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Posts Tagged ‘Michele Vollaro’

11 giugno ’13: la giornata della grande resistenza ad Istanbul, per immagini

12 giugno 2013 3 commenti

Non sono nemmeno le 7 di mattina quando la polizia si schiera tutta intorno a piazza Taksim con l’intenzione di “pulirla” dai manifestanti e riprendere il parco.

L’attacco è partito immediatamente con una violenza indescrivibile, soprattutto per l’uso massiccio di gas lacrimogeni ed idranti ad una mostruosa pressione

Ma a casa non si torna, si arretra e si riavanza per tutta la mattinata, senza paura e con una determinazione che fa tremare i TOMA

Centro!

Più prosegue la giornata più avanza pesantissimo il Taksim Gas Festival, a tutto tondo

Già, proprio a tutto tondo…

Ma più di una volta la polizia non è riuscita che ad avvicinarsi alla scalinata per poi dover riarretrare. Malgrado gas lacrimogeni, urticanti, granate assordanti, idranti e pallottole di gomma: SI RIMANE COME UN MURO!

Pirotecnia, rivoluzione

Fuoco e fiamme, mica solo lacrimogeni e manganelli!

Centinaia di arresti indiscriminati in tutta la città

una cinquantina di avvocati, del tribunale di Caglayan (il più importante della città), intenti a difendere i manifestanti vengono portati via dalla polizia

Catapulta autogestita

La rivoluzione, di certo non ha età, ed è molto donna!

Dopo le cariche mattutine, quelle al concentramento delle 12, anche la manifestazione delle 19 è stata immediatamente attaccata, con scontri violentissimi che si son protratti praticamente tutta la notte, ad Istanbul come nelle altre grandi città turche.

L’hotel Divan, tra i più lussuosi della zona, offre rifugio ai feriti e permette la nascita di un’infermeria da campo, evitando l’ingresso delle forze dell’ordine. Applausi

Questa è scattata alle 2.38 di notte: insomma, A CASA NON SI TORNA

BUONA LOTTA, VISTO CHE AL RISVEGLIO IL PARCO ERA ANCORA NELLE VOSTRE MANI.
E’ LA SECONDA SETTIMANA CHE NON FATE UN PASSO INDIETRO: PRONTI A DIFENDERVI DA QUALUNQUE ARMAMENTO LA REPRESSIONE TURCA VI MUOVE CONTRO.
CON VOI, SU OGNI BARRICATA, IN OGNI SASSO LANCIATO, IN OGNI BACIO RUBATO.

La giornata di ieri: mattina /pomeriggio / sera
Gli altri post di questi giorni:
Tutti i link sulla rivolta turca:
Taksim – NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini  / Respiri lacrimogeni? sanguini!
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazzaL’ennesimo attacco notturno: 15 giugno

Gezi Park: l’attacco finale della polizia? RESISTANBUL #geziparki

11 giugno 2013 5 commenti

Arrivano da ogni dove, per circondare i manifestanti

Non son nemmeno le venti, nemmeno un’ora è passata dalle 19, scelte per il concentramento serale di questa giornata eterna, iniziata alle sette di mattina con il violentissimo tentativo di sgombero di piazza e parco da parte degli agenti antisommossa e dei reparti speciali turchi.
Una giornata campale, caratterizzata da una resistenza senza precedenti che ha tenuto la piazza e ha saputo ricacciare indietro ripetutamente la polizia, a Taksim come altrove, erigendo barricate li dove venivano abbattute dai TOMA ( i blindati turchi), difendendo passo passo ogni pezzetto conquistato in queste giornate.

Ma eccoci, e a guardarla sembra la resa dei conti.
GeziRadio, la radio dagli alberi, che seguiamo costantemente non ha fatto in tempo a ricominciare a trasmettere che eccola nel delirio più totale e di nuovo raggiungibile da poco (COMPLIMENTI!) : le cariche sembrano esser più pesanti di stamattina, se una cosa simile è immaginabile.
Ormai la piazza è un’enorme fitta nuvola tossica, da dove giungono le continue esplosioni delle granate assordanti.
Intanto dagli altri quartieri, che già si stavano recando verso la zona di Taksim, iniziano a muoversi cortei di ogni genere e tipo, dalle maschere antigas alle padelle: l’assedio della polizia inizia ad esser sotto assedio ancora una volta.
RESISTANBUL!!!!

AGGIORNAMENTI ORE 21.45:
Le immagini tolgono il fiato, la piazza è ormai una tonnara affumicata e le prime tende iniziano ad essere spazzate via dai reparti che avanzano, protetti da questa incredibile nuvola di armamento chimico che sembra muoversi con loro.
Intanto non è ovviamente Istanbul la sola piazza calda di queste lunghissima serata: Ankara, Bursa, Izmir, Edirne, in ogni dove ci sono migliaia e migliaia di persone in piazza, pronte a marciare anche al buio come a Bursa, dove l’amministrazione locale ha deciso anche di tagliare completamete l’illuminazione pubblica. Cosa che non fa desistere proprio nessuno.

Proverò ancora a dar notizie su Istanbul, dove ormai le tende sono in fiamme anche a causa dei candelotti lacrimogeni, e dove più di diecimila persone si stanno muovendo in corteo per cercare di raggiungere la piazza dove si combatte.
NON UN PASSO INDIETRO!

Il post di questa mattina QUI
e gli aggiornamenti pomeridiani QUI
I post dei giorni precedenti e i comunicati della piazza:
Taksim / NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Cariche e scontri a Taksim: la giornata prosegue in guerriglia

11 giugno 2013 8 commenti

Anche i giornalisti vengono trattati molto bene

Molotov vs TOMA

Dopo le prime righe mattutine (QUI) , la situazione è ulteriormente degenerata.
Per le 13 era stata convocata una grande manifestazione, in attesa che da tutta la città i manifestanti riuscissero a raggiungere Taksim e i quartieri intorno, malgrado il blocco della metropolitana e di tutti i mezzi di superficie.
Già da poco prima di mezzogiorno le autorità e le forze di sicurezza avevano fatto capire le loro intenzioni, come ad esempio facendo circolare dentro il palazzo di giustizia (Çaglayan) che “I cittadini che non hanno nulla a che fare con gli eventi, si allontanino o verranno arrestati”, tanto che poco dopo anche alcuni avvocati sono stati tratti in arresto e risultano ancora in stato di fermo.
Hanno provato a portare i fermati nella vicina stazione di polizia a Vatan ma quello che si son trovati davanti li ha costretti a cambiare rapidamente idea: migliaia di persone li stavano aspettando ed hanno iniziato ad avanzare senza paura verso di loro…. che via, son tornati da dove venivano.

Barricate si erigono qua e la a vista d’occhio e malgrado vengano abbattute dalle decine e decine di TOMA che carosellano per la zona, continuano a sbucare e bloccare l’avanzata.
Alcune immagini raccontano con chiarezza quasi comica quante volte la polizia è stata costretta ad arretrare gambe in spalla perché completamente circondata da tutti i lati.

L’appello degli ultimi minuti è rivolto ad infermieri e medici, di raggiungere l’infermeria da campa costruita a Gezi Park, dove il numero di feriti e intossicati dall’attacco chimico che Erdogan muove contro chi manifesta aumenta costantemente.

🙂

Il prossimo appuntamento cittadino unitario, anche se non esiste inizio e fine di manifestazione da dodici lunghi giorni e notti, è per le 19, sempre a Taksim, dove con cautela si ricomincia a prender posto,
visto con quanta determinazione si son cacciati via i soldatini di Tayyep.

A dopo.

I post dei giorni precedenti e i comunicati della piazza:
Taksim / NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Sempre questo pomeriggio, Taksim

La polizia entra a Taksim: le prime notizie della mattinata

11 giugno 2013 4 commenti

QUI GLI AGGIORNAMENTI POMERIDIANI: LEGGI

Eccoli.
Da questa mattina, poco dopo che la luce dal sole ha iniziato ad illuminare l’immensa città dei due continenti,
agenti antisommossa, TOMA, onde tossiche, idranti, manganelli e armi da fuoco hanno iniziato ad avanzare per ripulire il Gezi Park, che da più di una settimana sempra una piccolo stato a parte, liberato e resistente.

A Tarlabaşı, un TOMA in fiamme

“Fuori la polizia”, “Taksim è ovunque, la resistenza è ovunque”, “Governo: dimissioni”
chi sta resistendo in piazza dimostra tutta la sua determinazione, quella che in questi giorni abbiamo imparato non solo per le strade di Istanbul, ma in quelle di tutte le grandi e meno città turche: malgrado le folli e provocatorie dichiarazioni di Tayyep Erdogan, quello che sembra palese è che c’è una generazione che non vuole tornare a casa,
ma continuare a masticare i marciapiedi, marciando verso una libertà totalmente diversa.
La nottata nella sola città di Ankara è trascorsa con ore ed ore di scontri.
Rimanendo focalizzati su Istanbul: a Tarlabaşı ad Harbiye, a Istiklal Caddesi,  la battaglia è pesantissima e la resistenza di piazza sta rilanciando al mittente migliaia di lacrimogeni e gas urticanti, oltre ad aver formato una catena umana (gestita dalla “Taksim Dayanismasi) che cerca di rendere fruibile a chi vuole la fermata metropolitana, invasa dal fumo, ma poi chiusa dal governo: la polizia da ore cerca anche di bloccare tutti gli autobus che dalle altre zone della città raggiungono Taksim e quell’area.
L’intenzione è isolare i manifestanti, con la stupida illusione che questo sia possibile blindando una zona della città e rendendola totalmente inadatta alla respirazione e alla sopravvivenza: non sarà così che fermeranno questa rivolta.

Son loro ad essere circondati.
Da qualche minuto a questa parte si è passati massicciamente all’uso di pallottole di gomma: dalla parte opposta oltre alla miriadi di sassi in volo e di candelotti boomerang, un largo uso di fuochi d’artificio aiuta a tener TOMA e celere minimamente distanti. Poveri alberi di Taksim, completamente gasati.

E non ce fate incazzà eh, che non ve conviene!

Non è una rivolta che si chiuderà con questi dodici giorni di autodeterminazione, resistenza e libertà:
una volta scesi in strada, una volta capito quanto forti si può essere, A CASA NON SI TORNA.

[Qui un link, in inglese,  che racconta le violenze a sfondo sessuale che la polizia commette sui fermati: LEGGI ]

I post dei giorni precedenti e i comunicati della piazza:
Taksim / NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Turchia / NoTav: “Una faccia, una piazza”. Taksim scrive al movimento NoTav

9 giugno 2013 11 commenti

Avevamo già precedentemente pubblicato la prima lettera del movimento di Piazza Taksim al movimento NoTav e la successiva risposta. QUI:  Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Il rapporto epistolare continua, e son felice di pubblicarlo.

Cari compagni No TAV,
fratelli di lotta;
la Resistenza in Val di Susa, come la Resistenza per Gezi park, e’ una resistenza contro un sistema di interessi e poteri; un sistema di valori che vorrebbe toglierci cio’ che e’ nostro – lo spazio, la valle, il parco, e la possibilita’ di viverci – in nome di un “progresso” che, nei fatti, vuol dire solo il profitto dei pochi che ci investono. Questo profitto e’ una forma di oppressione del quale la polizia, i lacrimogeni, la censura mediatica, i tribunali, le accuse di vandalismo sono soltanto l’espressione piu’ esterna.La vostra solidarieta’ ci onora. Non soltanto per il prezzo che continuate a pagare con la vostra resistenza ma soprattutto per quello che voi, come ora noi, avete imparato dalla resistenza: la riappropriazione di cio’ che ci appartiene, il coraggio di restare, l’occupazione, l’autorganizzazione, la fiducia gli uni negli altri. In questi giorni a Gezi abbiamo imparato a lottare insieme nonostante le nostre molte differenze interne: contro i lacrimogeni, si’ ma anche contro la pioggia che ci allagava le tende. Insieme si vince una piazza, insieme si montano le barricate; e insieme si distribuiscono le coperte, si organizza il cibo, si smaltisce la spazzatura, si monta una radio, ci si reinventa una nuova quotidianita’. Come avete fatto voi in questi anni di occupazione in valle.Mentre i nostri compagni ad Ankara, Antakia, Adana, Izmir vengono attaccati in queste ore ancora una volta da quei poteri forti che noi di Istanbul abbiamo lasciato al di la’ delle barricate appena una settimana fa, noi in questa piazza che ora e’ nostra stiamo imparando a restare uniti e ad avere fiducia nella lotta che ci ha fatti incontrare. Non sappiamo quanto riusciremo a restare qui, non sappiamo ancora che ne sara’ della nostra resistenza dopo questi pochi giorni. Ma abbiamo imparato a lottare insieme. E che da qui si puo’ soltanto imparare ancora di piu’. E siamo sicuri che in questo vi siamo fratelli, nonostante la nostra distanza geografica.
La vostra resistenza e’ la nostra resistenza e questo e’ soltanto l’inizio – la lotta continua!
Müştereklerimiz

http://mustereklerimiz.org/val-di-susa-direnisi/

Tutti i link sulla rivolta turca:
Taksim – NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini  / Respiri lacrimogeni? sanguini!
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazzaL’ennesimo attacco notturno: 15 giugno

Turchia: la brutalità della polizia per immagini. Com’è che si dice? A.C.A.B.

5 giugno 2013 14 commenti

Lanciati dritto per dritto, per far male

Come potete vedere da quest’agghiacciante immagine. Tirati dritti in faccia, possibilmente a far saltare l’occhio

La voglia di ammazzare sembra essere tanta nella polizia turca

Neanche dentro casa c’è via di scampo

Chi finisce nelle loro mani viene pestato con spranghe e bastoni, oltre che con l’aiuto di squadracce

Per finire come questa ragazza, con ossa rotte e lividi ovunque

o la schiena di questo ragazzo

Malgrado questo non mi sembra che nessuno abbia intenzione di tornare in casa. La battaglia di Taksim si allarga a vista d’occhio, malgrado la pesante repressione, che mette mano ad ogni tipo di armamento contro chi manifesta. RESISTANBUL! TURCHIA RESISTE E LOTTA

1.2.1.3.

Tutti i link sulla rivolta turca:
Taksim – NoTav: una faccia, una piazza
La brutalità della polizia, per immagini  / Respiri lacrimogeni? sanguini!
Le ultime parole di Abdullah
I primi morti / Che poi son 3
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza / La risposta NoTav
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazzaL’ennesimo attacco notturno: 15 giugno

Turchia: le ultime parole di Abdullah.. e la lotta prosegue

5 giugno 2013 11 commenti

“Ho dormito solo 5 ore in 3 giorni, ho respirato troppo gas al peperoncino, ho rischiato di morire 3 volte e tu sai cosa dice la gente? Stai tranquillo ragazzo, sei tu che vuoi salvare il tuo paese? Sì, anche se non

Abdullah Comert

dovessimo riuscirci morirei per questo ( sono così stanco che ho bevuto 7 bevande energetiche, ho preso 9 antidolorifici in 3 giorni, ho perso del tutto la mia voce ma anche stamattina mi sono alzato alle 6 del mattino. Per la rivoluzione!
P.S.: Cari vicini, per favore lasciate le porte dei vostri palazzi aperte”
Le ultime parole di Abdullah Comert, ucciso a colpi di pistola ad Antakya.

Nel frattempo la nottata è andata abbastanza tranquilla ad Istanbul, a partire dalle 2 di notte, quando son terminati gli scontri sia a Beylikdüzü che in piazza Gazi,
mentre ad Antakya si è andati avanti fino alle 5 di mattina.
Attendiamo gli aggiornamenti della giornata.

