo gruppo di attivisti e attiviste della “carovana per la libertà di movimento e lo sviluppo sostenibile” sono saliti/e a bordo dell’aereo per Bamako questo giovedì a Parigi. Sullo stesso aereo c’era un uomo in catene, accompagnato dalla polizia, che stava per essere deportato in Mali. Subito dopo la partenza, 17 tra passeggeri e passeggere si sono alzati/e dai loro sedili e si sono rifiutati/e di sedersi in solidarietà con l’uomo, che stava resistendo alla deportazione!
Come conseguenza della loro azione congiunta, il pilota è tornato all’aeroporto Charles-de-Gaulle, e otto tra attivisti/e e passeggeri/e sono stati/e arrestati/e. Gli ufficiali della sicurezza hanno attaccato l’uomo, un padre di famiglia che ha documentato lo svolgimento dei fatti con la telecamera del suo telefono cellulare. Secondo gli attivisti e le attiviste maliani/e, anche un secondo tentativo di deportare con la forza lo stesso uomo è fallito successivamente nel corso della stessa giornata.
Invece di trasportare i passeggeri e le passeggere, Air France ovviamente preferisce diventare uno “scagnozzo” della polizia di frontiera francese, deportando inesorabilmente le persone contro la loro volontà. Nel corso di questa settimana altre due partenze da Parigi erano già state rimandate a causa delle proteste contro le deportazioni: venerdì scorso, i passeggeri e le passeggere avevano protestato contro un volo diretto a Douala, in Camerun, e quattro di loro erano stati/e rimossi/e dall’aereo e identitificati/e dalla polizia. Mercoledì alcuni passeggeri/e si erano rifiutati/e di sedersi su un volo Royal Air Maroc, fino a che l’aereo è decollato con un’ora e mezzo di ritardo senza i due prigionieri che avrebbero dovuto essere deportati.
Gli impiegati e le impiegate della Air France hanno preso posizione con risolutezza contro i voli delle deportazioni della compagnia aerea fin dal 2007, ma finora senza successo. Gli attivisti e le attiviste sono stati/e rilasciati/e in piena notte, molto tempo dopo il decollo del loro aereo. Mentre gli attivisti e le attiviste dovranno aspettarsi di subire le conseguenze giudiziarie della loro coraggiosa azione contro la brutalità dei voli delle deportazioni, è certo che riceveranno un entusiastico benvenuto dagli attivisti e le attiviste maliani/e a Bamako. 
Dopo il rilascio a tarda notte, tutte e tutti alla fine hanno ottenuto di partire con dei nuovi voli Air France per Bamako, nel tardo pomeriggio di oggi. Dobbiamo ringraziare tutti gli attivisti e le attiviste che hanno sostenuto quest’azione! Abbiamo fatto delle esperienze utili: abbiamo imparato quanto forte può essere la resistenza quotidiana contro le deportazioni in Francia e abbiamo imparato quanto questa mailinglist funzioni velocemente: ci sono voluti meno di cinque minuti per ottenere un sostegno!

Fonte: http://www.afrique-europe-interact.net/

ECCO IL VIDEO

 

FRANCIA: lo sciopero infinito!

30 ottobre 2010 2 commenti

LO SCIOPERO INFINITO

originale in francese http://nantes.indymedia.org/article/22087
traduzione da http://www.urgence.splinder.com/
TRADUZIONE DI ANUBI D’AVOSSA LUSSURGIU (mooooolte grazie)

E’ qualcosa di scontato. Il Partito dell’Ordine spera, con tutte le sue forze, di farci tornare a casa. Sindacati e governo riusciranno ad accordarsi. Lassù, almeno. Essi contano senza dubbio sull’attrazione fatale che avrebbe per noi l’insidiosa percezione del vuoto nel quale abbiamo così perfettamente disimparato a vivere e a lottare. In questo si sbagliano. Noi non torneremo a casa; noi che non ci sentiamo a casa da nessuna parte. Se c’è un solo spazio che abbiamo sentito come abitabile, è all’interno dell’evento grazie al quale viviamo, nelle intensità che si disegnano. In funzione, soprattutto, dei mezzi che ci sapremo dare.  È qualcosa di scontato. Un processo insurrezionale si rinforza a misura che le evidenze le quali, ai suoi occhi, compongono la realtà, divengono impercettibilmente delle verità lampanti agli occhi di tutti. Se il capitalismo è una menzogna universale, la forma della sua negazione, inversamente, sarà quella di una pluralità di mondi, mescolati solidarmente alle verità che vi si legano.   Le parole attraverso le quali una situazione si rende leggibile a sé stessa ne determinano direttamente le forme e lo spirito. Le oggettivazioni forzate non possono arrivare a conoscerne che, al massimo, i suoi contorni indecisi. La diversità delle analisi, provengano esse dal lessico sociologico o da quello del radicalismo militante, propagano di concerto un’identica confusione: quella dell’apologia asmatica o del pessimismo interessato. A tutti loro manca quel minimo di senso tattico attraverso il quale un discorso trova una reale leggibilità, un vero Comune, il solo che possa liberare i possibili aperti dalla situazione. E anche di scartare come altrettanti fantasmi gli scoraggiamenti programmati. La lama di questa voce risiede nella scelta delle parole come nella positività del loro orientamento. Per elevare l’intelligenza strategica degli avvenimenti in corso un primo gesto si rivela necessario. Quello di situarsi, di orientarsi. Parlare da qualche parte: non da un semplice punto di vista, ma da un partito.

1. Fin dall’inizio, ed è uno dei suoi meriti, il movimento ha preso le cose alla radice. Blocco economico generalizzato, organizzazione deliberata di una paralisi totale, rifiuto dei compromessi e delle negoziazioni. Così ha reso semplicemente effettive delle parole d’ordine abitualmente condannate all’attesa angosciata o al simulacro. Lo sciopero si è materializzato dentro dei corpi, delle determinazioni. Ed è per questo che è potuto apparire come una vera minaccia. In questo il movimento, dal punto di vista delle pratiche sociali messe in campo, si situa al di là di un semplice movimento sociale. In questo esso partecipa già di un processo insurrezionale. Ecco il nostro punto di partenza.

2. Facciamo una constatazione: non resta niente, oggi, dell’antico movimento rivoluzionario. E mentre questa rivelazione sembra conficcarsi sempre più nei meandri di un cittadinismo soddisfatto, noi possiamo avere, in certi momenti, la sensazione di un vuoto. Questo vuoto, bisognerà abitarlo. E farne una possibilità.

3. Una singolare supersitizione affetta, in Francia, una grande maggiornaza di corpi per altro così rigidamente laici: la credenza, tanto tenue come apparentemente incrollabile, nella realtà del “movimento sociale”. La sua debolezza consiste in questo: è una credenza nella quale nessuno ha più fede. Essa non fa che logorarsi, di “vittoria” in “sconfitta”, di ripresa sporadica in rinuncia finale, per infine consumarsi del tutto. L’oggetto di questa credenza non è altro che l’eredità di un naufragio: quella del movimento operaio classico. Questo non è stato sconfitto dal Capitale, come ha sottilineato Mario Tronti, bensì dalla Democrazia. Non è stato vinto sotto la forma di un pericoloso oggetto esterno: la democrazia lo combatteva dall’interno. Questa illusione pesa in modo ancora più forte perchè non è riconosciuta, da noi che combattiamo.

4. Un movimento si definisce negativamente in funzione dei suoi limiti. Il suo terreno d’azione è infatti circoscritto da ciò al di là del quale non vuole andare. La sua finitezza programmata lo condanna a non essere altro che l’isterico scongiuramento di una fine prevista. La sua vita stessa è guidata da un’unica idea, quella di una fuga in avanti sempre più disperata per ritardarne la conclusione, che ne era il suo motore. La sua fine è spaventosa perché non è null’altro che la sua morte. Una temporalità separata dal corso della Storia. Non ha vocazione a durare. È sempre da riprendere, laboriosamente, dall’inizio, a partire dal nulla stesso. Partendo da qui, non potremo far altro che ricominciare sempre di nuovo e non apprendere mai niente. Poiché non  resta che niente. Chiusa la parentesi.

5. Ma la vera azione non resta sospesa alla tristezza di questo canovaccio, non vi è nessun “ritorno alla normalità”. Vi è, in compenso, la persistenza di un processo rivoluzionario, con le sue fasi di accelerazione e i suoi rallentamenti sotterranei. Agli occhi di tale processo non esiste che un solo tempo. Un tempo nel quale non si dimentica nulla di ciò che non è successo. Vi sono, dunque, due campi: da un lato, quello di coloro che hanno intenzione di mettere in atto uno sciopero totale, un blocco irreversibile della circolazione dei flussi, dall’altro, quello dei crumiri e degli sbirri. La totalità dello spazio sociale è sottoposta a questa crudele divisione.  6.È nella misura in cui uno sciopero riconosce di partecipare a tale processo che esso resta uno di quei rari momenti in cui persiste una trasmissione di esperienze. Non si vuole affatto commemorare delle lotte passate, bensì rammentarle: ovvero ricordarle di nuovo. E questo, non solo per la memoria stessa, ma per la noncuranza di un mondo indaffarato a organizzarne l’oblio.

7. Occorre prestare attenzione al fatto che il campo in cui si esprime una situazione non sia esso stesso minato. E questo è il nostro caso. Gesto preliminare: disertare quello spazio preparato in modo che una cosa, un evento, venga considerato in quanto cosa. Una cosa non è mai per sé. Poiché nulla esiste al di fuori dalla comprensione che ne abbiamo. Potrebbe accadere che, a forza di usarlo, il vocabolo stesso di “movimento sociale” non cerchi di designare nient’altro che una impotenza. Operazione semantica operata da un certo tipo di sociologia. Accettare ciò significa paralizzare ogni elaborazione strategica e ogni intelligenza collettiva. Il fatto è che la stessa sociologia è stata interamente socializzata. Questa inquina ogni discorso con la sua ossessione per il calcolo statistico. Permettendo così solo una laboriosa oggettivazione del reale in categorie deprimenti. Ma ciò che forma i nostri mondi resta irrimediabilmente fuori dalla sua portata. Le nostre amicizie, per la sociologia, non sono altro che valori aberranti. L’ignoto non verificabile delle loro equazioni. L’infinito di uno sciopero.

8. Saint-Nazaire. Dei cortei sindacali sfociano sistematicamente in scontri che durano molte ore. Delle sassaiole eroiche e delle barricate erette con estrema rapidità. “Sarkozy, te lo mettiamo in culo” intonano in coro. Allo stesso tempo un tribunale viene preso a sassate da gruppi di rivoltosi. Un amico allora disse: “È bello vedere una città sollevarsi contro la sua polizia.”

9.Il senso della vera lotta non è tra le classi, tra il Capitale e il Lavoro, ma tra partigiani raggruppati in funzione del loro culto patologico del lavoro o del loro semplice disgusto. Da ora in poi non vi sono che quelli che vogliono ancora lavorare e quelli che non lo vogliono più.

10. Un’inquietante omertà regna all’interno del movimento. Questa consiste in un disconoscimento di ciò che gli eventi in corso non smettono di mostrare: l’espressione di un doloroso rifiuto del lavoro. Occorre comprendere che la posta in gioco non è solo una protesta localizzata contro un prolungamento del tempo di lavoro ma una piena condanna di come, ovunque, viene vissuto il lavoro. Come una calamità. E quest’ultima getta sul lavoro un discredito senza equivoci. É l’ombra della morte quella che vediamo profilarsi. È questo “furto di energie” che ammalia coloro che ne sono vittima. Assistiamo all’agonia del mondo classico del Lavoro, un’agonia che trascina con sé la figura che vi si collegava, quella del Lavoratore. Rovinando così la confortevole intimità che questi era riuscito a stabilire con il suo stesso male. Nel momento in cui il lavoro è vissuto sempre più come un prolungato supplizio, degli specialisti ufficiosi cercano ancora di determinare la soglia oltre cui diventerebbe intollerabile.

11. La politica classica si è costruita su molteplici assiomi presentati, da lei stessa, come insuperabili. Il principio di governamentalità, ovvero l’organizzazione di un bisogno sociale in virtù del quale «occorre che le cose siano governate», senza il quale tutto ricadrebbe inevitabilmente nel caos. E poi c’è quello del lavoro che, come un ricatto, non afferma niente di più che «occorre vivere bene», senza condizioni e in qualsiasi modo. Riguardo a ciò, una stretta solidarietà unisce l’apparente diversità delle concezioni politiche e delle paure paniche che a queste si collegano. E che derivano, in fin dei conti, da una stessa antropologia anemica. Da un lato, il progetto cibernetico di una governance generalizzata, e dall’altro, l’ideale anarchico di un auto-governo paradisiaco. Mito del pieno impiego a favore di uno sviluppo durevole e favola autogestita di un lavoro libero, suddiviso in modo egualitario. Da una parte e dall’altra troviamo la stessa disposizione alla gestione manageriale di ciò che costituisce la vita, un identico accanimento nel reprimere la parte migliore dei nostri istinti. Un eguale obiettivo di regolazione disperata. Mobilitazione e  Precettazione Totale designano, con uno stesso movimento, l’ideale etico e pratico della militanza più contestataria e del potere che questa finge di combattere.

