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Le file all’alba per andare a lavoro: sfruttamento ai tempi del Covid
Il video pubblicato ieri da Fanpage racconta una Roma diversa da quella che conoscevamo fino a qualche mese fa, e sicuramente ancora diversa da quella che realmente vivremo tra qualche settimana, quando ricominceremo tutti a lavorare con le distanze di sicurezza, necessarie ancora per mesi.
Ingressi contingentati nelle metropolitane: quando lo leggevamo chiusi dentro le nostre case già avevamo una vaga idea di quello che sarebbe stato, vista la condizione drammatica in cui si trova il trasporto pubblico cittadino; ed ora eccoci qui.
Con file silenziose nel buio dell’alba delle periferie davanti ai capolinea della linea della metropolitana, di centinaia di lavoratori, di sfruttati, di subalterni, di precari, che ora per recarsi a lavorare devono anche subire tutto ciò, come fosse normale: alzarsi molto prima che sorga il sole e attendere il proprio turno per chissà quanto, solo per dare inizio alla lunga giornata lavorativa che li aspetta.
Perché sono centinaia di migliaia le persone che non possono permettersi un’alternativa al mezzo pubblico, perché Roma è Roma e le distanze da coprire sono immense e con loro i costi. Perché le persone che sono lì in fila, con silenziosa rabbia, sono facchini, badanti, addetti alle pulizie, i tanti che mandano avanti anche gli ospedali pubblici di cui tanto si riempiono la bocca.
Gli ultimi, i paria, gli esclusi.
E se fosse questo il momento giusto per ricostruire un movimento di lotta, di massa, capace di sognare nuovamente l’abbattimento del capitalismo, di ridettare i tempi, i ritmi, di strappare una ridistribuzione equa e necessaria dei beni, delle risorse, delle terre? Se fosse questo il momento per sovvertire l’ordine, per pretendere una vita altra, condizioni altre, futuro altro,
per crescere una generazione che sia in grado di sognarlo come fecero ormai quasi mezzo secolo fa? Se fosse il Coronavirus e la forzata detenzione del pianeta, il controllo totale ormai interiorizzato, il capitalismo della sorveglianza a farci capire che è giunto il momento di dire basta??
Le responsabilità delle briciole di Dacca

Tra le macerie di Dacca, il marchio Benetton

“Il Gruppo Benetton intende chiarire che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori“: una prima mezza ammissione.
Stiamo solo parlando della morte di “almeno” 381 operai: nell’articolo di Marco Quarantelli, uscito sul Fatto Quotidiano (e che potete leggere qui) c’è una lunga lista di aziende italiane che hanno molto a che fare con lo sbriciolamento di un palazzo di otto piano, in Bangladesh, posto di lavoro di centinaia di persone.
Ovviamente c’è la gara di smentite e mani di padroni che provano a lavarsi il sangue da dosso:
“Riguardo alle tragiche notizie che provengono dal Bangladesh Benetton Group si trova costretta a precisare che (…) i laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”. (24 aprile 2013)
Karoshi: lavoro e suicidio in Giappone. (Mejo i Maya)
Arrivare a lavoro,
con la fretta di chi comunque sceglie il 4° ritardo del mese pur di bere un caffè come si deve e non quello della macchinetta automatica, dal sapore unico dal tasto 11 al 36, con o senza zucchero che sia.
Arrivi a lavoro, inserisci 5 password diverse in altrettanti programmi che oltretutto si impallano, vanno a rilento, hanno la rotella che gira gira gira,
poi guardi tutti gli altri in sala e dagli sguardi potresti far la mappatura degli orari; quello che ha attaccato alle 6, quello che fa la settimana dall’orario lungo ma con ben 2 OH DICO DUE giorni di riposo attaccati.
Insomma, arrivi a lavoro e ti accorgi che il solo Dio in cui puoi credere si chiama NON lavoro, e gira abbracciato e un po’ brillo alla LIBERTA’.
Insomma, entri qui e il “non mi avrete mai come volete voi” si tatua nel tono di voce, nel buongiorno, si scioglie nel caffè fasullo che tanto prima o poi nell’arco del turno andrai a bere.
Ma entrare a lavoro e, di nascosto ovviamente, leggere quest’articolo sul Giappone, ti apre proprio un mondo.
Mamma mia oh! Per solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici giapponesi oggi non produco proprio un cazzo per l’azienda. No, no.
Morire di Lavoro in Giappone
Di recente sono stato a Bruxelles e in ostello ho incontrato dei giapponesi in vacanza. Quando ho sentito Sayaka—la mia nuova amica giapponese—rispondere sommessamente a telefono alle 4 di mattina e scivolare fuori dal suo letto per dirigersi nella sala computer, al piano inferiore, mi sono incuriosito. Era una talpa che teneva sotto controllo gli ospiti per conto dei proprietari? Forse contattava i suoi genitori a tarda notte perché non si sentiva a suo agio usando internet alla luce del giorno?
Niente di tutto questo. Come poi ho scoperto, quella era l’unica vacanza che Sayaka si fosse presa in tutto l’anno, e le puntatine mattiniere alla sala computer servivano a finire un lavoro “urgente” per il suo capo—in poche parole, un modo abbastanza schifoso di trascorrere le vacanze. Ma di sicuro è meglio delle 16 ore al giorno di lavoro che l’attendono al rientro a casa.
La situazione di Sayaka non è rara; nelle principali città del Giappone, un’enorme quantità di persone ha un rapporto distruttivo con il lavoro, e molti decidono di condannarsi a una morte prematura. Questo fenomeno sociale ha un suo termine preciso, karoshi. Non si tratta dello sfruttamento lavorativo in fabbrica o di incidenti nei cantieri. Il termine indica esattamente le morti dei lavoratori di grandi aziende, per lo più dovute a ictus, infarti o suicidi dopo aver lavorato oltre il limite.
Quest’anno, il suicidio della 26enne Mina Mori è stato riconosciuto come karoshi dopo che un’indagine aveva svelato che la ragazza faceva 140 ore di straordinario ogni mese presso un ristorante della popolare catena Watami. I dipendenti di numerose aziende sono tenuti ad adottare una cultura del lavoro che sta distruggendo le loro vite.