Oggi è 5 giugno: l’anniversario di una morte che ancora pesa.
Mara Cagol veniva uccisa quasi 40 anni fa dentro la Cascina Spiotta, luogo dalla lunga storia e molto amato da Mara, che come nome di battesimo aveva Margherita.
Due pagine su questo blog in suo nome, leggetele:
A MARA
QUANDO PORTAI UN FIORE IN SPIOTTA

Tutti i link sulla rivolta turca:
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Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Dopo il comunicato di Taksim, la risposta solidale dei NoTav!

4 giugno 2013 9 commenti

Nel momento in cui l’altro ieri ho pubblicato la traduzione dell’appello dal Taksim Solidarity Platform, vi ho sottolineato la loro richiesta di farlo leggere al movimento NoTav,
che in Turchia conoscono bene e che è nel cuore di chi sta rivoltandosi oggi nelle piazze di tutto il paese.
Qui il link del comunicato turco (LEGGI) , e qui sotto la risposta NoTav!

Anche i dervisci…che ve credete!

Cari compagni,

stiamo seguendo con solidarietà la vostra lotta al Parco Gezi di Istanbul.

La Val Susa ha una lunga storia di sgomberi, attacchi, assalti vigliacchi all’alba, carcere, di bulldozer mandati a distruggere le nostre terre. Non sono riusciti a prevalere grazie alla resistenza della nostra gente.

La vostra lotta è la nostra lotta. È la lotta per il futuro, consapevoli di rappresentare un pericolo per l’ordine costituito che si accanisce per batterci con ogni mezzo necessario, che vuole cancellarci perché sa che con noi e dopo di noi saranno in dieci, cento, mille.

Ma noi e voi abbiamo anche un’altra consapevolezza: sappiamo di poter vincere questa battaglia, perché abbiamo il tempo, le ragioni, i sogni e la caparbietà dalla nostra parte. E questo non può essere sconfitto né dai lacrimogeni, né dai tribunali.

Dal movimento No Tav, la nostra solidarietà

“Sevgili yoldaşlar ve arkadaşlar,

Gezi Park’ta vermiş olduğunuz mücadeleyi dayanışma ile Val Susa’dan (Turin) takip etmekteyiz.

Val Susa’nın (Susa Vadisi) polis baskınları, şafak vakti yapılan korkakça saldırılar ve hapis cezaları ile dolu bir tarihi vardır;  Turin-Lyon adında işe yaramaz ve pahalı bir yüksek hızlı tren için bizim topraklarımızı yok etmek amacıyla gönderilen bir buldozere tanıklık etmiş bir tarih. Halkımızın direnişi bu planların başarıyla gerçekleştirilmesine izin vermedi.

Mücadeleniz mücadelemizdir. Ortak mücadelemiz ise gelecek mücadelesidir. Bu mümkün olan her türlü araçla bize saldıran kurulu düzen için bir tehlike arz ettiğimizin farkında olarak verdiğimiz mücadeledir. Bizleri ortadan kaldırmak istiyorlar çünkü bizden sonra bizim gibi onlarcası, yüzlercesi ve binlercesinin geleceğini biliyorlar.

Sizler de bizler de biliyoruz ki, bu kavgayı kazanabiliriz çünkü gaz bombası ya da mahkemelerce yenilemeyecek olan zaman, nedenler, hayaller ve inatçılık bizden yana.”

Tutti i link sulla rivolta turca:
I primi morti    / Che poi son 3
Le ultime parole prima di essere ucciso
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Turchia: 3 morti, numeri identificativi cancellati e scioperi in costruzione

4 giugno 2013 13 commenti

Quando ieri parlavamo, anche attraverso l’articolo di Vollo (leggetelo che è interessante: QUI) che la protesta stava dilagando per tutta la penisola anatolica non stavamo certo delirando.
Un’altra serata e nottata che non hanno visto un secondo di tregua in ogni angolo del paese, proprio come i comunicati dalle piazze ci raccontano e purtroppo anche gli obitori.
Il terzo morto di quest’insurrezione che va avanti da quasi una settimana aveva anche lui solo 22 anni, Abdullah Comert è morto dopo molte ore di battaglia con un proiettile in testa, di cui non si conosce la provenienza.
E’ stato colpito ad Antakya, nell’Hatay, regione del sud ovest del paese, a pochi passi dal confine siriano.
Il “continente” turco è tutto in strada, in ogni dove, tutti insieme.

Questa è l’autostrada, a Bursa, bloccata dai manifestanti ieri sera

Ieri la piazza, quella principale (tra Taksim e Besiktas) ha visto anche un fatto importante e splendido: un gruppo ben organizzato si è infilato in piazza, nemmeno così piccolo, per andare a cercare dei kurdi da pestare.
Intuita l’aria, si son formati diversi cordoni di persone, strette attorno alla componente kurda in piazza, che urlavano “uniti contro il fascismo” e che hanno fatto correre gambe all’aria quelle merde,
scese tipo baltagheyya e intenzionate a fare il morto con le loro mani.
Ma è dura quando l’insorgenza è così inarrestabile, quando migliaia di ragazzi sono intenti a passarsi sassi e tutto il trovabile per bloccare le strade ed alzare barricate sempre più alte.
Contro la violenza di Stato, per la libertà.

Manca poco per lo sciopero generale: dopo la chiusura per protesta delle principali università del paese e delle scuole (vedi Istanbul ed Ankara) sono molte le categorie che si stanno unendo alla protesta, con l’intenzione di costruire nelle prossime ore un immenso sciopero generale.
Come la vedo male Tayyep, la vedo proprio male!

Ankara continua a rimanere la città dove la repressione muove mano pesante più che altrove,
forse proprio per l’enorme componente kurda in mobilitazione. Le immagini della nottata mostrano una violenza senza precedenti e intenzionale: basta guardare i caschi della polizia, che avrebbero il numero identificativo e invece lo potete trovare coperto da una mano di vernice in ogni scatto.

Ankara e i poliziotti col numero identificativo cancellato

Link dei giorni precedenti e comunicati dalla piazza:
I primi morti
Le ultime parole prima della morte
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Istanbul: appuntamento oggi alle 19 per riprendere Taksim

3 giugno 2013 2 commenti

Proseguono gli scontri e prosegue il dilagare di insurrezione nel paese, in particolar modo ad Ankara, dove la repressione si sta muovendo in modo ancora più brutale che ad Istanbul.
I morti accertati sono due ad Istanbul, ma non si riesce ad aver conferma degli altri gravi feriti, soprattutto nelle altre città.
Vi metto qui la traduzione del comunicato da poco diffuso, che invita tutti in piazza alle 19, per riprendersi Taksim.
Lo potete trovare su questo sito, che vi consiglio di seguire: mustereklerimiz.org

L’ondata di resistenza partito dal Gezi Park di Taksim ha raggiunto i più disparati angoli del paese, nelle strade, nelle case, negli ospedali, dento le università.A Taksim, Besiktas, in Ankara, in Adana, ed Izmir, siamo ora in una nuova fase della nostra esperienza: una sollevazione popolare che la polizia sta ancora tentando di reprimere con la violenza. Il terrore dichiarato dallo Stato contro quest’insurrezione è ciò che sta causando tutta questa follia e violenza brutale. Per dimostrare il terrore di Stato, per esporre le richieste della nostra resistenza, per salutare questi sei giorni di battaglia, noi della Taksim Solidarity Platform invitiamo tutta la cittadinanza di Istanbul alle 7 di questo pomeriggio per gioire insieme ancora una volta e riprenderci la nostra piazza.
Taksim Solidarity Platform

Gli altri Link:
I primi morti
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Ciao Ethem, morto ammazzato nella rivolta in Turchia

3 giugno 2013 24 commenti

Etham Sarisuluk, ucciso ad Ankara

Aggiornamento ore 15.30: I morti confermati sono due, il secondo Mehmet Ayvalıtaş, 20enne, è stato travolto da un’auto. Era un attivista del Socialist Solidarity Platform.

Che fosse solo questione di attimi si era capito da poco dopo l’inizio degli scontri ad Istanbul.
L’incredibile resistenza popolare trovata in ogni dove dalla polizia turca, ha visto attacchi sempre più violenti e con tutti gli armamenti utilizzabili: ma per il piombo non s’è poi dovuto attendere così molto.
E mentre girano notizie non confermate di altri in pericolo di vita, compare il volto di Ethem completamente sanguinante e in morte celebrale dopo pochi istanti, ucciso ad Ankara
Cadi a terra ammazzato, nel giorno in cui Hikmet (tuo meraviglioso poeta) morì.

Abdullah Comert:  Che la terra ti sia lieve come brezza di mare

Link sulla rivolta di Istanbul:
3 morti e caschi della celere contraffatti
Le ultime parole prima di essere ucciso
La rivolta dilaga nel paese
Il comunicato della piazza
Istanbul: è guerriglia in difesa del verde
Gli aggiornamenti del 31 maggio
Le immagini e gli aggiornamenti del 1 giugno
Le richieste della piazza

Turchia: la protesta dilaga, di Michele Vollaro

3 giugno 2013 18 commenti

Ci vanno leggeri

Un articolo coraggioso, perché fare un sunto di queste ore è veramente complicato: quindi vi consiglio di leggerlo.
Conoscendo bene quei vicoli, Michele Vollaro ci fa un’analisi dei fatti e della compagine presente nelle strade.
(sottobraccio per rivolte qua e la per il Mediterraneo, questa ci tocca guardarla da lontano, Vollo!!)

Vi consiglio di leggere anche questo suo articolo : La rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali
e i suoi reportage da Haiti: QUI

Turchia: si estendono in tutto il paese le proteste contro Erdoğan

Per il terzo giorno consecutivo sono proseguite ieri in numerose città della Turchia le manifestazioni che, cominciate a Istanbul per salvare un parco al centro della città dalla costruzione di un ipermercato e di una moschea, hanno rapidamente assunto il carattere di una protesta a livello nazionale contro le politiche portate avanti dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan nel suo decennio di governo.

Una protesta che è emersa all’inizio della settimana scorsa, quando una cinquantina di abitanti del quartiere di Taksim hanno cominciato a riunirsi sotto i 600 alberi del parco di Gezi per impedire alle ruspe di abbatterli e ha visto prima l’appoggio del deputato curdo del Partito della pace e la democrazia (BDP), Sırrı Süreyya Önder, eletto in quel distretto, e poi anche di altri parlamentari membri del kemalista Partito popolare repubblicano (CHP).

La partecipazione, soprattutto di giovani e abitanti del quartiere, ai presidi nel parco al centro di Istanbul è andata aumentando fino a venerdì, quando è iniziata una serie di tentativi di sgombero violento da parte delle forze dell’ordine. La violenza utilizzata per cacciare i manifestanti da Gezi e il silenzio in merito da parte della maggior parte dei principali media nazionali, assordante mentre su internet e sulle reti sociali le cariche della polizia diventavano il principale argomento di discussione e venivano condivise le prime immagini e i video dalla piazza, hanno spinto ancora più persone ad aggregarsi ad Istanbul ed altre hanno cominciato a scendere in strada anche nelle altre città, nella capitale , a Smirne, Antalya, Adana, Trebisonda, Diyarbakır.

Ieri nel primo pomeriggio il ministro dell’Interno, Muammer Güler, ha riferito che da venerdì fino a quel momento erano state più di 1700 le persone arrestate nel corso delle manifestazioni svoltesi in 90 diverse città del paese, mentre i feriti sarebbero 53 tra i protestanti e 26 tra le forze dell’ordine. Anche se la maggior parte degli arrestati dovrebbe essere stata liberata dopo un primo interrogatorio, il bilancio dei feriti comunicato ad alcune agenzie di stampa indipendenti turche da fonti mediche aveva raggiunto domenica mattina circa un migliaio di persone portate negli ospedali ad Istanbul e di almeno altre 500 ad Ankara. Decine sarebbero quelli in gravi condizioni.

Dopo gli scontri che hanno caratterizzato la giornata di sabato a Istanbul, soprattutto nei quartieri di Taksim e di occupygeziBeşiktaş, quando decine di migliaia di persone hanno affrontato i gas lacrimogeni ed i cannoni ad acqua della polizia opponendosi alle cariche fino ad ora tarda, i manifestanti sono scesi di nuovo per le strade domenica per pulirle dai rifiuti della notte precedente e partecipare festosamente alle iniziative previste nel parco di Gezi, riconquistato temporaneamente alle ruspe. Alcune cariche e tafferugli si sono registrati nei pressi dell’ufficio del primo ministro a Beşiktaş, ma gli scontri più gravi e violenti si sono registrati ieri soprattutto ad Ankara e Smirne, dove i manifestanti si sono scontrati per diverse ore con la polizia, che secondo alcune ricostruzioni avrebbe sparato oltre ai gas lacrimogeni ed ai proiettili di gomma anche pallottole vere.

Nonostante le dichiarazioni del presidente della Repubblica, Abdullah Gül, e del sindaco di Istanbul, Kadir Topbaş, entrambi colleghi di partito di Erdoğan, per alleggerire la tensione sostenendo che “abbiamo imparato la lezione”, il primo ministro ha reiterato ieri la propria volontà di voler andare avanti con il programma di ridisegno urbanistico della città respingendo le critiche di chi durante le proteste lo ha definito un “dittatore” per l’uso eccessivo della forza contro le manifestazioni.

Intervento della polizia turca contro un manifestante ad Izmir

Il suo controllo assoluto sul partito, che grazie ad una serie di riforme costituzionali si è lentamente esteso all’intero apparato statuale, la decapitazione attraverso il carcere con l’accusa di cospirazione o il prepensionamento dello stato maggiore dell’esercito che nel primo momento della sua avventura governativa si era opposto all’AKP, le forti pressione sui media che progressivamente si sono sempre più allineati alle posizioni del primo ministro, le recenti decisioni in politica estera in particolare rispetto agli eventi in corso in Siria ed infine tutta una lunga serie di misure volte a imporre un maggiore controllo dello Stato sulla vita dei cittadini, culminate con l’approvazione della legge per il divieto di vendita d’alcol durante la notte o il tentativo di vietare l’aborto e la pillola del giorno dopo, sono i motivi principali che hanno portato quella che sembrava essere destinata a rimanere una marginale protesta ambientalista ed anti-capitalista a forse la più importante sfida cui l’AKP si sia mai trovato a dover essere confrontato.

