Archivio

Posts Tagged ‘1967’

Territori Occupati: Israele demolisce pozzi e cisterne d’acqua

20 dicembre 2010 Lascia un commento

QUESTO VIDEO E’ FATTO DA UN GRUPPO DI PACIFISTI CATTOLICI.

MERCOLEDI 14 dicembre.

Khashem ad-daraj-hathaleen, colline a sud di Hebron, nei Territori Palestinesi Occupati.

L’esercito israeliano demolisce tre cisterne d’acquq e due pozzi nei villaggi beduini della zona.
I villaggi in questione si trovano in Area C, dove, secondo gli accordi di Oslo, Israele ha il totale controllo militare e civile.
Tra le strutture abbattute ci sono anche due pozzi, costruiti una 70ina di anni fa, colmati di terra dai bulldozer israeliani: trattandosi di strutture costruite prima dell’occupazione israeliana dei Territori del 1967. La loro demolizione risulta una palese violazione del diritto internazionale e della stessa legge militare israeliana riguardante la salvaguardia delle proprietà nei Territori Palestinesi Occupati.
L’impatto sulla comunità palestinese a sud di hebron e la sua sopravvivenza della distruzione di pozzi e cisterne è enorme.
La politica portata avanti da israele in Area C è quella di impedire lo sviluppo delle comunità palestinesi, negando ogni permesso di costruzione e demolendo ogni struttura considerata “illegale”.
Allo stesso tempo, gli insediamenti ed avamposti israeliani presenti nella stessa area, pur essendo illegali secondo il diritto internazionale, continuano ad espandersi senza sosta, mentre i coloni continuano ad attaccare impunemente la popolazione autoctona.
Questa politica di restrizioni, chiusure, demolizioni, evacuazioni e soprusi, unita alle continue violenze da parte dei coloni israeliani presenti nell’area, nega di fatto i diritti umani dei palestinesi, ostacolando la possibilità di vivere nei propri villaggi e coltivare le proprie terre, impedendo lo sviluppo delle comunità locali.

Sosteniamo il centro Amal Al-Mustakbal nel campo di Aida, in West Bank

19 aprile 2010 Lascia un commento

Il centro Amal Al Mustakbal è nato nel 1987 nel campo profughi di Aida, nella zona di Betlemme (Palestina). L’idea di un asilo nasce dal desiderio di attivare progetti per strappare i bambini e le bambine dalle strade e fornire una preparazione prescolastica attraverso attività di gioco, danza, studio, sport e arte.

Foto di Valentina Perniciaro _a pochi passi dal campo profughi di Aida, Betlemme_ Marzo 2002

Nel 2002, con la costruzione del muro di separazione, l’economia interna al campo profughi è precipitata. La totale disoccupazione, l’espropriazione di terre coltivabili e la continua occupazione militare, sono le ragioni per cui la struttura oggi si trova senza alcun sostegno economico, contando unicamente sul lavoro volontario di donne e uomini del campo profughi.
Nonostante l’obiettivo sia di garantire a tutti e tutte la possibilità di studiare, sono solo 40 i bambini e le bambine che possono utilizzare gratuitamente gli spazi del centro e, attraverso la guida dei volontari, partecipano alle attività culturali e di apprendimento. Ogni giorno, dalle 8.00 alle 12.00, bambine e bambini partecipano ad attività e giochi con lo scopo di imparare a leggere, scrive e contare mentre nel pomeriggio il centro resta aperto per dare vita a laboratori di danza, arte e sport. Durante la pausa estiva le attività proseguono con i campi estivi. Il motivo per il quale scegliamo di parlarvi di questa realtà è perchè abbiamo attivato una cassa di sostegno alla vita del centro, considerando fondamentale il ruolo che svolge all’interno dell’esistenza drammatica delle persone che vivono nel campo profughi di Aida.
Da Marzo 2009 non esiste alcun finanziamento che possa garantire il regolare svolgimento delle attività. Le persone che s’impegnano a tenere in vita questo progetto, non percepiscono alcuna forma di reddito e non possono garantire la sopravvivenza del centro. I materiali non sono minimamente sufficienti per consentire un dignitoso svolgimento delle attività. L’edificio che ospita questo grande sogno richiede l’impegno costante nel pagamento dell’affitto.
Per queste ragioni il centro Amal Al Mustakbal ha dovuto sospendere le attività ma la forza dei volontari ha portato ad una riapertura provvisoria. Come gruppo che fa riferimento al blog freepalestine.noblogs.org abbiamo attivato da diversi mesi una campagna di sostegno al centro Amal Al Mustakbal che ha portato a coinvolgere diverse scuole della capitale. Si può aiutare il centro in diversi modi: economicamente, alcune scuole hanno devoluto i ricavati volontari delle recite scolastiche, con uno scambio di disegni tra bambini o mandando in Palestina tutto lʼoccorrente didattico per continuare lʼapprendimento o la ricreazione. Tutte queste forme aiutano una popolazione a non sentirsi sola, soprattutto
nei confronti di bambine e bambini le maggiori vittime di muri e separazioni.
Per info: carovanapalestina@autistici.org
VIDEO DAL CAMPO DI AIDA

Franco Fortini 1989: Lettera agli ebrei italiani

5 febbraio 2009 3 commenti

 


di Franco Lattes Fortini

(Apparve in prima pagina de “il manifesto” il 24 maggio 1989.)

Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alla centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i ‘falchi’ di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte della opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.boycott-israel-free-palestine
Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né smentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni ‘voce del sangue’ e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che a partire da questi siano giudicati – pal_buldozzercredo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà. Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinesi; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.

I cani del Sinai

18 giugno 2008 3 commenti

Fare il cane del Sinai pare sia stata una locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra correre in aiuto del vincitore,stare dalla parte dei padroni, esibire nobili sentimenti.
Sul Sinai non ci sono cani.

Dalla fine della guerra portavo, di mio padre ebreo e del mio segno di circonciso, una interpretazione che oggi comincio a intendere peggio che parziale, pigra come lo schema fascismo-antifascismo in cui si era disposta. I casi personali erano stati bruciati dall’enormità  della vicenda d’allora. 
In pratica -nella pratica della pigrizia- avevo accettato l’assurda idea che ebraismo, antifascismo, resistenza, socialismo fossero realtà contigue. Come ci si può ingannare! 

Era accaduto che l’ebraismo fosse inseparabile da una persecuzione immensa e non ancora del tutto esplorata: testa di Medusa per chiunque. Era parsa riassumere qualsiasi altra persecuzione, qualsiasi altro strazio e quindi di perdere la sua specificità.
I difensori del pensiero democratico-razionalista avevano visto negli ebrei un universale, incarnazione di quanto l’uomo potesse avere di più caro, la tolleranza, la non violenza, l’amore della tradizione, la razionalità. Questo errore non era innocente.

[…]
Quanto più la piccola borghesia tradizionale s’è venuta identificando con gli addetti al Terziario e ha incluso larga parte della classe operaia, l’Uomo Ad Una Dimensione ha dovuto crearsi di necessità passioni, nazioni, devozioni, lealtà fittizie. L’antisemitismo sparisce moltiplicandosi. La frase “si è sempre l’ebreo di qualcuno” diventa vera alla lettera. Più che naturale che gli Israeliani – o meglio: coloro che ne controllano l’opinione- abbiano fatto ricorso all’onore della persecuzione storica come elemento potente di passioni ed orgogli patriottici: non solo nel nostro inno nazionale si dice popoli, per secoli, calpesti e derisi. 

Altrettanto naturale ma molto più grave che – a quanto capita di udire e leggere- l’unione sacra tra i partiti si compia di necessità oscurando la rilevanza dei legami internazionali di Israele, insomma il compito politico che Stati Uniti ed Inghilterra sembrano aver assegnato a quel paese. 
Quella oscurità , quella mancanza di chiarezza, peggio, quella chiarezza respinta e rimossa da un sacro egoismo (quante volte torna il sacro nella lingua morta del nazionalismo) in una non necessaria penombra, radicherà forse nella cultura israeliana un male peggiore (perchè difensivo, giustificatorio) di quello delle euforie militaresche e guerriere.

Molti ebrei-europei e molti italiani-europei amici degli ebrei si sono lasciati sorprendere nel sonno del loro vecchio antifascismo. Dovranno ripensare alla propria giovinezza e giudicarla. Il limite e lo scandalo sono sorti dall’incontro con le masse immense che non possono nè vogliono assimilarsi nè arruolarsi fra i tirailleurs sénégalais, i gurka, i rangers dei petrolieri o della Cia.

___FRANCO FORTINI: I Cani del Sinai___

Questi alcuni tratti di un capolavoro contro quanti amano correre in soccorso dei vincitori.
Il più grande intellettuale italiano contemporaneo, ebreo, analizza lo Stato ebraico di Israele pochi giorni dopo la fine della Guerra dei 6 Giorni,
iniziata il 6 giugno 1967 

Dheishe, prima notte di coprifuoco 

 

Dheishe_ il risveglio

Foto di Valentina Perniciaro:
Campo Profughi di Dheishe, Betlemme, West Bank, Palestina.
Marzo 2002. Un piccolo spaccato di guerra permanente, di guerra
d'occupazione, di apartheid.
Foto 1: Prima notte di coprifuoco
Foto 2: Il risveglio e la devastazione  
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: