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Posts Tagged ‘Karl Marx’

“il marxismo è fuori della realtà”! Ce lo conferma quello che parla di paradiso e inferno

23 marzo 2012 5 commenti

Il marxismo è “fuori dalla realtà”!
Punto.
Voi tutti e tutte prendetelo per buono, perché lo dice papa Ratzinger in viaggio verso Cuba. Tutto vestito di bianco, intento ad insegnarci la parola di Dio e a dirci che quel cattivone del diavoletto ci brucerà nel fuoco eterno anche solo per una masturbatina veloce.
Figuriamoci io che fine farò: donna,madre non sposata e anche madre pronta ad interrompere una gravidanza con un aborto terapeutico per una malformazione genetica.
A me il diavoletto mi torturerà per l’eternità e me lo merito pure secondo quell’uomo vestito di bianco con le scarpette Prada rosse rosse.

Ma è il marxismo a star fuori dalla realtà: Dio e famiglia stanno con i piedi per terra invece!!

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Marx e una lezione sui “cosiddetti eccessi” popolari

4 novembre 2011 2 commenti

“Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione”.
Karl Marx, 1850
.  Indirizzo al Comitato Centrale della lega dei Comunisti
Grazie a Contromaelstrom

Tienanmen 1989, socialismo di mercato contro comunismo

8 giugno 2009 Lascia un commento

Un uomo solo, camicia bianca su calzoni neri, ripreso di spalle. Dritto, fragile e possente, armato di niente, niente di concreto ma molto di più, come transumano si erige contro una colonna di carrarmati. Non sappiamo chi sia, come la pensi e cosa voglia.

