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Rojava: le case delle donne
http://instagram.com/p/vvxSjEHO96/Quest’articolo apparentemente breve raccoglie un mondo grandissimo, che ho in parte sfiorato.
Sono righe che fanno percepire all’istante l’empatia, la familiarità, la vicinanza umana e politica che si sente pulsare dentro nei confronti di queste donne, le combattenti kurde di Kobane,
così come le tante e tante altre, siriane, che da anni resistono ad una guerra dai mille fronti ormai.
Quest’articolo ci palesa un processo di liberazione ed emancipazione, femminile innanzitutto, che non riuscirà ad esser fermato da nessun califfato tagliagole o esercito marciante: queste donne e il faticoso percorso portato avanti negli anni non saranno facili da fermare e non possiamo non sostenerle con ogni sforzo possibile.
Oltre a quest’articolo potete leggere gli altri sul blog di Zeropregi e sulla sua pagina twitter: porta un nostro bacio a quella terra.
http://instagram.com/p/vspw33nOz0/
LE CASE DELLE DONNE NEL ROJAVA
Prima di tutto abbiamo dovuto insegnare cos’è libertà. Abbiamo dovuto iniziare a fare formazione per far capire cos’è la libertà perché c’era gente che non sapeva cosa fosse” dice così Newroz Kobane, 25 anni, dal nome improbabile ma che lei dice essere il suo, spiegandoci cos’è “il modello Rojava” e il lavoro fatto negli ultimi anni su quel territorio devastato dalla guerra. Ci guarda fisso negli occhi e ci racconta per oltre un’ora com’era la sua vita a pochi km da qui, nella Kobane ora teatro dello scontro con l’Isis. Siamo nella tenda di uno dei campi profughi alla periferia di Soruc dove Newroz è una delle responsabili, ci racconta di quando hanno aperto la casa delle donne o di quando hanno creato le scuole per le stesse donne a cui fino ad allora era impedito andarci.
“Ma non ci siamo limitate a farlo a Kobane, siamo andati villaggio per villaggio a spiegare e a insegnare cos’è la libertà e cos’è la libertà delle donne”. Mi fermo a pensare a ciò che sono “le case delle donne” dalle nostre parti e dell’attacco che subiscono quotidianamente mentre lei ci spiega il lavoro (enorme aggiungo io) che hanno fatto negli ultimi anni. “Per prima cosa abbiamo dovuto ridurre la pressione degli uomini sulle donne. Difendevamo i diritti delle donne quando una di loro scappava di casa o veniva cacciata. Le accoglievamo perché volevamo evitare che le donne subissero violenze. Abbiamo fatto formazione con le donne su quali erano i loro diritti ma allo stesso tempo insieme ai tribunali e alle donne stesse decidevamo le cause di separazione. Il nostro obiettivo erano i diritti delle donne ed eravamo così riconosciute che nei casi di violenze o stupri eravamo noi ad andare a prendere gli uomini per portarli in tribunale”.
A Kobane ogni quartiere aveva la sua casa delle donne ed erano tante coloro che ci lavoravano. Mi imbarazzo se penso che a Roma a stento ogni municipio abbia un consultorio. Ma penso anche che se oggi Newroz e le altre donne nei campi abbiano un ruolo e una importanza è soprattutto grazie a questa rivoluzione culturale messa in atto da loro stesse.
“Abbiamo fatto anche formazione per gli uomini, certamente. Ed è probabile che la nostra determinazione gli abbia impedito di reagire con violenza ai cambiamenti tanto che alla fine sono stati costretti ad accettarli”.
È una donna fiera della sua identità e del suo essere musulmana. Non da nessuna dignità politica e religiosa all’esercito islamico, lo liquida con un “sono disumani e non sono dei musulmani”.
E mi imbarazzo di nuovo visto l’immaginario costruito nel mio paese dell’universo musulmano. Per questo probabile che loro vincano e che dalle mie parti invece giorno dopo giorno si perda un pezzo dei diritti conquistati con anni di lotte.
Foto, video e report della Staffetta Romana per Kobane https://m.facebook.com/profile.php?id=635796289863470
è nata la piattaforma Support Kobane: sostienila!