“La lotta per il parco di Gezi ha fatto scattare la rivolta giovanile di almeno due generazioni cresciute sotto i governi autoritari di Recep Tayyip Erdoğan e le imposizioni dell’AKP – si legge in un comunicato preparato dal Network per i beni comuni ‘Müştereklerimiz’, facente parte della piattaforma per la resistenza di Taksim – Sono i figli delle famiglie sfrattate da Tarlabaşı in nome della speculazione edilizia, sono gli operai licenziati in nome della privatizzazione, i precari schiacciati ogni giorno sotto la ruota del profitto”.

mustereklerimiz“Dal parco la resistenza ha travolto piazza Taksim, e da piazza Taksim via verso il resto del paese, finché Gezi è diventato per tutti noi lo spazio in cui tirar fuori tutta la rabbia contro chiunque voglia imporci come vivere nella nostra città – prosegue il comunicato – Le lotte a venire faranno tesoro di questa rabbia. Ma c’è molto di più. La resistenza per il parco di Gezi ha cambiato la stessa definizione di quel che chiamiamo spazio pubblico, perché la battaglia per il diritto a restare in piazza Taksim ha stracciato l’egemonia del vantaggio economico come regola morale”.

occupygezi2L’aspetto fondamentale di questa protesta è che per la prima volta nella storia recente della Turchia il primo ministro eletto per tre volte alla guida del governo, viene contestato e messo in difficoltà da un piazza composta da una pluralità di soggetti diversi: giovani della classe media, studenti, militanti dei più diversi partiti d’opposizione, venditori ambulanti, intellettuali, artisti, gruppi di tifosi, uniti dall’opposizione a quella che viene vissuta da una larga parte della popolazione turca come una sua deriva autoritaria. Alle manifestazioni partecipano persone che hanno votato l’AKP alle precedenti elezioni, affidandosi alle promesse di sviluppo economico e all’immagine islamica moderata di Erdoğan, ma anche militanti delle numerose organizzazioni della sinistra radicale così come simpatizzanti del nazionalismo kemalista laico e sostenitori del CHP. Ed è proprio la presenza in strada, discreta e senza bandiere di partito, di questi ultimi, che insieme all’esercito hanno dominato la politica turca dalla fondazione della repubblica, a suscitare gli interrogativi più interessanti su come potranno proseguire le mobilitazioni. Come ha scritto infatti lo storico turco Zihni Özdil, che insegna all’Università Erasmus di Rotterdam, nei Paesi Bassi, “se in precedenza i regimi laici al governo in Turchia prendevano di mira soprattutto il dissenso religioso, il governo dell’AKP ha utilizzato le stesse forme di repressione contro le critiche laiche”, ricordando poco più avanti che un suo amico impiegato presso l’Associazione per i diritti umani IHD, focalizzata sulla questione curda, ripetesse sempre “l’AKP è il CHP con il turbante”.

Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali

25 marzo 2013 4 commenti

Onorata di ospitare questo lungo articolo di Michele Vollaro, nel silenzio che ha accompagnato sulla stampa e sulla rete italiana l’annuncio storico di Abdullah Ocalan, in questo particolare momento per la Turchia e tutta l’area mediorientale

Dopo le primavere arabe arriva l’estate kurda, la rivoluzione del Pkk contro identitarismi etnici e mono-nazionali
di Michele Vollaro

«La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini».

Una dichiarazione storica che potrebbe chiudere il trentennale conflitto che oppone il Partito dei lavoratori kurdi (PKK) e lo Stato turco. Un annuncio clamoroso destinato a mettere fine alla lotta armata che ha causato oltre 40.000 vittime. Così è stato definito da più parti il messaggio di Abdullah Ocalan, letto a Diyarbakir il 21 marzo durante la celebrazione del Newroz.
Un messaggio che gli abitanti del Kurdistan, forzati da decenni alle politiche assimilazioniste delle autorità turche, hanno accolto con gioia e trepidazione, convinti ormai anch’essi da tempo della necessità di trovare una strada alternativa alla lotta armata per vedere riconosciuti i propri diritti e, ancor di più, condizioni di vita dignitose, in una società come quella kurda caratterizzata da marginalità, oppressione, povertà e disoccupazione. In poche parole dall’assenza assoluta di una qualsiasi prospettiva per riuscire anche solo ad immaginare di realizzare le proprie aspirazioni personali, siano esse la possibilità di scegliere un lavoro, di viaggiare liberamente o anche semplicemente di parlare la propria lingua madre. Chi ben conosce questa situazione e la storia recente del Kurdistan ha giustamente salutato il messaggio di Ocalan come un fondamentale punto fermo per un dialogo che può cambiare definitivamente le condizioni di vita nella regione.

L’inganno geopolitico
Qualcun altro, invece, ha visto in questo messaggio la definitiva abdicazione del popolo kurdo ai propri diritti e alla propria autodeterminazione, interpretando la scelta del fondatore del PKK come una capitolazione a più forti interessi internazionali.
Un presunto accordo dettato da ipotetici interessi geopolitici per non danneggiare la ‘crociata’ imperialista a sud del confine turco, dove le potenze occidentali starebbero complottando il rovesciamento di un regime nemico, quello siriano, amato e sostenuto dalla propria popolazione.
Il popolo kurdo avrebbe quindi venduto la propria anima al diavolo per ottenere chissà quale vantaggio ai danni di quello siriano. Non credo valga nemmeno la pena soffermarsi ad evidenziare l’assurdità di quest’interpretazione, che sembra uscita più da un tabellone da gioco di Risiko dove ognuno guarda alle proprie immaginifiche bandierine anziché essere fondata su condizioni di fatto.

Una rivoluzione di paradigma: dallo Stato-nazione al confederalismo democratico
Ben più interessante e produttivo sarebbe in realtà concentrare l’attenzione su un paio di osservazioni. Alcune, che potrebbero essere utili a comprendere meglio cosa accade o potrebbe accadere in Kurdistan e in generale all’interno della Turchia, da tempo immemore considerata la porta o il ponte tra Oriente ed Occidente e quindi già solo per questo degne di un necessario approfondimento, ma ancora più fondamentali per la “rivoluzione” (qualcuno probabilmente storcerà il naso a leggere questo termine) non solo sociale e politica, ma anche e soprattutto di categorie interpretative che il Medio Oriente vive ed ha vissuto negli ultimi anni. Altre, più vicine invece a precedenti diversi, anche della storia italiana, accomunabili alla vicenda di Ocalan per certe somiglianze che potrebbero consentire di guardare ad eventi, usi e giudizi già espressi nel passato recente.

L’isola di Imrali, dove è prigioniero Ocalan

Cominciamo dal locale e particolare, che interessa come accennato lo stravolgimento di categorie tradizionali. Il discorso di Ocalan può essere riassunto nella frase “Siamo ora giunti al punto in cui le armi devono tacere e lasciare che parlino le idee e la politica”. Al di là delle notizie di cronaca sull’inizio o meno di un cessate-il-fuoco da parte delle fazioni armate e dell’avvio di un processo di pace tra PKK e Stato turco, è stato notato in modo più che corretto che questo indica un mutamento di strategia. Anche se non è proprio una novità: sono anni che l’agenda politica kurda è incentrata sul principio della “autodeterminazione democratica”, un concetto promosso allo stesso tempo da Adbullah Ocalan e dal Partito della pace e della democrazia (BDP) dove l’affermazione dell’identità del popolo kurdo e la democratizzazione dell’intera Turchia diventano le due facce della stessa medaglia. Ma questo è giusto un dettaglio o anche solo una puntualizzazione da addetti ai lavori. Si potrebbe osservare infatti che nonostante le numerose tregue dichiarate in passato dal PKK, per un motivo o per un altro, le armi non sono state ancora abbandonate dai guerriglieri e questa è stata infatti la risposta del ministro turco dell’Interno, Muammer Güler, che pur concedendo ad Ocalan di aver usato un linguaggio di pace ha aggiunto che “ci vorrà tempo per vedere se le parole saranno seguite dai fatti”.

Lo stesso Ocalan ha detto che “Oggi comincia una nuova era. Il periodo della lotta armata sta finendo, e si apre la porta alla politica democratica. Stiamo iniziando un processo incentrato sugli aspetti politici, sociali ed economici; cresce la comprensione basata sui diritti democratici, la libertà e l’uguaglianza”. In questo, si evidenzia come il discorso era sì rivolto ai guerriglieri kurdi affinché depongano le armi, ma al tempo stesso è anche una sfida al governo turco.

I festeggiamenti del Newroz

“Negli ultimi duecento anni le conquiste militari, gli interventi imperialisti occidentali, così come la repressione e le politiche di rifiuto hanno provato a sottomettere le comunità arabe, turche, persiane e curde al potere degli stati nazionali, ai loro confini immaginari e ai loro problemi artificiali – prosegue ancora Ocalan – L’era dei regimi di sfruttamento, repressione e negazione è finita. I popoli del Medio Oriente e quelli dell’Asia centrale si stanno risvegliando”. Più avanti aggiunge “Il paradigma modernista che ci ha ignorato, escluso e negato è stato raso al suolo” e “Questa non è la fine, ma un nuovo inizio. Non si tratta di abbandonare la lotta, ma di cominciarne una nuova e diversa. La creazione di aree geografiche “pure” basate sull’etnicità e mono-nazionali è una fabbricazione disumana della modernità che nega le nostre radici e le nostre origini”.

Basta con i nazionalismi
L’oggetto della polemica è l’ideologia politica che è all’origine di molta parte dei problemi dell’ultimo secolo, quel nazionalismo che insieme alla sua creatura principe, lo Stato-nazione, sono ormai da oltre un decennio indicati come profondamente in crisi, ma sembrano restare pur sempre la risposta più immediata e semplice come misure di reazione agli stravolgimenti in corso. Restando in Medio Oriente basti pensare alle spinte centrifughe in Libia o in Iraq dopo la fine dei precedenti regimi, dove ognuno degli interessi dominanti localmente punta alla creazione di una propria entità statuale sostenendo la necessità di un territorio pacificato sulla base della propria univocità sia essa “etnica” o di qualsivoglia altro titolo; un altro esempio emblematico è anche la sciagurata scelta dell’opzione di “due popoli, due Stati” per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Il dibattito sul tema del nazionalismo non è di certo un argomento nuovo intorno alla questione kurda. Senza andare troppo indietro, già a partire almeno dal 2005 Ocalan si era interrogato sui legami tra etnicità e nazionalismo indicando proprio nella creazione degli Stati-nazione in Medio Oriente l’origine della crisi attuale della regione (Abdullah Ocalan, Democratic Confederalism, 2011). Servirebbe lo spazio di almeno un libro per ripercorrere l’archeologia del dispositivo statuale moderno, ma ciò porterebbe il discorso troppo lontano. Nondimeno sarebbe senz’altro sano ed essenziale ragionare sulla necessità di individuare nuovi percorsi che leggano la realtà del mondo contemporaneo per mezzo di una lente o un’idea cosmopolita.

Riguardo alla situazione kurda, va dato atto ad Ocalan di essere stato abile in questi ultimi anni ad argomentare e proporre le proprie idee per un nuovo modello di società, che includesse nuove istituzioni per funzionare e un nuovo vocabolario per definire concetti ed idee necessari a descrivere ed immaginare quello che si propone di essere appunto non soltanto un classico processo di pace, ma piuttosto un cantiere per una nuova costruzione sociale.

La “pazzia” di Ocalan
Un’ultima osservazione che mi preme sottolineare è quella sul contesto in cui sono maturate le ultime dichiarazioni del leader kurdo. Ocalan si trova dal 1999 nel complesso carcerario di Imrali, in una struttura di massima sicurezza svuotata di tutti gli altri detenuti per poter “ospitare” unicamente il fondatore del PKK, che quindi può vedere soltanto i suoi avvocati e i suoi carcerieri.
Questa situazione ha portato più volte qualcuno a sostenere che Ocalan avrebbe perso il contatto con il movimento da lui guidato e sarebbe anzi manipolato per sostenere gli interessi dello Stato turco e i presunti suoi alleati nella partita geopolitica.

Riprendo qui l’introduzione di un libro dello storico Massimo Mastrogregori. “Ci sono autorità, più o meno visibili, che sollecitano e ascoltano la voce del prigioniero. Il quale cerca, ancora una volta, di vincere la partita politica in corso e di agire più liberamente che può, anche nel fondo della prigione, in nome di ciò in cui ha sempre creduto. E sa che cercando di vincere, ancora una volta, avrà fatto qualcosa di utile anche se perde”. Queste parole, che sembrano calzare alla perfezione per il caso di Ocalan, sono invece scritte per raccontare la storia parallela di altri due prigionieri, apparentemente diverse ed opposte per le loro esperienze personali e separate da cinquant’anni di distanza, quella di Antonio Gramsci e di Aldo Moro (Massimo Mastrogregori, I due prigionieri, 2008). Lo storico italiano osserva come analogie e comparazioni tra due storie così diverse possano aiutare a vedere cose nuove, rivelando connessioni nascoste e parallelismi a partire dall’esperienza carceraria e dall’uso fatto o meno e dai giudizi espressi sulla voce che esce dalla prigione. Mi soffermerò solo brevemente su questo aspetto. In occasione del sequestro Moro, in una maniera che effettivamente lascia un po’pensare, l’intera comunità mediatica italiana, quasi tutti coloro che parlando pubblicamente trovano uno spazio, la cui parola è riprodotta sui giornali, i politici e i grandi giornalisti, si accordano sul fatto che la voce che sta parlando non appartiene a Moro. Sempre Mastrogregori sottolinea la rapidità con cui si sia “compattato” questo schieramento che sostiene l’inautenticità degli scritti di Moro durante la sua prigionia. “Moro perde il dominio sulla sua firma, ciò che Moro firma non vale; sono scritti originali, autentici, non che ci sia il dubbio che la grafia non sia la sua (all’inizio c’è anche quello); ma anche quando si scopre che la grafia è effettivamente la sua, le condizioni in cui quel testo viene elaborato portano alla conclusione univoca che non è Moro che sta parlando. Si presuppone che le BR dettino e che Moro scriva, con una serie di gradi diversi, con distinguo, eccetera. Le eccezioni a questa posizione sono veramente pochissime. Ciò aveva una conseguenza che, nel tempo, verrà tratta, che Moro aveva perso la capacità di intendere e di volere, era regredito alla condizione di bambino e cose del genere, che era drogato”.

Il tema del discorso che proviene dal fondo della prigione, della voce di chi è incarcerato è interessante perché si oppone nel modo più assoluto ai discorsi che solitamente ottengono la più grande circolazione e visibilità, cioè quelli che provengono da una posizione autorevole e sopraelevata, come potrebbe essere un professore dalla sua cattedra o un giornalista da un quotidiano. Il prigioniero è il caso limite opposto, quello che dice non ha l’autorità che viene da qualche piedistallo. Ma se decide di scrivere, lo fa per riguadagnare, in qualche modo, con vari sistemi, quel margine di libertà che chi lo domina gli ha sottratto. Perché un prigioniero scrive? Anche per riguadagnare uno spazio di libertà.

In Egitto si incoraggiano i cittadini all’arresto dei “vandali”

12 marzo 2013 Lascia un commento

Che è complicato anche scriverle due righe di commento a quest’articolo…le parole di Talaat Abdullah, praticamente un appello alla manetta libera, sembrano parlare direttamente a quel che nei tempi di Mubarak si chiamava la Baltagheyya, e che non credo proprio abbia cambiato nome. I fedelissimi, le squadracce pronte a difendere l’ordine costituito e il potere, quelle della battaglia dei cammelli, delle violenze, degli omicidi durante gli attacchi, dei ripetuti stupri degli ultimi mesi alle attiviste e militanti delle piazze del paese.
Con lo scontro tra polizia e esercito che s’è palesato a Port Said al suon dei proiettili che volavano, ci mancava anche un’ufficiale deligittimazione delle forze armate e d’ordine pubblico per “armare i fedelissimi”.E’ la risposta alla risposta popolare di queste settimane, la risposta alle sentenze, le grandi lotte operaie che iniziano a conoscere oltre allo sciopero e all’autorganizzazione anche l’autogestione dei posti di lavoro.
Un laboratorio di repressione si struttura, per rispondere all’immenso laboratorio rivoluzionario che è l’Egitto

Sta suscitando un ampio dibattito sulla stampa la dichiarazione rilasciata domenica dal Procuratore generale egiziano, Talaat Abdullah, per il quale i cittadini hanno il diritto di arrestare chi trasgredisce la legge.

