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Piazza Fontana, 40 anni dopo
Uno pensa a certe cose e riflette sul “da quando sono nata che…”
e invece no, era molto prima. Molto prima, non tantissimo, scoppiavano le bombe nelle piazze, scoppiavano le bombe sui treni, scoppiavano le bombe nelle banche, pochi giorni prima di Natale.
La prima fu proprio lei, dentro la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, precisamente 40 anni fa, tra qualche ora.
E allora penso al processo mentale di bambina, di giovane adolescente e di giovane donna poi che ho fatto per arrivare a capire quelle parole che mia madre mi ripeteva come fossero intoccabili: QUELLA ERA UNA BOMBA DI STATO, L’HANNO MESSA I FASCISTI, L’HANNO PAGATA I PADRONI.
?
Erano realmente intoccabili.
Cavolo: il percorso di comprensione della cosa è stato rapido. Dentro la mia testa rapidissimo, nella mia coscienza di comunista, di rivoluzionaria, di libertaria è entrato riga dopo riga, parola dopo parola, in un viaggio di conoscenza che m’ha portato a capire dove sono nata, dove stavo crescendo!
Il paese nato dalla Resistenza e dalla retorica incessante su di essa, che poi ha creato le leggi speciali, le carceri speciali, le strategie per eliminare qualunque diritto o rivendicazione proveniente dalla classe operaia, dal proletariato, dal meridione, dalle donne, dagli studenti. Quel paese faceva morire per strada, per lo scoppio di una bomba, e poi invocava carcere a vita per chi lottava, pochi anni dopo.
Crescevo in un paese che non ha mai voluto dire una verità che noi compagni abbiamo sempre saputo: la contro-inchiesta partita immediatamente dopo ha portato alla luce molto, già a caldo, sul libro “La Strage di Stato”..
ma la verità s’è vista cadere dalla finestra della questura di Milano appena tre giorni dopo.
La verità è stata chiara: s’è sfracellata come corpo morto al suolo.
Non mi va, in quest’anniversario di pubblicare materiali, di ribattere e scannerizzare testi o volantini, manifesti o tazebao.
Brucia ancora, come quel giorno, dentro di me: la rabbia e la consapevolezza di chi sono i colpevoli, di chi sono i mandanti e di chi siamo noi.
Napoli: sgomberi al Materdei
Posto il comunicato dei compagni di Napoli, sgomberati ieri dal quartiere Materdei.
Contemporaneamente è stata sgomberata Casa Pound, nello stesso quartiere
Napoli: Sgomberata la Ex-Schipa occupata!
Questa mattina all’alba, con 9 blindati e la celere in assetto antisommossa, è stata sgomberata la Ex-Schipa occupata di via Salvator Rosa. 40 persone, tra attivisti e nuclei familiari che li vivevano, sono state sorprese nella notte e sono uscite dopo una trattativa di 30 minuti. Ciò malgrado sono state deportate in questura dove sono state denunciate per “invasione e occupazione di edificio”. In questo momento, mentre gli occupanti escono dalla questura dopo le identificazioni, attesi da un presidio di altri compagni, stanno murando l’ingresso della Skipa e con esso i nostri sogni, il nostro lavoro, la ludoteca che partiva martedi (qualcuno lo spiegherà ai bambini!), la sala cineforum dove già si erano fatte le proiezioni in questi giorni ecc.
Abbiamo saputo che contemporaneamente è stata sgomberata Casapound a Materdei. 4 i fascisti che sono stati fermati. Delle due l’una: o hanno concordato lo sgombero o l’esiguità delle presenze rivela chi con l’occupazione rispondeva a un bisogno sociale e chi invece ne faceva una speculazione politica di estrema destra. Gli Schifone, i Taglialatela, i Santoro, rappresentanti istituzionali di una destra che quando le fa comodo sostiene di fare abiura del fascismo, dovrebbero spiegarci se l’appoggio e il sostegno concreto e continuo a un’organizzazione che per statuto si propone di “innovare e rinverdire l’eredità del fascismo” è semplicemente nostalgia per il loro passato di “camerati” o altro…
Noi non accettiamo in nessun modo questa equiparazione tra chi fa parte di una tradizione di esperienze e di autogestione a scopo sociale (che comprende non solo i centri sociali, ma gli occupanti casa, i movimenti dei disoccupati, perfino esperienze religiose ecc) e un gruppo sparuto di persone che punta a insediarsi a Napoli in strutture pubbliche per riprodurre le pratiche neofasciste, xenofobe e razziste di cui si sono resi protagonisti in tutta Italia! Con modalità squadriste e agguati che già abbiamo imparato a conoscere… Oggi il comune di Napoli e le altre istituzioni citttadine hanno compiuto un grave errore di pavidità culturale e politica. Una responsabilità anche per il futuro. Crediamo che la città debba schierarsi su questo, perchè ne va del grado di civiltà stessa della vita sociale.