Il fenomeno del karoshi è stato identificato alla fine degli anni Sessanta, quando un ragazzo occupato nel reparto spedizioni del principale quotidiano giapponese morì di ictus (fatto un po’ insolito, per un 29enne), e la gente comprese che l’esagerazione dell’orario di lavoro poteva avere effetti negativi sull’organismo. Incredibilmente, la notizia sorprese tutti. Da allora, i casi di karoshi si sono trasformati in implacabili battaglie tra i membri della famiglia del defunto, decisi a dimostrare che la causa della morte è il troppo lavoro, e la società datrice di lavoro, che fa del suo meglio per mettere a tacere la cosa.
Gli interinali costituiscono circa un terzo della forza lavoro giapponese, il che significa meno paga e quasi nessun diritto, anche dopo anni di lavoro nella stessa azienda. L’impiego fisso è una reliquia del passato ormai sepolta. Jake Adelstein ha trascorso 12 anni in Giappone come primo giornalista non-giapponese del quotidiano Yomiuri Shinbun, lavorando faticosamente per giorni e notti, interrotte da pochissime ore di sonno.

Aokigahara, la foresta dei suicidi
Come mi ha detto, “Una delle cose che contribuisce alle pessime condizioni all’interno delle aziende giapponesi è la forte presenza di agenzie di lavoro interinale. Se qualcuno sta all’interno dell’azienda per più di cinque anni si suppone sia destinato a un posto fisso, ma nella realtà accade che raggiunto quel traguardo, il dipendente viene licenziato. Questa promessa di lavoro a tempo indeterminato o di lavoro vero viene sventolata davanti ai suoi occhi, e poi strappatagli in un colpo, come un tappeto da sotto i piedi”.
Dato che la gente ha bisogno di nutrirsi e pagare l’affitto, il contesto di precarietà è diventato la norma, con aziende particolarmente inclini allo sfruttamento—conosciute con il nome di “Aziende Nere”—capaci di condurre i propri dipendenti alla rovina a forza di farli lavorare. Nel timore costante di essere sostituiti da un momento all’altro, i lavoratori hanno sviluppato la capacità di assecondare i superiori, facendo straordinari folli non retribuiti e persino contraffacendo l’ammontare di ore di lavoro registrate per tenere l’azienda fuori dai guai. È stato Jake a spiegarmi la situazione, aggiungendo:
“Al lavoro avevamo due registri. Su uno inserivamo le ore effettivamente svolte, mentre l’altro seguiva gli standard. Parte del nostro dovere come lavoratori notturni era organizzare l’orario di lavoro di tutti. Si poteva lavorare per una settimana intera senza giorno libero, e alla fine, invece di segnare tutte le ore, si annotavano semplicemente quelle dovute, aggiungendo giorni di vacanza per il resto.”
“C’è tutta una tradizione che prevede il non registrarsi durante gli straordinari e di lavorare senza paga extra. Dipende molto dai costumi tradizionali—c’è ancora l’idea che gli anziani abbiano la precedenza. In molti casi, lasciare l’ufficio prima di una persona più anziana è tuttora considerato scortese o sconveniente.”

Un hotel a capsule, per chi non riesce a passare la notte a casa.
Ovviamente tutto questo lavoro lascia poco tempo per le altre cose di cui la gente ha bisogno per non trasformarsi in disperate bombe umane pronte a esplodere al minimo rumore. Mi riferisco a cose come socializzare, passare del tempo con la famiglia e dormire più di due ore a notte. Gli hotel a capsule esistono semplicemente perché un’enorme quantità di gente sostiene che abbia più senso dormire in bare imbottite, impilate l’una sopra l’altra, piuttosto che prendere il treno per casa dopo aver lavorato sino alle prime ore del mattino.
Jake mi ha spiegato: “Il problema è il circolo vizioso in cui si entra: vivi in periferia, il tragitto è lungo, ti sposti su un treno affollato e arrivi in ufficio già stanco perché sei stato in piedi tutto il tragitto. Poi lavori sino alle 23:00 o le 00:00, vai a casa con lo stesso treno affollato, e non puoi stare sveglio né rilassarti perché il giorno dopo devi lavorare. Sopporti una continua privazione del sonno, e vai avanti per inerzia.”
“Una delle ragioni per cui il Giappone ha un tasso di natalità e matrimoni così basso è che, se la gente passa tutto il tempo in ufficio, finisce per non avere una vita privata. Come si fa a coltivare i rapporti? Come si fa a incontrare qualcuno, uscirci e avere una storia? Finisce che la tua vita ruota intorno al lavoro. Il tuo lavoro è la tua vita, questo è tutto ciò che sei”.
“Se non sei sottoposto a un ritmo di lavoro intenso, schiavo dell’alba e vittima della privazione del sonno, con ogni probabilità i colleghi e il capo ti accuseranno di non lavorare abbastanza. Per questo a volte è importante mantenere l’aspetto di un esaurito, dell’emarginato che saresti se facessi il tuo lavoro fino in fondo.”
“Se non hai lavorato per ore, cerchi di apparire come se lo avessi fatto, dai l’impressione di soffrirne molto. Questo aspetto sembra avere più valore di un compito svolto bene. Devi sempre sembrare stanco, anche se non lo sei.”

Un manuale del suicidio.
Il Giappone registra uno dei più alti tassi di suicidio al mondo, fatto che conferma come una grande quantità di giapponesi stia passando un momento estremamente di merda, per molti dovuto principalmente al lavoro. Nel 2009, il numero totale di suicidi è aumentato del due percento, toccando i 32.845 casi, ovvero, sostanzialmente, 26 suicidi ogni 100.000 persone. E nei 2.207 suicidi legati all’impiego del 2007, il motivo più comune era il troppo lavoro. Del resto, quando un Paese nomina un bosco “la Foresta dei Sucidi” e vende ogni anno un alto numero di manuali del suicidio, le statistiche di questo tipo non appaiono poi così scioccanti.
Come mi ha spiegato Jack, il libro in questione descrive situazioni comuni a un gran numero di giapponesi: “È stata un’altra pessima giornata in ufficio, il lavoro si è accumulato e tu sei in ritardo sulle bollette. Non stai dormendo, sei stanco e ti devi alzare alle 06:00 e fare i 90 minuti di strada per arrivare al lavoro. Stai per passare tutta la notte in ufficio per l’ennesima volta—e lo farai più e più volte. Non sarebbe bello andare a dormire e non svegliarsi più? Dormire davvero?” È facile intuire la presa che queste parole hanno sul gran numero di persone le cui vite sono consumate dal lavoro.
