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“A tutti i delinquenti solidali”…lettera dal carcere femminile di Bologna
Abbiamo parlato ( e continueremo a farlo) della repressione che ha colpito alcun@ compagn@ attivi nella lotta contro i Centri di Identificazione ed Espulsione per migranti a Bologna.
Questa, una splendida lettera che ci giunge da due compagne private della loro libertà, nel carcere della Dozza.
«A tutti i delinquenti solidali. La solidarietà è arrivata forte e copiosa con lettere, telegrammi che per il numero hanno mandato in tilt le guardie e persino raccomandate per assicurarsi che arrivassero.
Fa molto bene al cuore.
L’accusa per i presi, per chi ha avuto altri provvedimenti restrittivi e per tutti gli indagati, è di Associazione a delinquere.
Sperimentata contro i compagni leccesi come formula più adatta, rispetto all’associazione sovversiva, per colpire gli anarchici e riproposta in altri procedimenti come nel caso di Torino, ora anche la banda della digos di Bologna la tira fuori dal cilindro per fare il colpaccio contro il loro incubo in città. Ma ci mette un po’ del suo e aggiunge “con finalità eversive”.
Dopo aver descritto il Fuoriluogo come una sede in cui si organizzano numerosi iniziative interne ed estere e il legame tra noi come forte e intenso, elencano una lunga serie di “illegalità” commesse insieme o separatamente che per altro non sono che il susseguirsi di procedimenti penali in corso ben noti, per i quali o siamo già stati processati pagandone (in particolare alcuni di noi) pesantemente il prezzo o lo saremo. Si tratta di resistenze, danneggiamenti, violenza privata, presidi non autorizzati, ecc ecc. I soliti capi d’imputazione che gravano sulle spalle di chiunque porti avanti lotte che disturbano.
Da qui all’accusa di Associazione a delinquere il “ragionamento” si fa oscuro, si sente il rumore dello scricchiolio sugli specchi. Ma tant’è. Una volta costruita la struttura, per quanto infondata e assurda sia, toccherà a noi smontarla. Così fanno e così è.
Poi, ancora con capi, sottocapi e soldatini. Ci provano sempre perché è il modo per colpire e perché non entra loro in testa che ci si possa rapportare diversamente. Si “dimostra” che una è la capa perché si impegna molto nella raccolta di dati da riportare su volantini e nella riuscita delle iniziative. In una telefonata con un compagno in difficoltà economiche che gli impedivano di essere presente a un presidio o a un corteo lo incoraggiava ad andare dicendo. “Ma dai che li troviamo, qualcuno li tirerà fuori” – certo, con il suo solito tono che è da molti conosciuto.
Insomma, una serie di episodi noti e stranoti e di intercettazioni del tenore di quella riportata sopra costituiscono la trama dell’intreccio digossino avallato da una pm con dei sassolini nelle scarpe.
Noi due, dal reparto femminile, stiamo bene. Siamo ancora separate e in isolamento. La posta arriva ma forse non tutta.
Vi abbracciamo forte e continuiamo a lottare insieme a voi per un mondo senza recinti materiali o generati da paure indotte e da meschinità. Senza servi né padroni con le loro nefandezze e nocività.
Ci ritroveremo presto ma, come qualcuno ha scritto in un telegramma, se vi raggiungiamo noi è meglio.
Stefi e Anna»
Gli arresti di Bologna, contro chi lotta per la libertà
AGGIORNO CON QUESTE NOTIZIE VECCHIE DI QUALCHE GIORNO… ma purtroppo qui non si ha tempo manco di respirare con questa vita di merda che si fa, in questa quotidianità di lavoro, sfruttamento e carcere.
Solo col cuore, e nemmeno con una riga, ho seguito la vicenda che ha colpito i compagni di Bologna, attivi nella lotta contro i Cie e la segregazione dei migranti che arrivano in Italia. Un attacco pesante a questi compagni, privati della loro libertà dopo una grossa operazione di polizia..
Qui gli stralci da Macerie .
Cinque arresti, sessanta perquisizioni in tutta Italia (di cui due a Torino), sette misure cautelari, un circolo di compagni messo sotto sequestro. Questo sembra il primo bilancio di una grossa operazione repressiva contro i compagni di “Fuoriluogo” di Bologna. L’accusa è quella, che già conosciamo, di associazione a delinquere e i fatti specifici tirati in ballo sono una serie di iniziative e attacchi contro i Cie, la guerra, il nucleare, e contro le aziende che ci lucrano sopra – o che direttamente ne sono i mandanti (tra tutte l‘Eni, ma pure la Misericordia di Giovanardi e l’Unicredit) – e pure contro chi la guerra e la detenzione di massa la propaganda ogni giorno a spron battutto (la Lega).