Port Said, 7 marzo 2013

“Il Procuratore generale incoraggia tutti i cittadini ad esercitare il diritto assegnato loro dall’articolo 37 della legge di procedura penale dell’Egitto emesso nel 1950 – si legge nel comunicato diffuso dalla Procura – di arrestare chiunque sia trovato a commettere un crimine e consegnarli al personale delle forze di sicurezza”.

In una precisazione diffusa ieri, la Procura ha aggiunto che il procuratore generale non intendeva estendere ai civili i poteri d’arresto giudiziario, ma piuttosto circoscriverli al solo personale di polizia. Entrambe le dichiarazioni hanno però acceso numerose critiche, soprattutto da parte degli esponenti dell’opposizione laica e liberale al governo guidato dal presidente Mohamed Morsi, secondo i quali questa misura sarebbe il preludio alla sostituzione della polizia da parte di milizie appartenenti al movimento della Fratellanza musulmana o a gruppi ad esso vicini.
Numerosi membri di gruppi politici islamici hanno infatti immediatamente accolto con dichiarazioni positive la proposta di Abdullah.

“La decisione è un primo passo per porre fine alla sistematica violenza in corso in Egitto – ha detto per esempio all’agenzia di stampa nazionale MENA il segretario del partito ultra-conservatore Al-Gamaa Al-Islamiya, Alaa Abu El-Nasr – Il potere politico ha il diritto di avere una propria forza di polizia, capace di combattere i crimini per le strade”.
Nazer Gharab, membro dello stesso partito, ha specificato in un’intervista concessa alla televisione di voler istituire al più presto “una forza di polizia islamica per ristabilire l’ordine”.

Il timore che si diffondano milizie politiche armate nel paese, esacerbando ulteriormente il livello dello scontro, ha portato diversi esponenti militari, che hanno preferito parlare sotto condizione dell’anonimato, a suggerire la possibilità di un intervento dell’esercito.
Una fonte militare citata dal quotidiano governativo Al-Ahram ha infatti detto che “questa decisione aprirebbe la strada alla creazione di milizie private, garantendo una copertura politica alla violenza che significherebbe semplicemente la fine dello stato di diritto e l’avvio sulla strada di una guerra civile: in quel caso l’esercito non potrebbe restare a guardare”.
Michele Vollaro, InfoAfrica

Diario haitiano (3) : si approda a Cap Haitien!

15 dicembre 2010 Lascia un commento

Da tre giorni piove su Haiti. Piove sulla capitale Port-au-Prince e sulle altre città del paese. Minacciose nuvole nere scendono dalle montagne che sovrastano Cap Haitien, la città sull’oceano Atlantico che fu capitale durante la colonizzazione francese, dove a metà novembre sono cominciati gli scontri con i caschi blu accusati di aver diffuso il colera nel paese.
La pioggia a dicembre non è la norma ad Haiti. Alcune voci dicono che il presidente Preval avrebbe usato il voodoo per far arrivare il brutto tempo e diminuire così la rabbia degli haitiani che manifestavano per i risultati elettorali. Voci… Télédjol, per usare il termine creolo. Intanto, nonostante le piogge, un milione e mezzo di persone continua a vivere sotto le tende nella capitale affetta dal terremoto dello scorso 12 gennaio e non si arresta l’epidemia di colera.

Per descrivere la situazione politica, il principale quotidiano di Haiti, ‘Le Nouvelliste’, ha usato una parola in italiano, “Imbroglio”. ‘Alimba’ in creolo. Dei 18 candidati alle elezioni presidenziali, nessuno ha accettato di partecipare alla commissione che si dovrebbe occupare di ricontare i voti, contestandone l’efficacia. La costituzionalista Mirlande Manigat, arrivata in testa con il 30% delle preferenze, ha denunciato la poca chiarezza dei tempi e della procedura e si è perciò chiamata fuori. Il cantante Michel Martelly, escluso dal ballottaggio per 6000 voti a favore del candidato del potere Jude Celestin e divenuto l’immagine del cambiamento per il suo essere del tutto estraneo al mondo politico, ha definito il riconteggio una “trappola”. Lo stesso Celestin ha contestato i risultati provvisori annunciati lo scorso 7 dicembre e ha dichiarato di aver vinto al primo turno con una percentuale del 52% dei voti. Tutti gli altri candidati chiedono l’annullamento totale delle elezioni, affermando che tanto le presidenziali quanto le legislative sono state caratterizzate da brogli e perciò sarebbe tutto da rifare. E mentre domani scade il termine per presentare le contestazioni alla Commissione elettorale provvisoria, Martelly ha proposto per la data prevista del ballottaggio, il 16 gennaio, di effettuare un secondo turno aperto a tutti e 18 i candidati.

Imbroglio, impasse, alimba… Non è facile descrivere una situazione in continua evoluzione, in cui sono molti gli attori in campo. Gli haitiani, per molti dei quali Martelly è già il presidente, nonostante l’inesperienza politica e una dubbia reputazione. Alcune voci parlano di un suo possibile coinvolgimento nei traffici di droga con gli Stati Uniti, altri lo accusano di aver appoggiato esplicitamente il regime dei militari negli anni Ottanta, altri ancora di aver fatto pubbliche dichiarazioni a favore dell’ex dittatore Duvalier. Ma per molti haitiani, soprattutto tra i più emarginati, tutto ciò ha poca importanza. “Lui è ricco – dice Duval, che va a vendere braccialetti e collanine ai turisti che scendono dalle navi da crociera a Labadee, una spiaggia vicino Cap Haitien – È uno che dice le cose come stanno: con lui la nostra vita cambierà. È il nostro presidente”. Non c’è un’alternativa: alla domanda cosa succederà se non venisse eletto, la risposta è sempre la stessa: “Martelly è il presidente, lui non ci abbandonerà”. È già una realtà, nella testa di molti haitiani, anche di chi non l’ha votato. E il modo in cui ha gestito la crisi post-elettorale lo ha senza dubbio rafforzato ulteriormente. Usando sapientemente la piazza nel momento dell’annuncio dei risultati elettorali e chiamando i suoi sostenitori alla responsabilità quando proseguire nello scontro avrebbe significato far precipitare il paese nel disastro.

(Photo by Spencer Platt/Getty Images)

Ma in queste elezioni presidenziali non ci sono soltanto gli haitiani. A influenzare il dibattito politico, e senza alcun dubbio anche una sua soluzione, ci sono le Nazioni Unite presenti con 9000 caschi blu e 4000 poliziotti di diverse nazionalità attraverso la Minustah, la missione di stabilizzazione. “Molti qui ad Haiti, la chiamano missione di destabilizzazione – dice un giornalista haitiano, che chiede di restare anonimo – perché non è ben chiaro cosa stiano facendo, cosa siano venuti a fare: nella risoluzione dell’Onu ci sono scritte tante belle cose, ma in realtà non fanno nulla. Possono ben essere paragonate a truppe d’occupazione, con la differenza che un esercito che occupa un altro paese lo fa con uno scopo: qui non c’è, o almeno non a prima vista”. Le Nazioni Unite, il cui mandato della Minustah scade a febbraio – quando dovrebbe entrare in carica il nuovo presidente – sono l’organizzazione che di più ha insistito per evidenziare la regolarità del voto di novembre. “Se a febbraio, dopo sette anni di presenza, l’Onu se ne va da Haiti – prosegue il nostro interlocutore – e la situazione è peggiore di quando è arrivata, sarebbe un gran bel problema, il fallimento più totale”. Accanto all’Onu, l’altro attore fondamentale in questo confuso scenario politico sono gli Stati Uniti d’America, che da un secolo si intromettono nella politica estera di questo piccolo paese, ma che in questo caso temono la crisi haitiana a causa della vicinanza: “Se ad Haiti dovesse mai scoppiare una guerra civile, dove scapperebbero tutti? In Florida, ovviamente. E l’attuale amministrazione Usa non si può permettere una simile emergenza, con la crisi economica in corso e i problemi in Arizona e in Texas con i migranti: un afflusso improvviso e massiccio di immigrati sarebbe devastante per l’immagine di Obama in questo momento”.
E inoltre c’è la questione della ricostruzione post-terremoto. La comunità internazionale ha stanziato ben 11 miliardi di dollari, che saranno gestiti attraverso la Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), un’organizzazione piuttosto ambigua per la sua composizione. Metà di coloro che vi partecipano sono rappresentanti dello Stato haitiano (dalla maggior parte degli abitanti di Haiti accusati, come gran parte della classe politica nazionale, di pensare soltanto ad arricchirsi), mentre l’altra metà è composta da esponenti della comunità internazionale, paesi ‘amici’ e istituzioni finanziarie internazionali. Alla testa di questa chimera, l’ex presidente Usa Bill Clinton e il primo ministro di Haiti Jean-Max Bellerive. Nei sette mesi dalla sua istituzione, la Cirh ha svolto finora tre riunioni; mentre su due miliardi arrivati finora soltanto 400 milioni di dollari sono stati utilizzati effettivamente per la ricostruzione, il resto è stato usato per gli stipendi, le spese di rappresentanza e simili. Come per esempio il contratto da cinque milioni di dollari al mese per curare l’immagine della Cirh assegnato a una società dell’Arkansas considerata vicina all’ex presidente Clinton.
Accanto al fallimento dello Stato, ad Haiti si sta così realizzando anche il fallimento della comunità internazionale. Al posto dello Stato si sono sostituite le organizzazioni non governative internazionali, che spesso però hanno aiutato a rendere la popolazione haitiana ancora più dipendente dall’estero di quanto non fosse già. E ricostruire la fiducia in se stessi, nelle proprie forze e nella capacità di sapersi organizzare diventa ogni giorno più difficile. Ma ciò nonostante, e nonostante la corruzione e gli attacchi che ha subito negli ultimi decenni (o forse proprio a causa di tutto questo) un movimento popolare, formato soprattutto da contadini, operai e attivisti per i diritti umani sta vivendo una fase di ricomposizione. E soprattutto questo è l’obiettivo della Piattaforma per il sostegno di uno sviluppo alternativo (Papda), una coalizione che riunisce organizzazioni sociali e cooperative di piccoli contadini per cercare di ricostruire la rete di economia solidaria che esisteva nelle zone rurali. Decine di esperimenti in tutto il paese, che cercheremo di raccontare per mostrare come costruire un paese nuovo a partire dalla creatività e dall’ingegno del suo popolo.

DA HAITI
MICHELE VOLLARO

Diario haitiano (2): chiacchierando tra le barricate…

11 dicembre 2010 1 commento

A passeggio tra le barricate, il giorno dopo gli scontri Haitiani
di Michele Vollaro, da Port-au-Prince

Il giorno dopo gli scontri, non si vedono più i fumi neri delle barricate per Port-au-Prince. La radio riferisce di manifestanti a Petionville, il quartiere ricco dove si trovano la sede della Commissione elettorale, le ambasciate e alcuni centri commerciali. La domanda “Chi è che può permettersi di andare in un centro commerciale in una città dove la maggior parte degli abitanti vive in tendopoli?” mi inquieta. Ma in questi giorni, a causa degli scontri, i negozi sono chiusi, le finestre sigillate dall’interno e resta perciò ancora una questione irrisolta.

Foto di Peter Turnley _doccia a Champs de Mars_

La situazione sembra calma. Diventa quindi un obbligo uscire. La prima meta è la sede del partito ‘Inite’, data alle fiamme dai sostenitori di Martelly. Per strada si vedono i resti delle barricate, cumuli di macerie, rami, segnali stradali. I resti dei copertoni bruciati anneriscono l’asfalto. Ma la vita sembra tornare lentamente alla sua normalità. Le macchine, poche rispetto al normale e caotico traffico di questa città, salgono sul marciapiede per aggirare le barricate e proseguire il loro tragitto.

Ai bordi delle strade ci sono di nuovo le bancarelle che vendono ogni sorta di mercanzia, dai manghi e le uova ai dentifrici e i lubrificanti per le automobili. Su un banchetto, accanto a un boccione con un rubinetto pieno di un liquido giallognolo, alcune stecche di sigarette. ‘Comme il faul’: ‘Come si deve’ in francese, un nome un programma per le sigarette fabbricate ad Haiti. Rosse, ‘regulier’, o verdi al mentolo. Sessanta gourdes (poco più di un euro), il nome della moneta nazionale che prende il nome dal guscio di un tipo di zucche che Henri Christophe, che nel 1807 si fece nominare a capo del territorio settentrionale di Haiti, utilizzò per pagare ai contadini il raccolto di caffè nel primo anno del suo mandato e rivendette immediatamente ai mercanti europei facendosi pagare con dell’oro.
L’acquisto delle sigarette diventa l’occasione per una chiacchierata sulle manifestazioni del giorno precedente con il crocchio di persone sedute attorno al banchetto, la cui attività principale scopro essere la vendita di rhum, il liquido giallognolo del boccione. Ognuno di quelli seduti ai lati del banchetto ha in mano una bottiglietta, che di volta in volta fa riempire al venditore di rhum.
“Ieri è stato incredibile, da pazzi, una marea di gente per strada”, dice Jean, capellino da basket in testa e un auricolare all’orecchio per ascoltare la radio. Eri anche tu tra i manifestanti, è la prima domanda, che viene immediatamente da fare. “No, io sono un poliziotto. Oggi non lavoro, ma ieri è stata dura. Ero più su, a Petionville. Era pieno di barricate, macchine date alle fiamme e persone con bastoni e pietre che volevano andare alla sede della Commissione elettorale. Oggi non lavoro e così stamattina posso stare un po’ con i miei amici a rilassarmi”. Jean non vuole dirci se e per chi ha votato, ma spiega che la gente è stufa. Stufa di politici che una volta arrivati al potere pensano soltanto a come arricchirsi. Stufa, undici mesi dopo il terremoto, di vivere ancora in mezzo alle macerie. “Questa è una crisi sociale, non è possibile continuare così”.

Foto di Peter Turnley

“Io non sono andato a votare”, gli fa eco biascicando un po’ Carrefour, che dice di essere un ‘sociologo di formazione’ e di condurre una trasmissione televisiva. Una rivista del 1996 su un festival di cultura creola e africana appoggiato sulle gambe, dopo che gli sono state offerte un po’ di sigarette, Carrefour ci spiega che non si fida di nessuno dei candidati. “Celestin fa parte della cricca di Preval, il presidente non ha fatto nulla finora se non continuare ad alcolizzarsi, figuriamoci cosa potrà fare questo che è il fidanzato della figlia: era stato messo a gestire il Dipartimento delle infrastrutture prima del terremoto e da allora si è preoccupato soltanto di ripulire un po’ le strade del centro un mese prima delle elezioni. La Manigat è una marionetta del marito, che è già stato presidente ed è un sadomasochista; lui ha anche detto che venderebbe la madre per conquistare il potere. Martelly è un cantante, non sa niente di politica: le hai mai sentite le sue canzoni? Ce n’è una in cui fa la parte di una prostituta che contratta il prezzo del suo corpo: possiamo avere un presidente così?”. Celestin no, Manigat no, Martelly nemmeno, e allora chi doveva essere presidente? “Ma lui! Lui si doveva candidare!”, scoppiano in una risata gli amici, continuando a sorseggiare rhum. L’atmosfera è allegra, anche a causa dell’alcol che circola nei corpi.
“Che ci vuoi fare? – dice Jean – Ad Haiti ormai siamo abituati a politici che fanno soltanto i propri interessi. Un gruppo si fa pagare per sostenere quello, un altro per sostenere quell’altro”. Ma perché allora la gente, il popolo non si organizza per conto proprio? “Beh, bisogna pur mangiare”. Ci congediamo dal gruppetto seduto attorno al venditore di rhum con questa frase, che mostra drammaticamente la capacità di questo popolo di adattarsi a ogni situazione. Mi sembra di intuire la coscienza di far parte di una macchina più grande, un ingranaggio in cui la vita degli haitiani non viene presa in considerazione. Né dallo Stato, ne tanto meno dalle organizzazioni umanitarie. Ma quello che ancora non ho visto è la volontà di prendere in mano la propria vita e organizzarsi per cambiare l’esistente.