Support Kobane e’ una piattaforma creata per movimenti europei e singoli cittadini per consegnare contributi in sostegno alla resistenza di Kobane, che si combatte sul doppio fronte di chi lotta – Kurdi, siriani di altre etnie, attivisti ed attiviste turche – contro lo Stato Islamico ma anche di chi affronta l’esodo da Kobane: piccole municipalita’ al confine, dove il partito di Erdogan non e’ riuscito a vincere alle elezioni e il Governo si limita a mandare carri armati e convogli di polizia. La’ si affollano e accalcano in ogni angolo qualcosa come 160mila persone in citta’ che a malapena ne ospitavano 50mila. Senza contare la privatizzazione selvaggia dei servizi sanitari, della quale l’ospedale di Suruç fra i tanti paga il prezzo insieme ai volontari giunti da ogni lato della Turchia.
Per qualsiasi donazione, non importa quanto simbolica, basta specificare su Paypal l’indirizzo supportkobane@riseup.net come destinatario.
Support Kobane non nasce come una raccolta di aiuti. Il paradigma della carita’ alla vittima passiva non ci pertiene. Questa e’ una piattaforma di solidarieta’ pratica, di supporto fra lotte per lotte – in questo caso, quella che e’ e rimane una lotta politica, e non una semplice tragedia. Kobane ha scelto di resistere. Le donne e gli uomini che resistono da quasi un mese stanno difendendo un modello di autorganizzazione e di convivenza oltre che di laicismo. E la popolazione lungo il confine – la municipalita’ di Suruç, i volontari arrivati da ogni lato della Turchia – hanno scelto di sostenerla.
Quindi quanto raccolto verra’ consegnato a gruppi politici, soggetti attivi schierati politicamente e legati al territorio e alla volonta’ delle popolazioni di quel territorio che si stanno autorganizzando per rispondere ad un’emergenza che vede piu’ di 160mila persone in fuga da Kobane nelle condizioni di cui si e’ parlato in questi giorni. Sappiamo che grazie al modello di democrazia diretto perseguito in quelle zone, la decisione di come distribuire i fondi viene mediata a livello orizzontale in base a bisogni reali – coperte, servizi igienici, medicinali, e cosi’ via.
Per questo, e anche perche’ la situazione peggiora di ora in ora, abbiamo scelto il sistema della donazione diretta piuttosto che del convoglio, e di fare appello ai movimenti perche’ la solidarieta’ sia un veicolo di coinvolgimento collettivo verso una lotta che parla il nostro linguaggio politico.
LA PAGINA E’ QUI: VAI
l’emergenza delle popolazioni Yazide stravolte dall’attacco dell’IS continua anche se e’ sparita dai giornali. E che #UnPontePer sta tuttora facendo un lavoro straordinario nel cercare di normalizzare il piu’ possibile il quotidiano di popolazioni sconvolte dall’avanzata dell’IS. Anche anche se Support Kobane e’ nata con una temporalita’ precisa (ci siamo dati due-tre giorni per consegnare i fondi) e con altri fini, mi sembrerebbe incompleto parlare di supporto al Rojava senza invitare a sostenere Un Ponte Per. (Lena DG)
Dieci anni da una giornata indelebile: con Rachel e Dax scolpiti nel sangue

Rachel Corrie, attivista dell’ISM,
Gaza, 16 marzo 2003
Dieci anni fa.
Una giornata lunga, che sembra durare ancora.
Dieci anni fa il 16 marzo si accavallarono telefonate, telegiornali, dirette radiofoniche, marciapiedi, corse, fiatone, pianti.
Il 16 marzo di 10 anni fa scadeva l’ultimatum su Baghdad,
la guerra in Iraq riprendeva forma, dopo lo scempio afgano, la guerra su Babilonia che si annunciava rapida e indolore stava aprendo le porte all’ennesima ferita indelebile per quella terra,
culla di storia e di tempeste di sabbia. Non passarono che tre giorni soli, poi fosforo, uranio, fuoco precipitò sull’Iraq e il suo popolo.