12. Ritorno di questo paradosso: la contestazione di una riforma resta la prerogativa dei riformisti più avanzati. Muoversi nel calcolo di un avvenire al punto di perdere ogni presente, ogni presenza. Schizofrenia, per esempio, dell’anarco-sindacalista che codifica, a partire dal presente, la posterità della rivoluzione, legiferando sul dopo. Ora, legiferare sul doposignifica già dimenticare il tempo dell’adesso. Vuol dire perdere l’invincibile necessità di un presente che ci manca e per il quale siamo in sciopero. Lo spessore di un tempo che non potrà essere ridotto alla banalità di una tabella cronologica. La prevedibilità di un avvenire sarà sempre in guerra con la destinazione invisibile di un presente. La programmazione di un futuro farà sempre rima con l’impossibilità di un qui ed ora. «Produrre del tempo libero» in favore di una migliore gestione del tempo di lavoro, ecco ciò che offre il più sospetto degli utopismi. Opporre una certa quantità di lavoro morto all’apertura di un possibile operarevivente non fa che gettare un po’ più di discredito sui fautori di questo ottimismo. Non esiste un lavoro qualitativamente diminuito da una sottrazione quantitativa della sua durata. Non esiste una durata del lavoro, poiché il lavoro è la durata, il tempo subìto.

13. Il discorso mediatico s’ingegna ormai a parlare dello sciopero come se si trattasse di una branchia della scienza metereologica. Ci s’inquieta della scarsità di benzina come dell’imminenza di una canicola; si evocano le sommosse dei liceali alla maniera di improvvise nevicate; si chiacchiera a proposito dello sciopero come si farebbe di precipitazioni problematiche. Così, come fanno tutti dopo la pioggia, ognuno impreca su queste previsioni. «Che ricada su chi fa i blocchi la furia popolare». Ma, ovviamente, non funziona. Presentare ogni sera, oltre l’instancabile bollettino d’informazione, tutto il “malcontento”, le “prese in ostaggio”, i “disperati della pompa di benzina”, come si trattasse di turisti prigionieri delle inondazioni in India o di minatori cileni persi nel fondo della miniera, si rivela essere una strategia molto precaria da parte del potere.

14. In un mondo in cui la circolazione dei flussi si estende a livello globale, il partito del blocco, che è del resto quello dell’insurrezione, non può logicamente sperare di vincere se non tesse, anche a livello globale, le solidarietà necessarie alla sua durata. Il suo campo d’azione non conosce limiti. Così come l’estensione e la portata delle sue pretese.

15. Barcellona, 29 settembre 2010. Una giornata di sciopero generale. Una giornata per dieci anni di rumoroso silenzio. Ciò che si pensava di aver accuratamente rinchiuso nel ghetto di un milieu «anti-sistema», al limite osservabile da una periferia sotto controllo, si risveglia, di nuovo si illumina, e finalmente si infiamma. Dieci anni di democrazia socialista alla fine non sono stati all’altezza di quarant’anni di fascismo. L’ordine che quel giorno è stato sabotato aveva in effetti l’aspetto irreale di un falangista impaurito. Tutti si sono ritrovati in strada, a forza di getti di pietre e di vetrine infrante. E quando la polizia è stata messa in fuga le risate e gli applausi la hanno quasi inseguita.

16. Di nuovo il risorgere dei casseurs. Non c’è nessuno, tuttavia, che potrà essere ancora ingannato da questa figura retorica. Tutto questo clamore non commuove più molta gente. Solo l’UNEF ( Unione nazionale dei sindacati degli studenti francesi) e l’Unione Francese dei Vecchi Combattenti gli si mostrano ancora sensibili. Di che si tratta, allora, oggi? Si potrebbe parlare di un certo ritorno, del nostro ritorno: ritorno della violenza operaia, ritorno della violenza dei ragazzi nelle strade, ritorno della violenza degli “anziani”, che tirano le pietre fuori dalle loro tasche per offrirle ai giovani come fosse un omaggio a quello che non hanno smesso di desiderare. Questa frase, di un vecchio uomo di Lione ai giovani rivoltosi che incontra: «vi diamo le pietre che non possiamo più lanciare». Tutto ciò che è stato così perfettamente dimenticato riappare oggi con la violenza del rimosso. La magia legata alla figura del casseur non sembra più molto efficace dal momento che il banlieusard, l’immigrato, l’anarchico, in breve colui che è al-di-fuori,non vuol dire più granché. Poiché di quale esteriorità, di quale margine si potrebbe seriamente discutere, in un mondo che non conosce più alcun fuori? La questione della violenza non si pone più: essa s’impone a tutti.

17. Infatti, le pratiche di rivolta che continuano a disseminare il movimento meriterebbero di essere riconosciute come un’altra forma, più specifica e più sorprendente, di blocco economico. Una paralisi completa dei centri delle città attraverso il susseguirsi incontrollabile di molteplici giornate di scontri e di saccheggi. I Groupes d’Intervention de la Police Nationale (GIPN) in armi, di fronte a folle disarmate. Da tutto ciò occorre imparare una lezione: la strategia del blocco economico non può dissociarsi in alcun modo dall’imperiosa necessità di annientare e/o di sconfiggere la totalità delle forze di polizia.

18. Non ci si pone mai solo all’interno di un movimento, ma anche in rapporto, di fronte e forse anche contro di esso. Contro quello che, al suo interno, mantiene un’inconsistenza. Il riflusso del suo vuoto e della sua disperazione. Si tratta di mettersi in contatto con le condizioni materiali e affettive che ci legano a questo mondo. Di rendere non solo impossibile ma anche indesiderabile ogni ritorno alla normalità. Per questo occorre costruire una cartografia di ciò che ci lega: flussi, poteri, affetti, logistica e approvvigionamento. Acquisire, sul filo delle amicizie cospirative, i saperi insurrezionali attraverso cui sconfiggeremo questo mondo. Abbiamo appena appreso le prime lettere dell’abecedario della sedizione. Sappiamo come paralizzare le raffinerie, i depositi petroliferi, le autostrade, i porti. Lasciar riempire le strade di rifiuti per farne delle barricate. Rompere le vetrine che riflettono la nostra assenza. Le domande che si impongono potrebbero dunque essere: come bloccare, definitivamente, le centrali nucleari? Come convertire lo sciopero in diserzione? Come nutrirsi, curarsi, amarsi, senza lasciare questo mondo in pace.

“La sola salvezza per i vinti è quella di non aspettarsi nessuna salvezza”
Francia, 27 ottobre 2010

Sommossa “gitana” in Francia

31 luglio 2010 1 commento

PER RACCONTARE, anche se solo in parte, quello che sta accadendo in queste ore in Francia utilizzerò -oltre a tante eloquentissime immagine- due articoli di Paolo Persichetti usciti su Liberazione in questi giorni.
Una vera e propria rivolta dei rom abitanti in Francia: esasperati da un atteggiamento generale contro di loro che si sta facendo sempre più violento. Un razzismo latente che appare palese nelle dichiarazioni del presidente della repubblica francese e nel modo di muoversi delle forze dell’ordine nelle periferie e nei quartieri più “colorati” .
Stavolta la repressione è e sarà pesante: una vera e propria sommossa non sarà accettata dagli apparati di Stato e già Sarkozy inizia a parlare di revoca di cittadinanza per chi commette reati.


In Francia le uniche Gitanes ammesse saranno d’ora in poi soltanto le sigarette. Non ha detto proprio così il presidente della repubblica Sarkozy ma il senso delle severe misure repressive decise dal consiglio dei ministri mercoledì scorso non si discosta molto da questa radicale soluzione. Niente più nomadi Rom e Sinti in situazione irregolare. Il governo francese intende smantellare più della metà dei 300 campi, considerati illegali, installati nel Paese dalle Gens du voyage, come vengono chiamati le popolazioni nomadi da quelle parti. Il ministro degli Interni, Brice Hortefeux, ha annunciato che le autorità procederanno parallelamente all’espulsione con ricondotta «quasi immediata» in Romania e Bulgaria dei nomadi che avrebbero commesso azioni contro l’ordine pubblico. Una volta tanto gli “Zingari” si ritrovano messi all’indice non per essere sospettati di aver commesso furti e ruberie, oppure per aver messo in piedi un sistema organizzato di accattonaggio insieme a traffici vari o, peggio ancora, come narrano inossidabili leggende metropolitane, per aver «rubato bambini».

Dopo la sommossa, AFP PHOTO ALAIN JOCARD

No, stavolta contro i nomadi ricade un’accusa che ha l’odore sulfureo della perdizione politica, qualcosa che ormai per le culture statuali rasenta l’anticamera del terrorismo. I Rom sono colpevoli di essersi ribellati.  Nella notte tra il 17 e il 18 luglio scorso hanno dato vita ad una sommossa nel villaggio di Saint-Aignan, 3500 anime perdute nelle campagne del Loir-et-Cher, dipartimento situato nel centro della Francia. La dinamica dei fatti è identica alla gran parte delle altre rivolte che si sono svolte negli ultimi decenni nelle banlieues delle maggiori metropoli francesi. Prima l’aria diventa satura di rabbia. La comunità gitana sente montare sulle proprie spalle un clima di stigmatizzazione che si traduce in atteggiamenti sempre più oppressivi e vessatori da parte delle forze dell’ordine a cui le autorità hanno dato briglia sciolta. Quindi scatta l’innesco che provoca l’esplosione di rivolta. In genere un episodio cruento in cui sono coinvolte le forze di polizia, come fu per Cliché-sous-bois dove trovarono la morte Zyed e Bouna, due adolescenti di 15 e 17 anni fulminati dalla scarica elettrica di una centralina dietro la quale si erano riparati dopo esser fuggiti dalle mani di alcuni poliziotti che li rincorrevano solo perché erano in strada. Un classico è l’intoppo ad un posto di blocco, come è accaduto ancora una volta poche settimane fa a Grenoble. In questi casi la versione dei fatti fornita dalle autorità e quella riportata dalle popolazioni locali appaiono ogni volta diametralmente opposte. In quest’ultima vicenda la gendarmeria riferisce un tentativo di sfondamento di un posto di blocco che avrebbe messo a rischio la vita dei militari, i quali avrebbero così sparato per legittima difesa uccidendo uno dei passeggeri. Il giovane deceduto apparteneva alla comunità nomade del posto, si chiamava Luigi e aveva solo 22 anni. Ovviamente chi era al suo fianco a bordo di una sgangherata R19 con 300mila chilometri nel motore, il cugino Miguel Duquenet consegnatosi più tardi alle autorità, ha riportato una versione completamente diversa, denunciando addirittura un’esecuzione a freddo da parte dei gendarmi, con modalità da vero e proprio «agguato». I militi infatti erano in borghese, assolutamente non identificabili, spuntati all’improvviso dal buio. L’episodio ha scatenato una rivolta senza precedenti nella tradizione gitana. Due caserme della gendarmeria prese d’assalto a colpi d’ascia e barre di ferro da una cinquantina di nomadi infuriati, alberi sradicati, vetture incendiate, semafori e arredo urbano distrutto, una panetteria saccheggiata. Notevoli i danni materiali ma nessun ferito da registrare. Inammissibile per il governo.

AFP PHOTO ALAIN JOCARD

Se anche i nomadi hanno imparato a ribellarsi la situazione diventa davvero pericolosa. E allora cacciamoli tutti anche se vivono in Francia da decenni. Da qui il via allo smantellamento dei campi improvvisati «entro i prossimi tre mesi», come ha spiegato il ministro degli Interni. Una decisione avallata dalla Commissione europea che ieri, attraverso la portavoce della commissaria alla Giustizia e ai diritti, Viviane Reding, ha sottolineato come «le leggi europee sulla libera circolazione dei cittadini forniscono il diritto agli Stati membri di controllare il loro territorio e lottare contro la criminalità». La soluzione è semplice, basta criminalizzare l’intera comunità.
___P.P. 30 luglio 2010____

«La nazionalità francese deve poter essere ritirata a tutte le persone di origine straniera che hanno volontariamente attentato alla vita di un poliziotto o di chiunque altro rappresenti l’autorità pubblica». E’ la proposta choc lanciata ieri da Nicolas Sarkozy durante la cerimonia d’insediamento del nuovo prefetto dell’Isère incaricato di riportare l’ordine dopo le settimane di violenze urbane che hanno contrapposto giovani della banlieue di Grenoble alle forze dell’ordine. «Non dobbiamo esitare a rivedere le condizioni per ottenere il diritto ad acquisire la cittadinanza francese», ha dichiarato ancora il presidente francese, spiegando che «dovremmo avere il coraggio di togliere la nazionalità a quelle persone nate all’estero che abbiano intenzionalmente cercato di uccidere un agente di polizia, un gendarme o qualunque altro rappresentante dell’autorità pubblica». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ulteriormente rincarato la dose con un’altra proposta: per i minori nati in Francia da genitori stranieri una volta raggiunti i 18 anni l’acquisizione della nazionalità non deve essere più un diritto, qualora questi commettano dei crimini. Accompagnato dalla ministra della Giustizia Alliot-Marie e dal responsabile dell’Interno Hortefeux (condannato pochi mesi fa per aver pronunciato frasi razziste contro un militante d’origine araba del suo stesso partito), Sarkozy ha nuovamente sfoderato la retorica sicuritaria. Nomadi e giovani delle periferie sono diventati così i capri espiatori dopo lo scandalo suscitato dall’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illegali che il candidato presidenziale avrebbe ricevuto durante la campagna elettorale dalla vedova Bettencourt, la ricca ereditiera della L’Oréal nota per le sue simpatie fasciste. Per risalire la china Sarkozy sta ripescando tutti gli argomenti contro la delinquenza che gli erano valsi la vittoria nelle presidenziali del 2007. Discorsi muscolari e annunci roboanti per invocare il pugno di ferro contro le periferie, gli stranieri, le popolazioni nomadi. La questione sociale, l’irrisolto disagio delle periferie, la disoccupazione (per gli stranieri non comunitari siamo ad un tasso del 24%, cioè il doppio della media nazionale), il fallimento dell’integrazione, l’esplosione degli identarismi comunitari, si riassumono in un’unica dimensione criminale, un fatto d’ordine pubblico, un problema che chiama in causa solo l’intervento delle forze di polizia. Non a caso a riportare l’ordine a La Villeneuve, quartiere sensibile della periferia di Grenoble teatro di una sommossa, è stato chiamato il prefetto Eric Le Douaron, una lunga carriera nella polizia fino a divenire nel 1999 direttore generale della pubblica sicurezza. Sotto la sua gestione entrò in funzione la nuova figura del “poliziotto di quartiere”. Il presidente ha infine concluso il suo discorso attaccando i «troppi diritti» conferiti alle persone straniere in situazione irregolare, auspicando la revisione delle prestazioni a cui hanno accesso. In poche parole Sarkozy mira a smantellare l’assistenza medica universale e magari, perché no, anche le mense per poveri.
___ P. P. 31 luglio 2010___

Intervista a Sonja Suder e Christian Gauger, a rischio estradizione!