Foto di Peter Turnley

Tutti sembrano restare in attesa di un cambiamento, ma nel frattempo ci si accontenta di quel minimo che viene offerto, dalle chiese o dalle organizzazioni umanitarie, adattandosi a vivere in condizioni miserabili.
Più avanti la sede dell’Inite è chiusa. Davanti al portone si vedono ancora i resti dei pneumatici bruciati e usati come barricate, alcune piante divelte. Salendo su un massetto si riesce a vedere al di là del muro di cinta. Nel cortile girano due poliziotti armati di mitra, mentre un po’ di fumo esce da un ufficio. La porta della casetta a un piano che ospitava la sede della campagna elettorale di Celestin non c’è più e il tetto di lamiera è collassato, dentro si intravede la desolazione di un luogo saccheggiato. “Oggi è tranquillo, ma ieri sono rimasti qui davanti per tutto il giorno – dice una signora che abita nella casa accanto – le fiamme sono durate per tutta la notte. Un ragazzo è rimasto anche ferito, i poliziotti lo hanno colpito di striscio a un braccio”.
È ora di tornare. Nel pomeriggio il programma è andare nella zona di Champ de Mars. Nemmeno il tempo di uscire di casa, che arriva trafelato un ragazzo. “Quelli di ‘Inite’ sono venuti in motocicletta dalla bidonville di Cité Soleil e hanno sparato sui sostenitori di Martelly per vendicarsi di ieri. Nella tendopoli di Champ de Mars c’è un morto”. Meglio non uscire. Nonostante gli appelli alla calma dei candidati e la notizia che la commissione elettorale riconterà i voti, la tensione è ancora alta a Port-au-Prince. Di sera si vede di nuovo un pennacchio di fumo al di là di Champ de Mars…

QUI LA PRIMA PUNTATA DEL DIARIO DI BORDO

Diario haitiano: la prima puntata

9 dicembre 2010 2 commenti

Qua e là scriverà il caro Michele, ma io aggiornerò questo blog ogni volta che mi invierà pezzi del suo “diario di bordo”.
Sì dai, proviamo a chiamarlo così, perchè quando si “naviga” per la prima volta in “mari” come quello che può esser in questo periodo l’universo Haiti le giornate fuggono veloci ed emozionanti, i brividi rendono spezzettata la capacità di ordinare i racconti, la voglia di non perdersi nulla rende la quotidianità affannosa e stancante (so’ invidiosa, è palese!)
Magari ci proverò io al posto suo a tenere ordinate le pagine di un racconto, che per qualche settimana ci parlerà di Haiti dopo un anno dal terremoto, Haiti dopo la devastante alluvione, Haiti con l’epidemia di colera, Haiti e i suoi scontri -iniziati solo ieri- del post elezioni.
A Port-au-Prince e ovunque metterai piede, con te!

QUI: Seconda e Terza puntata.

La rivolta di Haiti, per i risultati delle elezioni…
di Michele Vollaro, da Port-au-Prince

Photo by Spencer Platt/Getty Images

La rabbia degli haitiani è scoppiata ieri sera, subito dopo l’annuncio dei risultati elettorali. Quello che tutti a Port-au-Prince e nelle altre città di Haiti temevano si è purtroppo concretizzato: Jude Celestin, il candidato del partito del presidente Preval ‘Inite’ (Unità in creolo) è stato ammesso al ballottaggio con il 22% dei voti insieme alla costituzionalista Mirlande Manigat, che avrebbe ottenuto il 31% delle preferenze. Escluso per poco meno di 7000 voti il cantante Michel Martelly, che nei giorni scorsi aveva affermato che non avrebbe mai riconosciuto una vittoria al primo turno di Celestin o di andare al ballottaggio insieme a lui.
Subito dopo l’annuncio della Commissione elettorale provvisoria (Cep), i sostenitori di Martelly hanno cominciato a erigere barricate in tutta la capitale, a cominciare dal quartiere di Petionville dove si trova la sede della Cep.
Per tutta la notte a Port-au-Prince si sono uditi spari, un vociare continuo, rulli di tamburi e le sirene della polizia. Quando è sorto il sole, dai tetti delle case poste più in collina il paesaggio era quello di decine di fumi neri che si innalzavano da più punti della città, i copertoni che bruciano nelle barricate erette nelle strade. Di quando in quando echeggia il rumore di spari e l’odore acre dei copertoni bruciati e dei gas lacrimogeni lanciati dalla polizia si diffonde un po’ in tutta la città. Tutte le attività sono bloccate, mentre è fortemente consigliato restare in casa.
Stamattina la polizia ha prima disperso una manifestazione organizzata a Champs de Mars, intorno al palazzo presidenziale, la costruzione caduta su se stessa durante il terremoto del 12 gennaio e immagine simbolica del potere e dello Stato in questa repubblica. In seguito, i manifestanti si sono recati davanti la sede di ‘Inite’ appiccandovi un fuoco che ha distrutto gli uffici, mentre in tutta la città i cartelli elettorali rappresentanti Jude Celestin sono stati staccati e dati alle fiamme.
Nel primo pomeriggio il presidente Preval ha diffuso attraverso la radio nazionale un messaggio lanciando un appello alla calma.
Tuttavia, sembra che i manifestanti – diretti in un primo tempo di nuovo verso la sede della Cep a Petionville – si stiano dirigendo verso la casa del presidente, in un quartiere fuori dalla città. Voci, tutt’altro che confermate e legate molto probabilmente all’agitazione che regna in città, riferiscono addirittura che il presidente sarebbe pronto per lasciare l’isola.
Nel frattempo, notizie di manifestazioni e scontri in altre città del paese si susseguono. A Cap Haitien, nel nord, una persona sarebbe morta dopo essere stata raggiunta da un colpo di pistola e altre due ferite; a Mirabelais, da dove sarebbe partita l’epidemia di colera e dove si trova accampato il contingente di caschi blu nepalesi, almeno tre persone sarebbero rimaste ferite. Manifestazioni sono in corso anche a Gonaives, nel nord, e a Les Cayes e Jacmel, nel sud.
In una simile situazione, in cui l’ambasciata degli Stati Uniti ha affermato la sua preoccupazione “per risultati elettorali che non rispecchiano la volontà espressa dagli haitiani attraverso il loro voto”, mancano invece dichiarazioni, commenti o appello di uno qualsiasi dei 18 candidati che si sono affrontati alle elezioni presidenziali del 28 novembre.
Ed è ancora più impressionante che a scatenare la rivolta degli haitiani sia stata la comunicazione dei risultati elettorali.
Risultati con ogni probabilità frutto di brogli ed elezioni descritte da quasi tutti gli osservatori come caratterizzate da gravi irregolarità.
Elezioni che gli haitiani hanno inteso come una sorta di referendum sulle attività dell’attuale presidente Preval. Ma a undici mesi dal terremoto, metre quasi un milione e mezzo di persone vive ancora nelle tendopoli sorte un po’ ovunque nella città, in condizioni igieniche e di sicurezza inimmaginabili, costretti a usare l’acqua dei torrenti immondi che attraversano la città per lavarsi e dove la notte diventa teatro di violenze, rapimenti e stupri impuniti e impunibili, è impressionante pensare che la rivolta sia legata a un risultato elettorale, anzichè all’inumanità delle condizioni in cui le persone sono costrette a vivere.

Le menzogne della stampa sulla resistenza turca

8 novembre 2010 Lascia un commento

Resistenza kurda. Le bugie della stampa turca, della stampa internazionale e di quella italiana.
di Aldo Canestrari e Michele Vollaro (7 novembre 2010)

Le bugie, si sa, a Pinocchio fanno crescere il naso. E un Pinocchio con un lungo nasone era il disegnino che compariva in sovraimpressione sullo schermo durante un servizio di approfondimento della televisione curda Roj Tv. Mandato in onda il 3 novembre, la trasmissione aveva lo scopo di smascherare la penosa ‘messa in scena’ dei quotidiani e delle televisioni turche dei giorni precedenti, che si erano scatenati nell’ attribuire al PKK, il Partito dei lavoratori kurdi, l’attentato suicida del 31 ottobre nell’affollata piazza di Taksim, ad Istanbul, durante il quale sono rimaste ferite 32 persone, 15 poliziotti e 17 civili. Alcuni media turchi sono andati ben più oltre, addossando la responsabilità alla stessa televisione curda e sostenendo che i suoi giornalisti si trovavano già nella piazza con una troupe, pronti a filmare la scena, perché “avvisati in anticipo dai terroristi” (il primo a diffondere questa notizia è stato il quotidiano Milliyet, seguito poi dal giornale in lingua inglese The Turkish Weekly e dall’edizione turca della Cnn).
L’attentato in realtà era stato sconfessato lo stesso giorno ed apertamente condannato dal PKK e da tutto il mondo politico kurdo. D’altrondel’ipotesi di una attribuzione al PKK di tale attentato era inverosimile anche a causa del fatto che lo stesso PKK aveva rinnovato la sua tregua unilaterale il 1 novembre, cioè l’indomani dell’attentato. Ma il fatto che l’attentatore, deceduto nell’attentato, risultasse essere stato “in passato” un militante del PKK ha alimentato i fiumi di inchiostro della stampa nazionalista turca, che non aspettavano migliore occasione per descrivere la spietatezza e la perfidia del movimento kurdo. Finché – il 4 novembre – l’attentato non è stato rivendicato dal gruppo terroristico “TAK”, cioè i “Falchi della Libertà”, che è invece autonomo e del tutto indipendente dal PKK.
Ma Pinocchio non si lascia scoraggiare così facilmente e la valanga delle menzogne è continuata, non solo in Turchia, grazie a un terreno reso fertile da molte menzogne e un giornalismo poco approfondito, quando non è apertamente propaganda. Infatti è un “leitmotiv” diffuso da anni nella stampa turca, ed ampiamente ripreso dai media internazionali, l’affermazione che le “TAK”, questi “Falchi della Libertà”, altro non sarebbero che una sorta di “longa manus” del PKK. Una frottola infondata quanto assurda. Si tratta invece di un gruppuscolo fondato intorno alla metà degli anni 2000 da esponenti fuoriusciti dal PKK perché ritenevano la sua azione troppo morbida e benevola nei confronti del governo turco. Dedito ad attività terroristiche nell’occidente della Turchia e ad Istanbul, volte in particolare a colpire il turismo in Turchia con attentati contro alberghi che sono spesso costati la vita a turisti di origine straniera, il gruppo è stato esplicitamente sconfessato dal PKK che ha dichiarato di non aver nessun legame con esso. E ha più di una volta condannato il genere di azioni praticato dalle “TAK”.
Il vizio di raccontare frottole, spesso anche grossolane, a proposito della questione kurda è purtroppo un’abitudine ormai di vecchia data della stampa internazionale, compresa quella italiana. E non solo su fatti di difficile documentazione, per comprendere i quali è magari necessario un accurato approfondimento e un’attenzione da “specialisti”. Le fandonie raccontate dai media sulla questione kurda riguardano in primo luogo le notizie che sono di pubblico dominio, dove “sbagliare” è proprio da perfetti somari e, oltre al ridicolo che suscita, fa parte di un brutto e pericoloso gioco – se così vogliamo chiamarlo – di disinformazione. Un gioco che viene fatto proprio non solo da testate giornalistiche di second’ordine, ma anche dalle più accreditate agenzie stampa internazionali. L’esempio più “ridicolo”, appunto, è la definizione, ricorrente e continuata, del PKK come “i separatisti curdi” (o gli “indipendentisti curdi”). Talvolta, i più diligenti non si limitano nemmeno a una simile sbrigativa quanto bugiarda qualifica, ma entrano nei dettagli, sostenendo che il loro scopo sarebbe “la creazione di uno Stato indipendente curdo in territorio turco”. A scrivere questa fandonia è stata per ultima l’italiana Apcom, in un lancio di agenzia del  4 novembre 2010, (che recava un titolo ancora più bugiardo: “Pkk rivendica attentato in Piazza Taksim di domenica”. Insomma, non ci si limitava, come fanno i più, a sostenere falsamente che le TAK sono legate al PKK, ma si inventava addirittura, di sana pianta, che l’attentato fosse stato “rivendicato” in prima persona dal PKK, mentre il testo di rivendicazione è stato fatto dalle TAK, come anche il resto della stampa ammette). Per trovare altri esempi, basta andare su internet e cercare su google o qualsiasi altro motore di ricerca le parole “separatisti curdi”: il numero di pagine trovate ed il loro contenuto inducono davvero a mettersi le mani nei capelli. Tanto vale chiamare la Russia di oggi “Unione Sovietica”, il Parlamento della Repubblica federale di Germania “Reichstag” e la città di Roma “capitale dell’Impero Romano”. La rinuncia alla “creazione di uno Stato indipendente curdo” è diventata – a partire dal 1999 – uno dei capisaldi dell’orientamento politico condiviso dal movimento kurdo in Turchia. Ci sono ovviamente minuscole frange estremiste contrarie, ma il fatto stesso che questa è la posizione del PKK dovrebbe aiutare a comprendere che il mondo del Kurdistan e della Turchia in generale dipinto da molti media sia ben diverso da come esso è in realtà. Basti a questo punto riflettere sul fatto che la “linea” che muove l’agenda politica kurda è incentrata sul principio della “autodeterminazione democratica”, un concetto promosso allo stesso tempo da Adbullah Ocalan e dal Partito della pace e della democrazia (BDP) dove l’affermazione dell’identità del popolo kurdo e la democratizzazione dell’intera Turchia diventano le due facce della stessa medaglia.

 

Kurdistan turco: processo di massa. 150 persone accusate di terrorismo

19 ottobre 2010 Lascia un commento

Processo di massa contro la società civile curda.
Oltre 150 persone, tra cui decine di sindaci, in tribunale con l’accusa di terrorismo

Transenne attorno al Palazzo di Giustizia e numerosi cordoni di poliziotti in assetto antisommossa. È questa la scena che si sono trovati davanti a Diyarbakir, nel Kurdistan turco, gli osservatori internazionali giunti in Turchia per monitorare il corretto svolgimento del processo cominciato oggi (18 ottobre) contro 151 esponenti della società civile curda. Tra i processati, i sindaci eletti delle principali città della regione, come Osman Baydemir di Diyarbakir, Nedjet Atalay di Batman ed Etem Sahin di Sanliurfa, oltre all’avvocato Muharrem Erbey vice presidente dell’associazione per i diritti umani Ihd, sindacalisti, attivisti, consiglieri comunali, donne e minori.

L’udienza di oggi è l’inizio della fase processuale della cosiddetta “operazione Kck”, durante la quale sono stati arrestati in tutto 1925 esponenti della società civile curda e turca con l’accusa di aver avuto rapporti con l’Unione delle Comunità del Kurdistan (Koma Civiken Kurdistan), considerato il braccio politico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). L’operazione Kck è partita lo scorso 14 aprile 2009 con un’ondata di arresti avviata subito dopo una significativa quanto schiacciante vittoria alle elezioni amministrative del marzo 2009 del Partito della Società Democratica (Dtp), il partito filo-curdo, e proseguita in un’escalation di violenza per tutto il 2009, culminata verso la fine dell’anno con il bando dello stesso Dtp.