Il 16 marzo di 10 anni fa un bulldozer israeliano schiacciava il corpo e il futuro di una ragazza che eravamo tutte noi.
Rachel Corrie, schiacciata da tonnellate di ferro sulla terra di Gaza, spirava tra le braccia dei suoi compagni dell’Ism,
nello sconcerto dell’attivismo internazionale e negli occhi dei palestinesi,
che si sentivano privati di un sorriso, di un’amica, di una ragazza di 23 anni che dai lontani Stati Uniti era partita col cuore in mano per muoversi contro l’Apartheid.
Per ritrovarsi spiaccicata, sotto i suoi cingoli.

la campagna 130.000, che sono gli euro che due compagni son condannati a dare per risarcire i danni delle cariche di polizia e carabinieri all’ospedale San Paolo la notte dell’uccisione di Dax
Con Rachel morimmo tutti quel giorno, io che ero stata l’anno prima in quella terra martoriata e che nei campi avevo festeggiato i miei piccolissimi 20anni guardavo quel corpo dalla forma mutata per sempre senza nemmeno riuscire a proferir parola: con lacrime rabbiose.
Il 16 marzo di 10 anni fa ci ammazzavano Dax, a coltellate, due balordi fascisti.
In tre aggrediti con le lame, e lui che non ce l’ha fatta.
Poi la lunga notte all’ospedale San Paolo, le cariche, i pestaggi, il comportamento indescrivibile di polizia e carabinieri…
e le condanne, la richiesta folle di risarcimento di 130.000 euro a due compagni, due.
Un gran dispiacere non poter essere su tra voi, oggi, cordonata al ricordo di Dax e di quella notte milanese che abbiamo tutti dentro.
LEGGI LE ULTIME LETTERE DI RACHEL DALLA PALESTINA: QUI
Oslo: il terrorismo non è più islamico. E mo come se fa?
Come la mettiamo?
Sono 10 anni che facciamo la “war on terror”, dieci anni che ci dicono che bisogna eliminare il terrorismo di matrice islamica,
che per colpa del terrorismo, di Bin Laden, dei barbudos musuRmi, dei lettori di Corano, delle donne velate, degli uomini in vestito bianco e così via, siamo costretti a vivere nel terrore.
Costretti a non sentirci sicuri a casa nostra, nei nostri paesi ordinati e puliti, magari anche un po’ ariani.
Da dieci anni ci bombardano (ma soprattutto, bombardano) ed hanno vinto su molti fronti: il livello culturale di questo occidente mortaccino e puzzolente di sfruttamento e capitalismo s’è lasciato incartare velocemente, ha creduto al volo a teorie e complotti, ad aereoplanini e scuole del terrore con bimbi scalzi e alfabeti indecifrabili: ci hanno detto che sarebbero venuti a colpirci a casa, nelle nostre metropolitane, nei cinema…che tutti noi, uno ad uno, rischiavamo la nostra vita.
Che nessuno di noi era al sicuro, che non avremmo mai saputo se lasciando il nostro bimbo all’asilo l’avremmo ritrovato o sarebbe stato rapito per essere indottrinato e poi fatto esplodere in qualche strada afgana.
C’hanno detto che dovevamo fidarci dei nostri bravi soldatini, dei nostri prodi eroi che rischiano la vita in guerra per tutelarci dai musulmani cattivi, i nostri valorosi portatori di democrazia: i tanti Parolisi che poi rientrano a casa dalle proprie mogli, dopo la missione, per accoltellarle e seviziarle a morte nei boschi d’addestramento.
Ce ne hanno dette tante in questi anni, ed io purtroppo ho anche una gran memoria.
Non dovevamo parlare di sfruttamento, di capitale, di lavoro e migrazioni: ma di pericolo di matrice islamica, di terrore, di apocalisse.
Ed ora?
Ora che abbiamo 91 morti già accertati rimasti uccisi in un duplice attentato ad Oslo, la città dei premi Nobel, la città delle aringhe, dell’ordine e dei diritti…ora che ci sono cadaveri di giovanissimi ancora caldi al suolo, ammazzati dal piombo di un biondo, nazista, fondamentalista cattolico…
ora che ci venite a raccontare?