Rete napoletana contro il neofascismo, il razzismo e il sessismo
7 APRILE 1979: processo all’Autonomia
7 aprile 1979.
Stampa e tv danno notizia della maxi-retata che da poche ore ha portato in galera il presunto vertice delle Brigate Rosse. Gli arresti, avvenuti su tutto il territorio nazionale, sono stati ordinati dal sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero.
Quasi tutti gli accusati sono intellettuali: docenti universitari, scrittori, giornalisti e leaders dei diversi movimenti post-’68. Tra i più noti vi sono: Antonio “Toni” Negri, docente di Dottrina dello Stato all’università di Padova, indicato come capo e ispiratore di tutta la galassia sovversiva italiana; Nanni Balestrini (latitante), poeta e scrittore, già nel Gruppo 63 e poi autore del romanzo-culto “Vogliamo tutto”; Franco Piperno (latitante), docente di fisica all’università di Cosenza; Oreste Scalzone, insieme a Piperno leader storico del ‘68 romano; Luciano Ferrari Bravo, Guido Bianchini,
Sandro Serafini e Alisa del Re, tutti assistenti di Negri all’università di Padova; Giuseppe “Pino” Nicotri, giornalista del “Mattino” di Padova, di “Repubblica” e de “L’Espresso” (in passato si è occupato della controinformazione su Piazza Fontana, e le sue scoperte sugli spostamenti di Franco Freda sono state preziose per le indagini di Calogero); Emilio Vesce, redattore delle riviste “Rosso” e “Controinformazione. L’elenco prosegue con diversi militanti dell’Autonomia Operaia ed ex-membri del gruppo Potere Operaio, scioltosi nel 1973. Secondo gli inquirenti, Potere Operaio non si sarebbe sciolto, piuttosto sarebbe divenuto un’organizzazione clandestina, una vera e propria “cupola” della sovversione. Inoltre, malgrado l’evidenza di insanabili contrasti teorici e politici, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono ritenute la stessa cosa, o meglio: la “illegalità di massa” propugnata dalla prima non sarebbe che il mare magnum in cui sguazza l’avanguardia clandestina rappresentata dalle seconde. Per alcuni degli arrestati vale solo la seconda parte del mandato, cioè l’accusa di associazione sovversiva. Al contrario, su Negri e alcuni altri sta per rovesciarsi una valanga di fantasiosi mandati di cattura per gli episodi più diversi. Nei giorni successivi il processo si estende ai redattori della rivista romana “Metropoli”, su cui scrivevano anche Scalzone e Piperno. I nuovi inquisiti sono Libero Maesano, Lucio Castellano e Paolo Virno. Anche loro apparterrebbero in blocco all’organizzazione eversiva “costituita in più bande armate variamente denominate”, per il semplice motivo di… aver scritto su “Metropoli”. Pleonasmi a non finire. Davvero curiosa questa “guerra civile” combattuta a colpi di saggi, editoriali, recensioni… e anche fumetti: su “Metropoli” è comparsa una drammatizzazione a fumetti del caso Moro. Secondo gli inquirenti, alcune vignette contengono l’esatta riproduzione della “prigione del popolo” in cui era rinchiuso Moro. Poi si verrà a sapere che l’autore si è ispirato a un fotoromanzo di “Grand Hotel”. Ormai sappiamo tutti che Toni Negri non era il capo delle Brigate Rosse, né il telefonista dei rapitori di Moro, né l’assassino di Carlo Saronio. Eppure un giudice, su basi così palesemente assurde, imbastì nel 1979 il processo simbolo del periodo dell’ “emergenza”, rimasto noto come “il caso 7 aprile”. Vi furono coinvolti prima una ventina di imputati, quasi tutti docenti e ricercatori della facoltà di Scienze Politiche di Padova, poi divenuti oltre un centinaio. Molti furono incarcerati, altri costretti all’esilio, uno (“Pedro”) perse la vita, ucciso dalle forze dell’ordine mentre era armato di un semplice ombrello. Inutile dire che gli assassini di Pedro rimasero impuniti, e che il magistrato che gestì il processo ha tranquillamente fatto carriera.