Insieme agli osservatori internazionali, tra i quali anche una delegazione italiana composta da avvocati, sindacalisti, giornalisti e attivisti dei diritti umani, una folla di oltre 2000 persone ha atteso stamattina l’inizio del processo, tenuti a debita distanza dal tribunale da centinaia di poliziotti e due plotoni di militari. Quando arrivano gli imputati, raccontano i partecipanti alla manifestazione, “dalle piccole aperture in alto sui pullman che li trasportano e che non si possono chiamare finestrini date le misure, si vedono le mani alzate nel segno della V, il segno della resistenza”.

Dei 151 accusati, ben 103 si trovano ancora in stato di detenzione e sono stati condotti in tribunale a bordo di pullman blindati con un’imponente scorta di mezzi corazzati dell’esercito. Agli imputati sono contestati reati che vanno dall’appartenenza a gruppi armati, all’attentato all’unità dello stato, alla diffusione di propaganda terroristica, perché avrebbero garantito sostegno logistico e finanziario all’organizzazione politica del Pkk, movimento di lotta armata considerato un gruppo terroristico non solo da Ankara ma anche dagli Usa e dall’Unione Europea.

La pubblica accusa ha chiesto pene compresa tra i cinque anni e il carcere a vita, mentre oggi gli avvocati difensori hanno chiesto di poter pronunciare le loro arringhe difensive in curdo, affermando che questa è la loro lingua madre. L’udienza è stata interrotta alle cinque di pomeriggio e aggiornata a domani, quando la Corte avrà deliberato sulla richiesta della difesa.

Il processo, le cui udienze proseguiranno fino al 15 novembre, viene giudicato da numerosi commentatori come un importante test politico per valutare le reali intenzioni del governo turco di ampliare i diritti della minoranza curda. Soprattutto dopo le notizie diffuse la settimana scorsa da alcuni quotidiani turchi, secondo i quali la procura di Ankara avrebbe aperto un’indagine sul primo congresso del Partito della Pace e della Democrazia (Bdp), che ha preso il posto del Dtp. In base alle indiscrezioni diffuse dal quotidiano turco in lingua inglese ‘Today’s Zaman’, nel corso del congresso fondativo del Bdp svoltosi a febbraio di quest’anno alcuni suoi membri si sarebbero resi responsabili di apologia di istituzioni criminali e avrebbero invitato a rifiutare l’obbligo di leva militare.

All’esterno del tribunale, intanto, la folla radunatasi davanti al Palazzo di Giustizia ha riempito la piazza davanti al Comune e invaso anche la strada a due larghe corsie separate da larghe aiuole di prato e fiori. Tuttavia, secondo quel che raccontano i membri della delegazione italiana slogans e canzoni sembrano dare molto fastidio.

Dal report della delegazione italiana a Diyarbakir: “la polizia, a questo punto, dà segno di volere intervenire. Infatti i poliziotti indossano i caschi e in pieno assetto d’attacco si schierano di fronte alla folla con un mezzo blindato dietro la prima fila. Decidiamo in fretta e ci precipitiamo nella nostra azione di interposizione pacifica rivolgendo il nostro striscione ‘Liberi tutti’ verso i poliziotti che avanzavano e davanti ai primi manifestanti. Segue una lunga discussione con i loro dirigenti che insistono nel volerci allontanare mentre noi rispondiamo di non potere perché siamo lì per la pace, per contribuire ad evitare incidenti. Sono minuti interminabili ma alla fine la polizia desiste ed il blindato arretra. Quindi parte un lungo applauso e poi con i Kurdi si canta ‘Bella Ciao’. Per ora si è vinto. Ma dopo un po’ viene fatta richiesta di lasciare libero il traffico per consentire il passaggio delle ambulanze. In realtà la polizia aveva fatto avanzare le auto che all’imbocco della strada venivano prima dirottate in altre direzioni. In testa un pulmino che asserisce di dover andare verso un ospedale. La scusa è vecchia ma è sempre buona. E poi abbiamo già incassato un ottimo risultato.
Decidono di lasciare libero il traffico in una corsia della strada e la folla si assiepa sui larghi marciapiedi, sulla piazza e sulla rimanente corsia. Così anche il comandante della polizia incasserà un risultato utile, pensiamo, e non perderà completamente la faccia con i suoi superiori. Si va avanti così e fra la gente, nel punto più interno, spuntano anche le bandiere con i simboli del PKK e il volto di Öcalan portato da applauditissimi ragazzi con il volto prudentemente coperto. Sembra tutto procedere nel migliore dei modi e la mobilitazione popolare appare vincente quando un’auto scura e di grossa cilindrata passa a velocità elevata sfiorando le persone che devono attraversare e stanno ai bordi della corsia libera. E’ però costretta a fermarsi al semaforo sucessivo, bloccato da altre auto in attesa del verde. Qui viene raggiunta da almeno cento, forse duecento persone, che in breve le provocano seri danni prima che riesca a fuggire. La provocazione scalda gli animi dei più giovani che tentano di occupare l’intera carreggiata, prima lasciata libera, sotto gli occhi minacciosi della polizia. I più grandi intervengono e i giovani vengono dissuasi.
I più aggressivi fra i poliziotti fremono ma per questa volta restano senza vittime”.

di Michele Vollaro

Kurdistan turco: armi chimiche contro i combattenti del PKK

25 agosto 2010 3 commenti

PER ORA NON PUBBLICO LE FOTO DI CUI SI PARLA: sono raccapriccianti
Armi chimiche contro i guerriglieri curdi? Fotografie diffuse da attivisti per i diritti umani accusano l’esercito turco
di Michele Vollaro

Sono foto raccapriccianti e sconcertanti, quelle che dimostrerebbero l’utilizzo di armi chimiche da parte della Turchia contro i guerriglieri curdi. Una serie di immagini che raffigurano i corpi di otto membri del Partito curdo dei lavoratori (Pkk), uccisi lo scorso settembre durante un attacco dell’esercito turco e poi gettati in un lago per tentare di nasconderne le prove.

REUTERS/Osman Orsal (TURKEY)

REUTERS/Osman Orsal (TURKEY) Soldati turchi nella provincia di Sirnak

I resti resi irriconoscibili da strane ustioni e mutilazioni causate dalle sostanze sprigionate. A denunciarlo per primi lo scorso 12 agosto il quotidiano tedesco Taz e il settimanale Der Spiegel, che hanno ricevuto le fotografie da una delegazione di attivisti, avvocati e medici tedeschi in visita in Kurdistan prima a marzo. I partecipanti alla delegazione, le immagini sono state consegnate loro da un’associazione curda per la difesa dei diritti umani, che per motivi di sicurezza non è possibile citare. Trentuno immagini che mostrano il ritrovamento dei cadaveri dei guerriglieri del Pkk, l’organizzazione armata fondata negli anni Ottanta da Abdullah Ocalan per opporsi al centralismo del governo turco, rivendicando autonomia politica e culturale a favore della minoranza curda nel paese. Le fotografie sono state poi consegnate ai media tedeschi nel mese di luglio, mentre nello stesso periodo un’altra delegazione composta da giuristi internazionali si è recata nella regione sud-orientale e ha ricevuto altre immagini che testimonierebbero crudeli violazioni sui cadaveri dei combattenti curdi e il probabile uso di armi chimiche.
In base al racconto dei membri dell’associazione per i diritti umani curda, i guerriglieri sono stati uccisi durante un attacco dell’esercito turco nei pressi del villaggio di Çukurca, vicino il confine con l’Iraq. Lo scorso 8 settembre, lo stato maggiore turco diede la notizia di un agguato in quel villaggio costato la vita a un soldato turco. E del conseguente invio in loco di elicotteri e di unità di rinforzo dell’esercito per combattere la ribellione. Quasi una routine in una zona considerata roccaforte della guerriglia curda, che – secondo informazioni diffuse da loro stessi – conterebbe attualmente circa 7.000 combattenti ben armati e addestrati, nascosti sulle montagne. Più volte le organizzazioni per i diritti umani, sia turco-curde sia internazionali, hanno denunciato violazioni da parte della Turchia delle convenzioni che regolano il diritto bellico, in questo conflitto che dura da oltre vent’anni. Denuncie che questa volta sono corroborate da una testimonianza e fotografie che non lasciano abito a dubbi.
Un residente del villaggio avrebbe osservato il combattimento: gli otto combattenti curdi si erano nascosti in una grotta per sfuggire ai soldati che avanzano. Questi, dopo averli scoperti, avrebbero sparato una granata nell’antro; poi, attesa una decina di minuti, i militari sarebbero entrati nella grotta per prelevare gli otto corpi senza vita e si sarebbero accaniti su di essi, sparandogli contro e passandoci sopra con i blindati. Prima di pubblicare la denuncia, Der Spiegel ha fatto controllare l’autenticità di queste immagini ad Hans Baumann, esperto tedesco di falsi fotografici, il quale ha attestato che le fotografie sono autentiche e che non sono state ritoccate. A supporto della tesi che i turchi avrebbero usato armi chimiche c’è anche il rapporto del medico forense Jan Sperhanke del Policlinico universitario di Amburgo-Eppendorf, contattato dalla Taz, il quale conferma che “è molto probabile che gli otto curdi siano morti a causa dell’uso di armi chimiche”.

Combattenti PKK in addestramento, AFP PHOTO/MUSTAFA OZER

Inoltre le fotografie mostrano i segni di quello che potrebbe essere stato un espianto, compiuto probabilmente, secondo Sperhanke, per asportare quegli organi che avrebbero potuto dimostrare come le morti siano state causate da agenti chimici vietati. Secondo Murat Karayilan, il presidente del Consiglio esecutivo del Congresso del popolo del Kurdistan (Kck, l’istanza collegiale che dirige le azioni del Pkk dai monti del Qandil, nel nord dell’Iraq), l’utilizzo di armi chimiche si protrae da oltre 16 anni.
“Non è una novità”, ha affermato in un’intervista all’agenzia di stampa curda FiratNews. “Lo Stato turco utilizza armi chimiche contro i nostri guerriglieri sin dal 1994 quando si trovò in grossa difficoltà. Ancora nella Primavera del 1999, credo in maggio, 20 dei nostri guerriglieri, sotto il comando del compagno Hamza, furono massacrati da gas chimici nei pressi di Sirnak. Dico questo perché, dopo gli scontri, i nostri compagni trovarono un proiettile chimico che era stato sparato nel luogo degli scontri. Quel proiettile fu inviato in Europa, dove all’epoca mi trovavo anche io. Ho potuto seguire personalmente le analisi presso un laboratorio di Monaco di Baviera che dichiarò che quel proiettile aveva contenuto sostanze chimiche capaci di avvelenare una certa porzione di territorio”. Un’accusa che, se confermata, proverebbe che la Turchia ha violato la Convenzione sulle armi chimiche, siglata a Parigi nel 1993 e ratificata dal paese oggi guidato da Recep Tayyip Erdogan nel giugno 1997. Immediata la reazione del governo di Ankara. Secondo il portavoce del primo ministro Erdogan, sarebbe tutto frutto di una campagna diffamatoria messa in piedi dal Pkk con l’aiuto di organizzazioni internazionali ostili al suo governo. Sulla stessa linea il ministero degli Esteri turco che respinge le accuse affermando che la Turchia rispetta rigorosamente la Convenzione di Parigi. La denuncia pubblicata dei due media tedeschi, intanto, ha portato il Partito socialdemocratico (Spd) e i Verdi (Grünen) a chiedere l’apertura di un’inchiesta internazionale. “La Turchia deve urgentemente fornire spiegazioni”, ha dichiarato in merito alla vicenda la co-presidente dei Grünen Claudia Roth.
Secondo l’esponente politica tedesca, infatti, i dati raccolti duranti gli ultimi mesi e le molte segnalazioni sospette, compreso il fatto che le autopsie degli otto membri del Pkk ripresi nelle foto siano state secretate dalle autorità turche, rendono necessario che la vicenda venga verificata dall’esterno. Ma, stranamente, Ankara rifiuta di sottoporsi a qualsiasi inchiesta internazionale sostenendo che si tratta di una “chiara intrusione in faccende interne alla Turchia”. In questi giorni, mentre stiamo scrivendo, altri esperti incaricati da Der Spiegel e da altri quotidiani internazionali stanno verificando nuove fotografie che riguarderebbero altri guerriglieri del Pkk e alcune autopsie eseguite da medici turchi su sei vittime curde che si sospetta siano state uccise da armi chimiche. Queste nuove fotografie sono state consegnate alle delegazioni internazionali durante la loro ultima visita in Kurdistan, a fine luglio, dalla stessa organizzazione curda per i diritti umani che aveva consegnato le prime fotografie.

Un Newroz lungo alcuni giorni, nel Kurdistan che resiste!

2 aprile 2010 Lascia un commento

di Michele Vollaro, Diyarbakir
In tutta la Turchia, le celebrazioni per il Newroz (il capodanno che segna l’inizio della primavera e per il popolo curdo rappresenta l’occasione di rivendicare l’orgoglio della propria appartenenza) si sono svolte senza scontri o tensioni particolari.

Foto di Michele Vollaro ... Diyarbakir, tra i fuochi sacri del Newroz

Numerose erano le preoccupazioni che anche quest’anno la festa del “Nuovo giorno” sarebbe stata macchiata da episodi di violenza e provocazioni da parte degli apparati di sicurezza dello stato turco o dei seguaci del nazionalismo kemalista, in particolare dopo il bando a dicembre del Partito per una Società Democratica (Dtp) e il successivo arresto di centinaia di sindaci e attivisti per i diritti umani curdi nei mesi successivi (sarebbero più di 2000 secondo le stime dell’Ihd, l’Associazione per i diritti umani di Diyarbakir). E invece sono stati giorni di festa, culminati nella oceanica giornata del 21 marzo ad Amed (il nome curdo di Diyarbakir), a cui hanno partecipato oltre un milione e mezzo di persone. I festeggiamenti del Newroz, quest’anno, sono infatti cominciati già nei giorni precedenti al 21 marzo in moltissime località, caratterizzati ovunque da una partecipazione enorme, un clima festoso e combattivo al tempo stesso, e soprattutto l’assenza di incidenti e tensioni. Una scelta politica, presa dal Partito della pace e la democrazia (Bdp), la formazione che ha rimpiazzato il disciolto Dtp, per dimostrare al governo di Ankara la propria forza e capacità di organizzazione, nonostante la maggior parte dei suoi quadri dirigenti si trovi adesso in carcere a causa della stretta repressiva cominciata a dicembre, e tuttora in corso.
Secondo gran parte dei quotidiani turchi, merito di quest’atmosfera tranquilla è della cosiddetta “apertura democratica” avviata lo scorso anno dal governo di Recep Tayyip Erdoğan, una serie di iniziative tese in teoria a garantire pari diritti alle “minoranze” che vivono in Turchia, a cominciare dai circa 20 milioni di curdi.