Nel parlare con Sayaka, in ostello, non ho potuto fare a meno di notare un barlume di soddisfazione quando ho espresso la mia indignazione per le sue giornate di lavoro di 16 ore. Questo unico barlume conferma solo che la linea di demarcazione tra lo sfruttamento e il rispetto guadagnato con lunghe ore di lavoro sta su una linea estremamente sottile, tra un corpo che rinuncia a te o tu che decidi di rinunciare al tuo corpo. Sayaka è giovane e pare che la questione dei diritti del lavoro stia lentamente migliorando, quindi spero che questo processo guadagni terreno velocemente—altrimenti, il suo ingenuo entusiasmo potrebbe facilmente essere portato sino al limite.
Di Sam Clements
LEGGI:
– Mirafiori e la dialettica del Sanpietrino
– Il lavoro è sfruttamento – Il lavoro salariato, Karl Marx
– Il lavoro giusto per me
– Il lavoro non si festeggia, si abolisce
Punk, capitale,complotti e nausea…
Faticoso ogni volta ribadire come gestisco questo blog,
faticoso tentare di tenere alla larga gli arroganti, violenti, pure sessisti, ignoranti, ridicoli complottisti…faticoso anche comprendere come non abbiano nulla da fare che invadere pensieri e testi altrui, senza mai metterci la faccia,
senza mai pubblicare qualcosa di proprio, ma magari traducendo deliri da siti complottisti statunitensi, come se quello sia la rivoluzione pura, l’anticapitalismo per eccellenza.
E invece mi pare che la bandiera che con tanta arroganza sventolate, rossobruni e sinistrorsi smarriti, è proprio quella del capitalismo,
quella del peggior capitalismo, siete parte integrante del potere, felici di esserlo, partigiani armati del capitalismo, del sopruso patriarcale e “geopolitico”.
Mamma mia che noia, mi son stufata di perder tempo dietro a tutto ciò, è un blog con la nausea, che vorrebbe meno stalker e più confronti,
ma pazienza.
[Leggi: Dalle PussyRiot alla Siria, passando per un coglione]
Vi allego qui sotto l’articolo di Paolo sulle PussyRiot,
un’altra voce da leggere, dopo le tante che hanno parlato.
Per il resto, domani ci sarà la sentenza…se verranno condannate probabilmente tutti questi rivoluzionari da tastiera gioiranno,
si stringeranno al nuovo zar e ai suoi pretazzi,
invocheranno l’ordine e la disciplina.
Fuori la fica dagli altari e dalle chiese: dentro carriarmati, manette e carcerieri…
(qui altro articolo a riguardo: LEGGI)
Ribadisco, ARIAAAAA SCIOOOOO’
PUSSYRIOT: IL FEMMINISMO PUNK E L’ETICA ULTRAORTODOSSA DEL CAPITALISMO RUSSO
di Paolo Persichetti
A poco meno di 48 ore dal verdetto previsto contro le tre artiste-militanti del gruppo punk Pussy Riot, arrestate nel marzo scorso dopo una performance musicale anti-Putin messa in scena con un fulmineo blitz sull’altare della più importante cattedrale di Mosca, cresce l’attenzione internazionale sulla vicenda.
Il processo condotto davanti al tribunale di Mosca è andato avanti per alcune settimane e si è concluso lo scorso 7 agosto con una richiesta di condanna a tre anni di carcere da scontare in un circuito di minima sicurezza. L’accusa: aver commesso, con l’aggravante del gruppo organizzato, atti di vandalismo che avrebbero profondamente offeso i sentimenti religiosi della chiesa cristiano ortodossa.
Le tre ragazze, due delle quali madri di bimbi piccoli, subito dopo l’azione politico-musicale (che filmata e piazzata sul web ha fato il giro del mondo) erano riuscite ad andar via nonostante l’intervento per nulla ecumenico dei responsabili della cattedrale. Nadejda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samoutsevitch, 29, e Maria Alekhina, 24, non erano certo alla loro prima incursione al ritmo di chitarre elettriche e pugni levati. Il collettivo femminista-ecologista aveva moltiplicato negli ultimi tempi le sue azioni anti-Putin. Il gruppo, che conta circa una decina di componenti, rivendica in pieno il carattere politico delle proprie iniziative contro la società patriarcale simbolizzata dal blocco di potere su cui poggia il dominio ininterrotto di Vladimir Putin. Nell’ottobre del 2011 avevano realizzato una serie d’azioni all’interno della metropolitana e sui tetti dei mezzi pubblici di Mosca per denunciare il maschilismo della società russa. A dicembre avevano condotto un’altra performance sul tetto di un edificio situato nelle vicinanze del commissariato nel quale era trattenuto il blogger dissidente Alexeï Navalny. Infine, il 20 gennaio otto di loro avevano intonato sulla piazza Rossa una canzone intitolata «Putin se l’è fatta addosso». Si riferivano alle grosse mobilitazioni dell’opposizione scesa in piazza contro la ricandidatura presidenziale dell’autocrate russo.
La preghiera anti-Putin
Il 21 febbraio scorso cinque componenti del collettivo sono penetrate nella cattedrale moscovita del Cristo salvatore, uno dei luoghi di culto più importanti della chiesa ortodossa, per inscenare sull’altare un Te deum, rivisitato e corretto al ritmo punk, nel quale hanno pregato la Vergine Maria di scacciare il presidente russo da poco rieletto.
Nonostante i cappucci colorati calati sul volto, i collant e i costumi sgargianti, i nomignoli impiegati per preservare l’anonimato, la polizia le ha tratte rapidamente in arresto insieme ad altre appartenenti al gruppo. Le tre donne sono state sottoposte a custodia cautelare in attesa del processo e le ripetute richieste di liberazione avanzate nel fratempo tutte respinte.
Nadejda, Ekaterina e Maria sono figure conosciute nel panorama dell’attivismo militante russo: Nadjeda è impegnata nel movimento Lgbt e fa parte insieme a Ekaterina del collettivo di artisti Voïna, mentre Maria è un’attivista ecologista. I tre anni richiesti dall’accusa sembrano aver scongiurato lo scenario peggiore, ovvero i sette anni di prigione previsti come pena massima per il reato contestato e già erogati in altri processi. Nonostante ciò tre anni di carcere per un’azione simbolica restano una pena molto pesante.