5 aprile 2010 3 commenti

La buca delle lettere di Sonja e Christian

Dal blog DamnatioMemoriae non posso non prendere (GRAZIE!!!) la traduzione di quest’intervista pubblicata sull’edizione domenicale della Tageszeitung (TAZ, quotidiano berlinese di sinistra) del 21.3.2010, agli esuli tedeschi in Francia Sonja e Christian,  di cui ho già parlato in questo blog.[Archivio]
Revolutionäre Zellen
Sfuggiti per 22 anni ai cacciatori di terroristi. Sonja Suder e Christian Gauger sulla vita in clandestinità e su ciò che si prova quando si viene scoperti
“Guardi sempre se c’è qualcuno dietro di te”

di Andreas Fanizadeh

taz: Signora Suder, signor Gauger, quando vi siete accorti per la prima volta di essere osservati?
Sonja Suder: Era l’estate 1978. Eravamo appena tornati a Francoforte da una gita nel sud della Francia. Alle 6 di mattina ci siamo mossi per montare il nostro stand al mercato delle pulci all’Eisernen Steg sul Mainufer.
E li avete notato che qualcuno vi seguiva?
Suder: Alle sei di mattina è evidente se qualcuno ti sta dietro dalla porta di casa fino al mercato, dove poi non monta un suo stand. Al pomeriggio l’abbiamo comprovato ed era chiaro: eravamo osservati. Era un clado giorno d’estate a Francoforte, credo in agosto. E dovemmo prendere una decisione.
Perché?
Eh, erano tempi duri, era l’anno dopo il sequestro Schleyer e i morti di Stammheim. Decidemmo di andarcene via.

1978.
Chi si ricorda del 1978, l’anno in cui Sonja Suder e Christian Gauger scomparvero dalla scena, per restare introvabili nei successivi 22 anni? L’anno in cui l’Argentina visse i mondiali di calcio. O in cui nacque Katja Kipping, oggi vice capo del Partito Die Linke (La Sinistra). C’era ancora la RDT (Germania dell’Est) e l’Europa occidentale era nella fase finale del movimento del ’68. In Nicaragua i Sandinisti attaccarono il Palazzo Nazionale, in Italia le Brigate Rosse uccisero il democristiano Aldo Moro.

Quando l’esplosivo scoppiò all’improvviso
E nella Repubblica Federale Tedesca, nel giugno del 1978, un conoscente -secondo la Procura penale- di Sonja Suder e Christian Gauger si preparò a piazzare una bomba al Consolato argentino di Monaco. Si chiamava Herrmann Feiling ed avrebbe agito, come Sonja Suder e Christian Gauger, nell’ambito delle cosiddette Cellule Rivoluzionarie (RZ). Le RZ erano per gli apparati di difesa dello Stato difficili da valutare, poiché dalla loro spaccatura del 1976/77 agivano senza una direzione riconoscibile. Il gruppo propagava attacchi con danni materiali e tentava, diversamente dalla RAF, di non fare vittime. Suder e Gauger avrebbero partecipato, dice oggi la Procura, a due attacchi contro imprese che lucravano sull’uranio con il Sudafrica, nel 1977, e ad un incendio al castello di Heidelberg, nel 1978. Perciò il 15 settembre 1978 un giudice istruttore federale emise un mandato d’arresto contro i due.Se Gauger, Suder e Feiling si conoscevano veramente, come ritiene la Procura, potevano senz’altro, nel 1978, considerare l’Argentina come uno Stato di non-diritto. Là i militari avevano fatto nel 1976 un colpo di stato con un seguito di 30’000 omicidi. In quel paese e in condizioni scandalose si giocarono i campionati mondiali di calcio. E la coalizione social-liberale di Bonn tollerava gli affari delle imprese tedesche con la dittatura argentina, mentre aiutava solo con molte esitazioni i cittadini germanici incarcerati e torturati in Argentina. V’erano insomma serie inconvenienti , anche se solo pochi come Herman Feiling tentarono di bucare con una bomba il muro del Consolato argentino. Ma l’attentato al Consolato non ebbe luogo. Per Hermann Feiling, il presunto conoscente di Suder e Gauger, la preparazione ebbe un esito fatale. L’esplosivo scoppiò il 23 giugno prima del previsto ad Heidelberg, e Feiling perse entrambe le gambe e gli occhi.
Il ferito grave venne palesemente interrogato dagli inquirenti già nella clinica universitaria di Heidelberg. Per settimane e mesi, dicono amici ed avvocati, gli inquirenti isolarono Feiling, per cercare di ottenere informazioni sulla struttura organizzative delle Cellule Rivoluzionarie. Gli inquirenti verbalizzarono ciò che Feiling avrebbe detto loro sotto l’effetto dei medicamenti e senza l’assistenza di un legale liberamente scelto, cose che poi egli ritrattò.
Poche settimane dopo l’incidente di Feiling, Suder e Gauger notarono la squadra di osservazione a Francoforte e si eclissarono. Da allora avrebbero vissuto da qualche parte all’estero senza più essere attivi -come lo erano in precedenza- in rapporto alle RZ.
Il sospetto contro Suder e Gauger “si appoggia in sostanza sulle dichiarazioni del testimone Feling nel 1978” conferma oggi, su richiesta, la Procura di Francoforte. Solo nel 1999 si aggiunse secondo le autorità un ulteriore sospetto contro Sonja Suder. Accusa: partecipazione all’attacco contro l’OPEP a Vienna nel 1975 e complicità in omicidio. I termini di prescrizione per gli attentati originariamente imputati a Suder e Gauger è di 20 anni. Sarebbero quindi prescritti dal 1998. Ma, sostiene la Procura pubblica, la prescrizione è stata “interrotta più volte” e può andare “al massimo fino al doppio del tempo previsto, dunque a 40 anni”. Un attacco incendiario del 1978 (prescrizione: 10 anni) può essere trasformato in un attacco incendiario con messa in pericolo della vita altrui (prescrizione: 20 anni) e così allungare la prescrizione a 40 anni.
È del 2000 la spettacolare scoperta con immediato arresto dei due “pensionati delle RZ”, come vennero definiti, a Parigi. Da allora le autorità francesi e tedesche si affannano su Suder e Gauger. Nel 2001 la Francia respinse una domanda di estradizione della Germania. Ora la pagina potrebbe voltarsi, grazie al nuovo mandato di cattura europeo, contro i due militanti della sinistra degli anni settanta. Il caso pende al momento presso la Corte costituzionale francese. Si ignora se la Francia estraderà.

2010.
Parigi, Saint Denis, vicino all’Università 8. Su piccolissimi appezzamenti di terreno sorgono piccole case, in lontananza si scorgono i profili di alcuni grattacieli. Non c’è nessuno per strada, è una giornata fredda e umida. In una delle casine, o meglio in una parte minuscola di una di quelle casine, vivono da quando vennero scoperti ed arrestati Sonja Suder e Christian Gauger. Sonja Suder ha compiuto nel frattempo 77 anni, Christian Gauger ne ha 68. Erano una coppia già prima della fuga nel 1978. È la prima volta che parlano con la stampa tedesca. Il colloquio è accompagnato da thé e torte. La loro cucina non arriva a 16 metri quadrati.

In clandestinità poco prima della laurea
Com’è, essere trovati e presi decine di anni dopo aver attaccato delle imprese tedesche per i loro affari con il Sudafrica dell’apartheid, dopo essere scomparsi ed aver vissuto una vita clandestina in Francia? Suder e Gauger sorridono. Su quei temi non parlano. Entrambi vogliono parlare con la TAZ a condizione di non dover rispondere a domande che possano avere un rilievo giuridico nel loro processo. Non dicono se, e se sì, per cosa, portano responsabilità.

taz: Da quando vive in esilio?
Sonja Suder: Dal 1978.
Prima viveva a Francoforte?
Suder: Si, studiavo medicina. Quando siamo partiti, avevo quasi finito.
Quanti anni aveva, allora?
Suder: Dovevo averne 45.
E lei, signor Gauger?
Christian Gauger: Anch’io vivevo a Francoforte. Avevo un diploma in psicologia e lavoravo con la pedagogia speciale all’Università.
Come collaboratore scientifico?
Gauger: No, come ‘servitore’ scientifico. Così si chiamava allora.

Gauger squadra il giornalista. Beve un po’ dalla sua tazza -thé d’erbe come quello di Suder- ed è calmo e concentrato. I suoi capelli bianchi li ha raccolti in una treccia, il viso è incorniciato da una barba sale e pepe tagliata corta. Con la sua camicia a fiori ed il leggero dialetto della regione dell’Hess potrebbe essere uscito direttamente da un negozio di antiquariato del quartiere Bockenheim a Francoforte. Sonja Suder dirige il dialogo. I suoi 77 anni non si notano. Una personalità agile, vivace e spontanea, con una voce decisa, è vestita sportivamente in nero, con capelli corti e scuri.
La camera a Saint Denis è arredata con mobili usati, comoda e pratica, come se ne vedono nelle comuni della scena alternativa. L’anticonsumismo sembra un’ideologia pratica per la vita spartana della clandestinità, senza pensione né entrate stabili. Tra i libri sugli scaffali si notano molti reggiposate. I reggiposate vengono volentieri usati in Francia per appoggiarvi le posate tra una portata e l’altra, per non sporcare il tavolo. Sono di porcellana, di diversi metalli nobili, rifiniti in modo semplice o artistico. Ogni uomo ha un hobby, e collezionare reggiposate è quello di Christian Gauger. Lui racconta lentamente, è quasi floscio. Nel 1997 ha subito un infarto ed ha dovuto essere riportato in vita.

Taz: Com’era la situazione, quando veniste arrestati nel 2000?
Suder: Eravamo arrivati da poco a Parigi e siamo usciti dall’albergo. Andò tutto molto in fretta: mani in alto! Poi volto e braccia contro il muro.
Polizia francese?
Suder: Sì, polizia francese.
Nessun tedesco assieme a loro?
Suder: No, solo più tardi, al distretto degli sbirri, lì c’erano anche dei tedeschi. Non si sono lasciati vedere, ma potevi sentire come parlavano tra di loro.
È importante per voi che si parli di ‘sbirri’?
Suder [ride]: No, possiamo anche dire polizia.
Ve l’aspettavate, di essere presi nel 2000?
Suder: No. Non in quel particolare momento, anche se rispetto alla tua vita sai che potrebbe accadere in qualsiasi momento. Non si sa mai cosa stia effettivamente succedendo. In questo senso essenzialmente te lo aspetti.
Insomma non avevate nessun concreto indizio?
Suder: No. E questo benché ci stessero sicuramente già addosso da un pezzo.
Sapete come vi hanno ritrovati dopo 22 anni?
Suder: Non è chiaro. Avevamo avuto in incontro con un parente. Forse gli si sono appiccicati.
Intende dire che per tutto l’anno un commando di catturatori vi è stato addosso?
Suder: Non credo. Fino alle dichiarazioni di Hans-Joachim Klein nel 1998/99 non eravamo neppure sempre indicati nelle ricerche per la cattura in Europa. La cosa deve essere cambiata dopo.
Hans-Joachim Klein partecipò nel 1975 all’attacco contro l’OPEP a Vienna. Si allontanò in seguito dal terrorismo ma venne preso solo nel 1998 in Francia. Dopo il suo arresto sostenne per la prima volta nel 1999 che Sonja Suder aveva potuto partecipare alla logistica dell’attacco all’OPEP. Fino al 1999 non c’era un ordine di arresto internazionale?
Suder: No, secondo i nostri avvocati. È probabilmente per questo che prima abbiamo avuto abbastanza tranquillità.
Signor Gauger, si trattiene? Non vorrebbe partecipare alla nostra conversazione?
Gauger: Di molte cose non ho più ricordi. Ho avuto un infarto e sono entrato in coma.
Quando è successo?
Suder: 1997.
Gauger: Il cuore mi si fermò. Ero praticamente morto. Sonja mi ha riportato in vita. [Arresto cardiaco e infarto, con i conseguenti pregiudizi sul cervello e sulla capacità di memoria sono attestati da perizie mediche francesi].
Le vostre false identità erano così ben fatte che potevate chiedere delle cure mediche?
Suder: Dovevamo! Già solo per il controllo e le medicine. La riabilitazione l’ho poi fatta io con lui. Era davvero una situazione assurda.
E non vi hanno scoperti?
Suder: No. A volte abbiamo dovuto trattenere il respiro, ma la nostra età fa sì che la gente non sia tanto malfidata.
Gauger: Io avevo integralmente perduto la memoria.
Ma Sonja Suder l’ha riconosciuta?
Suder: Fatto che mi stupì, devo dire.
Gauger: Ma prima non sapevo neppure che esistesse, l’ho conosciuta solo quando è ritornata nella camera.
Che sentimento si prova, quando ci si è dimenticati tutto, si vive in clandestinità e ci si deve fidare di una persona che ci insegna chi si è?
Gauger: Prima o poi viene la paura: cazzo, che succede se rimango stupido? Quando mi è venuto questo timore era però anche il momento in cui ho notato che potevo pensare da solo. La cosa è durata per un po’.
Sonja Suder le ha anche dovuto raccontare perché viveva in clandestinità?
Gauger: Sì. Ma naturalmente non so se mi ha raccontato tutto. Semplicemente non lo so.
Suder: Questo neppure si può. Non puoi raccontare un’intera vita. Se qualcuno lo chiede e se si lavora con certi testi di riabilitazione, si può ri-raccontare qualcosa, ma non si può sovraccaricare una cervello. La cosa funziona pezzetto per pezzetto.
1997 e 2000 – tra arresto cardiaco e incarcerazione non passò molto tempo.
Suder: Sì, ma si era già stabilizzato. Il punto di cui prima parlava fu dopo un mezzo anno di riabilitazione. Ma ancora oggi Christian mi chiede cose sul suo passato, ed in pratica continuiamo ancora la riabilitazione.
Dopo l’incarcerazione siete stati immediatamente separati?
Suder: Sì, subito.
Avete ancora famiglia in Germania?
Suder: Sì, abbiamo contatto con le nostre rispettive sorelle.
Signor Gauger, allora adesso può verificare autonomamente se ciò che le ha raccontato la signora Suder è vero?
Gauger: Sì, questo è almeno divenuto più facile.
Che atteggiamento avete avuto nei confronti dell’interrogatorio dopo l’arresto?
Suder: Se prima hai concordato “se succede qualcosa, nessuna parola, niente dichiarazioni”, hai allora un buon sentimento di sicurezza.
Quanto siete rimasti in carcere preventivo nella prima procedura del 2000/2001?
Suder: Meno di tre mesi. Christian era detenuto a Parigi, il carcere femminile era fuori.
È stata la vostra prima volta in carcere?
Suder: Sì, io ero alla fine dei miei 60 anni, Christian all’inizio dei suoi.
Com’era in carcere?
Suder: Si dice che le prigioni francesi siano le peggiori del mondo. Io però non posso affermarlo. Sono stata messa in cella e avevo la normale ora d’aria nel cortile. Ho incontrato subito due donne basche. Da quel momento mi è stato organizzato tutto ciò di cui avevo bisogno, in modo naturale e ovviamente sottobanco. Insomma ero quasi un po’ privilegiata. Quella solidarietà era affascinante.
Qual’era la cosa più noiosa in carcere?
Suder: Di fatto, il baccano. Ad ogni passaggio ci sono porte d’acciaio, che vengono in permanenza aperte e sbattute rumorosamente. Sono dei botti continui. Un baccano incredibile. L’essere rinchiusa non era per me così brutto, per quello ti prepari un po’ prima. Devi subito vedere di fare qualcosa, come esercizi sportivi e letture.
Signor Gauger, come fu per lei?
Gauger: Al passeggio, è venuto subito uno da me. Sapeva già. Così poi sono stato sempre con lui e con un altro al passeggio. In cella eravamo in tre. I letti a castello erano scomodi; sul terzo, sopra, si è ben in alto, ti possono venire le vertigini. Altrimenti: topi e scarafaggi, che sono però animali domestici. Meglio che una cella singola tutta bianca, dove non vedi né senti nessuno.
Che si pensa, quando si è arrestati dopo 20 anni di esilio?
Suder: Adesso ci hanno proprio beccati.
Gauger: E io ho pensato: questo non è necessario.
Sapete ciò che concretamente vi viene rimproverato?
Suder: Tre attentati, due contro il programma atomico dell’allora regime dell’apartheid sudafricano, ed un attacco contro la ristrutturazione della città di Heidelberg. A me, inoltre, Vienna. Questa storia dell’OPEP. E con essa l’accusa: complicità in omicidio. In Francia questo sarebbe già prescritto. Le sole cose che qui non vanno in prescrizione sono i crimini contro l’Umanità.
L’accusa di partecipazione all’attacco contro l’OPEP l’ha sorpresa?
Suder: Sì.

1975. L’arresto di Klein nel 1998 fu un fulmine a ciel sereno, proprio come la sua affermazione della partecipazione di Suder. Klein aveva fatto parte nel 1975 di un commando diretto da Ilich Ramirez Sanchez, detto ‘Carlos’, e che si rese responsabile della morte di tre persone. A Klein, ferito durante l’azione, riuscì di partire con gli altri membri del commando e con i ministri dell’OPEP in ostaggio. Poi nel 1976 un commando tedesco-palestinese dirottò un aereo dell’Air France su Entebbe; in quell’occasione morirono Wilfried Böse e Brigitte Kühlmann, considerati dirigenti delle prime RZ. In seguito le RZ si rifondarono, distanziandosi da gruppi e formazioni del vicino oriente come quella di Carlos. Criticarono l’antiamericanismo e l’antisionismo della ‘sinistra antiimperialista’ e propagarono forme di attacco che non producessero morti.
Su richiesta, la Procura pubblica di Francoforte conferma oggi che, fino al 1999 ed a parte le affermazioni di Klein, non v’è mai stato il minimo indizio che Suder sia stata coinvolta nella prima fase delle RZ fino al 1976. Klein, la cui credibilità viene spesso paragonata con l’ex-membro della RAF e raccontatore di storie Peter-Jürgen Boock, accusò dei militanti delle RZ ed altre persone di aver partecipato all’attacco contro l’OPEP. Rudolf Schindler venne per questo processato dal tribunale di Francoforte. E venne assolto dall’accusa di complicità nell’attaco all’OPEP, smentendo l’accusa di Klein. La corte dubitò della sua “certezza di identificazione nel riconoscimento fotografico del 2.9.1999”. In quell’occasione accusò assieme a Schindler anche Suder, “benché in precedenza non avesse mai accennato ad un’altra donna”, affermò il tribunale già 2001. A parte la dichiarazione di Klein, ancora oggi la procura penale non ha null’altro in mano contro Suder per l’attacco all’OPEP.

TAZ: Quanto presenti sono state per voi in questi anni le accuse dei ’70, di una fase sempre più lontana delle vostre vite? Avete potuto avere una vita normale?
Suder: All’inizio no. Ti guardi sempre dietro per vedere se c’è qualcuno. Se parla tedesco.
Gauger: Il meno possibile contatti con dei tedeschi, questo è molto importante.
Signora Suder, signor Gauger, non vi è mai venuto in mente in tutti quegli anni: la storia è così vecchia, che senso ha, vogliamo ritornare e affrontiamo il passato?
Suder: Insomma, a me no. E a te, Christian?
Gauger: Certo, se avessero revocato i mandati di cattura.
Suder: Molto divertente. Ora è però chiaro: se la Francia ci estrada, saremo processati in Germania.
Il gruppo al quale avreste appartenuto si è sciolto definitivamente all’inizio degli anni novanta. Questo ha qualche influenza sul processo?
Suder: Giuridicamente nessuna. Dopo l’entrata in vigore degli accordi penali europei, siamo stati arrestati una seconda volta nel 2007. Christian per quattordici giorni ed io per un mese. E dal 2009 dobbiamo contare ogni giorno sull’eventualità di un’estradizione, benché il tribunale francese avesse già negato l’estradizione nel 2001
Dopo la vostra scoperta nell’anno 2000 e il rifiuto della domanda di estradizione avete vissuto a Parigi per la prima volta di nuovo legalmente. Com’è stato per voi?
Suder: Quando vivi sempre con una leggenda, non ti puoi costruire delle vere amicizie. Abbiamo vissuto tutti quegli anni molto ritirati. A Parigi in un primo tempo non avevamo nessun contatto. La nostra avvocatessa ci ha trovato dei compagni italiani, così da avere almeno un indirizzo da indicare per poter essere scarcerati. Poi una bravissima donna ci ha ospitati. Credo che in Germania sarebbe stato più difficile. Ma la cultura repubblicana ha in Francia una ricca e secolare tradizione di offrire rifugio agli esuli. Persone che non conoscevamo ci hanno lasciato la loro casa per mezzo anno, sono andati ad abitare nel sud della Francia permettendoci così di cercarci una nostra abitazione a Parigi. Praticamente non conoscevano né noi né la nostra storia, e ci hanno semplicemente aiutati. Ci siamo poi integrati in fretta nell’ambiente, abbastanza grande, degli esuli italiani, i militanti degli anni ’70 qui rifugiati, con le loro discussioni e le loro feste. Sono molto solidali. Abbiamo avuto fortuna.

Da Francoforte a Parigi
1. Clandestini: Nell’estate 1978 a Francoforte Sonja Suder e Christian Gauger si accorsero di essere spiati. Partirono all’estero ed assunsero false identità. Probabilmente vissero in Francia, a Lille. Nel 1997 Gauger subì un colpo apoplettico e perse la sua memoria -della falsa come della vera identità.
2. Scoperti: Nel 2000 vennero scoperti ed arrestati davanti ad un albergo a Parigi. Separati, passarono alcuni mesi in carcere preventivo. Da allora Suder, 77 anni, e Gauger, 68, vivono a Parigi. La Germania ne chiede alla Francia l’estradizione -fin’ora invano.
3. Incolpati: La Procura di Francoforte sul Meno accusa oggi la coppia di aver partecipato ad attentati contro imprese nel 1977 e contro il castello di Heidelberg nel 1978. Suder è inoltre accusata di complicità in omicidio: per l’attacco alla conferenza dei ministri dell’OPEP a Vienna nel 1975, dove tre persone persero la vita. Questa accusa è basata soltanto sulle dichiarazioni dell’ex-terrorista Hans-Joachim Klein.

Da Parigi: BRUCIAMO LE FRONTIERE!

4 gennaio 2010 1 commento

Un appello da Parigi

Il 25, 26 e 27 gennaio prossimi si aprirà al Tribunale di Parigi (Aula 16, Fermata “Cité” della metropolitana) il processo per l’incendio di Vincennes. Ve ne abbiamo già parlato a lungo, di quella rivolta, vi abbiamo parlato dell’apertura del processo in dicembre, e recentemente vi abbiamo anche tracciato una stimolante cronologia di questi ultimi mesi di lotta contro i Centri e contro le galere in Francia ed in Belgio.

Ora ci giunge un appello dalla Francia perché la settimana che precede le udienze – quella che va dal 16 al 24 di gennaio – si trasformi in una settimana di solidarietà con gli accusati, in una settimana di lotta contro i Centri e contro le frontiere. Eccovelo.
 

BRUCIAMO LE FRONTIERE!

Vincennes, 22 giugno 2008

La rivolta che ha portato all’incendio della più grande prigione per stranieri in Francia è una risposta concreta e storica all’esistenza dei centri di trattenimento e all’insieme della politica di controllo dei flussi migratori. Nei giorni 25, 26 e 27 gennaio, dieci persone saranno giudicate per questa rivolta nel Tribunale di Parigi (Metropolitana Cité). La nostra solidarietà deve essere all’altezza della posta in gioco: rilascio degli accusati e, inoltre, libertà di movimento e di insediamento.
Il 22 giugno 2008, il più grande CPT di Francia è bruciato. Tra giugno 2008 e giugno 2009, una decina di ex- trattenuti sono stati arrestati e collocati in detenzione preventiva – per la maggior parte da quasi un anno -. Sono accusati di danneggiamento, distruzione di edifici del centro di trattenimento amministrativo di Vincennes e/o violenza contro le forze dell’ordine.
Durante i sei mesi precedenti all’incendio, il centro di Vincennes è luogo di continui movimenti di protesta di coloro lì rinchiusi perché sprovvisti di documenti. Scioperi della fame, piccoli incendi, rifiuto all’appello, diverbi con la polizia, forme di opposizione individuali o collettive, si sono succeduti all’interno del centro per tutto questo periodo. All’esterno, manifestazioni e iniziative denunciano l’esistenza stessa di questi centri e sostengono gli atti di rivolta.
Il 21 giugno 2008, Salem Souli muore nella sua stanza dopo aver invano chiesto di essere curato. Il giorno dopo, una marcia organizzata dai detenuti in ricordo di quest’uomo, è repressa con violenza. Scoppia allora una rivolta collettiva e il centro di trattenimento brucia.