Foto di Michele Vollaro _Diyarbakir, Newroz 2010_

“Il progetto del governo, volto a migliorare gli standard democratici, il rispetto dei diritti umani e delle differenze nel paese – ha scritto uno tra i principali giornali turchi, ‘Zaman’, nella sua edizione in lingua inglese – ha portato a un’atmosfera di mutua comprensione e fiducia non solo tra le persone, ma anche tra le forze di sicurezza dello stato e le persone”. In ogni caso, il lessico usato dai quotidiani turchi per raccontare le giornate del capodanno curdo evidenziano in modo significativo la difficoltà – causata dal centralismo imposto alla struttura statale dall’ideologia kemalista – di una reale accettazione di differenti culture all’interno della Turchia: negli articoli non si parla delle celebrazioni del Newroz in Kurdistan, ma piuttosto del “Nevruz nella regione del Sudest (il Güneydoğu in lingua turca)”, poiché – ci spiega un giornalista curdo a Diyarbakir – “ci sono tre lettere dell’alfabeto curdo che non sono presenti in quello turco (w, q, x) e perciò il loro uso è vietato, e ancora oggi ha un valore estremamente politico; inoltre, in Turchia ufficialmente non esiste una regione che si chiama Kurdistan: secondo Ankara, questo è il Sudest, una definizione che utilizzando i punti cardinali dimostra chiaramente il suo voler essere relativa e corrispondente a un centro politico rispetto al quale non siamo altro che una periferia, senza la dignità di avere un nome proprio”.
A Diyarbakir, nella città considerata la capitale simbolica del Kurdistan, il Newroz è stato caratterizzato dalla partecipazione dei più importanti cantanti curdi, tra i quali i celebri Ciwan Haco e Ferhat Tunç, e il cantante rap Serhado, amatissimo dai più giovani. Benché la festa dovesse cominciare ufficialmente alle 10, già dalle 6 del mattino il parco adibito ad accogliere i partecipanti cominciava a riempiersi; poco prima dell’inizio ufficiale, gruppi di giovani hanno cominciato a ballare l’halay, la danza tradizionale, mentre sul palco venivano affissi cartelli nei due dialetti curdi parlati nella regione, il kurmanji e lo zaza. Nei vari interventi è stata ricordata la repressione del popolo curdo e dei suoi rappresentanti a opera delle forze di sicurezza turche. I primi a prendere la parola sono stati l’ex-presidente del Dtp, Ahmet Türk (in attesa a metà aprile di essere processato per il suo incarico politico in un partito messo fuorilegge), e il sindaco di Diyarbakır, Osman Baydemir, che si sono appellati al governo chiedendo una soluzione democratica della questione curda, e affermando la necessità di coinvolgere come interlocutore per la risoluzione del conflitto tra esercito e miliziani curdi il leader del Pkk, Abdullah Öcalan, recluso dal 1999 nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Imralı, presso Istanbul. Tra i relatori – che hanno parlato soprattutto in lingua curda – anche l’ex deputata Leyla Zana, Selahattin Demirtaş, attuale presidente del Bdp,e Fatma Öcalan, sorella di Abdullah.
Due le richieste che tutti i relatori hanno posto al governo per rilanciare la possibilità di riforme che consentano una reale democratizzazione della Turchia: la liberazione di tutti i detenuti politici curdi arrestati negli ultimi mesi e l’abolizione dello sbarramento del 10% alle elezioni politiche, una misura che impedisce ai partiti curdi una reale rappresentazione del popolo curdo nel Parlamento di Ankara (ndr: i parlamentari curdi sono sempre stati eletti come indipendenti) e conseguentemente lo svolgimento di un lavoro politico continuo anche a livello nazionale. E poi, con gran sorpresa di tutti, dai maxischermi allestiti vicino al palco, parla anche Abdullah Öcalan, seppure attraverso una vecchia registrazione in cui parla di pace, libertà e diritti.

Foto di Michele Vollaro _Diyarbakir, Newroz 2010_

Dalle montagne del Qandil, in Iraq, nei giorni immediatamente successivi, ha parlato il comandante in capo, per così dire, del Pkk, Murat Karayilan, che in un’intervista con la Reuters ha affermato che con il Newroz si è aperta una nuova fase. “Non un periodo ad interim – ha detto – ma una vera e propria fase che si svilupperà nei termini di una soluzione democratica o della resistenza”. In altre parole, Karayilan non si sbilancia sul futuro del cessate il fuoco: se da una parte dice che l’illegalizzazione del Dtp ha reso la via per una soluzione politica molto più ardua e che la tregua “potrebbe essere rotta e potremmo riprendere la lotta armata”, dall’altra sottolinea come “le celebrazioni del Newroz possono essere lette come un referendum”. E l’opinione dei milioni di persone che hanno festeggiato è chiaramente quella che la pace deve prevalere. Il che non significa arrendersi, ma piuttosto che ora si attende una risposta da Ankara.
Karayilan sembra indicare che per il momento le bocce sono ferme. Per il momento. Quanto questo momento possa durare, è difficile dirlo. La primavera purtroppo, con lo scioglimento delle nevi sulle montagne, è per le forze armate turche il momento propizio per lanciare campagne militari anche molto pesanti. E negli ultimi giorni a Diyarbakir il fragore assordante dei caccia turchi diretti a sud verso l’Iraq è il rumore di fondo a molte ore del giorno, mentre la città è di nuovo piena di blindati di esercito e polizia ad ogni angolo. Come ha detto chiaramente l’altro ieri un gruppo di intellettuali turchi, curdi e turkmeni incontrando ad Ankara il premier Erdoğan, “o ci sono passi concreti, oppure l’iniziativa democratica rimarrà una scatola vuota e pace e giustizia nient’altro che parole senza senso”.

Vigilia del Newroz a Derik, Kurdistan turco

20 marzo 2010 Lascia un commento

 

Auguri alle donne kurde che festeggiano il Newroz, PIROZ BE! _Foto di Michele Vollaro_

I primi fuochi per festeggiare il Newroz, il capodanno zoroastriano che segna l’inizio della primavera, sono stati accesi oggi ad Hakkari, vicino al confine iracheno, teatro la settimana scorsa di scontri tra l’esercito turco e i militanti del Pkk, il partito fuorilegge di Ocalan.
In Turchia, dove per il popolo curdo il Newroz è anche e soprattutto occasione per rivendicare l’orgoglio della propria appartenenza e perciò la manifestazione è stata a lungo vietati, i festeggiamenti sono carichi di una tensione e un significato particolari. Soprattutto quest’anno, dopo il bando a dicembre del Partito per una Società Democratica (Dtp) e il successivo arresto di decine di sindaci e attivisti per i diritti umani curdi nei mesi successivi, nella regione orientale della Turchia e anche in diversi paesi europei, con l’accusa di “terrorismo e proselitismo ideologico”. Il Newroz (letteralmente “nuovo giorno”) si celebra ogni anno il 21 marzo, in coincidenza con l’inizio della primavera, ma quest’anno i dirigenti del Bdp (il Partito per la Pace e la Democrazia che, dopo la messa fuori legge del Dtp, è stato fondato per riunire gli eletti al Parlamento di Ankara e le organizzazioni politche curde) hanno deciso di cominciare alcuni giorni prima i festeggiamenti nei centri minori della regione, per permettere a tutti i curdi di partecipare alla grande manifestazione organizzata domenica a Diyarbakir, considerata la capitale del Kurdistan turco. A preoccupare sono soprattutto l’arrivo di numerosi rinforzi dell’esercito turco nella regione e il ripetersi di provocazioni ai danni di cittadini e associazioni curde, ultima in ordine di tempo una sassaiola e un’aggressione con bastoni domenica scorsa ai danni dei tifosi della squadra di calcio del Diyarbakirspor.
Anche i recenti sviluppi della politca interna turca, dopo l’arresto con l’accusa di aver tentato un colpo di stato nel 2003 di una quarantina tra ex-capi di stato maggiore e alti ufficiali dell’esercito, gettano un’ombra sulle possibilità che quest’anno il Newroz possa finalmente celebrarsi come una festa di pace. La tradizionale opposizione tra i militari e i nazionalisti, che si considerano i depositari autentici della repubblica laica fondata da Ataturk, e gli islamici del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), al governo dal 2002 con Racip Tayyep Erdogan, si è trasformata in questi ultimi mesi in aperto scontro di potere in vista delle elezioni legislative previste per l’anno prossimo. Dopo le promesse da parte di Erdogan di un’apertura democratica nei confronti delle istanze politiche del popolo curdo, l’approssimarsi del voto ha spinto il premier turco a usare il pugno duro contro le organizzazioni curde e le autorità di Ankara a reagire con l’arresto di centinaia tra sindaci, amministratori locali, giuristi, giornalisti ed esponenti della società civile, tra i quali anche più di 400 ragazzi di età compresa tra i 12 e i 15 anni che avrebbe partecipato a manifestazioni non autorizzate. “Hanno provato a togliere la nostra dignità – ha detto durante il Newroz ad Hakkari Sevahir Bayındır, il responsabile della locale sezione del Bdp – arrestando chi si impegnava per la pace, a spegnere la nostra voce perquisendo gli studi di RojTv (la principale emittente satellitare in lingua curda) in Belgio e portando in carcere i suoi giornalisti, ma nonostante il silenzio mediatico e il disinteresse politico dell’Unione europea non sono riusciti a fermare la lotta democratica per il riconoscimento dei nostri diritti e il successo dei festeggiamenti qui ad Hakkari ne sono la migliore dimostrazione”. Domenica, a Diyarbakir, sono attese oltre un milione di persone, per danzare tutti insieme i balli a dita incrociate attorno ai grandi fuochi accesi per il Newroz, con canti in lingua curda e festoni verde-rosso-giallo, ed esprimere al meglio il clima di gioia ed entusiasmo l’arrivo della nuova stagione, con la speranza che sia una stagione di pace.

da Derik, Kurdistan turco
Michele Vollaro

Arresti natalizi a tappeto in Kurdistan!

24 dicembre 2009 Lascia un commento

GLI ARRESTI DI NATALE DEGLI AMMINISTRATORI KURDI

24 Dicembre 2009 – Questa mattina alle ore 5:00 ha avuto inizio una operazione di polizia da parte delle Forze di sicurezza turche che ha portato all’arresto di decine di sindaci e amministratori locali del neonato partito BDP (Partito della pace e della democrazia). Al momento si segnalano oltre 85 fermi in attesa di convalida dell’arresto.
Questa operazione, attuata nel giorno della vigilia di Natale, dimostra, ancora con maggior forza, l’assoluta mancanza di volontà della Turchia di avviare un reale confronto democratico col popolo kurdo ed i suoi rappresentanti, legalmente e democraticamente, eletti nelle elezioni amministrative della scorsa primavera.
Questa operazione chiude un 2009 che ha visto da marzo ad oggi, l’arresto di migliaia di amministratori locali dell’ex DTP (Partito della società democratica) e attivisti della società civile kurda, la chiusura da parte della Corte costituzionale turca del DTP ed una serie di violenze di piazza che rendono quest’anno che volge al termine, l’ennesimo anno di violenza e repressione e che vede le speranze di pace e dialogo che sembrava si stessero concretizzando, allontanarsi sempre di più.
Giungono notizie di assembramenti di uomini e mezzi dell’esercito turco nella zona kurda in preparazione di operazioni militari:  il riaccendersi della guerra sembra essere prossimo e concreto.
Consapevoli che alla repressione delle forme democratiche e alla cancellazione del diritto di rappresentanza politica segue la repressione armata e la guerra, ci rivolgiamo con forza a tutti gli amministratori locali italiani, che in molti casi in questi anni hanno iniziato degli importanti progetti di collaborazione e di sviluppo con le amministrazione del DTP nel Kurdistan turco, ed ai mezzi di informazione affinché facciano sentire la loro protesta forte e la loro denuncia contro questo ennesimo tentativo di affossare la pace e di reprime il legittimo diritto di un popolo ad esistere.
Aggiungiamo la lista aggiornata dei fermati:

Sindaci in carica fermati:

  • Leyla Güven, Sindaco di  Viranşehir, (Membro della assemblea degli  enti locali del Consiglio d’Europa)
  • Aydın Budak, Sindaco di  Cizre,
  • Selim Sadak, Sindaco di Siirt – ( Ex. Deputato del DEP che è stato in carcere per 10 anni con Leyla Zana) ,
  • Zülküf Karatekin, Sindaco di  Kayapınar,
  • Ethem Şahin, Sindaco di  Suruç,
  • Ahmet Cengiz, Sindaco di  Çınar,
  • Ferhan Türk, Sindaco di  Kızıltepe,
  • Abdullah Demirbaş, Sindaco di  Sur,
  • Necdet Atalay, Sindaco di  Batman
  • Songul Erol Abdil, Sindaco di Dersim

Ex Sindaci :

  • Emrullah Cin, Sindaco di  Viranşehir
  • Hüseyin Kalkan, Sindaco di  Batman
  • Fikret Kaya, Sindaco di  Silvan
  • Abdullah Akengin.Sindaco di  Dicle
  • Avv. Firat Anli, Il presidente della federazione del DTP Diyarbakır e ex. Sindaco di Yenisehir,
  • Ali Simsek, il vice sindaco di Diyarbakır,

– Hatip Dicle, copresidente del DTK (Congresso della Società Democratica ed ex. Deputato del DEP che è stato in carcere per 10 anni con Leyla Zana)

Ex dirigenti del DTP: Aydın Kılıç, İlyas Sağlam Il presidente della Federazione del DTP di Batman,  Nurhayat Üstündağ, Abdullah Ürek,  Celil Piranoğlu ed il consigliere del comune Batman  Şirin Bağlı

Ed in oltre :

  • Avv.Muharrem Erbey,il presidente del IHD (Associazione dei diritti umani)  di Diyarbakir
  • Sakine Kayra, membro del movimento delle donne libere e democratiche,
  • Fethi Suvari, Agenda locale 21,
  • Avv. Servet Özen, Presidente del DİSKİ ed il suo vice Yaşar Sarı,
  • Gülizar Akar, Impiegata dell’ assemblea delle donne Kadın,
  • Kerem Çağıl, Dirigente del asso. Göç-Der (Associazione dei sfolatti Interni),
  • Ferzende Abi, Presidente del Associazione MEYADER di Van,
  • Gli altri arresti secondo le citta:

–          Diyarbakır: Adil Erkek, Bedriye Aydın, Fatma Karaman, Ramazan Debe,
–          Van: Tefik Say, M. Sıdık Gün, Yıldız Tekin, Hilmi Karakaya, Cafer Koçak, Ferzende Abi, Sabiha Duman, Ahmet Makas, Zihni Karakaya, Resul Edmen ve ismi öğrenilemeyen bir öğrenci
–          Urfa: Mehmet Beşaltı, Müslüm Caymaz, Mehmet Çağlayan, İbrahim Halil Göv, Abdürrezzak İpek,
–          Şırnak: Memduh Üren, Necip Tokgözoğlu, Sami Paksoy, Ömer Yaman, Serbest Paksoy, Mesut Altürk, Hasan Tanğ, Serdar Tanğ, Yusuf Tanğ, Cahit Tanğ, Ekrem Babat, Segban Bulut, Mustafa Tok, Agit Berek.