L’etica ultarortodossa del capitalismo iperliberale grande russo
La vicenda ha creato notevole scalpore in Russia suscitando per la prima volta un dibattito importante sui legami tra chiesta e potere politico postsovietico, denunciato proprio nel testo della preghiera punk cantata dentro la cattedrale («Il patriarca Goundiaïev crede in Putin/ sarebbe meglio se credesse in Dio»). Finita l’esperienza sovietica la chiesa ortodossa ha rialzato la testa ed oggi partecipa, insieme agli squali dell’accumulazione originaria che hanno preso il posto degli anziani aparachikni più scaltri sopravvissuti al cambio di sistema sociopolitico, alla grande razzia delle risorse della Russia oltre ad aver riconquistato grande influenza sul potere temporale come ai tempi del regime zarista.
Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino
Se è vero che la stragrande maggioranza della chiesa russa ha reagito indignata, gridando al sacrilegio e alla blasfemia, esigendo per questo una condanna esemplare contro le “tre streghe indemoniate”, è anche vero che dal suo interno altre voci hanno chiamato alla clemenza e al perdono, giudicando la pena richiesta eccessiva rispetto ai fatti commessi, privi di qualsiasi violenza o distruzione. Ciò non ha impedito che le tre ragazze fossero rappresentate in un reportage mandato in onda dalla televisione di Stato come delle streghe che hanno agito con voluta premeditazione contro i sentimenti religiosi al fine di destabilizzare la società. Alludendo, né più né meno, ad una sorta di attentato terrorista al culto.
Il problema è che le Pussy Riot con le loro provocazioni hanno messo a nudo il nervo scoperto della religione di Stato in Russia. In una lettera inviata dalla prigione numero 6, Nadejda Tolokonnikova ha scritto, ispirandosi al messianismo cristiano-pacifista della grande tradizione letteraria russa: «Non siamo delle nuove profete. Ma forse le Pussy-Riot rappresentano un segno dell’imminenza di tempi nuovi». Nel corso delle udienze le imputate hanno spiegato di aver agito con la speranza che la loro azione producesse mutamenti politici, contestando di aver voluto offendere o esprimere odio contro la religione, come invece ha sostenuto l’accusa. Sottolineando di aver voluto solo censurare l’aperto sostegno fornito dal capo della chiesa ortodossa, il Patriarca Kirill, a Putin che prima delle elezioni presidenziali del 4 marzo aveva definito i 12 anni al potere del “piccolo zar” come «un miracolo divino». Per questo motivo il legale della difesa ha chiesto la convocazione del patriarca in aula nella spreanza di spostare il processo sulla questione politica sollevata dalla denuncia delle Pussy Riot, ma il giudice che presiedeva la corte si è opposto. La magistratura non vuole mettere il naso in una questione cosi scottante.
Nelle ultime udienze, le tre imputate avevano denunciato le condizioni inaccettabili che hanno minano il loro diritto di difesa. Tenute per intere giornate senza mangiare e senza bere durante le udienze, una di loro è svenuta.
Di fronte all’ampio eco che la vicenda ha raccolto sulla stampa internazionale, molto spazio è stato dedicato al caso dal Guardian che ha pubblicato anche un’intervista esclusiva alle tre artiste-militanti, il primo ministro russo Medvedev aveva già esortato a non drammatizzare eccessivamente l’affare. Sulla stessa scia è intervenuto da Londra il presidente Putin, preoccupato per l’eccessivo clamore interno e internazionale (molti osservatori stranieri hanno seguito le udienze) di un processo che si voleva all’inizio esemplare. Pur stigmatizzando il comportamento delle ragazze, «anche se non c’è nulla di buono in quello che hanno fatto – ha detto Putin – non devono essere giudicate troppo severamente».
Madonna e Sting, lo showbiz all’inseguimento
Approfittando dei loro tour musicali in Russia sono intervenuti sulla vicenda prima Sting e poi Madonna esprimendo solidarietà e denunciando il trattamento riservato alle tre artiste detenute. Parole che hanno moltiplicato l’eco internazionale del processo e per questo indispettito Dmitri Rogozin, vice premier russo, ex inviato Onu nonchè capo della commissione militare-industriale e inviato presidenziale per la difesa antimissile e l’interazione con la Nato, che ha pensato di liquidare la signora Ciccone con un twit che le dava della «vecchia puttana in procinto di dare lezioni di morale al mondo», per poi rincarare la dose invitandola a sciogliere uno dei grandi dilemmi shakespeariani che da millenni interrogano un bel pezzo di umanità: «togliersi il crocefisso o rimettersi le mutande»? Come a dire che alla fine una delle più grandi questioni affrontate dalla filosofia e dalla teoria politica non si riduce ad altro che “una questione di peli”, come già cantava un blousmen italiano.
“L’ingerenza” – come è stata percepita dai settori più nazionalisti e ultraortodossi russi – ha scatenato momenti d’isteria collettiva con gruppi religiosi che hanno organizzato roghi delle foto della cantante originaria della Ciociaria mentre il consigliere comunale di San Pietroburgo, Vitaly Mironov, invocava una multa per violazione della legge che proibisce le dichiarazioni pubbliche pro gay – che nel frattempo Madonna aveva rilanciato dal palco di un suo concerto.
Ad alcuni non piacciono le Pussy… La sindrome del complotto
Non c’è solo la chiesa ortodossa a detestare le Pussy Riot. Anche in Europa molti hanno storto il naso gridando al complotto contro santa madre Russia, sottolineando come la rilevanza mediatica internazionale raggiunta dalla vicenda faccia parte di una guerra geopolitica giocata con armi “non convenzionali” (conflitto simbolico che, in realtà, raggiunse vette altissime nel decennio 80 del secolo scorso, quando il reaganismo cavalcò dispiegando il massimo di strumentalità il tema dei diritti umani). Insomma sotto non ci sarebbe una contraddizione che traversa l’attuale società russa ma soltanto il solito scontro Est-Ovest (come se la caduta del muro di Berlino non avesse drasticamente cambiato le carte in tavola).