Un processo esemplare
Per impedire che questo tipo di rivolta si diffonda, lo Stato deve colpire duramente, trovare dei responsabili. Queste dieci persone sono state arrestate per servire come esempio. Non importa che siano “innocenti” o “colpevoli”. Lo Stato, punendoli, desidera veder scomparire la contestazione, la ribellione, gli atti di resistenza di quelli che si trovano, o si troveranno un giorno, rinchiusi fra le mura di questi centri. La rivolta di Vincennes non è isolata. Ovunque esistano questi centri di reclusione, scoppiano rivolte, avvengono incendi, evasioni, scioperi della fame, ammutinamenti, devastazioni. È successo in Francia (Nantes, Bordeaux, Toulouse dove sono bruciati dei centri) e in numerosi paesi europei (Italia, Belgio, Olanda, Germania) o nei paesi dove i controlli delle frontiere avvengono alla partenza, come in Libia e in Turchia. L’incendio del centro di Vincennes non è solo simbolico: la scomparsa di 280 posti all’interno del centro ha avuto come conseguenza immediata una importante diminuzione delle retate e delle espulsioni nei dintorni di Parigi, durante il periodo successivo. In concreto, migliaia di arresti sono stati evitati. Con il loro agire, i detenuti hanno bloccato per un lasso di tempo il funzionamento del meccanismo di espulsione.

Prigione per stranieri: rinchiudere, espellere, dissuadere l’immigrazione

Vincennes, 22 giugno 2008

I centri di trattenimento sono una delle tappe tra l’arresto e l’espulsione. Servono a tenere rinchiusi gli stranieri per il tempo necessario a preparare le condizioni necessarie alle espulsioni, che si tratti di un passaporto o di un lasciapassare rilasciato da un consolato e un posto in aereo o in nave. Più uno Stato vuole espellere, più sono i centri di reclusione che costruisce. Ovunque, il loro numero continua ad aumentare. In Europa, c’è la tendenza ad allungare i tempi di trattenimento, il che permette di aumentare le espulsione, ma anche di dissuadere l’immigrazione. Di fatto, questi luoghi di trattenimento sono strutture punitive. Vengono sempre più costruiti come fossero carceri: video-sorveglianza, unità ridotte, celle d’isolamento… In Francia, ad esempio, il più grande centro in costruzione a Mesnil-Amelot (240 posti), che aprirà tra qualche settimana, ha adottato questo modello. In Olanda, dove i suicidi e i decessi ‘inspiegabili’ sono frequenti nei centri, la detenzione dura 18 mesi e può essere riconfermata una volta tornati in libertà, le persone sono rinchiuse singolarmente in cellule molto piccole, oppure su battelli- prigione, con scarse possibilità di accedere all’esterno.

Clandestini: mano d’opera fatta su misura…
I centri di reclusione sono parte della politica di “gestione dei flussi migratori”, elaborata secondo i criteri della “immigrazione scelta” ossia in funzione dei bisogni di mano d’opera dei paesi europei. Non è da oggi che il padronato dei paesi ricchi fa ricorso ai lavoratori immigrati per accrescere i profitti. In modo legale come nel caso del lavoro a termine, di quello che era il contratto OMI (che permette di adeguare il diritto di presenza sul territorio al tempo dei lavori stagionali) oppure con il lavoro nero, dove gli stranieri sono impiegati molto spesso nei settori più difficili (BTP, lavori nei ristoranti, pulizie, lavori stagionali, …). Questi settori richiedono una mano d’opera flessibile, da adattare ai bisogni immediati della produzione. Oltre all’assenza di diritti legati al loro statuto, per esempio in caso di infortunio, la costante minaccia di arresto e di espulsione che pesa sui clandestini, permette ovviamente ai padroni di pagarli di meno, se non addirittura di non pagarli per niente (non è poi così raro). Questo abbassamento dei salari e delle condizioni di lavoro permette al padronato di rafforzare lo sfruttamento di tutti. Gli innumerevoli scioperi dei lavoratori privi di documenti mostrano a che punto padroni e Stato hanno bisogno di questa mano d’opera, ma anche che organizzandosi insieme, i clandestini possono talvolta tenere loro testa ed ottenere di essere messi in regola.

… e capro espiatorio ideale
La politica migratoria, e i centri di reclusione che fanno parte dell’ingranaggio, serve soprattutto a stigmatizzare chi non ha documenti. Lo Stato ne fa il capro espiatorio delle difficoltà che incontra oggi il popolo francese. L’utilizzo spettacolare delle espulsioni di Stato contribuisce a dimostrare da una parte l’ampiezza del “pericolo” che l’immigrazione irregolare rappresenta per la Francia e dall’altra l’efficacia di uno Stato che protegge i propri concittadini contro questo pericolo.
Lo Stato utilizza artifici come le cosiddette “minacce dell’immigrazione clandestina”, la “feccia delle periferie”, le “donne che portano il velo”, o la campagna sull’identità nazionale, per suscitare i peggio rigurgiti xenofobi e razzisti e tentare di creare consenso intorno al potere e al mondo che produce.

Frontiere ovunque
I centri di reclusione costituiscono un elemento indispensabile per applicare una politica europea di controllo dei flussi migratori che, mentre pretende abolire le frontiere all’interno dello spazio di Schengen, all’esterno le rafforza, in particolare con il dispositivo Frontex. Così il controllo inizia aldilà delle porte dell’Europa in accordo con paesi come la Libia, la Mauritania, la Turchia o l’Ucraina, dove vengono finanziati campi di detenzione per stranieri decretati indesiderabili, prima ancora che abbiano avuto la possibilità di mettere piede in Europa.
Allo stesso tempo dentro questo spazio territoriale le frontiere si moltiplicano, si spostano e quindi sono ovunque: ogni controllo di identità può portare all’espulsione. Perché la frontiera non è solo una linea che demarca un paese, ma soprattutto un posto di controllo, di pressione, di scelta. Così la strada, i trasporti, le amministrazioni, le banche, le agenzie di lavoro a termine, di fatto funzionano come frontiere.
I centri di reclusione, come tutti i campi per migranti, sono particole di frontiere assassine dell’Europa di Schengen. Sono luoghi dove si aspetta, rinchiusi, a volte senza scadenza e senza sentenza, dove si muore per mancanza di cure, dove ci si suicida piuttosto che essere espulsi. Bisogna farla finita con le frontiere!
Per tutte queste ragioni e perché la gestione dei flussi migratori non è “giusta”. Perché ciascuno deve poter decidere di vivere dove gli pare. Noi siamo solidali con gli accusati della rivolta e dell’incendio del centro di reclusione di Vincennes.

LIBERTÀ PER TUTTI GLI ACCUSATI!
LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE E DI INSEDIAMENTO!
CHIUSURA DEI CENTRI DI RECLUSIONE!
BASTA COI DOCUMENTI!

SETTIMANA DI SOLIDARIETÀ DAL 16 AL 24 GENNAIO 2010
Primo appuntamento il 16 gennaio 2010: Documentari, Dibattito,
Informazioni alle 19.00 al CICP (21 ter, rue Voltaire, 75011 Paris)

macerie @ Gennaio 4, 2010

Evasioni e lotte in Francia contro i C.I.E.

23 novembre 2009 Lascia un commento

Evasioni senza frontiere dal sito “MACERIE

 

 Intanto, un lancio d’agenzia dalla Francia:
«Otto stranieri in situazione irregolare sono evasi nella notte tra giovedì e venerdì dal Centro di Detenzione Amministrativa di Palaiseau, in Essonne. Dopo mezzanotte, sono riusciti a scappare dal primo piano, da dove sono scesi grazie ad un lenzuolo, dopo aver smontato le griglie di una finestra. Si tratterebbe di due rumeni, due marocchini, tre algerini e un burkinabé. Secondo una fonte vicina all’amministrazione, il responsabile del Centro avrebbe allertato molto recentemente la Prefettura in merito alla sicurezza del centro, chiedendo di effettuare lavori di ammodernamento.»

E poi, visto che ci siamo,  vi pubblichiamo qui sotto la versione elettronica di un opuscole che sta circolando oltralpe e che racconta delle lotte intorno ai Centri di lassù durante l’ultima estate. Alcuni passaggi riguardano proprio gli interventi negli aeroporti, che qui in Italia mancano del tutto. Chi mastica un po’ il francese, dunque, gli dia una occhiata.
Récits de révoltes et de solidarité

       macerie @ Novembre 22, 2009

Sotto sgombero la “giungla” di Calais

22 settembre 2009 Lascia un commento

calais-camp-pic-getty-953062323Dalle 7.30 di martedi 22 settembre, l’insediamento irregolare di immigrati vicino a Calais, in Francia, è circondato dai CRS, la polizia anti-sommossa. La scorsa settimana il ministro per l’immigrazione Eric Besson aveva annunciato l’immediato sgombero, che sembra non si stia facendo attendere. 

Sono almeno 150 i migranti che vivono in quella baraccopoli, quasi tutti provenienti da Pakistan ed Afghanistan. 
“Abbiamo bisogno di riparo e protezione. Vogliamo l’asilo e la pace: questa giungla è la nostra casa”, recitano gli striscioni che circondano la zona.

Hanno aspettato l’intervento della polizia in silenzio, senza muovere un dito, con solo alcuni focolai per scaldarsi durante la notte e condividere un thè con i giornalisti arrivati a vedere. 
Quello di Calais è un luogo simbolo per tutti coloro che dal continente tentano di raggiungere le coste inglesi: la famigerata “giungla” è posizionata infatti a pochi metri dall’itinerario utilizzato dai tir per attraversare la Manica. Tir dove spesso si nascondono e dove ancora più spesso trovano la morte.
Centinaia di migranti avevano iniziato a lasciare la “giungla” proprio appena dopo l’annuncio dell’imminente sgombero fatto dal ministero, per sfuggire all’arresto.

Qui uno splendido documentario….

GLI AGGIORNAMENTI DALL’ANSA: L’operazione è iniziata poco dopo le sette del mattino e si è conclusa con il fermo di 278 migranti, 132 dei quali si sono dichiarati minorenni. Bulldozer sono poi entrati in azione per radere al suolo i rifugi di fortuna costruiti sulle dune. Lo smantellamento, anche su pressione di Londra, era in discussione da almeno un mese e molti migranti avevano già abbandonato il campo. I pochi rimasti hanno atteso l’evacuazione in silenzio, mostrando cartelli con scritte come: «abbiamo bisogno di alloggio e protezione», «vogliamo la pace», «la giungla è la nostra casa». Con loro c’erano decine di militanti di associazioni pro-immigrati, che hanno tentato di opporre resistenza all’evacuazione e due dei quali sono stati arrestati. Il ministro dell’immigrazione, Eric Besson, ha giustificato l’intervento affermando all’emittente radio Rtl che il campo era una «base di trafficanti di esseri umani» dove venivano richieste forti somme per un passaggio verso la Gran Bretagna. Ad ogni migrante, ha assicurato, verrà proposta «una soluzione individuale» con la scelta fra il ritorno volontario in patria, la richiesta di asilo politico o la deportazione forzata.

Estradizioni: il diritto virtuale italiano

16 settembre 2009 5 commenti

di Valentina Perniciaro, L’Altro 16 Settembre 2009

Le uniche volte che il nostro paese è riuscito a prendere alcuni dei militanti della lotta armata riparati all’estero, ciò è avvenuto solo grazie alla frode, ad accordi sottobanco, a manovre che hanno aggirato leggi e trattati internazionali.
Nell’1987-88 tre militanti accusati di partecipazione a banda armata arrivarono dopo una poco chiara triangolazione con Spagna e Francia, dove in quel momento Mitterrand affrontava la sua prima coabitazione e ministro dell’Interno, coautore dell’intera operazione insieme a quello italiano, era Charles Pasqua. Personaggio noto per gli intrighi e i metodi spicci affidati ad operazioni coperte dei servizi. Allora la Francia espulse in Spagna i tre italiani, richiesti dalla nostra magistratura per una processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia.

Cesare Battisti

Cesare Battisti

Nel Frattempo la Spagna aveva negoziato lo scambio dei tre con quello di un militante basco accusato di appartenere all’Eta e da mesi detenuto Rebibbia. In questo modo non solo venne aggirata la dottrina Mitterrand ma lo stesso trattato che regolava la materia delle estradizioni tra paesi europei. Ai tre, per fortuna, andò bene perché nel corso dei processi le loro posizioni si alleggerirono. Alla fine scontarono “solo” alcuni anni di detenzione preventiva.
Non è stato così per la prima “estradizione” diretta dalla Francia, quella di Paolo Persichetti nell’agosto 2002. Un polverone mediatico accompagnò l’episodio, volgarmente festeggiato con un brindisi a villa Certosa da Berlusconi e i suoi sodali durante una cena in cui era presente anche mamma Rosa. All’annuncio, dato via telefono dall’allora capo della polizia De Gennaro al ministro degli Interni Beppe Pisanu presente alla festa, si levò un coro di applausi e qualcuno invitò a levare i bicchieri in aria per brindare alla caccia riuscita. Non si trattava di un’estradizione realizzata secondo i crismi dei trattati europei ma di una consegna speciale. Erano gli anni in cui a livello internazionale era entrata in voga la prassi delle extraordinary rendition e da noi Cia e Sismi rapivano Abu Omar, l’Iman di via Quaranta a Milano mentre funzionava a pieno regime l’agenzia di disinformazione di Pio Pompa.