Mandiamo qualche contingente al Vaticano? Chi bombardiamo?
L’avete visto il volto dell’attentatore…quando i servizi norvegesi si sono affannati a cercare collegamenti tra la sua vita e l’Islam hanno tentato un suicidio collettivo. Era proprio un bravo ragazzo lui, uno pure biondo, pure cattolico, pure d’estrema destra.
Ora poi, alla luce della più ridicola delle guerre di questi ultimi decenni: stiamo bombardando la Libia, partner preferito per accordi commerciali e politici fino all’altro ieri. Tribunali internazionali che s’affrettano a dichiarare Gheddafi ricercato n.1 per “crimini contro l’umanità” e nemmeno 40 giorni dopo il ministro degli esteri francese Alain Juppè ci dice che nooooooooooooooo, in realtà può anche rimanere in Libia, “a patto che si discosti nettamente dalla vita politica del paese”…
insomma, anche il gas e il petrolio libico è stato incassato, al punto che il rais può pure rimanere dov’è, se sa comportarsi.
Chi bombardiamo allora?
Chi è il prossimo?
Ora di chi dobbiamo avere “terrore”?
M’avete stufato, non mi va nemmeno di starvi dietro.
Andateveneaffanculo! (nel nuovo linguaggio è: #fanculo)
Sunniti contro sciiti e cristiani, nell’impotenza delle forze di sicurezza irachene
Per molti quel giorno segna il punto di non ritorno della lotta interconfessionale, nel cuore dell’Islam e dell’Iraq. Negli ultimi anni le cose erano andate meglio, fino allo spostamento del grosso delle truppe Usa nel Paese, reindirizzate verso l’Afghanistan. L’azione di ieri, però, con almeno undici cariche esplosive piazzate in quartieri sciiti di Baghdad, che hanno ucciso almenocento persone, hanno riportato l’attenzione su una tensione che divide l’Islam, non solo in Iraq. Il vaso di Pandora è stato aperto e adesso è molto difficile richiuderlo.
L’Iraq è senza governo da marzo, quando le elezioni sono state vinte da Iyad Allawi, l’unico candidato che ha fatto del discorso multireligioso un punto fermo del programma. Il premier uscente Nouri al-Maliki, però, ha giocato il tutto per tutto e, sciita come Allawi, ha radicalizzato le sue posizioni, avvicinandosi all’ayatollah sciita radicale Moqtada al-Sadr, che molti ritengono manovrato dall’Iran, Paese dove si è rifugiato da tre anni. L’ultimo tentativo di mediazione saudita, che guarda con preoccupazione all’evoluzione politica (e religiosa) delle faccende irachene, è naufragata.
L’Iraq sembra sempre più vicino alle posizioni sciite più radicali e i gruppi sunniti, alcuni dei quali ritenuti vicini ad al-Qaeda, si fanno sentire per imporre la loro agenda, ostile all’influenza iraniana.
I gruppi sunniti più radicali parevano essere stati messi fuori gioco, dopo che il generale statunitense Petraeus (spostato anche lui in Afghanistan), era riuscito a comprare la fedeltà dei cosiddetti Consigli del Risveglio, milizie tribali sunnite, che si erano occupate di ripulire le loro zone dagli ‘stranieri’, come vengono chiamati i mujhaiddin internazionalisti accorsi da tutto il mondo islamico dopo l’invasione della Coalizione internazionale del 2003. Appena gli Usa hanno allentato la presa, però, gli sciiti al governo – al-Maliki in testa – non hanno rispettato i patti, rifiutandosi di coinvolgere i sunniti delle milizie nell’esercito e nella polizia. Questo ha riportato molti sunniti sulle antiche posizioni radicali, anche perché la deriva sciita del Paese e la crescente influenza iraniana preoccupa pure loro.
Nel mezzo di questa lotta di posizione si viene a trovare, indifesa, la comunità cristiana. Domenica 31 ottobre, a Baghdad, un commando ha assaltato una chiesa cristiana.Quarantaquattro le vittime, tra assalitori, ostaggi e forze di sicurezza irachene che (appoggiate dagli Usa) hanno fatto irruzione nel luogo di culto. Sparando all’impazzata, secondo le ricostruzioni. Lo Stato Islamico d’Iraq (Isi), sigla ritenuta vicina ad al-Qaeda, ha rivendicato l’assalto, definendo i cristiani ”bersagli legittimi”.
