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“la madre di Cecilia” e il suo perpetuo dolore
Sono le poche righe di quel mattone dei “Promessi Sposi” che ho nel cuore da quando avevo l’età di Cecilia,
che uccisa dalla peste veniva trasportata da sua madre, “col petto appoggiato al petto”.
Chissà perché, poco più di una bambina, mi son fatta scavar dentro da queste righe, con l’empatia di madre, più che di bimba uccisa.
Adesso quasi non riesco a leggerle più, sarà colpa di questo splendido pancione scalciante.
Adesso rivedo questa scena mille volte, in mille strade del medioriente e del resto del mondo: in strade sconosciute come in molte di cui ho assaggiato la polvere, le emozioni, i giochi dei bambini, le chiacchiere delle ragazze; le stesse ragazze che ora seppelliscono i propri figli. Uno ad uno.
Penso a te che m’hai aperto quel cortile tante volte, che su tre ne hai seppelliti tre, uno dopo l’altro, nella stessa amata terra rossa.Non so perché stamattina ho ricercato queste righe,
delle volte la letteratura ha la capacità di accompagnarti come nessuno amico sa fare.
E di pugnalarti anche, ripetutamente.[ringrazio Davide, che nel commentare mi ha rimesso in testa le righe successive, che mia madre per qualche strambo gioco della memoria ricordava a memoria e mi ripeteva quando bofonchiavo nello studiare Manzoni. Nel commento di Davide, sotto al post, trovate dettagli letterari importanti ed affascinanti.]

Fatima Bitar e la sua mamma
“Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato
[…]
“Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori….”. Alessandro Manzoni
L’ergastolo e le farfalle
“Una farfalla si posò sul polpastrello del mio dito medio,
vi adagiò l’addome,
e mi portò all’orgasmo.”
“L’ergastolo io lo penso come la maggioranza di quelli che sono come me: non è una pena indefinita.
Prima o poi finirà, devono capire.”
Mio caro,
ho sognato che venivo a Rebibbia per il nostro consueto colloquio,
ma tu non c’eri, non è che eri stato trasferito in un altro carcere, non c’eri proprio più.
Al risveglio mi son chiesta se esisti veamente.
Questo nostro rapporto è difficile e mi sento vecchia anzitempo.
Preferirei lasciar passare un po’ di tempo prima di venire nuovamente a colloquio.
TU PUOI CONTARE I GIORNI, PER ME E’ SEMPRE 1,1,1,1 …
[Tratto da Ergastolo, di Nicola Valentino, edizioni Sensibili alle Foglie]
ADOTTA IL LOGO CONTRO L’ERGASTOLO: Qui il sito Liberidallergastolo;libera i tuoi spazi, reali e virtuali, dall’aberrazione del FINE PENA MAI
“Mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime” Rosa Luxemburg
Uno stralcio meraviglioso di una lettera che Rosa Luxemburg scrisse alla sua amica Sonja Liebknecht, dal carcere di Breslavia, poco prima di essere trucidata insieme al marito di Sonja, Karl Liebknecht.
“E’ il mio terzo natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia. Sono calma e serena come sempre. […]

La copertina del libricino da cui è tratta la lettera, Adelphi editore
Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre un’ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza: oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio.
(…) Ahimè, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito zeppi di sacchi o di vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché valse anche per loro il detto «vae victis»… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. «Neanche per noi uomini c’è compassione» rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi…
Vi abbraccio, Sonicka
La vostra R.
Per un po’ di letteratura: QUI
Marx e una lezione sui “cosiddetti eccessi” popolari
“Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione”.
Karl Marx, 1850. Indirizzo al Comitato Centrale della lega dei Comunisti
Grazie a Contromaelstrom
Sul voto ne bastan poche di parole…!
Erano un po’ di giorni che volevo “rubare” queste righe al blog di FrancoSenia ed ora riesco ad averne il tempo.