Rispetto all’essenziale, questo è relativamente un dettaglio – la scena lo trascende. Un esemplare di specie umana, specie di esseri parlanti e perciostesso “pericolosa”. Nel fondo del fondo comune, di specie, potremmo dire proletari. Un uomo, astratto-eguale e al contempo singolare, unico, è il segno forte di chissà quante migliaia. Uno, centomila, nessuno. Lui può essere tutto, e tutt’altro. Questo, nella nostra percezione indelebile, viene dopo, specificazione ulteriore. oreste_scalzone
Un carrarmato è cosa complicatissima. Si può adattare ad esso la definizione marxiana della merce, plesso di relazioni invisibili eppur materialmente costituenti il suo ontos. Carrarmato ha un fondo eguale ad altro, ogni altro carrarmato, come merce con ogni altra, in ultima analisi. Implica, traduce, incarna reca in sé – condizione d’esistenza, essere, qualità, natura e funzione – una complessità enorme di relazioni, traduce rapporto sociale, un’intera sistemica. Abbiamo visto che innanzitutto è una merce. Come un flacone di penicillina che può salvare. Cambia il valore d’uso, ma sul piano del Valore, ovverossia valore-di-scambio, questa è la primordiale qualità. In quanto merce, sottende, implica denaro, accumulazione, lavoro, mercato del lavoro (della forza-lavoro), estrazione di plusvalore, profitto.
Eppoi, un carrarmato ha altri caratteri essenziali sul piano di altre economie politiche. È mezzo di distruzione, di riproduzione allargata di essa. È dispositivo e funzione dello Stato. Un padrone, uno statista, un colonialista, un monarca, un tiranno, un gerarca, un rappresentante, un “democratòcrate”, sono tutti compatibili con la forma-carrarmato.
Un comunista, nel senso etimologico del termine, coniato e/o ripescato all’altezza dei tempi del diluvio rivoluzionario – come diceva Marx – dilagato in Europa attorno al 1848, un comunista, nel senso che questa parola aveva nell’Associazione internazionale dei lavoratori, quella che i suoi becchini avevano poi etichettato come Prima internazionale; un comunista, nel senso che il termine aveva all’epoca della Comune di Parigi, «la forma finalmente scoperta che mostra come il proletariato non possa che liberarsi da sé» cioè un comunardo, un comun’autonomo (autonomia e comunanza essendo consustanziali (…)
La forma-carrarmato è intrinsecamente statale. E comunismo statale è perfetta contraddizione in termini, come comunismo capitalistico, padronale, nazionale, ideologico, governante, governativo, politico, identitario – cioè proprietario -, razzistico, moralista, penale. Comunismo critico è agli antipodi di comunismo cratico.
A meno del verificarsi di una situazione per cui un’insurrezione si trovasse ad aver requisito carrarmati per rivolgerli contro le forze armate dell’oppressione, come i cannoni presi dalla Guardia repubblicana all’Armée nei giorni della Comune, i carrarmati, come gli aerei o le portaerei… non possono essere – come non può mai esserlo un Libertador, soggetto individuale o corporazione, casta, gerarchia che pretende autonomizzarti in tuo nome e per tuo conto – un mezzo, una forma, un’arma liberatrice.
Se la semantica non fosse stata violentata, se i fatti e le cose, la loro interpretazione, la loro costruzione, non fossero stati distorti da malinteso e concatenamenti di vere e proprie alienazioni, contraffatti, resi mutanti mutageni mostruosi, questo non potrebbe che essere il nòcciolo primordiale, semplice e chiaro.
Si discute tanto di mezzi e fini, di violenza, di terrorismo. Non avremo mai abbastanza disprezzo – stavolta sì – per tutti quegli ipocriti o, peggio, sfrontati che mostrano di considerare mostruosa una sassaiola, impensabile ogni rivolta e qualsivoglia spunto di violenza se non come, addirittura, provocazione, frutto di manipolazione, mossa da marionettisti e pupari, ma ritengono più che compatibile comunismo e violenza statale.
Un tank è un tank. Non può esserci un carrarmato “Compagno”. Se questo accade, se una colonna di carrarmati – contro uno solo o contro una folla di operai scioperanti in tumulto, come a Berlino ’53, come a Budapest ’56, come a Tienanmen nell’’89 – si avanza inalberando la bandiera rossa, lo stesso colore di quella de la Sociale che, accanto a quelle nere degli anarchici – nere come i grembiuli dei tessitori Canuts delle rivolte degli anni ’30 dell’Ottocento alla Croix rousse di Lione – è stata un vessillo degli insorti comunardi, vuol dire che è avvenuta una sorta di catastrofica e mostruosa mutazione di ogni parametro e termine della questione. Che il termine comunismo è stato sottoposto ad una serie di stupri semantici a catena.CHP_KarlMarx
Se una vertigine identitaria, cioè la peggior forma della patrimonialità, della proprietarietà, fa pensare a tanti rivoltosi, a tanti antagonisti, che il colore e i simboli facciano la differenza e contino più della natura, della natura dei rapporti sociali, inter-umani che fatti e cose rivelano, questo è segno che c’è qualcosa di profondamente insensato e malato sotto tutto questo, che dura da più di un secolo, e che rischia di esser mortale.
Ha scritto su queste colonne Piero Sansonetti che «noi sessantottini avevamo fatto della Cina un’icona, e avevamo visto nel maoismo non un’orrenda variante dello stalinismo e del comunismo di Stato oppressivo, ma al contrario una forma di rinnovamento del cupo socialismo sovietico, un modo per restituire potere al popolo il potere espropriato dalla nomenclatura di partito […] Avevamo visto nel maoismo, e nella Cina, una forma libertaria di comunismo. I carrarmati di Deng hanno sotterrato definitivamente questa speranza».
Vorrei segnalare a Piero alcune obiezioni cominciando col dire che il Sessantotto non è certo stato tutto dominato dall’ideologia maoista o da altre varianti consimili di un’idea comunque statalista, post-giacobina e lassalliana più che, certo non solo anarchica, ma anche marxiana. Dovrei ricordare tutta una cartografia dei comunismi “altri”, che non sono piccole élites, ma – per esempio negli anni ‘20 – hanno condotto una durissima guerra su due fronti della controrivoluzione, quello statal-padronale diretto, classico, e quello del socialismo reale staliniano, conseguenza estrema di quello che qualcuno ha chiamato il “kautsko-bolscevismo”.
Si può dire piuttosto che i Viet-cong, sì, sono stati un mito sessantottesco largamente condiviso. Ma, chi avrebbe potuto aver una pre-scienza, allora, per capire come sarebbe andata a finire? Non conoscevamo le pagine straordinarie dell’operaio rivoluzionario Ngo Van, Vietnam 1920-45, rivoluzione e contro-rivoluzione sotto la dominazione coloniale.
Mi limito dunque a dire che, per tanti come me, il comunismo non ha una data e luogo di nascita per questo non può avere un certificato di morte. Comunismo non è un’invenzione, o un regime da instaurare. Come istanza, come figura della potenza nel senso spinoziano, cioè dell’etica, esso è sempre vissuto nelle pieghe del reale, venendo a tratti allo scoperto. Vale quello che vale per la facoltà della parola, l’amore, la rivolta. Forse che possono avere una territorializzazione, una forma di Stato, un luogo e certificazione di nascita e dunque di morte? Quello che è morto (e voglio dire: sempre troppo tardi!) è una radicale contraffazione – derivante da malinteso, da omologia – del comunismo come movimento, movimento della critica radicale, teorico/pratica. Nel mio piccolo, vorrei ricordare il poster che nell’89 – dopo la caduta del Muro e prima di Tienanmen – chiedemmo a Mario Schifano di illustrare (e lo fece, con una bellissima faccia di Marx che era confusa con la cartografia di un globo terracqueo). Lo slogan stampigliato sopra era: «Marx 1989, finalmente libero!». Certo che la previsione era sognante e quella riapertura che ci sembrava di intravedere e speravamo non si è prodotta. Ma come arrivare a dire che la partita sia chiusa? Non è forse idea da «fine della Storia» alla Fukujama? Il comunismo non l’ha inventato nessuno, è una virtualità, che c’è, come la potenza di vita. Non è un articolo di fede, una giaculatoria. Ma forse il comunismo potrà riemergere solo quando, e se il suo “doppio” mostruosamente contraffatto avrà finito di esser dimenticato per sempre.

di Oreste Scalzone

LAVORO SALARIATO

26 gennaio 2009 2 commenti

Il lavoro  è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.

Il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. 

1224238615496_so7Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto . Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.

Il lavoro non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro  al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro  non è merce sua. Ilservo della gleba vende soltanto una parte del suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra.

L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera

____KARL MARX____

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