L’accusa, senza riscontri, è alla chiesa cristiana copta d’Egitto. Secondo gli integralisti, due donne copte si sarebbero convertite all’Islam e per questo sarebbero ‘detenute’ in un convento al Cairo.
L’Isi aveva dato un ultimatum di due giorni per liberare le due donne.
La vicenda pare, a prescindere da eventuali riscontri, un pretesto per proseguire quella’pulizia etnica’ denunciata dal Sinodo Vaticano sul Medio Oriente nei giorni scorsi. Obiettivo delle frange estremiste, sunnite e sciite, è quello di liberarsi della comunità cristiana per dividersi il nuovo Iraq. Una lotta sanguinosa che la polizia e l’esercito iracheno non paiono in grado di contrastare. L’amministrazione Usa, dal 2004 a oggi, ha
speso ventidue miliardi di dollari nella formazione di poliziotti e soldati iracheni, nel tentativo di affidargli l’ordine pubblico. La situazione, come dimostrano i fatti degli ultimi giorni, è molto lontana dall’essere sotto controllo. Un’inchiesta del New York Times, pubblicata il 24 ottobre scorso, emerge che la dipendenza da alcool e droghe tra le forze di sicurezza irachene è dilagante.
”Ho iniziato nel 2004…dopo un mese di turni continui”, racconta al Nyt Jasim Harim, 29 anni, soldato di stanza a Baghdad. ”Mi sentivo un bersaglio disegnato addosso, mi pareva che tutti volessero uccidermi. Mantenere la calma era impossibile…sono scivolato lentamente nelle droghe. Adesso non riesco più a farne a meno”. Si va dalle tradizionali eroina, hashish e marijuana fino a una verisione iraniana del Valium, chiamata Sangue, per il colore rosso della scatola. Passando per l’Abu Hajib (Sopracciglia del padre) e ilLabenani, ma non mancano anfetamine e antidepressivi. Molto diffuso anche lo ‘sciroppo’, nome in codice della vecchia grappa Arak, nascosta in flaconi di medicinali. ”Il problema è dilagante”, spiega il colonnello dell’esercito iracheno Muthana Mohammed, seppur il ministero della Difesa di Baghdad smentisce. ”Credo che la metà degli uomini di esercito e polizia abbiamo questo problema. Quando arrestano uno spacciatore, lo rilasciano e lo fanno lavorare per loro. Ma il dramma non riguarda solo i militari, tutta la società irachena è nei guai. La roba arriva da Iran e Afghanistan e il traffico è gestito dai guerriglieri che si autofinanziano”.
Christian Elia, Peacereporter
Dal Mesopotamia Social Forum, finito ieri a Diyarbakir
Articolo e scatti di Michele Vollaro, da Diyarbakir
Libertà, democrazia, uso comune delle risorse naturale: parole che in tanti paesi occidentali potrebbero anche sembrare retoriche, ma che a Diyarbakir hanno un significato ben concreto. Nella principale città del Kurdistan turco si conclude oggi il Mesopotamia Social Forum, un incontro organizzato da decine di organizzazioni sociali e politiche della regione, in vista del prossimo Forum Sociale Europeo che si terrà a Istanbul nel giugno del prossimo anno, per porre al centro dell’attenzione i problemi a cui è sottoposto il popolo curdo. A poche decine di metri dalla stazione ferroviaria, nel parco comunale Sümer Park, i ragazzi del Congresso della gioventù patriottica democratica (Ydgm), l’organizzazione giovanile del partito filo-curdo Dtp, hanno allestito un campeggio internazionale per ospitare i circa 300 attivisti venuti da numerosi paesi europei. “Non chiediamo la secessione dalla Turchia – spiega prima di partecipare a un seminario sulla frammentazione dei popoli in Medio Oriente Mehmet, studente presso la locale università – ma che vengano riconosciuti i nostri diritti culturali e sociali: non siamo trattati come cittadini allo stesso livello dei turchi”.