Persichetti il giorno del "rapimento"

Persichetti il giorno del "rapimento"

Il vecchio decreto d’estradizione che pesava sulla testa di Persichetti, firmato nel 1994 dal primo ministro francese Balladur nel corso della seconda coabitazione (destra al governo e il socialista Mitterrand all’Eliseo), non era più valido perché due delle tre condanne inflitte erano prescritte. Per riaverlo l’Italia imbastì un’enorme montatura giudiziaria esportando a Parigi la pista investigativa che avrebbe dovuto condurre a scoprire gli autori dell’attentato mortale contro Marco Biagi, avvenuto pochi mesi prima. Gli investigatori bolognesi crearono di sana pianta la «pista francese», una pesante campagna stampa venne orientata contro gli esuli ritenuti gli animatori del «santuario parigino della lotta armata». Non c’era nulla di vero. Semmai a Parigi c’era la centrale politica dell’amnistia, una spina nel fianco da sempre mal sopportata dalle autorità e dalla magistratura italiana. Arrestato in serata, nel corso della notte Persichetti venne trasferito e consegnato all’alba sotto il tunnel del Monte Bianco. Viste le accuse indicate nelle rogatorie internazionali e l’inchiesta sull’attentato Biagi che l’aspettava in Italia, Persichetti avrebbe avuto il diritto di dimostrare la propria estraneità nel corso di una regolare nuova procedura di estradizione, che mai ci fu.
Nel 2004 fu il turno di Rita Algranati e Maurizio Falessi, riparati da anni in Algeria. Vennero consegnati via il Cairo alla Digos dopo un accordo con i servizi algerini. Nessuna procedura d’estradizione, nessun giudice ha mai valutato se le pretese italiane fossero fondate, le accuse di natura politica o meno, i processi coretti. Nessun timbro o decreto ha mai sancito e reso legale quell’episodio. Fu un atto di pirateria internazionale, un’azione di contrabbando di vite umane. Presi e caricati a forza su un volo diretto in un paese terzo, ad attenderli trovarono le autorità italiane che preventivamente avevano concordato il tutto. Per giunta dopo un anno di carcere le condanne di Falessi risultarono prescritte.

Rita Algranati il giorno del suo di rapimento

Rita Algranati il giorno del suo di rapimento

È arrivata poi la vicenda Battisti. Prima in Francia, dove il grosso della battaglia giudiziaria ruotò attorno alla contumacia. La tesi italiana era che questa non inficiava minimamente il diritto alla difesa, soprattutto perché a detta degli italiani Battisti aveva comunque nominato dalla latitanza un legale di fiducia. In realtà uno dei primi avvocati di Battisti venne arrestato per un certo periodo, mentre la nomina del secondo, si è poi accertato, era frutto di un falso. Tuttavia ancora non bastava. Bisognava convincere i giudici di una chambre d’accusation, che seppur ben disposti erano comunque vincolati da leggi e giurisprudenza. Alla fine l’Italia strappò l’avviso favorevole sulla base di una promessa, il varo di una legge che avrebbe consentito alle persone condannate in contumacia di chiedere la riapertura del processo. Non si era mai visto che qualcuno venisse estradato in virtù di una legge che non ancora c’era. Era l’inizio del diritto virtuale all’italiana, la giustizia creativa che seguiva il solco delle evoluzioni della finanza. In effetti, una modifica derisoria dell’articolo 175 del codice di procedura venne poi introdotta, ma questa non ha mai previsto automatismi. È rimasto sempre un collegio di giudici a vagliarne la pertinenza. Così la Francia concesse l’estradizione sulla base dell’ennesimo raggiro: la promessa della riapertura di un processo che non sarebbe mai venuto, prova ne è il fatto che di fronte al Supremo tribunale brasiliano si discute d’ergastolo. Il Brasile ne chiede la commutazione, l’Italia risponde che non ce n’è bisogno perché si tratterebbe di una «pena virtuale». Ma il Brasile si farà fregare come la Francia?

L’ennemi interieur, di Mathieu Risouste

14 luglio 2009 Lascia un commento

L’Ennemi interieur, La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine, di Mathieu Rigouste

 di Paolo Persichetti

La temperatura sociale delle periferie francesi è sempre alta. La cronaca non esita restituirci immagini non molto lontane dalle scene di guerra. Ed, in effetti, i dispositivi messi in piedi dal governo evocano apertamente la figura del «nemico interno». Dispiegamento delle più aggiornate tecnologie antisommossa (elicotteri, micro-droni, telecamere di sorveglianza), fino alla spettacolarizzazione delle retate di polizia con massiccio dispiegamento di forze sotto gli occhi delle telecamere, fermi in massa, introduzione d’istituti giuridici come la «testimonianza sotto anonimato» e i giudizi processuali per direttissima; creazione di una branca specifica dei Servizi (appartenenti alla nuova Direction centrale du renseignement intérieur, Dcri), con competenza sulle banlieues, sui moti urbani, il cosiddetto fenomeno delle «bande», la nascita di nuove banche dati centrali, come il sistema Edvige-Edvirsp e Cristina (Cf. LiberazioneQueer del 5 ottobre 2008), finalizzati alla schedatura «di ogni persona d’età superiore ai 13 anni che abbia sollecitato, esercitato o stia esercitando un mandato politico, sindacale o economico o che rivesta un ruolo istituzionale, economico, sociale o religioso significativo». Ennemi_interieur182Insomma un intero arsenale tecnico, giuridico e poliziesco che rinvia apertamente al regime dello stato d’eccezione.

È indubbio che tutto ciò ricalca un immaginario di guerra che conduce a rappresentare alcune zone della società come dei teatri bellici dove l’intervento pubblico non si concepisce più nei termini della politica e del welfare ma unicamente sotto l’aspetto repressivo, per giunta nella sua forma più intensa: quella militare. Questo «nuovo ordine sicuritario» contemporaneo avrebbe una genealogia ben precisa rintracciabile nell’esperienza coloniale e militare della Francia. È quanto dimostra Mathieu Rigouste in un recente volume edito dalla casa editrice La Découverte, L’Ennemi interieur. La généalogie coloniale et militare de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine. Il caso francese deve intendersi in questo caso come un laboratorio, un’esperienza pilota, l’anticipazione di scenari e comportamenti esportabili nel resto del mondo.

In fondo è già accaduto in passato, quando la «dottrina della guerra rivoluzionaria», elaborata dagli stati maggiori francesi nel corso delle guerre coloniali d’Indocina e d’Algeria, popolarizzata nel libro del colonnello Roger Trinquier, pubblicato nel 1961 col titolo, La Guerre Moderne (ripubblicato da Economica nel 2008) e da cui la Cia ispirò il suo primo manuale antisovversione, è diventata la madre di tutte le dottrine contro-inssurrezionali del dopoguerra impiegate dalle forze Nato come da tutte le dittature militari e fasciste, in particolare in Sud America. La counterinsurgency statunitense altro non è che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi hanno insegnato nelle scuole di guerra del Nord America. Si veda in proposito il lavoro di Marie-Monique Robin, Escadrons de la mort, l’école française, La Découverte 2004, che ritraccia l’inquietante percorso di alcuni ufficiali maggiori dell’esercito di Parigi, reduci dall’Indocina e dall’Algeria, che hanno formato alla controguerriglia gli ufficiali Usa a Fort Bragg e nella famigerata Scuola delle Americhe. Un apostolato antisovversivo segnato da varie tappe: lo sbarco come consigliere militare in Argentina, nel 1957, del colonnello Bentresque; il suo primo giro di conferenze (1962) nelle caserme sudamericane per insegnare le strategie antisovversive; Il manuale Instruction pour la lutte contre la subversion, scritto sempre dai colonnelli Ballester e Bentresque; la proiezione, nel 1971, all’interno della famigerata scuola di meccanica della Marina a Buenos Aires (dove furono torturati migliaia di cittadini sospettati d’essere militanti di sinistra) delle scene di tortura presenti nel film la Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo, per rendere più efficaci i corsi di tortura impartiti ai presenti. La missione in Brasile del generale Paul Aussaresses, il gran maestro della tortura in Algeria, l’uomo che ha perfezionato e insegnato a tutti gli eserciti e polizie dell’Occidente l’uso degli elettrodi (sui genitali e le tempie) e della waterboarding (l’annegamento simulato) durante gli interrogatori. Metodi impiegati diffusamente anche dalla nostra Digos contro i militanti della lottarmata arrestati nel biennio 1982-83, ben prima che suscitassero scandalo perché impiegati dalla Cia nelle prigioni di Guantanamo e Abu Ghraib.

La dottrina della guerra rivoluzionaria sostituita da De Gaulle, non senza difficoltà, grazie all’arma nucleare acquisita nel 1960, e sostituita dalla dottrina della dissuasione del «debole verso il forte», non sarebbe mai stata rimossa definitivamente, anzi avrebbe mantenuto solide radici all’interno di alcuni settori militari per trasmigrare nelle forze di polizia ispirando le politiche di «mantenimento dell’ordine», utilizzate “ufficiosamente” nell’area d’influenza africana e nella gestione del controllo interno dopo il 1968 e da qui, soprattutto dopo l’11 settembre, assorbite anche dal mondo della politica fino a dare forma ad un modello di potere militarizzato.
police-partout3Al vecchio nemico geopolitico comunista dell’epoca dei blocchi, dopo l’89 si sarebbero venuti a sostituire una proliferazione di «nuove minacce», terrorismo, islamismo, violenze urbane, incivilités (qualcosa che assomiglia al nostro bullismo) che hanno giustificato la riedizione di una nuova figura di nemico interno, l’immigrato post-coloniale in grado di riattivare il risorgere di passate rappresentazioni razziste. Un nemico socio-etnico, locale e globale al tempo steso, dissimulato nei quartieri popolari, residente nelle periferie, soprattutto tra i «non bianchi poveri».

L’immaginario, la costruzione e proiezione di raffigurazioni che vanno ad arricchire il repertorio delle classi pericolose e delle leggende ansiogene, costituiscono un elemento decisivo di questo nuovo ordine sicuritario che ispirandosi ai criteri della «guerra totale», ricorre alla cosiddetta «guerra psicologica», ovvero alla mobilitazione delle coscienze, alla costruzione di consenso, lì dove lo Stato-nazione è concepito come un organismo che la difesa nazionale deve immunizzare dalle malattie sociali, dai contagi rivoluzionari, dalla piaga del crimine, l’epidemia del vizio, e rassicurare dalle paure.
Questo nuovo ordine collima con una nuova formazione sociale che Mathieu Rigouste definisce «capitalismo sicuritario», dove il controllo oltre a riprodursi in forma allargata ha ingenerato un proprio mercato. La forma più inquietante di questo modello descrittivo è la constazione del grado di adesione dei controllati ai controllori. Non si tratta di un semplice modello di dominazione, ma di un processo di adesione dal basso, di controllo reciproco e autocontrollo. Quello che il sociologo Philippe Robert coglie descrivendo l’emergere di un «neoproletariato della sicurezza», reclutato grazie al precariato di massa all’interno di quel sistema di polizia sociale che è il mondo della sicurezza e della vigilanza privata, un sottosistema del controllo brulicante di sorveglianti dei metrò e dei supermercati, subalterni della sicurezza di vario ordine e natura, fino ai mediatori sociali, gli stuart degli stadi, gli assistenti sociali eccetera. Un sistema dove il povero è preso a controllare l’altro povero e non alza più la testa.

Francia: il servizio d’ordine del sindacato spranga i sans papiers

27 giugno 2009 Lascia un commento

Segnalo due articoli che parlano di quello che sta accadendo a Parigi in questi giorni ma soprattutto di quello che ha accaduto una manciata di giorni fa, quando la Bourse du travail di Parigi è stata sgomberata (con il pestaggio di decine e decine di sans papiers) dagli uomini del servizio d’ordine del corrispettivo francese della CGIL.
Balordi picchiatori e bastonatori del sindacato. 

Via, via, la nuova polizia!

Liberazione 25 giugno 2009, di Paolo Persichetti

Quando il servizio d’ordine del sindacato, di un sindacato che si dice «comunista», fa il lavoro della polizia e si mette al posto dei Crs, i reparti celere francesi, sgombera con le maniere forti, innaffiando di gas lacrimogeno, pugni e calci, donne e bambini, famiglie disperate e orgogliose di sans papiers, 2489228844_9c0d5192a8colpevoli solo di lottare per avere il diritto di vivere, e che per questo occupavano da 14 mesi i locali della Bourse du travail di Parigi, vuol dire che questa sinistra non ha più nulla da dire. È morta. È un cadavere putrefatto. Una sinistra che è solo apparato. Che pensa solo ai suoi «beni». È successo mercoledì scorso verso le 12.30, quando una cinquantina di uomini col cranio rasato, il volto coperto, gli occhi protetti da occhialini da piscina e una fascia rossa al braccio, sono entrati con la forza nei locali della camera del lavoro vicino place de la Republique, e armati di bastoni hanno cosparso di gas lacrimogeno, inseguito e pestato i presenti, trascinandoli verso l’esterno (il grosso degli occupanti era impegnato a manifestare davanti alla prefettura). I testimoni raccontano di aver assistito a scene d’intensa violenza. «Era previsto e l’abbiamo fatto!», dichiara soddisfatto uno dei picchiatori. Increduli e scioccati, i circa 800 sans papiers carichi di fagotti e materassi fanno molta fatica a credere che la violenta aggressione abbia come origine proprio la Cgt, per altro spalleggiata dall’arrivo di decine di furgoni e centinaia di uomini della polizia schierati in assetto antisommossa. All’inizio molti passanti e commercianti avevano temuto un’aggressione lepenista. «Dopo aver tentato per mesi di negoziare una soluzione abbiamo deciso di mettere fine all’occupazione», si è giustificato Patrick Picard, segretario generale dell’Unione dipartimentale di Parigi. Da tempo il sindacato intratteneva relazioni molto tese con gli occupanti, in massima parte lavoratori di ditte di pulizie. Questi avevano deciso di riunirsi in un collettivo autonomo, il coordinamento sans papiers 75, rivendicando una regolarizzazione generale e non dei soli aderenti al sindacato.

Sgomberata con la forza dal servizio d’ordine della Cgt la camera del lavori di Parigi da 15 mesi occupata da un collettivo di sans paiers

Oreste Scalzone

L’Altro, 27 giugno 2009

Alle tre del mattino, poco prima del canto degli uccelli che risveglia il sole, sul largo marciapiede bagnato e corso da rigagnoli, un po’ sopraelevato che ha visto passare sul filo del tempo moltitudini di genti, fiumane di cortei di quelle classi pericolose che discendevano i faubourgs dalle ban-lieues, luoghi del bando e dei banditi, verso i cronotopi dei poteri costituiti, era coperto per duecento metri da fagotti di cenci. DSC_9655Un ammasso di cenci circondato da transenne metalliche guardate a vista da sagome nere di poliziotti in tenuta antisommossa, a loro volta con le spalle coperte da teorie di camion. Avvicinandomi, comincio a distinguere facce, sagome, qualche brace di sigaretta, iskra che buca la notte. Potrebbero essere corpi – morti o ancor vivi, eccola la nuda vita ! – di deportati, respinti, cacciati a forza verso esodo forzato, in fuga senza fine. O corpi decisamente morti, di massacrati, di sterminati, di espulsi dall’umano, “sotto-uomini”. Sono bambini, donne, uomini avvolti in coperte, in sacchi a pelo o in niente, sdraiati su qualche brandina più o meno da campo, chi raggomitolato in un sonno che s’immagina buio, pesto e pesante e chissà se senza sogni, e incubi, o forse no. Parecchi stanno sollevati, appoggiati sul gomito a parlare. Overload di sottovoce, con qualche acuto, scoppio, abreazione, ragionamento. Quel marciapiede di corpi non è il fondo del peggio, navigando in rete si può trovare dell’incommensurabilmente più grave, più significativo, più tremendo. Ma, questo marciapiede, è qui, ora, su un piano di consistenza immanente, non più consistente di altri in sé, di per sé, ma per noi si.
Raggiungiamo i capannelli, si materializzano facce di compagni e compagne. Cerchiamo, troviamo quelli di noialtri che in questi quattordici o quindici mesi hanno dedicato passione, applicazione, tempo di vita a questa sorta di zattera ferma nel cuore di Parigi, fatto con i sans-papier giornali, radio, televisioni porta-a-porta, un sito nella Tela, dibattiti nella grande corte della Bourse de Travail di rue Charlot occupata, divenuta come una piazza di villaggio africano. Le Bourse de Travail sono antiche istituizioni territoriali dei movimenti operai, presto “formattate” dalle strutture sindacali. Cerchiamo, troviamo o ci dicono che sono qua o là – bisogna stare attenti a camminare per non calpestare coperte, quando non corpi –, Claudio, François o Michel, complici nella facitura di un aperiodico Quotidién des sans-papiers, poi del Journal de la Bourse du travail occupée, e altro ancora… DSC_9684Incontriamo un sacco di gente, sans-papiers, “compagnerìa”. Ci dicono tutti quello che poi stamattina troviamo, chiunque può trovare, confermato sulla stampa, nella rete, addirittura sfrontatamente rivendicato nei comunicati. É stata una squadraccia, una squadra d’azione del servizio d’ordine della Cgt, la Confederazione generale del lavoro, padrona dei luoghi, gerente dell’edificio, che – dopo aver “schiumato” per tutti i quattordici mesi dell’occupazione – ieri verso mezzogiorno è passata all’atto. Tutti i disagi, i disfunzionamenti, le ragioni accampate hanno un loro fondamento (ma questo vale sempre, o comunque in tanti altri casi…).
Al limite, per uno come me, forse sarebbe stato ancora peggiore se avessero fatto la stessa cosa per interposta polizia invece che passando all’azione diretta, terrorizzando in proprio per primi i bambini, con una brutalità che a torto si usa – con termine etnocentrista e civilizzatore – definire «barbara» e «selvaggia». Ma queste sono sfumature, dettagli. Resta, che hanno compiuto un passo, un salto mortale, uno strappo, che non è nuovo ma è sempre un po’ nuovo e un po’ diverso. Fa di nuovo irruzione sulla scena lo chauvinismo del «socialismo dai colori della Francia» che aveva spinto al crimine trent’anni fa il sindaco Pcf di Vitry, il quale aveva rotto un tabù mandando le ruspe a radere al suolo un foyer d’immigrati magrebini (con il pretesto – che, come sempre, o quasi, aveva anche degli elementi di fondamento: e allora? Non è qui il nodo della cosa! – che gl’immigrati doveva prenderseli il sindaco giscardiano del comune attiguo, che la dislocazione delle residenze degli immigrati veniva fatta dalle autorità in modo non casuale, e provocava la spirale viziosa dell’impoverimento crescente dei comuni le cui entrate fiscali si abbassano in modo corrispondente alla modificazione della composizione sociale dei residenti, con i relativi effetti di degrado).
La breccia aperta allora dal sindaco di Vitry aveva creato le pre-condizioni per l’irruzione del lepenismo, di questo risentimento intruppato in mentalità e comportamenti da white-shit, di populismo xenofobo, nutrito d’antiche ossessioni antisemite e di più recenti pozzi neri viscerali e mentali colonialisti, post-colonialisti, corporativi, servo/padronali. Comportamenti e mentalità che in Francia, in generale, non sono passati all’azione diretta ma sono rimasti piuttosto su un piano ideologico-elettorale. Comunque più grave dei picchi lepenisti arrivati a sfiorare il 20%, era soprattutto per il loro effetto indiretto, quello di scatenare una corsa a “rasar l’erba sotto i piedi di Le Pen” facendo proprie, le rivendicazioni e proposte che incarnava. Quasi un modello di fascismo per motivi antifascisti….
Potremmo dire, tagliando rozzamente, che una serie di parole composte più radicali che una lama di rasoio po20080506CGTSansPap1ssono essere applicate, come definizioni critiche e criticissime, sia alla socialdemocrazia che – a maggior ragione data la sua potenza di mi[s]tificazione, e innanzitutto il potere di contraffazione onomastica e di manipolazione nel profondo delle soggettività, fino alle passioni, agli affetti più viscerali – alla variante boscevica, social-©omunista, del corpus del “marxismo volgare anti-marxiano”, kautsko-lassalliano, vera e propria controrivoluzione contro il comunismo comunardo. Possiamo parlare di socialismi lavoristi/padronali, capitalistici, statali, e dunque anche nazionalisti, colonialisti, imperialisti, xenofobi, razzisti, fascisti. D’altronde, il fascismo, il nazional-socialismo non sono forse, tra l’altro, nella loro effettualità sociale, l’intruppamento di milioni di proletari, e di operai, in forme stornate, deformate, mostruose che formattano l’odio di classe corrompendolo, snaturandolo, trainandolo verso una conseguenza abietta, il rifarsela sugli ancor più deboli, il riprodurre relazioni di sopraffazione, di sottomissione, a catena, a cascata, in una corsa miserabile spinta da concorrenza mimetica, in un gioco di scaricabarile o comunque, al massimo, di specularità subalterna, come ritorsione?
Senza rischiare di doverci sentir accusare di «banalizzazione», non possiamo vedere nell’uovo del serpente del cumulo di ambivalenze risolventisi in ambiguità a premessa di successive decantazioni, che connotava le prime scorribande delle SA nelle strade di Weimar, l’embrione di quello che sarà lo scenario risolutamente apocalittico degli ultimi anni ’30 e della prima méta dei ’40 ? Niente si ripete mai identicamente (e la frase di Marx sulla farsa come calco e replica della tragedia non è certo una regoletta catechistica). Niente si ripete identicamente, ma questo non vuol dire che ogni volta si debba cercare l’assolutamente inedito – è per questo che, nel finale dell’Arturo Ui, Brecht attira l’attenzione sul grembo sempre fertile che partorì la bestia immonda. Dev’essere però mostrato con chiarezza che ciò che ha deciso e fatto eseguire da elementi della sua truppa la Cgt ieri, è della stessa natura di ciò che la Lega Nord o i caricaturali nazistoidi di Saja, stanno inscenando nelle strade delle città italiane. Si tratta di formattazione del male di vivere nelle forme che, in una luminosa definizione benjaminiana, sono le più antitetiche all’autocognizione come classe, che è dunque forma autopoïetica. FRANCE/Soldataglia coloniale, turba fascista, teppa shalamoviana – ognuna inquadrata dai corrispondenti gerarchi e relative catene: queste sono le definizioni appropriate.
I Thibaud (il segretario generale della Cgt) non sono, in sé, migliori o peggiori dei Maroni o Hortefeux (il suo omologo di Francia) – questa problematica comparatista su migliori, peggiori, men-peggiori ci sembra insensata. Sono – e chi non lo aveva rivelato interamente prima, in questo passaggio e momento della verità lo mostra inequivocabilmente – dei veri e propri nemici. Ma rispetto ad autorappresentazioni e proiezioni d’attesa e fiducia che essi irradiano, a partire dall’onomastica, i Thibaud rappresentano la componente dell’infamia. Non perché realmente «tradiscano» qualcosa (che, per come si ponevano ed erano, son sempre stati, c’era poco o niente da tradire…), ma perché la lunga persistenza del peso delle parole, quel dirsi comunisti, li ha legati per ragioni di catene genealogiche di cui resta comunque una conseguenza onomastica pregna di mistificazione ed equivoco, una conseguenza di omonimia. Se si farà un corteo sotto la sede della Cgt, non sarà questione di psicodrammi e di “lacrime e parole amare”, ma il dirigere la lotta, di volta in volta, là dove risiede il potere costituito responsabile di un atto d’ostilità, di vera e propria guerra sociale. Una nota – non già di speranza, ma di scommessa: dopo più di ventiquattrore, sono ancora tutti e tutte lì, su quel marciapiede, e a rischio di una retata che li porti in un centro di detenzione e di smistamento per la deportazione. La vita nuda mostra così la sua irriducibile potenza, la sua disperata vitalità, potenza di persistere nel proprio essere

 

Uno “spettro” rivoltoso in Europa? E noi?