L’impianto dell’inchiesta crollò solo grazie alle confessioni di Patrizio Peci, che dimostrarono come Negri, Piperno, Scalzone e gli altri del 7 aprile, con le Brigate Rosse, non avessero nulla a che spartire. Il teorema Calogero è rimasta la più impressionante montatura mediatico-giudiziaria dell’Italia repubblicana.
A trent’anni da quel giorno, martedì 7 aprile 2009 Filorosso organizza un’iniziativa dal titolo “Una storia da ricordare” con alcuni dei protagonisti, loro malgrado di quella vicenda: Franco Piperno, Oreste Scalzone (in collegamento da Parigi) e Francesco Febbraio, che in quel periodo era studente e attivista politico all’Università di Padova.
La discussione si terrà alle ore 17:30 presso il Capannone del Filorosso nell’edificio Polifunzionale dell’Unical di Cosenza. L’iniziativa è rivolta agli studenti universitari che nel ’79 non erano ancora nati e che avranno l’occasione di ascoltare una pagina di storia raccontata dalla voce viva di chi l’ha vissuta sulla sua pelle.
QUI UN BRANO DI FORTINI SUL 7 APRILE
39 ANNI DALLA STRAGE DI STATO
Venerdì 12 dicembre 1969
Le bombe scoppiano venerdì 12 dicembre tra le ore 16,37 e le 17,24 a Milano e a Roma. l,a strage è a Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana affollata come tutti i venerdì, giorno di mercato. I’attentatore ha deposto la borsa di similpelle nera che contiene la cassetta metallica dell’esplosivo sotto il tavolo al centro dell’atrio dove si svolgono le contrattazioni. I morti sono dieci, molti dei novanta feriti hanno gli arti amputati dalle schegge. L’esplosione ferma gli orologi di piazza Fontana sulle 16.37: poco dopo in un’altra banca distante poche centinaia di metri. in piazza della Scala, un impiegato trova una borsa nera e la consegna alla direzione. E’ la seconda bomba milanese, quella della Banca Commerciale Italiana. Non è esplosa forse perché il “timer” del congegno d’innesco non ha funzionato. Ma viene fatta esplodere in tutta fretta alle 21,30 di quella stessa sera dagli artificieri della polizia che l’hanno prima sotterrata nel cortile interno della banca.
E’ una decisione inspiegabile: distruggendo questa bomba così precipitosamente si sono distrutti preziosissimi indizi, forse addirittura la firma degli attentatori.(3) In mano alla polizia rimangono solo la borsa di similpelle nera uguale a quella di piazza Fontana, il “timer” di fabbricazione tedesca Diehl Junghans, e la certezza che la cassetta metallica contenente l’esplosivo è anch’essa simile a quella usata per la prima bomba. Il perito balistico Teonesto Cerri è sicuro che ci si trova davanti all’operazione di un dinamitardo esperto.
Le bombe di Roma sono tre. La prima esplode alle 16,45 in un corridoio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti tra gli impiegati, uno gravemente. Ma anche questa poteva essere una strage. Alle 17,16 scoppia un ordigno sulla seconda terrazza dell’Altare della Patria, dalla parte di via dei Fori Imperiali. Otto minuti dopo la terza esplosione, ancora sulla seconda terrazza ma dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli. Frammenti di cornicione, cadendo, feriscono due passanti. Ma questi due ultimi ordigni sono molto più rudimentali e meno potenti degli altri.