L’obiettivo, che per il momento rappresenta più un’utopia, di gran parte dei curdi e delle delegazioni venute da Iran, Iran e Siria per il vertice è costruire le basi di una confederazione che riunisca i popoli della Mesopotamia, una forma statale capace di superare il concetto di nazionalismo, imposto insieme ad altri valori e ideologie estranee alla cultura mediorientale dai paesi occidentali. In Mesopotamia, ripetono in tanti, sono nate la scrittura e con essa la storia dell’uomo, l’agricoltura grazie alla presenza dei fiumi Tigri ed Eufrate, le tre principali religioni monoteiste: per lungo tempo, questa terra è stata il centro del mondo. Finché l’Europa non ha preso il sopravvento ed è cominciata la rivoluzione industriale, quando i paesi europei hanno dovuto cercare in tutto il pianeta le risorse necessarie per far funzionare le nuove fabbriche e preservare la supremazia economica. A completare questo processo, la prima guerra mondiale, al termine della quale le potenze vincitrici imposero la dissoluzione dell’impero ottomano e la nascita in Medio Oriente degli stati-nazione, un concetto completamente alieno a questa terra. La storia dei curdi, come quella dei palestinesi che a Diyarbakir sono gli ospiti d’onore del Forum, è emblematica delle conseguenze dell’imperialismo occidentale. “Grazie al popolo curdo, perché ha aperto la strada della lotta contro il militarismo e il colonialismo, che potranno essere sconfitti solo a partire da questa terra”, dice in inglese Raffaella Bolini in rappresentanza del World Social Forum durante l’inaugurazione dell’incontro. La prima rivendicazione degli organizzatori del vertice è la fine dell’oppressione cominciata all’atto della fondazione della Repubblica turca, quando per costruire da zero una nuova identità nazionale fu vietato l’insegnamento della lingua curda, furono cambiati i nomi dei luoghi (e così l’antica Amida, in curdo Amed, fondata dagli Aramei nel XIII secolo a.C., divenne Diyarbakir), fu fatta tabula rasa di una tradizione e di una cultura con secoli di storia. Ma tra i tendoni montati nel Sümer Park e i padiglioni di un’ex fabbrica di mattoni riadattata a centro pubblico per lo svolgimento di corsi tecnici e professionali, i temi di discussione sono stati numerosissimi. Sei sale in cui sono stati svolti almeno tre seminari al giorno ognuna, seguiti dai partecipanti stranieri grazie a un servizio di traduzione simultanea. La colonizzazione del Medio Oriente, l’anti-militarismo, la questione delle donne in società tradizionalmente patriarcali, le alternative di gestione comunale realizzate dal basso, i diritti dei lavoratori in paesi sconvolti da guerre e repressione statale, la necessità di un sistema d’istruzione che non riproduca i soliti rapporti di potere sono solo alcuni degli argomenti affrontati. Ma è probabilmente il tema della gestione delle risorse naturali e della costruzione di nuove dighe nella regione, ciò che più interessa da vicino chi vive in Kurdistan.