Bellissime, chiare, poche quelle di Élisée Reclus… come dice lui stesso all’inizio della lettera, gli bastano poche parole per spiegare le sue idee sul voto. E allora visto che tanto si ciancia in questi giorni, di liste e candidati, di burocrazia e mafiosetti di partito, mi sembra ancora più importante far capire (per chi non l’avesse già capito!) da che parte sta questo blog per quanto riguarda le urne elettorali…
quindi grazie a chi ha sempre la capacità di mettere le parole giuste…io le faccio mie!
Clarens, Vaud, 26 settembre 1885.
Compagni,
domandate ad un uomo di buona volontà, che non vota e che non si candida, di spiegare le sue idee sul diritto di voto.
Il tempo che mi accordate è molto breve, ma dal momento che, sul voto elettorale, ho delle convinzioni molto precise, quello che ho da dire lo posso fare in poche parole.
Votare significa abdicare; nominare uno o più padroni per un periodo più o meno lungo, significa rinunciare alla propria sovranità. Che si tratti di un monarca assoluto, di un principe costituzionale o di un semplice mandatario con una piccola quota di potere, il candidato che portate al trono o alla poltrona sarà un vostro superiore. Andate ad eleggere degli uomini che saranno al di sopra della legge, dal momento che essi sono incaricati di redigerle, le leggi, e che la loro missione è quella di farvi obbedire.
Votare significa essere ingannati; significa credere che degli uomini come voi, all’improvviso acquisiscano, al suono di un campanello, la virtù di sapere tutto, e tutto comprendere. I vostri mandatari hanno da legiferare su tutto, dai fiammiferi alle navi da guerra, dalla potatura degli alberi allo sterminio delle popolazioni. Vi dovrà sembrare che la loro intelligenza possa crescere in ragione dell’immensità del ruolo cui sono chiamati. La storia insegna che si verifica il contrario. Nelle assemblee sovrane, fatalmente prevale la mediocrità.
Votare significa evocare il tradimento. Senza dubbio, gli elettori credono nell’onestà di coloro ai quali danno il loro voto – e forse è così il primo giorno, quando i candidati sono ancora nel fervore del primo amore. Ma ogni giorno ha il suo domani. Quando l’ambiente cambia, l’uomo cambia con esso. Oggi, il candidato s’inchina davanti a voi, e persino troppo; domani si tirerà su, e persino troppo. Aveva mendicato il voto, vi darà degli ordini. L’operaio, diventato capo-squadra, può rimanere quello che era prima di ottenere il favore del capo? L’ardente democratico forse non impara ad inchinarsi quando il banchiere lo degna di un invito nel suo ufficio, quando i valletti del re gli fanno l’onore di intrattenerlo nell’anticamera? L’atmosfera di simili corpi legislativi è malsana da respirare; se si inviano i propri mandatari in un contesto di corruzione, non ci si stupisca se ne risultano poi corrotti.
Non abdicate, pertanto, e non mettete il vostro destino in mano a degli uomini forzatamente incapaci, e futuri traditori. Non votate mai! Invece di affidare i vostri interessi ad altri, difendeteli da voi soli; invece di nominare degli avvocati per proporre una linea d’azione futura, agite! Le occasioni non mancano agli uomini di buona volontà. Scaricare su altri le responsabilità derivanti dalla propria condotta, denota mancanza di coraggio.
Vi saluto dal profondo del cuore, compagni.
Élisée Reclus.
(Lettera a Jean Grave)
LAVORO SALARIATO
Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.
Il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita.
Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto . Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.
Il lavoro non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro non è merce sua. Ilservo della gleba vende soltanto una parte del suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra.
L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera
____KARL MARX____
” pe’ carità, chiudi le porte”
O lima sorda, m’hai limato er core
a poco a poco consumato l’hai.
Vedi? ‘Sta faccia nun cià più colore
queste so’ tutte pene che me dai.