2 Maggio 2009 Lascia un commento

Gli scontri in Turchia del 1° maggio

Gli scontri in Turchia del 1° maggio

A Berlino sono proseguito per tutta la notte. Intere ore di scontri, o per meglio dire, di attacchi alla polizia compiuti da un massiccio gruppo di giovani anarchici, appartenenti dei centri sociali, studenti, lavoratori precari e non. E poi il giorno prima Atene, Salonicco, Istanbul, Amburgo, San Pietroburgo…tutta l’Europa ha festeggiato il 1° maggio con barricate e sassaiole, molotov e assalti contro la polizia anti-sommossa.
Diversi arresti tra Istanbul e Berlino (solo nella capitale tedesca sono 300): molti i feriti e questa volta il numero dei poliziotti rimasti colpiti è molto più alto dei manifestanti…sono 273 feriti solo a Berlino
L’EUROPA INIZIA A SVEGLIARSI, a passare notti di fuoco scandite da slogan anti-capitalisti e da passamontagna calati…perchè siamo una generazione che non ha nulla da perdere se non la propria precarietà, perchè dovremmo capire che l’unico futuro possibile è quello alimentato dalla lotta, è quello che costruiremo alzando la testa, non avendo paura di perdere qualcosa, perchè tanto non abbiamo niente. Sperando che l’Italia non rimanga ancora a guardare, intrisa nei suoi giochi di potere e nel suo servilismo, irrorata da una cultura egemonizzata fatta di menti chiuse e ghettizzate,

Gli scontri in Turchia

Gli scontri in Turchia

 lobotomizzate e apatiche. RIPRENDIAMOCI I SOGNI E LE STRADE. RIPRENDIAMOCI IL CORAGGIO DI LOTTARE, RITROVIAMO IL CORAGGIO, SOVVERTIAMO I RAPPORTI DI FORZA…
Come Atene e Berlino, come in Francia e altrove: ricominciamo a crederci, ricominciamo a vivere le strade, ricominciamo ad alzare la voce nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle università, nelle galere, nelle piazze…

Gli scontri a Berlino per il 1° Maggio

Gli scontri a Berlino per il 1° Maggio

Arresti tra Francia e Spagna: obiettivo ETA

19 aprile 2009 Lascia un commento

Ennesima “brillante operazione” franco-spagnola ai danni dell’organizzazione armata sepatista basca ETA coordinata dal giudice-boia Baltasar Garzon.. Rubacalda, ministro degli Interni del governo Zapatero, ha annunciato l’arresto di 9 persone (tre in Francia e sei in Euskal Herria): tra loro Jurdan Martitegi Lazaso (29 anni),

Jurdan Martitegi

Jurdan Martitegi

presunto capo dell’apparato militare dell’organizzazione che avrebbe da poco preso il posto di Aitzol Iriondo, arrestato lo scorso 8 dicembre. Il presunto capo è stato arrestato dall’anti-terrorismo francese e dalla controparte spagnola mentre si recava ad un appuntamento con altri due presunti militanti dell’Eta, Alexander Uriarte Cuadraro, già presunto capo di un commando e  Mikel Oroz. E’ stata un’operazione congiunta (con simili operazioni sono stati catturati 22 sospettati in un anno) in cui hanno lavorato in stretta connessione la polizia francese e l’antiterrorismo spagnolo: oltre agli arresti sono state rinvenute tre pistole, due macchine (una è risultata rubata), documentazione dell’organizzazione armata, esplosivi in piccole quantità e un ‘container’ dove a detta degli inquirenti si addestravano per la preparazione di ordigni esplosivi. In ministro degli Interni spagnolo, in una entusiasta conferenza stampa ha detto che le operazioni per piegare l’organizzazione separatista procederanno senza sosta e continueranno a portare gli ottimi risultati di questi ultimi sei mesi. “L’ETA non sta certo attraversando uno dei momenti più floridi, e anche se in questo momento starà posizionando un altro militante al posto del capo militare appena preso sappiano che lo stiamo già cercando.” Anche Zapatero non ha aspettato per sciogliersi in congratulazioni alle forze di polizia e ai suoi reparti speciali che lottano per fermare “questo storico flagello”, ed ha ringraziato la buona cooperazione della Francia.

Julien Coupat, dopo 7 mesi ancora carcere per un libro

18 aprile 2009 1 commento

L’uso estensivo del reato di “terrorismo” fa discutere la Francia

Paolo Persichetti
Liberazione, 18 aprile 2009

«Un Coupat idéal», è il gioco di parole impiegato dal quotidiano francese Libération che giovedì scorso ha dedicato la sua primacoupatpagina alla vicenda di Julien Coupat. Unico ancora in carcere dei nove giovani arrestati lo scorso 11 novembre in una fattoria di Tarnac, nel centro della Francia, dove avevano creato una comunità autorganizzata molto apprezzata dagli abitanti del luogo. Accusati di alcuni atti di sabotaggio avvenuti nella notte del 25 ottobre e del 7 novembre 2008 sul tracciato ferroviario del Tgv. Degli uncini in ferro forgiato agganciati alle linee elettriche avevano gettato nel caos l’intero traffico dell’alta velocità. Mentre i suoi compagni sono stati scarcerati uno dietro l’altro di fronte ad un fascicolo privo d’elementi d’accusa probanti, Coupat è da sette mesi in detenzione provvisoria, imputato di «danneggiamento» e «direzione di un’associazione per delinquere in relazione con un’impresa terroristica». Per ben tre volte il tribunale di Parigi ha rifiutato di rimetterlo in libertà. La sua avvocata, Irène Terrel, non smette di denunciare un’inchiesta politica. Un accanimento che ha un nome preciso, quello della ministra degli Interni Michèle Alliot-Marie.
Figura controversa, «MAM», come la chiamano i francesi, aveva annunciato in un’affollata conferenza stampa, organizzata mentre erano ancora in corso le perquisizioni, il ritrovamento di prove inconfutabili. Il ministro degli interni bleffava spudoratamente. Prove non ne sono mai venute fuori. Niente impronte e dna come trionfalmente dichiarato. Solo tonnellate di pedinamenti e intercettazioni che alla fine si sono ridotte a un processo alle intenzioni. Pagine di commenti sulle «cattive letture» e giudizi sui «costumi dissoluti» dei giovani. Resoconti sulle manifestazioni e la militanza anticapitalista del gruppo. Nel dossier si scopre che i sabotaggi portano la firma di un collettivo antinucleare tedesco, giunta al Berliner Zeitung per ricordare la morte di un militante antinucleare durante il boicottaggio del treno Castor che trasporta scorie radioattive. Una pista deliberatamente lasciata cadere dagli inquirenti.
crochet1Ora che il fascicolo dell’inchiesta è noto, l’opinione pubblica s’interroga sull’uso estensivo del reato di terrorismo. Ciò che più fa discutere è il modello d’inchiesta messo in piedi. Uno schema che ricorda le pratiche dell’emergenza antisovversione italiana. Un teorema accusatorio più le parole di un testimone di cui si preserva l’anonimato. Teorema costruito dalla lettura di un pamphlet,L’insurrection qui vient. Testo che analizza criticamente la società francese e indica dei repertori d’azione. Non a caso gli ultimi passaggi dell’inchiesta hanno spostato l’attenzione sull’editore, Eric Hazan. Interrogato per sapere se Coupat era l’autore del libro incriminato. Ormai l’inchiesta persegue quello che palesemente è un delitto d’opinione. Ritenuto l’ideologo e il direttore d’orchestra di un’area «anarco-autonoma», secondo l’accusa attraverso il libro Coupat avrebbe creato le premesse teoriche di una radicalizzazione verso la lotta armata, dando vita ad una «cellula invisibile», nome di fantasia coniato dallo stesso pubblicoarton2152ministero, Jean-Claude Marin, a partire dalla firma «comité invisible» che gli autori del pamphlet hanno messo in calce al testo. Questa almeno è la lettura proposta da Alain Bauer, l’ispiratore occulto dell’inchiesta. Consigliere per la sicurezza, Bauer è una sorta di Rasputin dell’Eliseo. È lui ad aver scoperto per caso il libro. Folgorato da una lettura notturna ne ha acquistato 40 copie per allertare tutti i vertici dello Stato e scatenare la caccia al «pericolo rosso». Esponente dell’«industria della paura», Bauer dirige una multinazionale della sicurezza privata, la AB Sécurité. Fomentata dal suo consigliere, la ministra degli Interni ha fatto di Coupat un ostaggio personale e dell’ultragauche il nemico intimo.
In Francia molti si chiedono se questo non sia una caso pilota, un tentativo di mettere a punto la criminalizzazione preventiva delle forme d’opposizione più radicali.

Tira brutt’aria per i padroni: WOW

10 aprile 2009 1 commento

Una nuova arma sociale per i lavoratori: il bossnapping
L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. Kit antisequestri per i manager d’impresa 

di Paolo Persichetti

Liberazione 11 aprile 2009

Brutti tempi per le gerarchie d’impresa chiamate a confrontarsi con un nuovo fenomeno chiamato bossnapping, «La nuova arma sociale dei lavoratori», scrive il quotidiano francese Libération. L’obbligo di non alzarsi più dal tavolo e uscire dagli uffici delle direzioni aziendali fintantoché non si è pervenuti ad un accordo accettabile. Davvero brutte nottate in bianco attendono i Patrons. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. È finita la pacchia. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. Fa di nuovo capolino la «grande paura», quella raccontata da Cesare Romiti in un libro di Gianpaolo Pansa,

Avessero imparato da noi?

Avessero imparato da noi?

vera e propria autobiografia del ceto imprenditoriale italiano degli anni 70. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.

Azioni legittime
Azioni legittime o azioni illegali? Il ricorso al bossnapping, cioè alla «trattativa forzata» da parte degli operai quando le aziende rifiutano di negoziare i piani di crisi, oppure nemmeno accettano di siedere al tavolo delle trattative comunicando semplicemente la lista dei dipendenti licenziati, fa discutere non solo la Francia.
Va detto subito che fino a questo momento si è trattato di un modello di lotta che oltre a riscontrare consenso nell’opinione pubblica è risultato “pagante”, come ha dimostrato fino ad ora l’esperienza concreta, seppur attuato in un contesto ultradifensivo che mira unicamente a ridurre i danni. Alla Caterpillar di Grenoble sembra che l’azienda abbia rinunciato a licenziare, garantendo l’apertura della fabrica per altri tre anni nella speranza che intervenga un nuovo ciclo espansivo. In altri siti, gli operai hanno ottenuto migliori indennità di licenziamento, ammortizzatori sociali, riducendo anche l’attacco portato ai livelli occupazionali.

Questo repertorio d’azione – come viene definito dal linguaggio asettico dei sociologi del conflitto che cercano di fotografare i comportamenti sociali senza caricarli di giudizi di valore -, comincia ad estendersi altrove seguendo un classico dispositivo d’emulazione. È arrivato in Belgio mercoledì scorso, dove tre manager Fiat sono rimasti bloccati per 5 ore negli uffici di una filiale commerciale di Bruxelles. C’è stato per l’ennesima volta in Francia, dove i dipendenti di Faurecia, azienda dell’indotto automobilistico filiale del gruppo Psa Peugeot Citroen, giovedì sera hanno bloccato per 5 ore tre quadri dirigenti del gruppo. In questo caso il bossnapping messo in pratica dai dipendenti ha assunto una valenza ancora più significativa perché il sito è costituito essenzialmente da uffici di un centro studi, dove le maestranze (circa mille) sono in prevalenza “colletti bianchi”, ingegneri, tecnici e amministrativi. Ciò vuol dire che il ricorso a pratiche di lotta radicale non è solo patrimonio della classe operai ma guadagna anche i ceti medi colpiti dalla crisi. Un blocco di manager nei loro uffici c’è anche stato in italia, alla Benetton di Piobesi, il 25 febbraio scorso, ma è passato sotto silenzio.
«Si tratta di azioni sindacali coordinate e organizzate assolutamente non paragonabili a dei sequestri», ha spiegato dalla Francia il segretario della Cgt, Bernard Thibault, che ha giustificato il ricorso a queste forme d’azione «fintantoché non producono rischi fisici sui dirigenti d’impresa». Azioni più che legittime dunque, capaci d’attirare per la loro alta simbolicità «microfoni e telecamere», se è vero che cortei, scioperi e picchetti non sono più sufficienti per costringere il padronato a trattare. Il succo del ragionamento è semplice: quando le gerarchie aziendali fanno orecchie da mercante, pensando d’imporre il loro punto di vista senza ascoltare quello della controparte operaia, occorre imporre loro la trattativa. Lì dove non c’è negoziato si apre allora uno spazio di conflitto ulteriore. È il «conflitto negoziato» che in Francia, a differenza dell’Italia, non ha mai perso agibilità politica e sociale. Le azioni «coups de poing» (colpo di mano), non appartengono solo al repertorio d’azione della Cgt, ma sono condivise oltre che da altri sindacati collocati sul fronte della sinistra radicale e anticapitalista, come le coordinazioni e Sud, anche dalle associazioni rurali,

(AP Photo/Francois Mori)

(AP Photo/Francois Mori)

dei contadini, pescatori e camionisti, spesso bacini elettorali delle forze moderate. Oltralpe la tradizione corporativa del conflitto ha mantenuto sempre piena legittimità. Fintantoché non vengono percepite come un attacco politico alla sicurezza dello Stato, queste forme d’azione collettiva sono ritenute domande sociali a cui la politica è chiamata a dare risposte. Semmai in quel che accade oggi emerge un forte deficit delle forze politiche della sinistra incapaci di fornire rappresentanza.

 

Embrioni vitali di autonomia operaia
Queste lotte difensive hanno il sapore di embrioni vitali di autonomia operaia. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.
A leggerlo sembra una presa in giro, ma è tutto vero. Prima regola: conservare un «kit di sopravvivenza», un telefono cellulare di scorta con numero criptato e recapiti d’emergenza (polizia, famiglia), trousse per la toilette, cambio di biancheria nel caso si dovesse passare la notte in ufficio. Ma, suggerisce l’esperto, «è meglio prevenire» per non finire come quel responsabile del personale di un’azienda che si vide costretto ad uscire disteso in una bara dalla sala in cui era “ospitato” . Fondamentale allora è «una stima del rischio di ammutinamento contro la direzione», «individuare sempre i leader della protesta», «non andare mai da soli a negoziare con le parti sociali, ricorrere sempre ad un mediatore». Infine, se dovesse andare male «accettare tutte le richieste dei dipendenti perché gli impegni presi sotto costrizione non hanno valore giuridico».
Manca però la cosa essenziale, qualche buon libro di filosofia capace di aprire la testa dei manager per dare aria alle loro anguste visioni culturali, nutrite solo di manuali sulla gestione delle risorse umane, la performatività delle prestazioni, l’economia aziendale. Magari Discours sur l’inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques Rousseau e il primo libro del Capitale del dottor Marx, tanto per cominciare.