La reazione del Paese è di sdegno per gli attentati, di dolore per le vittime. Ma non si assiste a nessun fenomeno di isteria collettiva. La strage non ha sbocco politico immediato a livello di massa, e soprattutto non contro la sinistra, anche se immediatamente dopo la bomba di piazza Fontana le indagini e le relative dichiarazioni ufficiali puntano solo in questa direzione nella ricerca dei colpevoli.(4)
Italia ’69: un attentato ogni 3 giorni
Le bombe del 12 dicembre sconvolgono e sorprendono, soprattutto per la loro ferocia, ma sarebbe inesatto dire che giungono inattese. Rappresentano il momento culminante di una escalation di fatti noti e ignoti che avvengono durante l’intero 1969 e che fanno parte di un preciso disegno politico. Alcuni di essi riconsiderati oggi nella loro sinistra successione acquistano un significato molto chiaro.
Le bombe del 12 dicembre scoppiano in un Paese dove, a partire dal 3 gennaio 1969, ci sono stati 145 attentati: dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è per difetto
Novantasei di questi attentati sono di riconosciuta marca fascista, o per il loro obiettivo (sezioni del PCI e del PSIUP, monumenti partigiani, gruppi extraparlamentari di sinistra, movimento studentesco, sinagoghe. ecc.) o perché gli autori sono stati identificati. Gli altri sono di origine ufficialmente incerta (come la serie degli attentati ai treni dell’8-9 agosto), oppure vengono addebitati a gruppi della sinistra estrema o agli anarchici (come le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla stazione centrale di Milano). In realtà ci vuole poco a scoprire che la lunga mano che li promuove è sempre la stessa, e cioè una mano che pone diligentemente in atto i presupposti necessari alla “strategia della tensione” che sta maturando a più alto livello politico.
Si tirano le somme della “strategia della tensione”
Cosa significhi in concreto questa “strategia della tensione” lo dice questo secondo elenco di fatti. anch’essi noti, che accadono in Italia nei quaranta giorni che precedono la strage del 12 dicembre. Ai primi di novembre la F.N.C.R.S.I., Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana – fascista “di sinistra” – distribuisce a Roma un volantino in cui si invitano i paracadutisti e gli ex-combattenti a “non farsi strumentalizzare per un colpo di stato reazionario”.
Il 10 novembre, in un discorso a Roma, il presidente del partito socialdemocratico Mario Tanassi rilancia con forza un tema molto caro al PSU: “O il centrosinistra pulito o lo scioglimento delle Camere”, con conseguenti elezioni anticipate. Cinque giorni dopo a Monza il colonnello comandante del distretto militare afferma pubblicamente, alla presenza del procuratore della Repubblica: “Stante l’attuale situazione di disordine nelle fabbriche e nelle scuole, l’esercito ha il compito di difendere le frontiere interne del Paese: l’esercito èl’unico baluardo ormai contro il disordine e l’anarchia”.
Nel corso dello sciopero generale nazionale per la casa del 19 novembre, la polizia attacca i lavoratori in via Larga a Milano e un agente, Antonio Annarumma rimane ucciso in uno scontro tra due automezzi della stessa polizia. (5) Si diffonde la versione dell’assassinio, e non solo da parte di uomini politici e giornali di destra. Lo stesso presidente della Repubblica, in un telegramma trasmesso ripetutamente alla radio e alla televisione per tutta la giornata del 19 e del 20 novembre, oltre ad anticipare una sentenza di “barbaro assassinio”, afferma: “Questo odioso crimine deve ammonire tutti ad isolare. e mettere in condizione di non nuocere, i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita. e deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini, la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”.
Il giudizio di Saragat piace molto al segretario nazionale del MSI, Giorgio Almirante, il quale gli fa eco sul Secolo d’ltalia: “L’assassinio dell’agente di P.S. a Milano ci indurrebbe a chiamare in causa il Signor Presidente della Repubblica se egli, nel suo telegramma, non avesse duramente qualificati “assassini” i responsabili. Ora occorre individuare e colpire i mandanti”
Ma chi sono i responsabili, gli “assassini”, i “delinquenti”? Secondo la CISL “L’intervento della polizia non legittimato da fatti obiettivi non favorisce l’ordinato svolgersi delle manifestazioni e come, per altro, l’insistenza provocatoria di gruppi estremisti – la cui provenienza diviene sempre più dubbia – provoca effetti negativi nell’azione dei lavoratori”. Contro i gruppi estremisti si scagliano anche Gian Carlo Pajetta, che li definisce “massimalisti impotenti”, e l’Unità che commenta così gli incidenti di Milano nel suo articolo di fondo: “Mai come in questi giorni è apparso chiaro che l’avventurismo facilone, il velleitarismo pseudo-rivoluzionario. La sostituzione della frase rivoluzionaria allo sforzo paziente, sono sterili e si trasformano in un’occasione offerta alle manovre e alle provocazioni delle forze di destra”.