Secondo alcuni lanci d’agenzia, al centro del “sodalizio crinimoso” ci sarebbe pure un “giornale clandestino”: è quell’«Invece» del quale abbiamo pubblicato qualche estratto (1, 2). I poliziotti questa mattina lo cercavano affannosamente nelle nostre case, voi lo potete trovare comodamente in buona parte delle distribuzioni di movimento, oppure scrivendoci.
Maggiori notizie ve le daremo man mano che i contorni esatti di questa vicenda si saran chiariti. Inutile dirvi, però, è che il modo migliore di star vicini ai nostri compagni bolognesi che si son ritrovati impigliati in questa vicenda giudiziaria e che per ora hanno le mani legate è utilizzar le nostre per proseguirne la lotta. I temi, del resto, sono quelli di tutti, e le occasioni non mancheranno un po’ dappertutto. Tra tutte, anche il corteo che gli arrestati prevedevano per il 16 aprile, a Bologna, del quale vi parlavano giusto ieri.
Aggiornamento 7 aprile. C’è un sesto compagno, tra i fermati di ieri, che è ancora in carcere, ma a Ferrara. È Francesco, e solo per lui, domani, ci sarà l’udienza di convalida dell’arresto. Gli altri cinque sono nel carcere bolognese della Dozza. Per il corteo di sabato 16, da Torino partirà un pullman. Chi volesse venire può prenotarsi il posto, il più velocemente possibile, scrivendo a bologna16aprile@gmail.com o mandando un sms al 346.9734897.
macerie @ Aprile 6, 2011
una bella notizia: Francesco, il compagno fermato a Ferrara che ha avuto l’udienza di convalida dell’arresto stamattina è libero. Non sappiamo se abbia delle restrizioni, o degli obblighi, o se semplicemente l’arresto non sia stato convalidato.
macerie @ Aprile 8, 2011
Dal Mesopotamia Social Forum, finito ieri a Diyarbakir
Articolo e scatti di Michele Vollaro, da Diyarbakir
Libertà, democrazia, uso comune delle risorse naturale: parole che in tanti paesi occidentali potrebbero anche sembrare retoriche, ma che a Diyarbakir hanno un significato ben concreto. Nella principale città del Kurdistan turco si conclude oggi il Mesopotamia Social Forum, un incontro organizzato da decine di organizzazioni sociali e politiche della regione, in vista del prossimo Forum Sociale Europeo che si terrà a Istanbul nel giugno del prossimo anno, per porre al centro dell’attenzione i problemi a cui è sottoposto il popolo curdo. A poche decine di metri dalla stazione ferroviaria, nel parco comunale Sümer Park, i ragazzi del Congresso della gioventù patriottica democratica (Ydgm), l’organizzazione giovanile del partito filo-curdo Dtp, hanno allestito un campeggio internazionale per ospitare i circa 300 attivisti venuti da numerosi paesi europei. “Non chiediamo la secessione dalla Turchia – spiega prima di partecipare a un seminario sulla frammentazione dei popoli in Medio Oriente Mehmet, studente presso la locale università – ma che vengano riconosciuti i nostri diritti culturali e sociali: non siamo trattati come cittadini allo stesso livello dei turchi”.