Pietro, pe’ carità chiudi le porte
e in cielo nun fa entrà chi fa la spia
chi fa la spia è condannato a morte.
Pietro! Pe’ carità chiudi le porte.
Palomba, che per l’aria vai a volare
ferma che vojo ditte du’ parole:
vojo cavà ‘na penna alle tue ale,
vojo scrive ‘na lettra a lo mio amore.
Tutta de sangue la voglio stampare,
pe’ sigillo ce metto lo mio core
e finita de scrive e sigillare,
palomba, portacella allo mio amore
E se la troverai a riposare,
o palomba, riposate tu pure.
Oggi ho bisogno di stornelli, di canzoni di malavita, di voci che cantano delitti e infamia, carcere e solitudine,che cantano la mia Roma.
E’ una giornata strana. Di quelle in cui senti che è cambiato tutto,
Di quelle in cui si gira pagina, si alzano muri, si cambia strada.
Ancora una volta, ancora una volta….”io ricomincio da capo”.
Meno male che c’è Obama a consolarci…eheheh. Meno male che vivo nel più caldo degli abbracci.
Aboliamo l’ergastolo!
Quando un Tribunale condanna un recluso ad una pena temporale, anche elevata, gli riconosce comunque il diritto alla libertà. Se invece condanna una persona all’ergastolo gli toglie questo diritto e, per il malcapitato, la libertà diventa una concessione.
Dopo 6 anni l’ergastolo mi è stato tolto e tramutato in trent’anni di carcere.
Mi sono raddrizzato. Da curvo che ero, con quel macigno sul collo.
Il suo compagno di cella insisteva.
-L’ergastolo di fatto non esiste più, al massimo dopo vent’anni si esce.
Quella sera stizzito rispose:
-Ma tu…ti sei mai addormentato con l’ergastolo?
336 ergastoli, tanti ne sono stati erogati tra il 1969 e il 1989 in processi contro le Brigate Rosse ed altre organizzazioni di sinistra per fatti di lotta armata.
L’art. 1 della legge antiterrorismo, varata tra il dicembre del 1979 ed il febbraio 1980, introducendo un’aggravante particolare per i reati commessi con finalità eversiva, rendeva certo ed automatico l’ergastolo per tutti quei delitti che lo prevedevano. L’impennata nelle condanne all’ergastolo si ha proprio negli anni successivi all’entrata in vigore di quella legge approvata dal parlamento in un periodo di acutizzazione dello scontro. Basti ricordare che nella primavera del 1978 avvennero il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.
Con le leggi emergenziali per la lotta al terrorismo il Parlamento ha legittimato, per la prima volta in Italia, un uso massivo ed abnorme dell’ergastolo. Delle centinaia di ergastoli una parte sono stati sicuramente erogati per responsabilità materiale diretta al reato, molti però, per semplice concorso morale o per la partecipazione solo marginale alle attività preparatorie di un delitto.
Terrorista: persona senza inflessioni dialettali. Sradicata da qualunque contesto sociale. Alieno. Manovrato da forze occulte, o paesi stranieri. Infatuato da ideologie deliranti. Senza alcun seguito di massa. Assalta la democrazia. Semina il terrore nella comunità.
Questo, a grandi linee, potrebbe essere lo stereotipo del terrorista che è stato impropriamente applicato alle persone e al fenomeno della lotta armata degli anni ’70.
Terrorista può tradursi anche in ergastolano. Terrorista – ergastolano. Due termini che legano bene. L’ergastolo sembra infatti la sanzione più ovvia e naturale per un terrorista, perché non fa che espellere a vita dal consorzio umano un corpo che gli è stato giudicato estraneo.
-TRATTO DA “ERGASTOLO” di Nicola Valentino-
PER L’ABOLIZIONE DELL’ERGASTOLO.
FUORI I DETENUTI POLITICI, AMNISTIAMO GLI ANNI ’70
CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO
Giuliano Naria…fiabe quasi fiabe
CONTRO I MANGIATORI DI DONI [dal carcere di Trani]
Disprezzare ciò che è lento è già un donare.