Che a farlo siano i settori tradizionalemente più reazionari, legati a visioni legittimistiche e passatiste proprie della destra più tradizionaista, è un fatto ovvio ma che a riempire le fila dei malpancisti, allineati su posizioni che ricordano le tesi reazionarie di Aleksandr Solženicyn, ci siano anche pezzi di culture provenienti da ciò che resta della sinistra antimperialista è molto meno scontato, anche se la cosa non sorprende più da diverso tempo.
Grecia: la rivoluzione è d’acciaio e zucchero. Lo sciopero delle acciaierie e l’occupazione di una famosa pasticceria
Sarà il più martoriato dei paesi che stanno subendo la crisi economica, l’austerity imposta dai “mercati internazionali” che spezza la normale vita economica di tutti gli strati del paese,
sarà il paese che sta sfiorando il baratro in modo sempre più pericoloso,
ma ogni volta che #stavitademerda mi permette di trovare il tempo di scovare notizie dalla Grecia,
il mio cuore si riempie di gioia.
Di quella gioia fatta di collettività, di sudore e organizzazione, di costruzione di percorsi d’autonomia, fondamentalmente di lotta di classe,
quella che da quest’altra parte del mare (un mare piccolo piccolo che sembra immenso) abbiamo rimosso.
Seppellita sotto tonnellate di riformismo, di sindacalismo colluso,
di complottismo, di giustizialismo, di grettezza politica
di incapacità di canalizzare energie e trovare il coraggio di portare avanti le battaglie come si devono portare avanti:
con il coraggio di chi non ha niente da perdere, e vorrebbe TUTTO da conquistare.
Ma non è aria, qui.
No.
Ma la Grecia sta prendendo la strada giusta: sta cercando di prendersi con la forza quello che con molta più forza è stato strappato via.
E lo fa riallacciando la corrente illegalmente alle famiglie che non possono pagare la tassa di proprietà,
lo fa espropriando supermercati di grandi catene e ridistribuendo il cibo preso nei mercati rionali,
lo fa portando solidarietà ai detenuti,
lo fa portando in piazza 15.000 lavoratori delle accierie staccati da qualunque sindacato sempre e comunque colluso e parte integrante dell’indotto di stato di sfruttamento e tagli.
Il piano di Manesis, capo delle acciaierie, caratterizzato dal terrore imposto dai continui licenziamenti e dalla proposta di lavoro a turnazioni, è stato bloccato dalla
tenacia e dalla forza dei lavoratori, che hanno oltretutto trovato un vero e proprio fiume di persone pronte a portare la loro solidarietà.
I volantini dei lavoratori delle acciaierie parlano chiaro, come quelli di studenti, immigrati, disoccupati:
la chiamata è generale, è ad una lotta di classe contro potere, che sia composta, foraggiata e alimentata da tutte le componenti di sfruttati ed emarginati del paese:
chiama a raccolta studenti, precari, dipendenti pubblici, disoccupati, migranti, clandestini, cittadini e nomadi…
tutti uniti, verso un’organizzazione rivoluzionaria capace di soverchiare il sistema,
così com’è.
Mi si riempie il cuore nel leggere i loro volantini, lo ribadisco emozionata.
• Un’altra notizia “greca” ci arriva da Salonicco, battagliera città, dove i lavoratori di una famosa pasticceria (è una catena con negozi in tutto il paese) “Hatzis”, hanno deciso di occupare il negozio nel quartiere di Kalamaria, dopo che da dicembre combattevano per cercare di ottenere i 5 precedenti mesi di salario, oltre che i bonus economici previsti nella mensilità di dicembre.
Una storia che va avanti da alcuni mesi e che ha dell’irreale visti gli ultimi 5 anni di fatturato della pasticceria e il maldestro tentativo (che sicuramente riuscirà) di puntare al fallimento approfittando della crisi nel paese, per evitare di
pagare i milioni di debiti accumulati con le assicurazioni pubbliche.
Basterebbe fallire, cambiar nome alla società e tutti i debiti, per primi quelli con gli stessi lavoratori, spariranno nel nulla.
Alla luce di ciò negli ultimi mesi i licenziamenti sono stati tanti, rimpiazzati con lavoratori “fantasma”, privi di regolari contratti o con l’obbligo di una precedente firma di “dichiarazione volontaria di licenziamento” che permettono al padrone di non pagare le indennità a chi viene licenziato.
Sono 400 euro al mese per turni fino a 12 ore di lavoro: questo è.
tanto che, come ormai per tradizione in quel paese, il padrone sta iniziando a tremare.
I suoi locali sono bloccati e occupati: al secondo giorno di occupazione la polizia ha fatto irruzione arrestando otto persone, tra cui 4 lavoratori e altri 4 solidali:
la cosa non ha minimamente fermato la mobilitazione.
La lotta continua…alla faccia del padrone, di Manesis e di quelli come loro.
Ad Atene si espropriano i supermercati, nella gioia generale
Sabato 5 novembre 2011, un gruppo di compagni ha effettuato un esproprio in un supermercato di Exarchia che
fa parte della catena Bazar/Fresh Express.
Prodotti di base e cibo sono stati espropriati e poi distribuiti alle persone che si trovavano al mercato all’aperto di Via Kallidromiou.
La folla ha accolto con entusiasmo i carrelli della spesa pieni e ha prontamente accettato i prodotti con apprezzamento e complimenti per
l’azione.
Le loro ricchezze sono il nostro sangue.
Espropriare Capitale ovunque.
I Compagni
Da Oakland: are you a pacifist? e da che parte stai??
ABOLIAMOLE: presentazione del libro ABOLIAMO LE PRIGIONI? di Angela Davis al Volturnoccupato
“Aboliamo le prigioni?” sarà presentato domenica a Roma al Volturnoccupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell’ambito di una “giornata sulla prigionia femminile” organizzata da Scarceranda e Ora d’aria
di Vincenzo Guagliardo, Liberazione 6 Marzo 2009
Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E’ rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi “maestri”, il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson,
da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l’abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , minimum fax, 270 pagine, euro 14,50).
Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà».
I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all’invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a Guantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della “democrazia”, cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, “il cancro” della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? E come ignorare che l’esportazione della “democrazia” americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… “di brutto”?
Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell’abolizione»). Ma immagino che l’intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d’intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria…
Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l’attualità delle tesi abolizioniste dell’autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un’attualità tutt’ora virtuale, s’intende…
LAVORO SALARIATO
Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.
Il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita.
Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto . Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.
Il lavoro non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro non è merce sua. Ilservo della gleba vende soltanto una parte del suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra.
L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera
____KARL MARX____
NON SPARATE SUI NOSTRI SOGNI
Se io non brucio
Se tu non bruci
Se noi non bruciamo
Come dal buio nascera’ la luce?
(Nazim Hikmet “Come Kerem”)
Non sparate sui nostri sogni
Lettera degli amici di Alexis
Siamo i vostri figli! I noti sconosciuti!
Vogliamo un mondo migliore!
Aiutateci. Non siamo terroristi, “incappucciati”, “i soliti ignoti”.
Sogniamo, non uccidete i nostri sogni.

REUTERS/John Kolesidis
Aiutateci. Non siamo terroristi, “incappucciati”, “i soliti ignoti”.
Sogniamo, non uccidete i nostri sogni.

REUTERS/John Kolesidis
Abbiamo l’entusiasmo, non uccidete il nostro entusiamo. Ricordatevi!
Siete stati giovani anche voi.
Adesso inseguite il denaro, vi interessate solo delle “vetrine”, siete ingrassati, avete perso i capelli, avete dimenticato!
Aspettavamo il vostro sostegno
Aspettavamo il vostro interesse per farci sentire orgogliosi di voi.
Invano!
Vivete una vita falsa, avete chinato la testa, vi siete piegati e aspettate il giorno in cui morirete.
Non immaginate, non vi innamorate, non create.
Solo vendete e comprate.
Cose e oggetti dappertutto.
Amore da nessuna parte, verità da nessuna parte.
Dove sono i genitori?
i ragazzi
Ps: non tirateci altri lacrimogeni, stiamo già piangendo
Uno scritto del ’77, per ricordare Marco Melotti
Riappropriazione, contrattazione, sabotaggio
… a me sembra che dunque si tratta di sviluppare al massimo la lotta per i bisogni di classe, intendendo ciò, come affermazione di insubordinazione cosciente dello sviluppo capitalistico. Avere la capacità di garantire una buona sopravvivenza e far saltare l’assetto del comando capitalistico al di fuori degli schemi produttivi della borghesia, ma al tempo stesso sviluppare al massimo la battaglia politica interna al movimento, perché i comportamenti sociali conflittuali non si riducano ad una pura e semplice lotta per la sopravvivenza in quanto tale, che non vive ne si proietta all’interno di un progetto di organizzazione rivoluzionaria.

Funerali di Mario Lupo
Continuare dunque a scegliere la pratica degli obiettivi estesa, di massa o d’avanguardia, purché inserita nel progetto, in ogni caso autodifesa ai livelli necessari, perché questo è il terreno privilegiato dello sviluppo della coscienza proletaria. Anche se ciò non può esaurire quella che è la metodologia e lo stile di lavoro dell’Autonomia Operaia organizzata.
Quando i padroni puntano apertamente, fra l’altro, ad una operazione su vasta scala di disarticolazione e scorporo della produzione, chiaro è il pericolo costituito dal radicarsi in settori sociali naturalmente antagonisti di una accettazione della marginalizzazione come condizione produttiva di vita. D’altra parte l’allargamento della sfera dei bisogni è un’istanza classica delle società capitalisticamente mature, riconducibile all’interno di processi di ristrutturazione che non può essere contrabbandata invece come comportamento conflittuale.
Abbiamo detto che la riappropriazione e la pratica degli obiettivi costituisce il momento trainante e qualificante delle scelte metodologiche dell’autonomia, ma abbiamo detto anche che nella fase attuale il metodo di intervento non esclude altre forme per la realizzazione del programma che da una parte comprendono la contrattazione stessa e dall’altra il sabotaggio, mentre il metodo costante dell’autonomia operaia si qualifica come ratifica, riappropriazione dei bisogni, autodecisione.
La contrattazione in quanto metodo proprio delle organizzazioni storiche del Movimento Operaio (metodo di per se gradualistico e riduttivo della capacità di lotta del proletariato), può assumere una sua validità solo se usato compatibilmente con una presenza diffusa dell’autonomia operaia e quindi come rafforzamento della sua egemonia nei confronti del revisionismo.
Dicembre 77
La legge e la forza. Proposta di dibattito…
Con piacere pubblico l’articolo di Bifo uscito oggi sulla prima pagina di Liberazione. Come già mi è capitato di scrivere sul mio blog non ho una perfetta sintonia con lui, ma anche questa volta è stato in grado di lasciarci, dopo poche righe, con dei buonissimi punti di partenza. Ha la grande capacità di saper centrare il problema, di non girare intorno alle cose. Quindi l’attacco totale in questo articolo è contro questo bisogno irrefrenabile di legalismo che ha ormai impregnato qualunque movimento, opinione o idea anche solo vagante per l’aria. Un’opposizione ad un governo autoritario e pericoloso fatta solo di richiesta di legalità, foraggiata da personaggi poco interessanti come i Grillo, i Travaglio, i Nanni Moretti…sempre pronti a non far altro che chiedere giustizia e legalità. Come sola battaglia di “civile democrazia”.
Un buon punto di partenza per parlarne un po’ …
Il danno del Berlusconismo? L’antiberlusconismo
di Franco Berardi Bifo, Liberazione 29 novembre 2008
In un articolo uscito sull’ Herald Tribune il 3 Novembre 2008, Thomas Friedman scriveva: «Dovremo tutti pagare perché il collasso avviene nel contesto di quello che può essere considerato forse il più grande trasferimento di ricchezza dalla rivoluzione bolscevica del ’17. Non è un trasferimento di ricchezza dai ricchi ai poveri, ma un trasferimento di ricchezza dal futuro al presente. Mai nessuna generazione ha speso tanto della ricchezza dei suoi figli in un periodo di tempo così breve. L’America ha imposto alle generazioni future un immenso peso per finanziare i tagli delle tasse, le guerre e i salvataggi delle banche. Inoltre l’amministrazione Bush ci lascia in eredità un altro debito, quello con madre natura. Abbiamo aggiunto all’atmosfera sempre più CO2 senza nessuno sforzo di riduzione».