L’obiettivo, che per il momento rappresenta più un’utopia, di gran parte dei curdi e delle delegazioni venute da Iran, Iran e Siria per il vertice è costruire le basi di una confederazione che riunisca i popoli della Mesopotamia, una forma statale capace di superare il concetto di nazionalismo, imposto insieme ad altri valori e ideologie estranee alla cultura mediorientale dai paesi occidentali. In Mesopotamia, ripetono in tanti, sono nate la scrittura e con essa la storia dell’uomo, l’agricoltura grazie alla presenza dei fiumi Tigri ed Eufrate, le tre principali religioni monoteiste: per lungo tempo, questa terra è stata il centro del mondo. Finché l’Europa non ha preso il sopravvento ed è cominciata la rivoluzione industriale, quando i paesi europei hanno dovuto cercare in tutto il pianeta le risorse necessarie per far funzionare le nuove fabbriche e preservare la supremazia economica. A completare questo processo, la prima guerra mondiale, al termine della quale le potenze vincitrici imposero la dissoluzione dell’impero ottomano e la nascita in Medio Oriente degli stati-nazione, un concetto completamente alieno a questa terra. La storia dei curdi, come quella dei palestinesi che a Diyarbakir sono gli ospiti d’onore del Forum, è emblematica delle conseguenze dell’imperialismo occidentale. “Grazie al popolo curdo, perché ha aperto la strada della lotta contro il militarismo e il colonialismo, che potranno essere sconfitti solo a partire da questa terra”, dice in inglese Raffaella Bolini in rappresentanza del World Social Forum durante l’inaugurazione dell’incontro. La prima rivendicazione degli organizzatori del vertice è la fine dell’oppressione cominciata all’atto della fondazione della Repubblica turca, quando per costruire da zero una nuova identità nazionale fu vietato l’insegnamento della lingua curda, furono cambiati i nomi dei luoghi (e così l’antica Amida, in curdo Amed, fondata dagli Aramei nel XIII secolo a.C., divenne Diyarbakir), fu fatta tabula rasa di una tradizione e di una cultura con secoli di storia. Ma tra i tendoni montati nel Sümer Park e i padiglioni di un’ex fabbrica di mattoni riadattata a centro pubblico per lo svolgimento di corsi tecnici e professionali, i temi di discussione sono stati numerosissimi. Sei sale in cui sono stati svolti almeno tre seminari al giorno ognuna, seguiti dai partecipanti stranieri grazie a un servizio di traduzione simultanea. La colonizzazione del Medio Oriente, l’anti-militarismo, la questione delle donne in società tradizionalmente patriarcali, le alternative di gestione comunale realizzate dal basso, i diritti dei lavoratori in paesi sconvolti da guerre e repressione statale, la necessità di un sistema d’istruzione che non riproduca i soliti rapporti di potere sono solo alcuni degli argomenti affrontati. Ma è probabilmente il tema della gestione delle risorse naturali e della costruzione di nuove dighe nella regione, ciò che più interessa da vicino chi vive in Kurdistan.
In Turchia, a partire dal 1954 sono state costruite un centinaio di dighe: secondo Işikhan Güler, membro della Camera degli ingegneri elettrici, la realizzazione di queste infrastrutture risponde da un lato a un discorso geo-strategico per il controllo del territorio e rappresenta dall’altro l’attestazione dell’avvenuta privatizzazione dell’acqua, che non può più essere liberamente usata dalle comunità che vivono lungo i fiumi. “Spesso – spiega Güler – queste dighe sono costruite ingannando la popolazione locale, a cui viene promessa l’elettrificazione della regione e raccontato che i nuovi bacini non causeranno allagamenti. In realtà, accade l’esatto contrario: le dighe non sono provviste di centrali idroelettriche e i nuovi bacini allagano vaste zone del territorio al solo scopo di bloccare l’afflusso d’acqua verso altre regioni e spingere così le popolazioni a emigrare altrove: il modo più drastico per ottenere il controllo politico del territorio”. Inserita nel Grande progetto anatolico (Gap), che prevede la costruzione di 18 nuove dighe nella parte meridionale dell’Anatolia, la seconda barriera di Ilisu sul fiume Tigri è l’infrastruttura che suscita i timori più grandi. Il governo turco, nonostante tutte le società europee che contribuivano a finanziare il progetto (tra cui l’italiana Unicredit) siano uscite dal consorzio, ha infatti cominciato ugualmente a erigere la nuova diga, che nei prossimi tre anni dovrebbe sommergere una superficie pari a due milioni di chilometri quadrati, causando tra l’altro la perdita di un importante sito archeologico come la città di Hasankeyf, risalente al periodo dell’impero sassanide. “L’acqua, simbolo di vita, e il suo uso da parte dell’uomo devono contribuire a costruire legami tra i popoli, non diventare una merce da cui trarre profitti – afferma Ipek Taşli della campagna per fermare la diga di Ilisu – Nel nostro paese, la questione dell’acqua viene usata strategicamente dall’esercito turco e dai ricchi capitalisti per impedire qualsiasi genere di opposizione sociale e politica: il problema, che ancora non è stato compreso, è che continuando a giocare in questo modo con la natura non ci rendiamo conto che dovremmo sopportare conseguenze inimmaginabili, per il nostro futuro e del pianeta tutto”.
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