Essere nei gesti delle parole è ricevere doni da te.
Soltanto quando il cielo sbucherà dai soffitti potrai vedere i miei doni per te.
Non compatisco i mangiatori di doni perché non sanno ricevere. E non potranno fare a meno di ricevere quello che meno vogliono. E dovranno accettare doni che non sono fatti per loro. E non saranno doni d’amore quelli che dovranno ricevere.
Superare il tempo in velocità è il mio primo dono d’amore per te.
Vedere nel futuro questo presente è il mio secondo dono per te.
Conficcare nell’immagine non l’immaginazione soltanto ma le parole e i gesti e i gesti delle parole e poi palpare e palparne gli occhi di sole, con il sole negli occhi, addentando il prossimo quanto il remoto, è il mio ottavo dono per te.
Togliersi una maschera migliore dello stesso volto e togliersi anche il volto migliore della maschera e ripassare di vernice tutti i sogni e i simboli e i segnali, è il mio quarto dono per te.
Superare l’azione e l’immaginazione dell’azione e l’azione dell’immaginazione per divenire contraddizione degli scopi e mezzo di questa contraddizione, nel divenire del suo processo e nel movimento di questo divenire processo è il mio dodicesimo dono per te. Pronunciare: perché? per chi? con che? a che? dove? come? E aspettare i tuoi doni oltre la Soglia e superare cercando e creando un mondo per poterlo pensare e poi farlo perire vivendolo, è il mio settimo dono per te.
Infine abbracciare le stelle dentro e ricostruire attraverso questo abbraccio la mappa del firmamento e distinguere in tanti punti e linee-sfere il visibile e l’enunciabile, ciò che appartiene alle parole e ciò che appartiene alle cose, ciò che non è più discorso, ma non è neppure esperienza, nè identico nè differente, nè continuo, nè discontinuo. Questo abbraccio non è più neppure un dono, ma uno strappare ai mangiatori di doni la stessa possibilità di inventarmi per te e anche amarti come un dono donato da te.
E’ VIETATO CALPESTARE LE AIUOLE E STRAPPARE I FIORI [San Vittore, marzo 1981]
C’erano vapori allucinogeni nell’aria ed era difficile distinguere il luogo e il tempo dai molti altri paralleli e intersecati. Dimensioni diverse si attorcigliavano fra loro inestricabilmente sino a confondere i sensi.
I sensi impiastricciati, impasticcati, avviticchiati, moltiplicati e divisi, incredibilmente “diversi”.
Nic Niven si chiamò dentro di sé, raccolse i sette spiriti astrali e li ingoiò. Si aggrappò tenacemente alla realtà, intrigandosi con essa; appoggiò le mani sulla terra e ritrovò se stessa.
Lei non aveva paura di perdere l’amore di Oberon, questo, ne era certa, non era in alcun modo possibile. Avevano in comune un regno segreto che apparteneva a loro, creato da loro, era indecifrabile. Ma temeva la malattia dell’anima di Oberon che insieme li avrebbe corrosi.
Separò a forza parte del cervello per trovare la sua interiorità. Con il coltello obbligò i sensi a ricomporsi; obbligò a separare i numeri esterni per sentire solo le voci; il naso le separò dal fumo e non odorò che assenzio; gli occhi si voltarono in dietro e guardò il suo cervello; offese il tatto perché si ritraesse in buon ordine; riempì la bocca di saliva e deglutì a lungo e non sentì più sapore. Scrigno chiuso in sè dentro uno scrigno, blindato, e si trovò lucida e attenta.
Ti regalo lo scrigno, abbine cura e abbi cura di te.
IL SOGNO E LO SPAZIO [carcere di Palmi]
C’era una volta, miliardi e milioni di anni fa, il sogno di un uomo e di una donna, di un bambino e una bambina, di un fratello e una sorella, di un compagno e una compagna.