In questo crescendo di clima da caccia alle streghe si inserisce il giornale ufficiale del PSU che però approfitta dell’occasione per allungare il tiro: “L’assassinio di Annarumma chiama in causa la responsabilità diretta dei comunisti e dei loro complici nel PSIUP, nel PSI, nella DC e nei sindacati”.
La notte dopo la morte di Annarumma, in due caserme di Pubblica Sicurezza a Milano scoppia una rivolta che, alimentata ad arte, vedrebbe gli uomini dei battaglioni mobili scatenati per la città a fare piazza pulita degli “estremisti delinquenti” (6).Il giorno dei funerali dell’agente il centro di Milano è teatro di gravi disordini provocati dai fascisti che partecipano al corteo funebre coi labari della Repubblica Sociale Italiana. I fascisti non sono i soli a seguire il feretro e a dar vita a episodi di isteria collettiva: sotto i portici di corso Vittorio Emanuele quel giorno è presente anche la borghesia milanese che si commuove e poi chiede “il sangue dei rossi”: signori distinti, bottegai arricchiti, pensionati nostalgici, donne impellicciate partecipano e fomentano i tentativi di linciaggio dei malcapitati che sembrano sospetti, che hanno “la faccia da comunista”.
Il repubblicano La Malfa e il socialdemocratico Tanassi lanciano un duro attacco contro i sindacati che stanno vivendo, sotto la spinta operaia, i giorni più caldi delle battaglie contrattuali, con quasi cinque milioni di lavoratori mobilitati. Nello stesso giorno, 21 novembre, un comunicato della Confindustria: “… il potere operaio tende a sostituirsi al Parlamento ed a stabilire un rapporto diretto con il potere esecutivo. Ciò crea un sovvertimento in tutto il sistema politico”. Sul settimanale Oggi il deputato della destra democristiana Guido Gonella lancia un appello alla “reazione del borghese timido contro i picchetti degli scioperanti”. Da Londra il settimanale The Economist rivela l’esistenza di un documento “segreto solo a metà” in cui un gruppo di giovani industriali italiani proclama la necessità di un “governo forte”. Pietro Nenni, in una intervista al Corriere della Sera, traccia un paragone tra la situazione attuale e quella del 1922. Intanto è stato dato il via alla serie di arresti e condanne per reati di opinione: il primo a finire in carcere è Francesco Tolin, direttore di Potere Operaio.
Ai primi di dicembre, a rendere più precario l’equilibrio parlamentare, e come prima avvisaglia della dura campagna che sarà scatenata tra poco, compare sull’Osservatore Romano, organo del Vaticano, un attacco contro il voto favorevole espresso dalla Camera sul divorzio. In un paese della Lombardia, il sindaco-industriale spara contro il picchetto dei suoi operai in sciopero.
Il 7 dicembre i settimanali inglesi The Guardian e The Observer pubblicano il testo del dossier inviato dal capo dell’ufficio diplomatico del ministero degli Esteri di Atene all’ambasciatore greco a Roma. Contiene allegato il rapporto segreto sulle possibilità di un colpo di stato di destra in Italia, inviato dagli agenti dei servizi di spionaggio dei colonnelli. “Un gruppo di elementi di estrema destra e di ufficiali”, scrive The Observer, “sta tramando in Italia un colpo di stato militare, con l’incoraggiamento e l’appoggio del governo greco e del suo primo ministro, I’ex colonnello Giorgio Papadopulos” (Vedi testo integrale del dossier greco)
QUI TROVATE TUTTA LA CONTROINCHIESTA EFFETTUATA DAI COMPAGNI: http://www.strano.net/stragi/tstragi/pfontana/index.html
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