In Turchia, a partire dal 1954 sono state costruite un centinaio di dighe: secondo Işikhan Güler, membro della Camera degli ingegneri elettrici, la realizzazione di queste infrastrutture risponde da un lato a un discorso geo-strategico per il controllo del territorio e rappresenta dall’altro l’attestazione dell’avvenuta privatizzazione dell’acqua, che non può più essere liberamente usata dalle comunità che vivono lungo i fiumi. “Spesso – spiega Güler – queste dighe sono costruite ingannando la popolazione locale, a cui viene promessa l’elettrificazione della regione e raccontato che i nuovi bacini non causeranno allagamenti. In realtà, accade l’esatto contrario: le dighe non sono provviste di centrali idroelettriche e i nuovi bacini allagano vaste zone del territorio al solo scopo di bloccare l’afflusso d’acqua verso altre regioni e spingere così le popolazioni a emigrare altrove: il modo più drastico per ottenere il controllo politico del territorio”. Inserita nel Grande progetto anatolico (Gap), che prevede la costruzione di 18 nuove dighe nella parte meridionale dell’Anatolia, la seconda barriera di Ilisu sul fiume Tigri è l’infrastruttura che suscita i timori più grandi. Il governo turco, nonostante tutte le società europee che contribuivano a finanziare il progetto (tra cui l’italiana Unicredit) siano uscite dal consorzio, ha infatti cominciato ugualmente a erigere la nuova diga, che nei prossimi tre anni dovrebbe sommergere una superficie pari a due milioni di chilometri quadrati, causando tra l’altro la perdita di un importante sito archeologico come la città di Hasankeyf, risalente al periodo dell’impero sassanide. “L’acqua, simbolo di vita, e il suo uso da parte dell’uomo devono contribuire a costruire legami tra i popoli, non diventare una merce da cui trarre profitti – afferma Ipek Taşli della campagna per fermare la diga di Ilisu – Nel nostro paese, la questione dell’acqua viene usata strategicamente dall’esercito turco e dai ricchi capitalisti per impedire qualsiasi genere di opposizione sociale e politica: il problema, che ancora non è stato compreso, è che continuando a giocare in questo modo con la natura non ci rendiamo conto che dovremmo sopportare conseguenze inimmaginabili, per il nostro futuro e del pianeta tutto”.
Quel che esporta la Folgore!
Ci chiedono di piangere gli “eroi della patria”. I soldati che “portano pace e rischiano la vita tutti i giorni”.
Oltre al ribrezzo che provo a pelle per la parola EROI…da dire a riguardo ce ne sarebbe e non poco, ma nemmeno mi va.
Nient’altro che “occupanti”, occupanti in una terra straniera da anni e scusate se allora considero quello di ieri non un “ATTENTATO”, ma un’azione di RESISTENZA contro occupanti stranieri, portatori di morte.
I piloti italiani in questo momento sono impegnati in un addestramento speciale negli Stati Uniti e si sono portati da casa (pensate quanto può essere costato) i nuovi cacciabombardieri dell’esercito italiano. I cacciabombardieri di solito non portano PACE.
Anzi…quello che bombardiamo continuamente è Uranio impoverito.
Vi ricordate i bimbi deformi di Baghdad?
Bhè, questi sono quelli afghani: questo è quello che portano “gli eroi della patria”.
Questo è quello che continuamente esportiamo in Afghanistan ed Iraq, quello che abbiamo portato in Somalia (anche quello che cade ogni giorno sul territorio sardo di Quirra, intorno al poligono interforze).
Io piango gli operai che muoiono ogni giorno, piango i migranti che a centinaia si perdono nel mediterraneo e con loro la speranza di altro.
Io non piango assassini, mutilatori, stupratori, mercenari, occupanti.
La BBC intervista la torturatrice di Abu Ghraib
“Rispetto a quello che gli iracheni avrebbero fatto a noi, ciò che abbiamo fatto era niente. Quando queste cose succedevano, loro ci decapitavano, bruciavano i corpi, trascinavano i cadaveri per le strade o li appendevano ai ponti” queste le parole usate durante un’intervista alla Bbc da Lynndie England, la soldatessa diventata tristemente famosa per essere una delle protagoniste delle fotografie uscire dal carcere degli orrori di Abu Ghraib. Sono passati cinque anni da quei giorni in cui la donna si faceva immortalare durante abusi fisici sui detenuti del carcere. Tre degli ultimi cinque anni la donna li ha passati in carcere e sembra di non essere pentita per ciò che ha fatto in passato. “Le umiliazioni sessuali avvengono anche nei college in Usa e se servono a ottenere informazioni allora sono pratiche accettabili”. La giornalista ha incalzato più volte la England con domande ficcanti. “Non le sembra perverso e assurdo ciò che accadeva?” è stato chiesto. “Certo era un po’ strano – ha risposto la soldatessa Usa – ma quelle erano cose che succedevano lì. I superiori ci dicevano che andava tutto bene e che dovevamo continuare”.
La donna dice di sentirsi molo sola e oggi ha paura che qualcuno la possa uccidere. Fa uso di antidepressivi e racconta che anche la madre ha subito minacce per colpa sua.
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