Questo sogno era un narciso che sbocciava solo a primavera.
Questo sogno era sognato insieme, era vissuto insieme, era un sogno di spazi e di viole, un sogno di prati e di primavere, un sogno in cui non occorreva che si battesse il tempo per poterlo scorrere.
Questo sogno aveva la proprietà degli spazi infiniti e simultanei in un tempo zero. Ogni mattina il loro sogno spariva e spariva con il sogno la dimensione dell’insieme in cui il sogno era vissuto.
Il Tempo ingoiava il sogno e non lasciava più lo spazio di sognare, il Tempo divorava lo spazio e non lasciava più il sogno dei loro spazi vissuti insieme.
Gli spazi come i sogni sparivano al mattino lasciando sulle loro labbra brividi di salvia e la misura della quantità del tempo che li separava.
Restavano i narcisi, i narcisi bianchi con sfumature sul viola, i narcisi dai profumi dolci e simpatici, i narcisi sinceri, buoni, che esprimevano la loro amicizia, il loro amore. I narcisi racchiudevano i loro ricordi e le loro discussioni, tutte le loro sensazioni, tutte quelle carezze e quei baci e quegli incontri che non sarebbero mai potuti appassire come quei fiori.
I loro volti assomigliavano a quei fiori, come i narcisi erano ugualmente profumati, colorati, distribuivano e sprizzavano meraviglie e meravigliosità.
(Si racconta, inoltre, che solo chi è insensibile alla grandezza di questo fiore è portato ad essere sensibile nell’amore).
I fiori di narciso racchiudevano in uno stesso spazio i loro sogni, perché nei sogni non solo non si muore, ma gli amori si fanno cristallo e superano ogni limite e confine.
Ogni mattina, quando quel sogno veniva loro rubato, i loro capelli si drizzavano e da ricciolini che erano diventavano simili a degli spaghettini.
Avevano fatto una scommessa su se stessi, con se stessi, battere il tempo, dovevano impedire di farsi trascorrere da lui.
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E liberarono il loro desiderio di loro, liberarono il loro gesti e le loro parole, quelle parole che non fanno in tempo a fermarsi perchè i gesti sono più veloci.
Si innamorarono del loro amore perché su di questo il tempo non aveva potere, non aveva dominio e il narciso li raccolse nel sogno e dal sogno per portarli lontano da tutto ciò che non erano prati e fiori di primavera.
Nel corpo del fiore era possibile proiettarsi oltre e anche di là. Qui la matematica e la geometria dell’ignoto funzionavano pienamente.
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Sparirono percorrendo le poliedriche possibilità delle pieghe e degli angoli, proteggendosi dalla tenebra e dalla luce. Come saranno ora i loro capelli?
Giuliano Naria, operaio genovese, era un militante delle Brigate Rosse. Accusato dell’azione che porta alla morte di Coco, passa diversi anni nelle carceri speciali (kampi) di Fossombrone, Cuneo, Asinara… Gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute vengono concessi a Giuliano solo nell’estate del 1985. L’anno dopo viene assolto dall’accusa di avere ucciso Coco e la sua scorta. Negli anni successivi viene assolto anche dalle altre accuse, ma il suo fisico è ormai gravemente debilitato. Nel 1995 gli viene diagnosticato un tumore e muore nel 1997. Ha scontato 9 anni e 16 giorni per poi essere dichiarato innocente.
Le sue favole sono un percorso dolce e colorato di evasione. Le sue favole hanno la capacità di svicolare, di scivolare dalle mani dei carcerieri, di volare libere.
Ulrike Meinhof a Renate Riemeck
UNA MADRE DI SCHIAVI SUPPLICA LA FIGLIA
“Urike, tu sei diversa dalla foto segnaletica, una figlia di schiavi – tu stessa una schiava.
Come puoi essere capace di sparare al tuo oppressore?