Il futuro non c’è più: è stato speso, ipotecato, devastato dal capitalismo neoliberista. E adesso?
Nelle scuole e nelle università italiane è esploso un movimento che grida: “Questa crisi noi non la paghiamo”. Non pagheremo il debito che avete accumulato. Non rinunceremo all’istruzione, al piacere della vita, ai servizi sociali solo perché una classe di accaparratori irresponsabili ha distrutto tutto prima che noi arrivassimo al mondo.
Quello slogan è il segno della tempestività di questo movimento, della sua intelligenza. Ma più che uno slogan è un problema. Come si fa a non pagare questo debito? Il problema di adesso è proprio quello di una nuova dimensione dell’esistere collettivo, capace di rovesciare il dispositivo della crescita capitalista, di imporre una redistribuzione del reddito e di conquistare una riduzione del tempo di lavoro. Il vero nemico degli studenti non è il decreto Gelmini, puro e semplice atto di cieca devastazione. E’ la Carta di Bologna del 1999, che sancì l’impegno dei paesi europei a subordinare i sistemi scolastici alle esigenze dell’economia d’impresa, e che avviò il processo di frammentazione dei saperi, e di precarizzazione della figura studentesca.La mobilitazione contro la legge Gelmini ha avuto una funzione importantissima, perché ha interpretato un sentimento diffuso tra la maggioranza degli studenti e degli insegnanti. Ma ha anche creato una situazione complicata, perché questo governo non ha un’opposizione parlamentare, gode di una maggioranza schiacciante, e controlla mediaticamente l’opinione. Di conseguenza non si può batterlo sul piano legislativo.
Non è stato certo sbagliato andare allo scontro con la legge Gelmini, ma se vogliamo che l’esito della scontro non si risolva in una sconfitta dobbiamo ragionare sul lungo periodo, dobbiamo liberarci di alcuni limiti culturali che sono iscritti nelle forme stesse della soggettività contemporanea. Le grandi mobilitazioni producono effetti significativi quando filtrano nel tessuto della vita quotidiana, altrimenti svaniscono come la nebbia. E perché questa onda filtri nei circuiti della vita quotidiana occorre fare i conti con una fragilità che finora nessuno ha avuto il coraggio di mettere in questione: quella fragilità si chiama legalismo.
Uno dei peggiori effetti che il berlusconismo ha prodotto nella cultura politica italiana (e nella formazione della generazione che è cresciuta sotto Berlusconi) è proprio l’antiberlusconismo.
Non mi si fraintenda. Quello instaurato da Berlusconi è per me un regime di totalitarismo mediatico forse ancor più deleterio per la democrazia di quanto fu il fascismo mussoliniano. Non sono di quelli che consigliano di “non demonizzare Berlusconi”. Berlusconi è il demonio, se demonio significa ignoranza, truffa, immiserimento, paura, razzismo arroganza.
Ma l’antiberlusconismo corrente (rappresentato da persone come Grillo, Di Pietro, Travaglio o Moretti) è solo marginalmente una riflessione sull’effetto che i media hanno prodotto sull’immaginario e sulle forme di vita. Essenzialmente è una riflessione su legalità e illegalità.
Sembra che tutti i mali derivino dal fatto che al governo ci sta una classe politica che viola la legge.
Semplificazione del tutto fuorviante, ma come non capirla? Se al governo ci sta (come ci sta) un ceto politico di sistematici predatori e di violatori professionali delle leggi, è comprensibile che gran parte della società finisca per attribuire la miseria, la disoccupazione, la crisi della scuola pubblica e tutto il resto all’illegalità.
Basterebbe allora che tutti rispettassero la legge? Credo proprio di no. La legge non è altro che la sanzione formale di un rapporto di forze. E’ legale sfruttare la gente. E’ legale costringerla a fare straordinario. E’ legale uccidere sul lavoro. E’ legale costringere la gente a subire una vita precaria.
E’ legale fin quando i principi su cui si scrive la legge sono quelli della competizione e della crescita illimitata.
La legge non è che la sanzione di un rapporto di forza, e anche quando la legge è rispettosa dei bisogni della società (come in molti suoi punti è la Costituzione della Repubblica Italiana) se non esiste la forza per imporne il rispetto, la legge è scritta sull’acqua.
Solo la forza può restituire alla società autonomia dal dominio del profitto. Solo la forza può dare ai lavoratori e agli studenti la possibilità di difendere la loro dignità e i loro diritti.
Ma la forza cos’è? La forza sta nell’unità delle diverse componenti del lavoro sfruttato, sta nella ricomposizione del mosaico infinitamente complesso della vita di chi produce valore. La forza sta nella capacità di vivere in condizione di indipendenza, sta nella capacità di non subire le idee e le immagini e le paure di chi ha il potere.
La forza sembra oggi sfuggirci perché la precarietà ha sgretolato i rapporti fra le diverse sezioni del lavoro sociale. E questa frammentazione la ritroviamo anche nei movimenti. In questo movimento c’è una gelosia dell’identità, una paura della contaminazione, un riflesso di chiusura e di settorialità che, prevalendo, preparerebbero la sconfitta. Dobbiamo allora curarli, dobbiamo allora superarli questo legalitarismo e questo identitarismo, che sono fattori di fragilità del movimento. Occorre curarli, occorre superarli, se vogliamo che il movimento conquisti il lungo periodo fino a divenire senso comune e forma della vita quotidiana.
Una grande opportunità che non sfrutteremo.
Di solito non amo molto quello che scrive. Ogni tanto quando lo leggo mi incazzo proprio,
ma di quelle incazzature belle, fondamentalmente sane.
Quest’articolo di prima pagina, uscito oggi su Liberazione, però mi piace abbastanza, mi piacerebbe parlarne, mi fa venir voglia di discutere di molte cose. Anche di criticarlo, perchè non credo molto in alcune categorie che più volte vengono fuori nel suo articolo e non solo in questo.
Non credo molto nella categoria Occidente cosi come lui la mette, malgrado i miei studi arabisti mi portino a volte ad appropriarmene. Non ci credo in quanto comunista, in quanto materialista…preferisco rapportarmi con le classi, tutt’altro genere di categoria (scusate il vizio, ma non ci passa).
Ma molte cose del suo articolo sono condivisibili, anche se forse sottolineano poca conoscenza effettiva di quello che lui mai nomina, cioè l’ “Oriente”.