Ankara, chiude il partito curdo

13 dicembre 2009 Lascia un commento

Scontri tra manifestanti e polizia nel sud-est, mentre si rischiano le elezioni anticipate
di Michele Vollaro

La minaccia era nell’aria, ma si è concretizzata solo nella serata di venerdì. Come da copione, la Corte Costituzionale turca ha deciso la chiusura del Partito per una Società Democratica (Dtp), il partito curdo rappresentato nel Parlamento di Ankara da 21 deputati, accusandolo di attentare all’unità dello stato e di avere legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). È la venticinquesima volta che un partito democraticamente eletto viene dichiarato illegale in Turchia dal 1980, anno dell’ultimo colpo di stato militare; la quinta che i provvedimenti di chiusura riguardano organizzazioni politiche curde: in passato erano stati banditi il Hep, il Dep, il Ozdep e l’Hadep, mentre nel 2005 il Dehap ha deciso di sciogliersi e trasformarsi in Dtp prima che i provvedimenti giudiziari a suo carico giungessero a termine. Venerdì i giudici della massima istanza giudicante in Turchia hanno accolto all’unanimità le richieste del procuratore capo della Suprema Corte d’Appello, lo stesso che l’anno scorso aveva cercato di far chiudere il Partito di giustizia e sviluppo (Akp) del primo ministro Recep Tayyp Erdogan. Su 219 dirigenti curdi sotto accusa, a 37 è stato vietato di svolgere attività politica per i prossimi cinque anni, come ai sindaci di tre tra le più importanti città a maggioranza curda nel sud-est del paese, Mardin, Batman e Van, dove il Dtp aveva ottenuto un grande successo elettorale. Ma tra i politici colpiti dal provvedimento ci sono anche il segretario e parlamentare Ahmet Turk e Leyla Zana, eletta deputata nel 1994, che trascorse 10 anni in carcere per aver detto in curdo durante il giuramento: “viva la fratellanza tra il popolo curdo e il popolo turco” e mai iscritta al Dtp. Una decisione pesante, quella presa dalla Corte Costituzionale, che avrà gravi ripercussioni sulla speranza di arrivare a una soluzione negoziata tra turchi e curdi, alimentata nei mesi scorsi da una ‘road map’ proposta dal leader del Pkk Adbullah Ocalan, in carcere dal 1999, e da una cosiddetta “Iniziativa democratica”, un pacchetto di riforme annunciato dal governo guidato dal Partito di giustizia e sviluppo (Akp) di Erdogan. Da venerdì sera, intanto, migliaia di manifestanti curdi sono nelle strade di Diyarbakir, capitale simbolica del Kurdistan turco, impegnando la polizia in violenti scontri, mentre altri cortei spontanei sono in corso a Istanbul, dove vive un’importante comunità curda, e nelle principali città del sud-est del paese. Nei giorni scorsi, i dirigenti del Dtp avevano avvertito dei rischi di una chiusura del partito, affermando che una decisione di questo tipo avrebbe potuto alimentare le tensioni tra lo stato centrale e i 15 milioni di curdi che vivono nel paese. “Il possibile verdetto di chiusura – dicevano i dirigenti del Dtp in un comunicato – non sarebbe un verdetto legale, sarebbe un verdetto politico: portare il Dtp al di fuori dell’arena politica democratica servirebbe solo ad aumentare il caos ed il processo di crisi esistente in Turchia e indebolirebbe la fiducia curda nella politica parlamentare”. Così, i 19 deputati curdi eletti nelle ultime elezioni politiche al Parlamento di Ankara, cui la legge avrebbe consentito di restare a far parte dell’assemblea come “indipendenti”, hanno già annunciato le loro dimissioni. Se fossero 24 i parlamentari dimissionari, potrebbe venire a mancare il numero legale e l’unica strada per non paralizzare il paese sarebbero le elezioni anticipate, con il partito al governo in calo di consensi e la strada per entrare nell’Unione Europea sempre più in salita.

Dal Mesopotamia Social Forum, finito ieri a Diyarbakir

30 settembre 2009 Lascia un commento

Articolo e scatti di Michele Vollaro, da Diyarbakir

Libertà, democrazia, uso comune delle risorse naturale: parole che in tanti paesi occidentali potrebbero anche sembrare retoriche, ma che a Diyarbakir hanno un significato ben concreto. Nella principale città del Kurdistan turco si conclude oggi il Mesopotamia Social Forum, un incontro organizzato da decine di organizzazioni sociali e politiche della regione, in vista del prossimo Forum Sociale Europeo che si terrà a Istanbul nel giugno del prossimo anno, per porre al centro dell’attenzione i problemi a cui è sottoposto il popolo curdo. A poche decine di metri dalla stazione ferroviaria, nel parco comunale Sümer Park, i ragazzi del Congresso della gioventù patriottica democratica (Ydgm), l’organizzazione giovanile del partito filo-curdo Dtp, hanno allestito un campeggio internazionale per ospitare i circa 300 attivisti venuti da numerosi paesi europei. “Non chiediamo la secessione dalla Turchia – spiega prima di partecipare a un seminario sulla frammentazione dei popoli in Medio Oriente Mehmet, studente presso la locale università – ma che vengano riconosciuti i nostri diritti culturali e sociali: non siamo trattati come cittadini allo stesso livello dei turchi”.GetAttachment-3.aspx
L’obiettivo, che per il momento rappresenta più un’utopia, di gran parte dei curdi e delle delegazioni venute da Iran, Iran e Siria per il vertice è costruire le basi di una confederazione che riunisca i popoli della Mesopotamia, una forma statale capace di superare il concetto di nazionalismo, imposto insieme ad altri valori e ideologie estranee alla cultura mediorientale dai paesi occidentali. In Mesopotamia, ripetono in tanti, sono nate la scrittura e con essa la storia dell’uomo, l’agricoltura grazie alla presenza dei fiumi Tigri ed Eufrate, le tre principali religioni monoteiste: per lungo tempo, questa terra è stata il centro del mondo. Finché l’Europa non ha preso il sopravvento ed è cominciata la rivoluzione industriale, quando i paesi europei hanno dovuto cercare in tutto il pianeta le risorse necessarie per far funzionare le nuove fabbriche e preservare la supremazia economica. A completare questo processo, la prima guerra mondiale, al termine della quale le potenze vincitrici imposero la dissoluzione dell’impero ottomano e la nascita in Medio Oriente degli stati-nazione, un concetto completamente alieno a questa terra. La storia dei curdi, come quella dei palestinesi che a Diyarbakir sono gli ospiti d’onore del Forum, è emblematica delle conseguenze dell’imperialismo occidentale. “Grazie al popolo curdo, perché ha aperto la strada della lotta contro il militarismo e il colonialismo, che potranno essere sconfitti solo a partire da questa terra”, dice in inglese Raffaella Bolini in rappresentanza del World Social Forum durante l’inaugurazione dell’incontro. La prima rivendicazione degli organizzatori del vertice è la fine dell’oppressione cominciata all’atto della fondazione della Repubblica turca, quando per costruire da zero una nuova identità nazionale fu vietato l’insegnamento della lingua curda, furono cambiati i nomi dei luoghi (e così l’antica Amida, in curdo Amed, fondata dagli Aramei nel XIII secolo a.C., divenne Diyarbakir), fu fatta tabula rasa di una tradizione e di una cultura con secoli di storia. Ma tra i tendoni montati nel Sümer Park e i padiglioni di un’ex fabbrica di mattoni riadattata a centro pubblico per lo svolgimento di corsi tecnici e professionali, i temi di discussione sono stati numerosissimi. Sei sale in cui sono stati svolti almeno tre seminari al giorno ognuna, seguiti dai partecipanti stranieri grazie a un servizio di traduzione simultanea. La colonizzazione del Medio Oriente, l’anti-militarismo, la questione delle donne in società tradizionalmente patriarcali, le alternative di gestione comunale realizzate dal basso, i diritti dei lavoratori in paesi sconvolti da guerre e repressione statale, la necessità di un sistema d’istruzione che non riproduca i soliti rapporti di potere sono solo alcuni degli argomenti affrontati. Ma è probabilmente il tema della gestione delle risorse naturali e della costruzione di nuove dighe nella regione, ciò che più interessa da vicino chi vive in Kurdistan.
GetAttachment-1.aspxIn Turchia, a partire dal 1954 sono state costruite un centinaio di dighe: secondo Işikhan Güler, membro della Camera degli ingegneri elettrici, la realizzazione di queste infrastrutture risponde da un lato a un discorso geo-strategico per il controllo del territorio e rappresenta dall’altro l’attestazione dell’avvenuta privatizzazione dell’acqua, che non può più essere liberamente usata dalle comunità che vivono lungo i fiumi. “Spesso – spiega Güler – queste dighe sono costruite ingannando la popolazione locale, a cui viene promessa l’elettrificazione della regione e raccontato che i nuovi bacini non causeranno allagamenti. In realtà, accade l’esatto contrario: le dighe non sono provviste di centrali idroelettriche e i nuovi bacini allagano vaste zone del territorio al solo scopo di bloccare l’afflusso d’acqua verso altre regioni e spingere così le popolazioni a emigrare altrove: il modo più drastico per ottenere il controllo politico del territorio”. Inserita nel Grande progetto anatolico (Gap), che prevede la costruzione di 18 nuove dighe nella parte meridionale dell’Anatolia, la seconda barriera di Ilisu sul fiume Tigri è l’infrastruttura che suscita i timori più grandi. Il governo turco, nonostante tutte le società europee che contribuivano a finanziare il progetto (tra cui l’italiana Unicredit) siano uscite dal consorzio, ha infatti cominciato ugualmente a erigere la nuova diga, che nei prossimi tre anni dovrebbe sommergere una superficie pari a due milioni di chilometri quadrati, causando tra l’altro la perdita di un importante sito archeologico come la città di Hasankeyf, risalente al periodo dell’impero sassanide. “L’acqua, simbolo di vita, e il suo uso da parte dell’uomo devono contribuire a costruire legami tra i popoli, non diventare una merce da cui trarre profitti – afferma Ipek Taşli della campagna per fermare la diga di Ilisu – Nel nostro paese, la questione dell’acqua viene usata strategicamente dall’esercito turco e dai ricchi capitalisti per impedire qualsiasi genere di opposizione sociale e politica: il problema, che ancora non è stato compreso, è che continuando a giocare in questo modo con la natura non ci rendiamo conto che dovremmo sopportare conseguenze inimmaginabili, per il nostro futuro e del pianeta tutto”.

Dopo la scarcerazione di Henry Okah, verso un negoziato per la pace nel Delta del Niger?

18 luglio 2009 Lascia un commento

“Il rilascio di Henry senza dubbio aprirà la strada a dei progressi nei colloqui per la pace”.
mend-emblemaRisponde con queste poche ma chiarissime parole Jomo Gbomo, portavoce del Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend), il gruppo armato che nella regione sud-orientale della Nigeria combatte per ottenere una più equa distribuzione dei profitti del greggio, alle nostre domande sulla scarcerazione di Henry Okah, considerato dal governo nigeriano il principale esponente dei ribelli. Scagionato dalle accuse di alto tradimento e traffico internazionale di armi, Okah è stato scarcerato lunedì pomeriggio dalla prigione di Jos, nel nord del paese africano, dov’era detenuto dal febbraio 2008.

Quando la voce della liberazione di Okah è arrivata nelle insenature e nei villaggi del delta in tutti i campi del Mend è iniziata la festa.
Il quotidiano “The Times of Nigeria” ha scritto di grandi fuochi nei villaggi e colpi sparati in aria; “I militanti nel Delta del Niger degli stati di Bayelsa, Delta, Rivers e Ondo hanno sparato in aria tutta la sera, quando la notizia della liberazione di Okah ha raggiunto i loro campi”. Da giorni si attendeva l’annuncio della scarcerazione del presunto leader del gruppo armato, da quando i suoi avvocati avevano riferito alla stampa la volontà di Okah di accettare la proposta di amnistia offerta da Yar’Adua a combattenti della regione del Delta.

La liberazione di Henry Okah, negli ultimi due anni,_45302355_07mend_afp è sempre stata la precondizione posta dal movimento per l’inizio di “qualsiasi” trattativa per portare la pace nella tormentata regione ricca di petrolio. Così, l’altro ieri con la solita e-mail inviata alle agenzie di stampa internazionali arriva l’atteso annuncio del cessate il fuoco da parte del Mend , mantenendo la promessa per cui “il giorno della liberazione di Henry Okah, sarà il giorno in cui inizierà il dialogo per la pace” e annunciando una tregua unilaterale di 60 giorni a partire dalla mezzanotte di ieri. Tirano un sospiro di sollievo le compagnie petrolifere che operano nella regione, dopo che gli attacchi condotti dal Mend negli ultimi mesi hanno portato a una riduzione del 50% della produzione giornaliera di greggio. Nella nota, il gruppo armato ha affermato che saranno formulate richieste e proposte politiche, “dopo le adeguate consultazioni con tutti gli interessati, tra le popolazioni della regione, con i capi militari e con Henry Okah”. Dopo queste consultazioni sarà formato un gruppo di negoziatori che dovrà trattate con Timi Alaibe, il consigliere speciale del Presidente per gli affari del delta del Niger, nominato dal governo federale nigeriano pochi giorni fa.

Con toni biblici, il Mend ha battezzato uragano “Mosé” l’ultima fase degli attacchi contro le multinazionali e “Gruppo Aronne” il comitato dei negoziatori, sottintendo la minaccia che “una piaga” si abbatterà sul governo federale se le richieste del Mend non saranno affrontate in un’adeguata sede politica.
mend001Nel comunicato il Movimento torna a chiedere il ritiro dell’esercito dalla regione del Delta abitata dalle comunità Gbaramatu, in modo tale da permettere il ritorno delle persone costrette a fuggire dopo l’avvio a maggio di una vasta offensiva militare che avrebbe causato centinaia di vittime civili.
“Un preludio obbligatorio ai colloqui – si legge nella nota firmata da Jomo Gbomo – è il ritiro dei militari della Joint Task Forces dalla comunità di Gbaramatu (la comunità attaccata il 16 maggio dai militari della JTF) e il ritorno di tutti gli sfollati che vogliono tornare nelle loro case”.
A sottolineare le difficoltà del “dialogo” tra ribelli e governo è lo stesso Okah.
In un’intervista all’agenzia di stampa inglese Reuters il presunto comandante dei ribelli ha messo in dubbio il valore dell’amnistia proposta dal governo il 25 giugno, sostenendo che nelle condizioni attuali molti militanti del Mend sceglieranno di continuare la lotta armata.
“Stiamo lottando per la nostra terra – ha detto nella sua prima intervista dopo l’uscita dalla prigione – Dobbiamo arrivare a un accordo con il governo su temi politici ed economici: l’amnistia che è stata proposta sembra più rivolta a dei criminali che non hanno pretese che a dei combattenti in lotta per la libertà e il diritto alla terra”.

Arrestato il 3 settembre 2007 in Angola, Henry Okah un ingegnere navale nigeriano di 45 anni, del popolo Ijaw, il più povero e il più numeroso tra le popolazioni del Delta del Niger trasferitosi dal 2003 in Sudafrica, a Johannesburg, insieme alla moglie e ai quattro figli.
È considerato tra i fondatori del Mend, la temuta organizzazione che riunisce i gruppi di militanti armati del Delta e ha dichiarato guerra alle major petrolifere, accusate di danneggiare l’ambiente e di mettere in crisi pesca ed agricoltura. Un personaggio controverso, Henry Okah, che qualcuno ha descritto come un criminale e un commerciante di armi . Ma che per molti altri è “un uomo con un grande desiderio di liberare e di emancipare il suo popolo” e il cui nome è divenuto sinonimo di militanza e di speranza per i popoli del delta del Niger. Nuovi sviluppi, dunque, ma tante incertezze.
Resta difficile, per ora, valutare le possibili conseguenze della tregua unilaterale, per cui non possiamo che concludere con l’auspicio formulato dallo stesso Jomo: “Speriamo che il periodo di cessate il fuoco possa creare un ambiente favorevole per far procedere il dialogo”.

di Michele Vollaro, Internationalia.it 

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