Non lasciarti sedurre da chi non vuol esser più schiavo. Non puoi proteggerlo.
Voglio che resti una schiava – come me, io e te – abbiamo visto come i padroni hanno sgominato la rivolta degli schiavi, prima ancora che cominciasse.”
“O piccola, tu hai meritato qualcosa di meglio. Pensa che saresti potuta diventare.
Di sicuro saresti diventata una sorvegliante carceraria.
Non vedi quant’è forte il potere? Tutti gli schivi, gli ubbidiscono.
Persino coloro che si sono rivoltati e hanno vinto, metteranno ai piedi del potere la loro vittoria,
affinché possano essere ancora schiavi.
Gli schiavi odiano chi vuole essere libero. Non dovrebbero nemmeno aiutarti,
in modo che tu capisca una volta per tutte che la tua ribellione non ha senso.
Il tuo coraggio è spietato, perché ci costringe a svelare la nostra vigliaccheria.
Se preferisci morire poiuttosto che essere per sempre una schiava,
allora non hai comunque il diritto di toglierci la quiete.”
Ritrovata in un cestino dei rifiuti a Berlino,nel ’71, insieme ad alcuni documenti e munizioni.

Abbiate il coraggio di combattere, abbiate il coraggio di vincere!
Disintegrate e frantumate le forze dell’imperialismo!
L’obbligo di ogni rivoluzionario è di fare la rivoluzione!”Ulrike Meinhof, 31 maggio ’72, Aula IV dell’Università di Francoforte
Su Ulrike Meinhof, LEGGI QUI
Leggi la commissione di inchiesta sul suo assassinio QUI
Crollavano le dighe
“Sentì le vibrazioni del corpo di Felipe, che rispondevano alla sua intenzione di scandalizzarlo. La teneva talmente stretta che quasi le faceva male. Lavinia si chiese che cosa succedeva con la donna sposata, con le lezioni serali all’università. Respirava a fatica. Con le labbra poteva toccare i bottoni della camicia di lui a metà petto. Il ballo stava diventando una cosa seria, pensò. Crollavano le dighe. Si rompevano i freni. I battiti del cuore acceleravano.
Il respiro di Felipe, caldo, sul collo. La musica che li muoveva, nell’oscurità.
La stringeva a sè con la forza con cui un naufrago abbraccerebbe una tavola di salvataggio in mezzo all’oceano. […]
Entrarono in casa al buio. Tutto successe con grande rapidità. Le mani di Felipe salivano e scendevano lungo la sua schiena, scivolando verso tutti i confini del suo corpo, e si moltiplicavano, vive, esplorandola, aprendosi la strada attraverso l’ostacolo dei vestiti. Lei, ancora cosciente, rispose nella penombra, mentre una parte del suo cervello cercava di assimilare ciò che stava accadendo senza riuscirci, offuscata dalle sensazioni della pelle che le suscitavano un’ondata di fremiti.
Lavinia smise di pensare. Sprofondò nel petto di Felipe, si abbandonò con lui alla marea di calore che emanava dal suo ventre, sommersa dalle onde che si sovrapponevano, ostriche, molluschi, palme, paesaggi sotterranei che cedevano al movimento del corpo di Felipe, quello di lei che si piegava ad arco, si tendeva, e i suoni inarticolati, giaguari, fino al picco dell’onda, all’arco che lanciava frecce, al convulso chiudersi e dischiudersi dei fiori. Si parlarono appena tra un attacco e un altro.
Si alzò alle risate di Lavinia, che decise finalmente di approfittarne, di liberarsi dal bisogno smodato di quella passione esplosa così irresistibilmente in una sola notte estenuante che le aveva tolto il senso della realtà e pensò che, allo spuntare del giorno, Lucrecia li avrebbe trovati, tutti e due morti per un attacco cardiaco.