Ma ci sarebbe troppo da scrivere a riguardo, quindi per ora vi lascio leggere l’articolo,
sottolineando che ha ragione, molta ragione, quando dice che è ” un’enorme, imprevedibile ed imprevista opportunità”, che visto come siamo ridotti anche noi, non sapremo sfruttare.
Chi lo farà, probabilmente, sarà peggio di loro. Sarà peggio di oggi.
L’OCCIDENTE ALLA CATASTROFE FORSE è UN MALE FORSE è UN BENE
_____Franco Berardi Bifo, da Liberazione del 8 ottobre 2008_____
Il crollo del sistema finanziario internazionale è l’inizio di un processo di trasformazione profonda e catastrofica delle società di tutto il mondo. Gli effetti di questo collasso sono ormai prevedibili. Avendo succhiato tutte le risorse disponibili per salvare le banche, senza peraltro riuscire a salvarle, il potere politico americano ha fatto una scelta: mandare nell’abisso l’economia reale.
Cosa vuol dire infatti il colossale intervento del Tesoro? Vuol dire ipotecare le risorse di tutti. Ogni americano pagherà duemila dollari per salvare Wall Street, non ci sarà più credito disponibile e non ci saranno soldi per gli investimenti. La disoccupazione in America è aumentata di centosessantamila unità nel mese di settembre. E’ facile immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi. La crisi finanziaria, d’altronde, non va vista come un fenomeno isolato. Essa è in stretto collegamento con un’altra catastrofe, quella geopolitica, quella militare.
Dal 1492 l’Occidente ha potuto disporre delle risorse del pianeta perché disponeva di una forza militare schiacciante. Puntando la pistola alla tempia dell’umanità, gli occidentali hanno potuto appropriarsi delle risorse di tutti gli altri. Ma con la disfatta in Iraq e in Afghanistan, con il ritorno aggressivo della potenza russa, l’egemonia militare è finita. La pistola puntata alla tempia ora appare scarica (anche se purtroppo non lo è). Sta accadendo una cosa nuova: i popoli della terra ora sanno che l’Occidente non ha più nessuna egemonia militare, dunque chiedono di ridistribuire quelle risorse di cui l’Occidente si è appropriato. La restituzione del debito che l’Occidente ha accumulato non solo negli ultimi trenta o quarant’anni, ma negli ultimi cinquecento anni.
Questa è la posta in gioco, questo è l’orizzonte nel quale ci muoviamo. Il 20% della popolazione terrestre che si appropria dell’80% delle risorse della terra è forse pronto a restituire il maltolto? Purtroppo non è pronto, anzi non vuole nemmeno riconoscere l’entità del problema, almeno fino ad oggi. E questo vorrà dire guerra, razzismo, violenza. E’ bene saperlo.
Ma questo vorrà dire anche la fine dell’Occidente. Non del capitalismo badate bene, ma la fine dell’Occidente, del mondo come lo conosciamo da Cristoforo Colombo in poi.
C’è qui un’opportunità per gli eredi del movimento egualitario e libertario, c’è qui un’opportunità per i movimenti di autonomia della società?
C’è un’opportunità gigantesca, a mio parere, anche se ora è difficile da cogliere.
Il capitalismo non è una cosa, non è un ammasso di cose. Ce l’ha spiegato Marx. Marx ha detto: il capitale è un rapporto, non una cosa. Io, se me lo permettete, che pure sono piccolo piccolo, vorrei correggere, su questo punto, Marx. Il capitale non è una cosa, ma non è nemmeno un rapporto.
Il capitalismo è l’introiezione di un rapporto. Solo quando gli uomini e le donne introiettano il rapporto tra lavoro e salario, tra valorizzazione e dominio, tra bisogno e merce, solo quando gli uomini e le donne credono che lo sfruttamento sia naturale, il capitalismo li può dominare.
Se gli umani capiscono che ci sono altri modi di organizzare la loro attività e il loro scambio, il loro rapporto con la natura e con le risorse, se capiscono che ci sono modi meno faticosi e meno violenti, allora forse vivere senza dominio capitalista diviene possibile.
Oggi noi attraversiamo una catastrofe. Catastrofe non è una brutta parola, una parola che porta disgrazia. E’ un concetto dal senso preciso. In greco significa spostamento che permette di vedere una prospettiva che non si vedeva prima.
Kata significa giù, sotto, ma anche oltre, al di là. E strofein significa spostare.
La catastrofe finanziaria e geopolitica non è di per sé una liberazione. Al contrario, di per sé moltiplica il pericolo, di per sé aumenta la paura.
Ma se ci sono uomini e donne intelligenti, creativi, coraggiosi e soprattutto liberi dall’eredità del passato, come noi siamo o almeno dovremmo essere, allora vedi che si presenta una enorme (imprevedibile ed imprevista) opportunità. L’opportunità è quella di cavalcare la (inevitabile) disfatta dell’Occidente, che ormai è in corso, che ormai è inarrestabile, in un nuovo atteggiamento mentale, in una nuova concezione vissuta della ricchezza.
La ricchezza non è la massa di cose di cui disponiamo, la ricchezza è il modo in cui viviamo il tempo, è il rapporto di solidarietà che sappiamo avere tra noi. Come i gigli nei campi e come gli uccelli nel cielo anche noi umani possiamo vivere di poco, di molto poco. Dovremo imparare a vivere del poco indispensabile, perché altrimenti finiremo tutti malissimo. Non sarà facile impararlo e ancor più difficile sarà insegnarlo a tutti gli occidentali. Ma impareranno, con le buone o con le cattive.
Noi vediamo oggi, grazie alla catastrofe, che il capitalismo non è eterno e non è naturale, che l’economia della crescita non è la migliore organizzazione della vita sociale. Quel che dobbiamo fare è comunicarlo. Senza ansia, senza rabbia, senza arroganza.
Molte cose scompariranno nei prossimi mesi, molti moriranno di fame e molti di violenza e di guerra. E’ bene saperlo, è bene prepararsi. E’ bene preparare quelli che ci stanno intorno. Ma nulla di ciò che sta sulla terra è eterno, neppure le nostre vite, i nostri giornali, i nostri partiti. La sola cosa che non deve estinguersi è la capacità di capire. Comprendere, comprendere, e trasformare.
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