Oggi è venuto un uomo. E’ entrato assieme alla donna. Sembravano prigionieri di filtri d’amore. Si sono amati ardentemente come se si fossero trattenuti per molto tempo. E’ stato come riviverlo. Vivere un’altra volta il fuoco di Yarince che mi penetra nel ricordo, nei rami, nelle foglie, nella tenera polpa delle arance. Si sono misurati come guerrieri prima del combattimento. Dopo, tra loro, non c’è stata che la pelle, quella di lei moltiplicava mani per abbracciare il corpo dell’uomo steso sul suo; il suo ventre si apriva come volesse attrarlo dentro di sè, annidarlo, farlo nuotare nel suo interno per tornare a darlo alla luce.
Si sono amati come ci amavamo Yarince ed io quando lui tornava da lunghe esplorazioni di molte lune. Una volta e un’altra ancora fino a esaurirsi, stesi, quieti su quella morbida stuoia. Lui emana forti vibrazioni. Lo circonda un alone di cose occulte. E’ alto e bianco come li spagnoli. Ora so, senza dubbio, che nè lei nè lui lo sono. Mi chiedo che razza sarà questa, mescolanza di invasori e indigeni nahua.
So soltanto che si amano come animali sani, senza vestiti nè inibizioni. Così amava la gente prima che lo strano dio degli spagnoli proibisse i piaceri dell’amore.
Lo salutò sulla porta. Rimase a guardarlo mentre si allontanava camminando velocemente, finchè divenne piccolo per la distanza. Ritornò in camera. Rimasta sola, si guardò allo specchio. Aveva il volto di una donna ben amata. Sapeva di lui. Fosse stato per lei non si sarebbe lavata, sarebbe rimasta con il suo odore per tutto il giorno. Le piaceva l’odore di seme. Di sesso. Ma andò sotto la doccia, per togliersi di dosso il languore , la voglia di tornare a letto.”
GIOCONDA BELLI “La donna abitata”
Foto di Henri Cartier Bresson, New York 1951
la nave pirata!
PAUL Deve essere un nascondiglio.
Infila un dito nella fessura, la scorre e alza il lembo della moquette. Appare il coperchio di una scatola di legno della grandezza di un mattone
PAUL La famiglia! Magnifica istituzione morale, santa famiglia, inviolabile creazione divina, chiamata a educare i selvaggi alla virtù! Ripeti con me: Sacra famiglia , sacrario di tutti i valori… dove bambini innocenti sono torturati fino a quando non hanno detto la prima bugia…Dove la volontà è infrancata dall’autoritarismo e dalla repressione…dove la coscienza è uccisa da ciechi egoismi.
Famiglia, tu sei il covo di tutti i vizi sociali.
JEANNE Basta!
Paul la trascina per i capelli fino al taglio della moquette, poi la rivolta di colpo.
PAUL Vuoi che questo potente e luminoso guerriero costruisca una fortezza dove tu possa rifugiarti, per
non avere mai più paura, per non sentirti sola, per non sentirti esclusa. E’ questo che cerchi, vero?
JEANNE Si.
PAUL Non lo troverai mai!
JEANNE Io l’ho già trovato quest’uomo.
PAUL Bhè, non passerà molto che si costruirà lui una fortezza per te, fatta con le tue tette, con la tua
vagina, con il tuo odore, con il tuo sorriso. Una fortezza dove lui si sentirà al sicuro e così stupidamente virile che vorrà la tua riconoscenza sull’altare del suo cazzo.
JEANNE Ma l’ho trovato quest’uomo, sei tu!

Ultimo Tango a Parigi
VIENI CON ME, SULLA NAVE PIRATA!
sei la mia patria
Mi sento felice.
Non ci sto capendo nulla del mio presente.
Se non che son felice, si, proprio felice.
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro
—Nazim Hikmet, Poesie dal carcere—
Fermarsi soltanto alla felicità
-Il problema del capitalismo è che sul muro spruzzato dal sangue di milioni di rivoluzionari fucilati, sul muro finale, ci sarà sempre scritta la promessa di Saint Just:
“LA RIVOLUZIONE DEVE FERMARSI SOLTANTO ALLA FELICITA'”-
Tratto da “La danza immobile”, Manuel Scorza
“ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”.
Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.
E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
DANTE ALIGHIERI -III CANTO INFERNO- “Gli ignavi”
Dante tornerà spesso tra le righe di questo blog perché è una passione irrinunciabile,
é la perfezione che da secoli scalda la nostra terra… quando lo leggo mi vergogno un po’ meno
di essere italiana, quando lo leggo mi sento meno sola.
Quando leggo gli Ignavi, tratti dal terzo canto dell’Inferno, sento di non aver sbagliato.
Deprivazione tattile
“Sottratto al sociale, il corpo del recluso non ha modo di ricevere e cercare stimoli sensoriali. E, fra tutte le privazioni, quella della tattilità è forse la più grave e devastante. Così devastante che un bambino ne può anche morire.
Quando sul finire dell’800 la puericultura americana introdusse il “lettino con le sbarre”, soppiantando la tradizione della culla, cominciarono a verificarsi morti inspiegabili di bambini perfettamente sani. L’evento è passato alla storia come “morte da lettino” o “sindrome mortale infantile subitanea”. L’esperienza umana insegna che il cullamento è un moto di accarezzamento dell’intero corpo in ogni sua funzione.Una condizione essenziale di benessere che viene preclusa al “bambino fra le sbarre”.
Come la deprivazione tattile può far morire, così il toccamento può far rinascere.Il con-tatto umano è infatti una possibile cura in caso di coma irreversibile o per creature con lesioni cerebrali e handicap psicomotori. E’ il caso di quel centinaio di volontari che, a turno, andavano a casa di una bambina perchè potesse avere 24 su 24 l’unica medicina in grado di farla star meglio: il contatto umano: l’incontro e il toccamento di persone di ogni sesso, età, professione, cultura, che l’aiutavano negli esercizi di riabilitazione. La stimolazione è taumaturgica. L’assenza di tatto, invece, è dolorosa.
Tolgo dalle braccia -sotto pelle- frammenti di posate di plastica: le sole che si possono usare. Punte spezzate di forchette di plastica. Bastano piccoli taglietti e questi frammenti entrano sottopelle. Da quegli stessi taglietti, spingendo, tiro fuori le punte di forchette. Non c’è sangue, non c’è una goccia di sangue! Più ne tiro fuori e più, toccando, ne sento! Con un senso di fastidio, ma pazientemente, sto lì a tirar fuori questa plastica. Mi sveglio con un senso di angoscia. Quanta materia inerte ho assorbito in tutti questi anni attraverso i pori della pelle?
Penso al ferro, al cemento, alla plastica che tocco. Ed ai segni devitalizzati che mi invadono.E poi non c’è sangue! Senza che me ne accorgessi la morte mi è entrata dentro impossessandosi del sangue. Scrivo o racconto il sogno a chi posso , per lanciare un allarme. Bisogna avvisare, far presto, prima che l’inerte ci invada totalmente!”
tratto da “IL BOSCO DI BISTORCO”. Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino. Edizioni Sensibili alle Foglie
Questo blog, inevitabilmente, parlerà spesso di reclusione, di privazione, di isolamento.
Si parlerà del carcere, dei meccanismi punitivi, di tortura fisica e psicologica, di ospedali psichiatrici giudiziari, di centri di detenzione temporanea per migranti…dei reietti. Di quelli che per lo stato devono marcire da reietti
Del diritto alla libertà, di quanto si può imparare dagli occhi di chi si è visto togliere tutto.
Col vento di questa sera non posso non pensare a chi è chiuso in una cella..con questo fischiare libero del vento, con questo piacere della pelle nel farsi attraversare da tanta forza.
CONTRO OGNI CARCERE, CONTRO OGNI GALERA.
GIORNO DOPO GIORNO!
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